TUTTOSCIENZE 20 ottobre 99


ANTI-PREMI L'««Ignobel»» al calzino del playboy
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: PREMIO IG-NOBEL
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA uno strumento di tortura medievale. A prima vista l'aspetto eè quello di un tavolaccio con corde di cuoio e aste metalliche, reti da pesca e staffe ginecologiche. Invece si tratta di un dispositivo per il parto, regolarmente brevettato: la (povera) donna che si appresta a partorire viene legata sul tavolo, che viene poi fatto ruotare ad alta velocità. In questo modo, la forza centrifuga facilita la venuta al mondo della creatura. E pazienza se nei suoi primi minuti di vita soffrirà di capogiro. In tempi di parto dolce, i suoi inventori non potevano che ricevere il premio Ig-Nobel '99, il riconoscimento rilasciato alle scoperte scientifiche più bizzarre, assurde o semplicemente inutili. Intitolati all'ipotetico ««fratello scemo»» dell'inventore della dinamite, i premi Ig-Nobel (che in inglese suona come ««ignobile»», non diversamente dall'italiano) portano alla luce il lato oscuro della scienza, sempre con un pizzico di umorismo. La giuria, composta da accademici e di veri scienziati laureati con veri Nobel, quest'anno ha premiato un medico norvegese che ha raccolto e classificato i contenitori per i campioni delle urine. Un lavoro scientificamente rigoroso, con riferimenti e dati statistici, nella migliore tradizione degli Ig-Nobel. Il riconoscimento (si fa per dire...) per la chimica è stato assegnato a un detective giapponese che ha posto in vendita uno spray per scoprire l'infedeltà. Simile a quello usato dalla polizia scientifica, è capace di rilevare tracce di liquido seminale sugli indumenti sospetti. Lo stesso detective ha preparato anche uno speciale ««gel»» termico che, spalmato sui calzini, ne cambia il colore quando vengono tolti per più di un quarto d'ora. Se volete tradire senza correre rischi, fatelo con i calzini... Ancora dall'Estremo Oriente: un coreano ha creato un vestito autoprofumante, ideale per lunghi voli e per manager indaffarati. Per questo ha vinto l'Ig-Nobel per la protezione ambientale. Per la pace, sono stati premiati i sudafricani inventori di un antifurto per auto con lanciafiamme (!) incorporato. La fiammata può accecare, ma non uccide, assicurano i sadici inventori. La cerimonia di quest'anno (su Internet ai siti http://ignobel.org e www.improbable.com) si è conclusa con il lancio di centinaia di bustine da té. A questa bevanda sono andati infatti tre premi. Per la letteratura, alle sei pagine di specifiche del British Standards Institution relative alle tazze da té. Per la fisica, ai ricercatori dell'Università di Bristol che hanno scoperto il modo perfetto di inzuppare i biscotti. Ex aequo, è stata premiata anche una ricerca su come produrre un beccuccio da teiera che non sgoccioli. Tre lavori rivoluzionari. Infine, un meritato Ig-Nobel è andato alle commissioni statali per l'istruzione del Kansas e del Colorado, che hanno eliminato la teoria di Darwin dai programmi scolastici. C'è poco da ridere. Giovanni Valerio


NUOVE TECNOLOGIE Il motore a scoppio reinventato Pregi e difetti dell'««OX2»» ora sotto test in California
Autore: PALAZZETTI MARIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
PERSONE: MANTHEY STEVE
NOMI: MANTHEY STEVE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. SARA' VERA RIVOLUZIONE? NUOVO MOTORE AUTOMOBILISTICO «OX2»

E' recente la notizia che l'ingegnere australiano Steve Manthey ha inventato un motore automobilistico innovativo, denominato OX2, poi sviluppato dall'americana Advanced Engine Technologies Inc. Questo motore, che ora viene sottoposto a una serie di test dall'Università della California, ha suscitato molto interesse. L'OX2 ha una forma cilindrica che ricorda quella di un motore elettrico. La sua parte esterna è assimilabile allo statore, mentre nel rotore che gira al suo interno sono ospitate otto cavità cilindriche come nel tamburo di una rivoltella. Gli 8 pistoni terminano con uno stelo alla cui estremità è sistemata una rotella montata su un cuscinetto a sfera. Sulla base del cilindro da cui esce l'albero motore è sistemata una pista con 4 picchi e 4 avvallamenti su cui scorrono le 8 rotelle (una sorta di camma). I pistoni sono collegati meccanicamente in due gruppi di quattro da due anelli uniti tra di loro da un opportuno cinematismo, in modo tale che, quando il primo gruppo scende, il secondo risale. Durante la fase attiva il pistone preme attraverso lo stelo e la rotella sulla parete inclinata della pista, che genera una forza la cui componente normale allo stelo, attraverso la reazione della guida in cui esso scorre, produce la coppia motrice. Quando il tamburo compie un giro, i pistoni compiono quattro corse complete, così che 2500 giri al minuto di questo motore corrispondono a 10.000 giri di un motore convenzionale. Come in una rivoltella il percussore è unico e agisce sulle pallottole solo quando la rotazione del tamburo le porta in una data posizione, così, ruotando, gli otto cilindri si trovano a incontrare successivamente il condotto di aspirazione, la candela e il condotto di scarico. Il motore è raffreddato esclusivamente dall'olio. La principale caratteristica positiva che il costruttore sottolinea è l'elevato rapporto peso-potenza a 2500 giri: questo motore equivale a un motore convenzionale che faccia 10.000 giri al minuto seguito da un riduttore con rapporto di riduzione di 1:4. La compattezza è un'altra interessante caratteristica: il prototipo ha una cilindrata di 1086 cc, un diametro di 32,5 cm e una profondità di 25,4 centimetri. Positivo è anche il fatto che questo motore è totalmente bilanciato in conseguenza del fatto che, quando quattro pistoni salgono, altri quattro scendono. L'Advanced Engine Technologies Co. dichiara che il numero dei componenti è 6,6 volte inferiore a quelli di un motore convenzionale. Notevole è la simmetria dei cilindri rispetto all'aspirazione e allo scarico. L'assenza di valvole, che è senza dubbio una notevole semplificazione, tuttavia impedisce a questo motore di gestire la sua fluidodinamica al variare delle condizioni di lavoro. Ciò non consente di minimizzare l'inquinamento benché venga dichiarata la possibilità di ridurlo grazie a un largo uso del ricircolo del gas di scarico. Un vantaggio che il costruttore rivendica è legato alle guide in cui scorrono gli steli dei pistoni, che assorbono le spinte laterali evitando che si scarichino sul pistone. Ciò riduce l'usura. La coppia quadrupla che questo motore a pari cilindrata avrebbe rispetto ai motori tradizionali consentirebbe, secondo il costruttore, di eliminare il cambio. Tuttavia ciò comporterebbe un aggravamento dei problemi di gestione del motore che si tradurrebbe in maggiori consumi e maggiore inquinamento. Nel caso in cui invece si debba utilizzare il cambio, data l'alta coppia di ingresso, la sua realizzazione diventerebbe più onerosa. Infine il fatto che la testa migri da un cilindro all'altro comporta una perdita di calore che si traduce in un abbassamento del rendimento termodinamico. Sulla base di queste considerazioni non è chiaro come l'OX2 possa affrontare problemi cruciali che ora si pongono ai motori a combustione interna (inquinamento e consumi). Dal punto di vista costruttivo ciò che rende la produzione industriale difficilmente realizzabile è il problema delle tenute sugli organi in movimento: le luci di aspirazione e di scarico e la testa. Analoghi problemi non sono stati risolti soddisfacentemente nel semplicissimo motore Wankel, che li presentava a livelli inferiori. In conclusione, si tratta di un motore con aspetti indubbiamente interessanti e molti problemi, che difficilmente potrà dare una risposta rivoluzionaria ai problemi dei consumi e dell'inquinamento che ci affliggono. Chi volesse saperne di più può visitare il sito Internet http://www. oxtwo.com Mario Palazzetti Centro Ricerche Fiat


LE MOTIVAZIONI E' UN ANNO DI SCELTE CHIARE E FORTI
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: BLOBEL GUENTER, T'HOOFT GERARDUS, VELTMAN MARTINUS, ZEWAIL AHMED
NOMI: BLOBEL GUENTER, T'HOOFT GERARDUS, VELTMAN MARTINUS, ZEWAIL AHMED
ORGANIZZAZIONI: PREMIO NOBEL
LUOGHI: ITALIA

I premi Nobel 1999 per le disciplne scientifiche portano alcune novità nell'orientamento delle scelte che vale la pena di mettere in evidenza. L'importanza del lavoro di Guenter Blobel, Nobel per la medicina e la fisiologia, è illustrata in questa stessa pagina da Pier Carlo Marchisio. E' bene però insistere sul fatto che il meccanismo scoperto da Blobel è tra i più fondamentali della biologia: funziona in organismi estremamemte semplici, come i lieviti, e nei più complessi, come piante e animali, uomo incluso. Ogni cellula contiene circa un miliardo di proteine. Per spedire a destinazione le proteine prodotte nel laboratorio cellulare, l'evoluzione ha sviluppato una specie di ««codice di aviamento postale»» costituito da precise sequenze di amminoacidi, specifiche di ogni proteina. E' questo codice che Blobel ha decifrato. Premiando il suo lavoro, i giudici del Karolinska Institutet ribadiscono indirettamente due realtà: 1) che la biologia molecolare è oggi e sarà ancora per molti anni il campo più fecondo per la ricerca biomedica; 2) che la ricerca di base, orientata a individuare i meccanismi fondamentali della natura, è essenziale per ogni progresso delle stesse ricerche applicative: un fatto che spesso sia i governi sia i laboratori delle multinazionali farmaceutiche non tengono abbastanza in conto. Il Nobel per la fisica a Gerardus 'tHooft e a Martinus Veltman per il solido impianto matematico che essi hanno dato alla teoria che unifica l'interazione debole e l'interazione elettromagnetica segna dopo vent'anni il ritorno dell'attenzione alla fisica più astratta, più pura e più dura, contro le stesse finalità istituzionali del Nobel, che per volontà del fondatore dovrebbe premiare invenzioni o scoperte di utilità più o meno immediata. Si completa inoltre un discorso iniziato con il Nobel a Weinberg, Glashow e Salam per la teoria elettrodebole e proseguito con il Nobel a Rubbia e Van Der Meer per la scoperta delle particelle che trasportano l'interazione elettrodebole. Spiace solo che così sia rimasto fuori l'italiano Nicola Cabibbo, che pure all'edificio di questa teoria ha dato mattoni di rilievo. Il Nobel per la chimica ad Ammed Zewail, infine, si distingue per due motivi. Uno è etnico: Zewail è il primo egiziano e il primo arabo a ottenere questo riconoscimento, anche se a spianargli la strada ha contribuito il fatto di avere anche la cittadinanza americana. L'altro è di merito. Zewail ha messo a punto una tecnica laser per rendere visibili a livello atomico reazioni chimiche che avvengono sulla scala temporale del milionesimo di miliardesimo di secondo. Siamo al confine tra tecnologia, fisica e chimica, ma forse più vicini alle prime due: le distinzioni disciplinari ormai sembrano svanire. Ultima osservazione: Blobel e Zewail sono vincitori solitari, non dovranno condividere l'onore e i quasi due miliardi di lire con nessuno. Sono laureati ««forti»», dopo anni di scelte deboli, o quanto meno esitanti. Piero Bianucci


NOBEL '99 Vince la teoria Blobel, esploratore di cellule e proteine
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: BLOBEL GUENTER
NOMI: BLOBEL GUENTER
ORGANIZZAZIONI: PREMIO NOBEL
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. COMBO: DATI BIOGRAFICI DI GUENTER BLOBEL E AHMED H. ZEWAIL

A Blobel è associato lo sviluppo della biologia cellulare moderna e di tutto l'intricato periodo di transizione tra la morfologia cellulare postbellica, segnata dalle scoperte della microscopia elettronica, e la biologia molecolare esplosa prepotentemente dopo la scoperta del Dna e della funzione dei geni. Blobel, premio Nobel per la fisiologia e la medicina del 1999, è una figura centrale di questo periodo nel quale la cellula ha perso molti dei suoi misteri e si è rivelata un complicatissimo laboratorio formato da strade, palazzi, fabbriche ognuno regolato da leggi severe. Guardando indietro ci si rende conto degli enormi progressi compiuti. Se dovessi definire il lavoro di Blobel, direi che esso si è basato su un formidabile sforzo di comprendere l'urbanistica della cellula con tutti i suoi risvolti sociali. Certamente a qualcuno sarà venuto in mente che il lavoro di definizione della struttura sociale delle molecole endocellulari non è associato a nessuna spettacolare avanzata della medicina. Ma chi sta dentro questa realtà si rende conto che nessun aspetto della medicina, comprese la fisiologia e la farmacologia, può oggi fare a meno della comprensione delle direttive del traffico endocellulare e degli scambi di messaggi che hanno luogo tra i diversi compartimenti della cellula. Blobel è colui che ha definito le direttive di questo traffico e sul suo lavoro pionieristico si basa tutto lo sviluppo della medicina futura. Pier Carlo Marchisio


VENEZIA: SFIDA TECNOLOGICA Piazza San Marco si alzerà di 35 centimetri Lavori per 100 miliardi contro l'acqua alta
Autore: ANTONETTO ROBERTO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, VE, VENEZIA
TABELLE: D. PIAZZA SAN MARCO

VENEZIA e l'acqua alta, nuovo capitolo. Accantonato il maxi-progetto delle paratoie mobili alle bocche di porto della laguna (il "Mose" che ha fatto scorrere fiumi di parole e di inchiostro), l'ingegneria idraulica va in soccorso della città con un progetto meno colossale ma di estrema delicatezza. Si tratta infatti di riplasmare il suolo di piazza San Marco, un luogo unico al mondo per i valori artistici e monumentali. Perciò le tecnologie più sofisticate si accompagneranno nell'intervento alle metodologie proprie del restauro conservativo di un'opera d'arte. Questo il principio ispiratore del progetto approvato pochi giorni fa dal Comitato Tecnico del Magistrato alle Acque e affidato al Consorzio Venezia Nuova. Tecnicamente il progetto si definisce " Difesa dell'insula di San Marco dall'acqua alta", dove per "insula" s'intende un complesso di edifici delimitato da canali. Quella di San Marco è l'insula più bassa della città. La piazza è mediamente a 85 centimetri sullo zero medio al mareografo di Punta della Salute, il pavimento della Basilica è al di sopra del metro, ma il nartece (cioè l'atrio che precede l'interno della chiesa) è a soli 60 centimetri. Le cronache scientifiche hanno più volte riferito come le acque alte allaghino Venezia con frequenza sempre maggiore a causa di un complesso di eventi, primo fra i quali l'effetto congiunto della subsidenza del suolo e dell'eustatismo del mare, cioè l'abbassamento del terreno e l'innalzamento del livello medio dell'Adriatico: in un secolo lo sprofondamento relativo è stato di 23 centimetri. Ecco perché piazza San Marco può essere allagata anche cinquanta volte l'anno, mentre nell'atrio della Basilica il prezioso mosaico pavimentale in marmi a motivi geometrici risalente all'XI-XII secolo finisce sotto le acque salmastre duecento volte l'anno. Si tratta, dunque, di " rialzare" il suolo della piazza di quel tanto che basta a isolarla dalle maree medio-alte: tali sono considerate per convenzione quelle fino ad un metro al di sopra dello zero al mareografo. Contro le acque alte superiori al metro (cosiddette eccezionali, anche se si verificano ormai in media sette volte l'anno) non c'è per ora rimedio. Il progetto prevede dunque che il pavimento della piazza sia portato ad una quota più alta, fino ad un massimo di 35 centimetri nell'area del Molo, la parte di piazza che si affaccia al bacino di San Marco. Ma questo è uno solo degli aspetti di un intervento tecnicamente tanto articolato, quanto complesso è il fenomeno delle acque alte. Per capirlo, val la pena di considerare che l'allagamento avviene su tre fronti: per sormonto, per rigurgito dai condotti e per filtrazione dal sottosuolo. Per contrastare il primo si farà, appunto, il rialzo della pavimentazione. Per opporsi al secondo, dovranno esseri chiusi definitivamente i vecchi e malandati cunicoli che corrono nel sottosuolo della piazza per smaltire in laguna le acque piovane: saranno sostituiti con nuove condotte in polietilene ad alta densità, collegate ad una centrale di pompaggio sistemata nei Giardinetti Reali, capace di sollevare le acque ad una quota superiore a +100 prima di smaltirle in laguna in presenza di maree comprese fra +60 e +100. Per contrastare infine il fenomeno dell'infiltrazione, la piazza andrà "impermeabilizzata": la si dovrà disselciare gradualmente e isolarla con una mantellata di bentonite compressa fra due strati di sabbia. Sotto la membrana correranno le condotte per lo smaltimento delle acque piovane, collegate alle forine della piazza e alla stazione di smaltimento. Al di sopra verranno posti dei piccoli tubi di drenaggio che convoglieranno le minime quantità di acqua eventualmente filtrate attraverso le pietre della pavimentazione. Infine si dovranno rideporre queste ultime, i "masegni", nello stesso ordine in cui si trovano ora. Le reti dei servizi (acqua, luce, gas, telefono) saranno ricondotte in un unico cunicolo, costruito in pesante calcestruzzo con barite. Un altro problema di portata cospicua è la difesa dei piani terra degli edifici che circondano la piazza. Secondo i casi, verranno innalzate le soglie e le pavimentazioni interne, e si arginerà l'infiltrazione con provvedimenti tecnici diversi a seconda degli edifici: vasche di tenuta, membrane impermeabili e quant'altro propone la più avanzata ingegneria idraulica. Si tratta di intervenire su 42 unità immobiliari, per un totale di circa 1.500 metri quadrati. Infine, il problema, assai grave come s'è detto, del nartece della Basilica. Anche qui, si dovranno rimuovere i mosaici del pavimento, e creare uno strato di impermeabilizzazione. La sottopressione dell'acqua determinerebbe condizioni di pericolo per il pavimento quando raggiungesse un valore, in termini di colonna d'acqua, che superi il doppio dello spessore del pavimento stesso. Perciò verrà creata una soletta in calcestruzzo con barite di 23 centimetri, sovrastata da una guaina di bentonite preidratata. Verranno quindi rideposti i preziosi marmi del pavimento, che subiranno una sorta di smontaggio e rimontaggio di cui ognuno può immaginare l'estrema delicatezza. Il Consorzio Venezia Nuova conta di concludere l'intera operazione " Piazza San Marco" in quattro anni, con una spesa di cento miliardi. Si partirà fra pochi mesi con il primo stralcio: 18 miliardi destinati a interventi sul Molo. A meno che non si slitti di ben dodici mesi, per non creare intralcio ai turisti del Giubileo. Roberto Antonetto


ASTRONOMIA ««Braille»»? Un rottame di asteroide
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

LA sonda ««Deep Space 1»» è la prima del programma della Nasa ««Nuovo Millennio»». Il suo scopo principale è quello di sperimentare tecnologie innovative, in particolare il motore a ioni e un sistema di navigazione autonoma, che potrebbero rivoluzionare la navigazione spaziale. Naturalmente si è cercato di sfruttare la missione per avere anche un ritorno scientifico e come obiettivi sono stati scelti gli asteroidi Braille, l'enigmatico oggetto 4015 Wilson-Harrington e la cometa Borrelly. L'incontro con Braille è avvenuto alla fine di luglio e, anche se non tutto è andato per il meglio, è stato possibile ottenere informazioni importanti. Deep Space 1, guidata dal suo sistema di navigazione autonoma, è passata a una velocità di 55.000 km/ora a soli 26 km dalla superficie di Braille, un oggetto a forma di sigaro i cui assi misurano 2,2 e 1 km. Che questo asteroide avesse una forma molto irregolare era già risultato dalle osservazioni effettuate in Australia e in Argentina a supporto della missione dagli astronomi del Gruppo di Planetologia dell'Osservatorio di Torino. La debolissima luce di Braille mostrava infatti nette variazioni con il tempo, denunciando una forma estremamente allungata. Sorprendente è stato inoltre il periodo di rotazione dell'asteroide che queste osservazioni hanno permesso di determinare: 9 giorni e mezzo, una ventina di volte superiore a quello della maggioranza degli oggetti di questo tipo. Nel massimo avvicinamento la telecamera di bordo non è però riuscita, per motivi ancora non del tutto chiari, a inquadrare l'asteroide, per cui non sono state riprese le immagini ad altissima risoluzione in cui sarebbero stati distinguibili particolari di qualche decina di centimetri. Un quarto d'ora dopo il fly-by la telecamera e gli altri strumenti sono riusciti a inquadrare Braille, ma la sonda si trovava ormai a una distanza di 14.000 km. Le immagini ottenute, anche se di cattiva qualità, confermano l'estrema irregolarità della forma di questo asteroide. Lo spettro di un asteroide, cioè la distribuzione alle varie lunghezze d'onda dell'intensità della luce solare riflessa dalla sua superficie, è paragonabile all'impronta digitale di quell'oggetto e fornisce importanti informazioni sulla sua composizione mineralogica. Con sorpresa si è visto che lo spettro di Braille coincide in maniera praticamente perfetta con quello di Vesta (con i suoi 500 km di diametro è il terzo come dimensioni degli asteroidi della fascia principale) e delle eucriti, meteoriti molto rare. Se gli spettri sono uguali ciò significa che questi oggetti sono fatti dello stesso materiale e da tempo si sa che lo spettro di Vesta corrisponde al basalto, un minerale di cui sono fatti pochissimi altri asteroidi. Il telescopio spaziale ha rivelato un enorme cratere da impatto su Vesta, per cui l'ipotesi più logica è che Braille, insieme con pochi altri piccoli asteroidi e alle eucriti, non sia altro che uno dei frammenti che furono eiettati nello spazio dall'immane collisione che formò questo cratere e poi inviati nelle regioni interne del sistema solare dalle perturbazioni gravitazionali di Giove. L'analisi dell'evoluzione orbitale di Braille ha mostrato che quest'oggetto, che adesso si trova al di là dell'orbita terrestre, tra circa 4000 anni inizierà ad incrociarla, entrando così a far parte della numerosa famiglia degli asteroidi potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta. ««Deep Space»», con il motore a ioni acceso sino almeno alla fine di ottobre, prosegue la sua corsa e, se i tagli che il bilancio della Nasa nel gennaio 2001 incontrerà lo strano oggetto 4015 Wilson-Harrington. Quando fu scoperto, nel 1949, mostrava tutte le caratteristiche di una cometa, ma quando fu poi riosservato nel 1979 appariva, e appare tuttora, come un normale asteroide. Probabilmente è un'antica cometa che ha esaurito i suoi composti volatili. I piani di volo prevedono che ««Deep Space»» si diriga poi verso la cometa periodica Borrelly, una delle più attive del suo genere, dove, salvo imprevisti, arriverà nel settembre 2001. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


E' IL FAMOSO G 55 ««CENTAURO»» Un caccia della seconda guerra mondiale rinato grazie all'archeologia aeronautica
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
PERSONE: GABRIELLI GIUSEPPE, SELLA GIUSEPPE
NOMI: GABRIELLI GIUSEPPE, SELLA GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: G 55 CENTAURO, GAVS GRUPPO AMICI VELIVOLI STORICI
LUOGHI: ITALIA, ITALIA

IL G 55 "Centauro" fu il miglior caccia italiano della seconda guerra mondiale. Progettato da Giuseppe Gabrielli (che doveva considerarlo il suo capolavoro se sulla copertina del suo libro di memorie "Una vita per l'aviazione" è raffigurato proprio sullo sfondo di questo aereo), primo volo il 30 aprile del '42, costruito in 274 esemplari, di questa potente e bella macchina non era rimasto neppure un esemplare a documamentare una tappa importante della nostra tecnologia aeronautica. Veloce (630 chilometri l'ora) e agile, l'aereo aveva conquistato le simpatie dei piloti. Adesso un G 55 è risorto dalle proprie ceneri a conclusione di un'avventura durata otto anni. Vale la pena raccontarla. Se non esistevano più G 55 esistevano ancora alcuni esemplari di un suo derivato, il G 59, velivolo da addestramento costruito dalla Fiat nel dopoguerra, che differiva dal progenitore per avere un motore diverso e per altre modifiche non fondamentali. Uno di questi si trovava del Parco della Rimembranza di Novara, arrugginito e semidemolito dai vandali. Nel'88 l'Aeronautica Militare decise di recuperare il relitto e di trasformarlo nel popolare G 55. Così l'aereo fu trasportato a Galatina di Lecce, sede della 61° brigata aerea, dove cominciò un restauro per la verità molto approssimativo, dato che i tecnici militari non disponevano dei disegni originali. Difficoltà insormontabili sorsero poi quando si tentò di installare il motore originale, il DB 605, della Daimler Benz. L'aereo riprese quindi la strada di Torino per approdare nelle officine di corso Marche dove era nato quando queste costituivano la "Aeronautica d'Italia" della Fiat e che ora erano state ereditate dall'Alenia. C'è un personaggio che sembra avere un misterioso legame con questo aereo e che fa da filo conduttore della sua resurrezione; si chiama Giuseppe Sella ed è oggi il presidente del Gavs di Torino, cioè del Gruppo Amici Velivoli Storici. Sella era entrato alla "Aeronautica d'Italia" il 16 marzo del 1942 e il suo primo lavoro, come adetto al collaudo, era stato proprio sul G 55, in particolare sul vetro blindato dell'abitacolo; e dopo aver terminato la carriera come responsabile del "controllo qualità" dell'Alenia, collaborava con l'azienda come consulente. Naturale che l'operazione G 55 fosse affidata a lui. Qui è cominciata un'avventura che è riuscita a far convivere tecniche produttive separate da quasi mezzo secolo di radicali innovazioni. Ritrovati nell'archivio storico Alenia i disegni originali, sulla loro base è partita la ricostruzione delle molte parti mancanti: dal supporto del motore alle capottature, all'assieme tettuccio-parabrezza, pale delle eliche, carenatura posteriore del posto di pilotaggio, estremità delle ali, seggiolino del pilota, prese d'aria oltre all'intera cabina, che era completamente vuota. Per fare questo i disegni originali sono stati matematizzati per adattarli alle attuali tecnologie di " computer aided design" e tutti i dati sono stati inseriti nel sistema computerizzato Catia, lo stesso che viene usato per costruire l'Eurofighter. In questo modo, per fare un esempio, da una piastra di lega leggera di 700 chilogrammi le grandi macchine a controllo numerico hanno ricavato le tre pale dell'elica, pesanti appena 45 chilogrammi. Altri pezzi li hanno fatti a mano anziani battilastra del Gruppo Amici Velivoli Storici, depositari di un modo di lavorare oggi scomparso. In tutto sono stati rifatti, usando rigorosamente i materiali previsti dal progetto degli Anni 40, ben 1550 pezzi. Sopravvenne però la crisi dell'Alenia e nel febbraio del '94 tutto il lavoro fatto sembrava destinato all'inutilità. Fu allora che intervenne il Gavs torinese: ««Andiano avanti noi»» dissero i soci guidati da Sella. Il G 55 trovò ricovero in un capannone offerto dalla Revelli Metallik di Leinì, un'industria aerospaziale; un contributo di 20 milioni venne dal ministero della Ricerca Scientifica. Mancavano ancora centinaia di elementi, in particolare molti equipaggiamenti, la cui ricerca fu spesso avventurosa; alcuni furono trovati sui mercatini in Germania dato che erano comuni a un altro diffuso caccia tedesco, il Messerschmitt 109; altri furono forniti dalle ditte costruttrici che avevano ancora qualche pezzo in magazzino; molti (collimatore, manetta, comando trim, comando carrello, pompa idraulica di emergenza del carrello, contacolpi delle armi, leve e impugnature varie) furono ricostruiti sui disegni o copiando pezzi appartenenti a collezionisti che non li hanno voluti cedere. Altrettanto difficile il reperimento delle armi, fornite dall'Aeronautica Militare. Nella primavera di quest'anno il G 55, ormai completato nella parte esterna, è partito un'altra volta per Roma dove è stato esposto per i 75 anni dell'Aeronautica Militare; nei prossimi mesi ritornerà a Leinì per il completamento degli interni, poi sarà definitivamente collocato nel museo storico dell'Aeronautica di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano. Vittorio Ravizza


TERAPIA DEL DOLORE Il medico deve curare anche la sofferenza Il tabù della morfina in discussione a Torino: occorre una nuova cultura
Autore: PUGNO ENRICA

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO
TABELLE: G. IL CONSUMO DI MORFINA NELLA CITTA' DI TORINO

NEL prossimo secolo una larga fetta della spesa sanitaria riguarderà la fase terminale della vita. Si prevede che nel 2025 il numero delle morti per malattie croniche e degenerative supererà quello delle morti acute. Le spese sanitarie nell'ultimo anno di vita sono in media del 276% maggiori alla norma e oltre il 20% dei letti ospedalieri sono occupati da persone nell'ultimo anno della loro vita. Nella nostra società la morte è per tradizione un tabù ma è giunto il tempo di affrontare in modo coraggioso i problemi delle persone con malattie incurabili e progressive, e in particolare il problema del dolore. Questo è appunto il compito della medicina palliativa, che è un movimento che interessa tutte le specialità della medicina, con lo scopo di migliorare la qualità di vita (e di morte) del paziente, rispondendo ai suoi bisogni clinici, psicologici, sociali e spirituali. In Italia circa 30.000 persone al giorno sono affette da dolore legato al cancro e, naturalmente, se l'indagine si allarga al dolore per altre condizioni croniche, i numeri crescono vertiginosamente. Si calcola che non più del 20% di questi pazienti italiani riceva un trattamento antalgico con oppioidi secondo le linee guida dell'OMS. Perché? Due sono le ragioni principali. La prima è una cronica oppiofobia che vede i medici italiani in prima fila. E' un problema culturale che si traduce comportamenti professionali lontani dalle conoscenze scientifiche attuali e talora legati all'indolenza degli operatori nell'assumersi responsabilità nella prescrizione. I dati riportano che l'80% dei medici non possiede il ricettario speciale necessario per la prescrizione degli oppioidi; quest'ultimo dato è perlomeno sconcertante anche se non è noto in quale percentuale il fenomeno sia diffuso tra i medici di famiglia, i medici ospedalieri, gli specialisti e i medici di guardia medica. La seconda ragione è riconducibile a restrizioni (le più severe in Europa) di carattere normativo-burocratico che interessano sia i medici che i farmacisti: norme super-restrittive, pesanti sanzioni pecuniarie e penali in caso di errore, anche solo formale. E' evidente, a questo punto, che sono necessari grossi cambiamenti anche dal punto di vista legislativo. In effetti, segnali di attenzione al problema dolore e oppioidi ve ne sono stati molti negli ultimi mesi: il dolore e la morte, bene o male, hanno anche fatto audience. A parte le proiezioni televisive del malato terminale in agonia o dell'eutanasia attiva praticata e commentata, la legge finanziaria ha destinato 50 miliardi per l'informazione sui farmaci e una parte per la terapia del dolore. Alcuni farmaci indicati nelle linee guida dell'OMS per il trattamento antalgico sono ammessi alla rimborsabilità da parte del sistema sanitario (e infatti l'anno scorso sono stati spesi 160 miliardi per oppioidi sul territorio e 13 per l'ospedale). I problemi collegati alla disponibilità dei farmaci utili nel dolore oncologico e alla revisione della normativa per la prescrizione e distribuzione di oppioidi sono studiati da un gruppo di esperti in oncologia, cure palliative, medicina generale e farmacologia, nominato recentemente dalla Commissione unica del farmaco. In questo ambito culturale, è interessante un convegno organizzato tra medici e farmacisti a Torino, il 23 ottobre, dal titolo "Riabilitiamo la morfina". I farmacisti ospedalieri, specie nei grandi ospedali con efficienti reparti di terapia antalgica, già oggi ricevono sempre più richieste di preparati nelle forme di infusori a rilascio controllato con formulazione personalizzata, e si dibattono tra verbali di consegna, valutazioni farmacoeconomiche sui protocolli impiegati e le molte regole che stanno tra l'approvvigionamento e lo smaltimento del farmaco stupefacente. I problemi si complicano con i pazienti in assistenza domiciliare integrata, Day Hospital o forme ibride che derivano da convenzioni tra privato e ASL. Sul territorio, il ruolo chiave è rappresentato dai medici di medicina generale. In Piemonte, 11.000 persone muoiono ogni anno di tumore; di queste, il 90% muore dopo la fase avanzata (terminale) della malattia, che dura mediamente 120 giorni. Dati alla mano, i medici di famiglia possono stimare di avere in un anno, ogni 1.000 pazienti, 10 adulti con patologia cronica all'ultimo anno di vita; di questi, circa 3 sono oncologici. Il medico di medicina generale, se non vuole sentirsi recitare il de profundis da un coro polifonico di molteplici figure sanitarie di varia estrazione (incluse alcune forme di medicina non tradizionale), deve recuperare il suo ruolo di medico della famiglia e del paziente (colui che soffre, non colui che ha pazienza) in versione moderna, decisiva nel circuito assistenziale sanitario. Le necessità attuali di prescrizione farmaceutica prevedono che il medico di famiglia prescriva non solo morfina, ma ossicodone, codeina, metadone in varie formulazioni, spesso di tipo galenico. Il medico dimostra spesso non solo di avere preconcetti sugli oppioidi, ma di perpetuare la credenza in falsi miti. Uno fra tanti, che il galenico sia "una pozione" o, chissà, forse una tecnica da erboristeria. Nel caso specifico, è obbligo morale del medico saper scrivere una ricetta galenica; ed obbligo del farmacista saper provvedere. Enrica Pugno


CHIRURGIA OFTALMICA Con i nuovi ««impianti fachici»» un addio definitivo agli occhiali
Autore: CORRADINO DARIO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
NOMI: BAIKOFF GEORGES, KAUFMAN HERBERT, KELMAN CHARLES, TAGLIABO' RICCARDO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. IMPIANTO DI UNA LENTE FACHICA

PER chi cerca un'alternativa a occhiali e laser il futuro si chiama impianto fachico. Ne sembrano convinti guru dell'oftalmologia mondiale come gli statunitensi Charles D. Kelman e Herbert E. Kaufman. Anche autorevoli riviste mediche come ««EyeWorld»» dedicano copertine e ampi servizi alla riscoperta di una tecnica che ha ormai trent'anni ma è stata capace di rinnovarsi radicalmente, anche nei materiali. In greco ««facòs»» significa lente. Un impianto fachico consiste appunto nell'inserimento di una lente nell'occhio e consente di correggere in maniera minuziosa non solo la miopia ma ora, altra novità, anche l'ipermetropia ed eventualmente la presbiopia. E rispetto al laser ha il vantaggio di essere totalmente reversibile: si può cambiare lente se la vista peggiora, e se proprio si avesse nostalgia degli occhiali, si può tornare a portarli. Il costo di un intervento è analogo a quello con il laser. La tecnica fu ideata dal francese Georges Baikoff alla fine degli Anni 60. Da allora si è progressivamente raffinata. L'intervento viene fatto in anestesia locale (peribulbare) e dura in tutto una ventina di minuti. Il paziente non prova alcuna sensazione, non avverte nemmeno di avere le palpebre aperte. Mentre l'occhio viene tenuto in tensione con una sostanza viscoelastica, con un bisturi di diamante il chirurgo pratica un'incisione di sette millimetri sulla sclera, la superficie del ««bianco»» dell'occhio, a circa un millimetro dalla zona colorata. Crea un piccolo ««tunnel»» che porta alla camera anteriore dell'occhio, lo spazio fra la cornea e l'iride, e lì inserisce la lente, che è fatta di polimetilmetacrilato, la stessa sostanza che serve per la fabbricazione delle visiere trasparenti dei caschi degli astronauti. La lente, sottilissima, ha un diametro di sei millimetri ed è dotata di due piccoli sostegni che la tengono ben ferma al centro della zona visiva. Può essere rimossa o sostituita in qualsiasi momento. Tre piccoli punti di sutura chiudono il tunnel sclerale. Dopo ventiquattr'ore, tolto il bendaggio, il paziente vede esattamente come se portasse gli occhiali. Gli impianti fachici sono diffusi soprattutto in Francia e in Germania. Fra i pochissimi a praticarli in Italia, il dottor Riccardo Tagliabò, di Vercelli, spiega: ««L'intervento richiede un occhio sano, senza problemi di glaucoma, cataratta, patologie corneali o retiniche. Serve inoltre una camera anteriore di dimensioni sufficienti, ma normalmente non ci sono problemi»». Quali possono essere le complicazioni? ««Un tempo potevano svilupparsi infezioni interne all'occhio anche gravi. Ma ora ci sono materiali nuovi, come le lenti rivestite di eparina, che cancellano ogni pericolo»». Una variante di questa tecnica prevede impianti fachici nella camera interna dell'occhio, cioè fra iride e cristallino. ««Ma - spiega il dottor Tagliabò - in questo caso il rischio chirurgico è più elevato, proprio perché si lavora quasi a contatto con il cristallino»». E il futuro che cosa riserva? ««Ancora progressi per quanto riguarda i materiali e un'ipotesi di impianto all'interno della cornea»». Negli Stati Uniti gli impianti fachici stanno vivendo un forte rilancio. Paradossalmente proprio dopo che la Food and Drugs Administration, l'autorità sotto il cui vaglio passa ogni tipo di nuova cura o medicinale, ha dato infine il via libera, nel 1995, dopo una lunghissima anticamera, ad alcune delle apparecchiature laser per la correzione dei difetti visivi. La diffusione di questo tipo di intervento ha infatti evidenziato effetti collaterali che hanno fatto rivalutare tecniche alternative, come gli impianti fachici, che nel frattempo si sono rese più affidabili. A ispirare Baikoff nell'ideazione dell'impianto fachico furono le visiere dei caschi degli astronauti, trasparenti e robustissime. Erano gli Anni 60 e l'uomo stava per conquistare la Luna. Ora l'obiettivo è Marte, e la tecnologia dei materiali consentirà di realizzare lenti con caratteristiche un tempo neppure immaginabili. Marguerite B. McDonald, direttore medico della rivista ««EyeWorld»», rileva: ««Molti esperti ritengono che la chirurgia rifrattiva avrà un futuro intraoculare nel nuovo millennio. Avremo una magnifica nuova voce nel menù delle nostre tecniche rifrattive, che è in costante espansione. Una voce che offre ai nostri pazienti eccellente prevedibilità dei risultati, brevissimi ricoveri e reversibilità»». Dario Corradino


CERVI IN AMORE La stagione dei bramiti nei boschi d'autunno
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUANDO i boschi d'autunno diventano tetri, al desiderio di conforto e calore che richiama alla casa e al caminetto acceso, si aggiunge un suono cupo, pauroso: ricorda il ruggito di un leone nascosto nel carrozzone di un circo. E' il bramito del cervo in amore. Il bramito è un linguaggio che gli esperti sanno interpretare per avere informazioni sulle popolazioni di cervi delle nostre vallate alpine. Vengono usati diversi metodi per svelare il loro numero: uno è il censimento di primavera, che è l'osservazione degli animali sui pascoli di prima mattina e che approfitta dell'attrattiva dell'erba nuova. C'è anche il conteggio con l'uso del faro di notte, che lascia nel folto una percentuale altissima della popolazione nascosta. Il censimento dall'elicottero, molto efficace, si pratica sull'altro versante delle Alpi, dove sono più generosi nella gestione della fauna: gli animali si muovono ma non scappano davanti al mistero volante e rumoroso, e si possono filmare. Il conteggio dei maschi al bramito richiede stazioni di ascolto che devono essere distribuite sul territorio in maniera il più possibile capillare. I rilevatori devono essere più esperti dei gruppi numerosi di persone che servono a primavera, a cui basta l'attenzione, la curiosità e un buon cannocchiale: i censori d'autunno hanno bisogno di quadranti goniometrici e apposite schede su cui rilevare il numero di bramiti e la direzione di provenienza: l'ottobre del cervo segna il confine tra l'appassionato e l'etologo. Così tra binocoli e goniometri si scopre che ci sono tanti cervi, molti di più di quanti la gente non creda. Basta sapere dove cercarli e mettersi in ascolto: non è difficile sentire camminando nei languori delle foglie secche del Gran Bosco di Salbertrand in val di Susa, quel verso da leone, o imbattersi da vicino o da lontano in una bestia di gran portamento che se ne va in giro con un albero in testa. Le corna a partire dalla quarta ramificazione hanno punte che invece di inserirsi una sull'altra nascono da un'unica biforcazione e si dirigono in tutti i sensi formando una corona. Non si dovrebbero chiamare ««corna»» ma ««palchi»», nome più adatto all'eleganza maestosa del cervo ««coronato»», grandioso trofeo di caccia da tempi immemorabili. Sono di vero tessuto osseo e non formate da sostanze cheratiniche (cornee) come quelle dei Bovidi. E sono, a differenza delle corna permanenti dei Bovidi, a crescita annuale. Vuol dire che ogni anno un maschio adulto paga la sua vanità amorosa con un costo energetico spaventoso: la fatica inizia a primavera mettendo sotto pressione la tiroide e l'ormone testosterone, e per tutta l'estate la costruzione prosegue: nascosto dal ««velluto»», lo strato di pelle che riveste il palco, un frenetico lavoro di vasi sanguigni e di nervi che scorrono nel tessuto osseo ancora in formazione risucchia una enormità di energia, fino a costruire quell'inno alla vanità che pesa anche 14 o 15 chili. Il culmine della crescita si raggiunge d'estate, quando il pascolo è abbondante. La vita in quella stagione è molto tranquilla, scandita dall'uscita dal bosco al piccolo trotto verso sera e dal rientro nell'ombra al mattino con l'incedere lento di una dignitosa sazietà. Tutto questo sacrificio energetico per che cosa? La grandiosità del trofeo è così stupefacente che si è arrivati a pensare a uno sbaglio della natura: sembra inutile, anzi addirittura dannoso, dato che è pesante e ingombrante. Eppure esistono cervi maschi mutanti privi di corna, che non sono rarissimi ma che continuano a essere una eccezione alla regola. Se il loro stato fosse ideale sarebbero diventati ««la regola»», e allora non vale l'idea dei ««tratti fenotipici non funzionali che possono venire perpetuati per inerzia filogenetica»», deve esserci una ragione, un vantaggio. L'unica risposta verosimile è curiosamente valida sia per il cervo mammifero artiodattilo, sia per il cervo volante, insetto coleottero lamellicorne dotato di vistose e non si sa quanto utili appendici a incoronargli il capo. La sola spiegazione è la lotta armata, ogni altra funzione è secondaria. E invece tutti questi estenuanti preparativi, e il pulire i palchi dal velluto e renderli belli, forti, aguzzi, scrollando la testa contro rami e tronchi, trovano un senso nell'irresistibile spinta a conservare i propri geni, che è lo scopo principale della vita animale. Così l'autunno assiste il cervo che si fa bello e ardito, innamorato e litigioso. Il conquistatore si trova a disposizione un harem di femmine che spesso vanno in calore nella stessa settimana, per un adattamento che non è casuale: se i piccoli nasceranno tutti assieme avranno più occhi a sorvegliarli a primavera, e migliori possibilità di sopravvivere. Ed è l'autunno il tempo del bramito, il grido di minaccia verso gli altri maschi, che deve dire, in una decina di sezioni modulate, il vigore fisico, l'abilità, l'alto rango gerarchico del dominatore. Non è tutto un bluff, tante parole e poca sostanza: se qualcuno di pari grado osa sfidare il dominatore, scoppia una lotta furibonda che se non porta alla resa e al ritiro di uno dei due contendenti, può diventare un cozzare di corna così violento che i palchi si incastrano e legano tra loro i due rivali in una lenta morte ingloriosa, o può concludersi in una fine più degna, nel sangue, il vinto infilzato. Il bello di tutta questa esibizione di virilità è che mentre il sultano si pavoneggia, bramisce e combatte, le femmine neppure lo guardano. Assistono alle lotte brucando con aria indifferente, e per di più non disdegnano le attenzioni dei soliti ragazzini dai piccoli palchi che guardano da lontano e, quatti quatti, sono pronti ad approfittare dei combattimenti che distraggono il potente, per un amorazzo rubato. Si avvicina l'inverno e i maschi, magri e spossati dalle vicende amorose, lasciano cadere la maschera di conquistatori, e non in senso metaforico: perdono i loro trofei. Al termine del periodo degli amori inizia un lento strozzamento spontaneo alla base dei palchi che alla fine, per azione degli osteoclasti - particolari cellule ossee - si staccano all'altezza del nucleo germinativo. E il cervo resterà tutto l'inverno così, con un aspetto da femminuccia sgraziata, l'andatura un po' bovina, a risparmiare energia almeno nella stagione più dura. La ballata di Geordie, che era stato impiccato con una corda d'oro per aver rubato sei cervi nel parco del Re, non deve essere stata ispirata al cervo d'inverno. Nessun cervo d'inverno vale un'impiccagione, ma il bramito, quello sì, vale la corda d'oro. Caterina Gromis di Trana


COME NACQUERO GLI OCEANI L'acqua venuta dallo spazio I mari furono creati da una pioggia di comete
Autore: LIONELLO PIERO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. MOVIMENTO DELLE PLACCHE CONTINENTALI

GLI oceani dominano lo scenario attuale della superficie terrestre, occupandone più dei due terzi. Benché sulla Terra l'acqua esista sia in forma di vapore, di liquido e di ghiaccio, la fase liquida è di gran lunga la più abbondante ed è principalmente raccolta nei mari e negli oceani. Il vapore è quella presente in quantità minore. Il rapporto fra il contenuto totale di vapore nell'atmosfera e il contenuto totale degli oceani è meno di 1 a 100.000. In altri termini, gli oceani hanno uno spessore medio di circa 4 chilometri che aumenterebbe di poco più di un paio di centimetri se tutto il vapore dell'atmosfera, condensando, vi venisse riversato. I ghiacci sono presenti in una quantità intermedia: produrrebbero, sciogliendosi interamente, un aumento di 60 metri del livello del mare. Gli scambi fra fase liquida e vapore sono particolarmente intensi. La radiazione solare riscalda la superficie oceanica, da cui l'acqua evapora, soprattutto nelle regioni tropicali, ad un ritmo di circa un metro all'anno. Questo processo viene limitato dalla concentrazione massima di vapore nell'aria, che, alla superficie terrestre, è di circa 30 grammi per chilo d'aria: un bicchierino di whisky per ogni metro cubo di atmosfera. Poiché tale valore di saturazione aumenta esponenzialmente con la temperatura, ossia l'aria calda può trattenere una maggiore quantità di vapore dell'aria fredda, il rapporto quantitativo fra vapore e liquido dipende dalla temperatura dell'aria. L'aria, contenente il vapore prodotto per evaporazione, alla superficie del mare, sale all'interno della troposfera, i 10 chilometri inferiori dell'atmosfera terrestre, si espande al diminuire della pressione con la quota, quindi si raffredda, il vapore condensa, e precipita sulla superficie terrestre come pioggia o neve. Il vapore permane nell'atmosfera in media per una settimana, durante la quale può venire trasportato per migliaia di chilometri. Le caratteristiche di questo processo ciclico determinano la prevalenza della fase liquida rispetto al vapore e quindi l'esistenza degli oceani nella loro quantità attuale. Questo scenario persiste da più di 4 miliardi di anni, durante i quali gli oceani hanno cambiato forma a causa della deriva dei continenti e quindi anche la loro circolazione si è modificata. Glaciazioni sono state identificate a partire da due miliardi e mezzo di anni fa. Inizialmente gli oceani erano presumibilmente più caldi per effetto di un maggiore effetto serra. Ma in realtà questi cambiamenti, fondamentali per l'ecosistema ed il clima in cui viviamo, sono piccoli in confronto alla veloce evoluzione iniziale. Infatti, all'inizio della storia della terra una grigia incandescente atmosfera, satura di quantità enormi di vapore d'acqua avvolgeva la terra, e non esisteva nulla di confrontabile con gli oceani attuali. Come si sono formati gli oceani? Sono sempre stati presenti, fin dall'origine della Terra? Le teorie recenti sostengono che il nostro pianeta, al pari di Venere e Marte, si formò con un violento processo circa 4,5 miliardi di anni fa. Nella nube protoplanetaria del sistema solare iniziarono a formarsi dei granuli rocciosi, i granuli crebbero in planetesimi, i planetesimi in corpi di dimensioni variabili da 1 a 100 km ed una successione di violente collisioni determinò la formazione della Terra. Al termine di questo processo di accrescimento sulla Terra assieme agli altri costituenti del pianeta era arrivata anche l'acqua. In realtà, sebbene il nostro ambiente sia dominato dalla presenza dell'acqua, in percentuale non è molta; attualmente solo lo 0,25 per mille della massa totale del pianeta è costituita da acqua. In altri termini, il rapporto fra la quantità d'acqua presente sulla Terra e la massa totale del pianeta è quello che c'è fra un bottiglione d'acqua e un cubo di ferro il cui lato misura un metro. Da dove è arrivata? Oltre ai planetesimi, che erano, probabilmente, corpi ormai privi di apprezzabili quantità d'acqua, anche le comete, proveniente dalle regioni esterne del sistema solare e costituite da grandi quantità di ghiaccio, contribuirono all'accrescimento della Terra. Secondo alcune stime, le comete portarono, durante la fase di accrescimento, circa 10 volte il contenuto attuale di acqua degli oceani. Quindi al momento della formazione della Terra, la quantità d'acqua oggi riscontrata era ampiamente disponibile. Questa disponibilità, tuttavia, non assicura la formazione di un pianeta ricco di acqua, a causa dell'estrema violenza del processo di formazione: in 100 milioni di anni un corpo di circa 10 chilometri crebbe nella Terra con le sue dimensioni attuali, ossia, oltre 6.000 chilometri di raggio. L'energia degli impatti fuse la superficie terrestre, produsse un oceano di magma, da cui fuoriuscivano getti di vapore e gas che costituivano la primordiale atmosfera. Mentre gli impatti meno violenti aumentavano la massa della Terra, quelli più violenti gliene sottraevano e ne strappavano, proiettandola nello spazio, la primitiva atmosfera. Ancor oggi, le componenti volatili sfuggono all'attrazione terrestre negli strati esterni dell'atmosfera. A 500 chilometri sopra la superficie terrestre, nell'esosfera, la densità è così bassa che le singole molecole di gas, attraversano lunghe distanze, centinaia di chilometri, senza collidere fra loro e possono, al pari di proiettili lanciati lontano dalla terra, sfuggire al suo campo di gravità se superano una velocità di soglia, circa 11 km/s. Questa velocità può essere acquisita attraverso urti con altre molecole, particelle o fotoni. La stessa agitazione termica delle molecole di un gas nell'esosfera ne può determinare la fuga dal campo di attrazione terrestre. Nella rovente atmosfera iniziale della Terra, questo processo di fuga era molto più efficiente di ora. Esso agì sommato allo svuotamento dell'atmosfera dovuto agli impatti durante l'accrescimento della Terra. Così, è probabile che grandi quantità d'acqua si siano decomposte per fotolisi nella parte esterna dell'atmosfera e siano andate perdute. Questi processi determinarono la scomparsa quasi completa dell'acqua sia in Marte, più piccolo della Terra e quindi con una gravità inferiore e una minore velocità di fuga, sia in Venere, più caldo della Terra per un effetto serra più intenso. Gradualmente gli impatti diminuirono mentre la massa di asteroidi e planetesimi si concentrava progressivamente nei pianeti attuali e la quantità di corpi con orbite in collisione diminuiva. Gradualmente la Terra si raffreddò. Il rovente vapore dell'atmosfera, invece di sfuggire all'attrazione terrestre, iniziò a condensare e ricadere sulla superficie terrestre per formare i primi mari. Il raffreddamento non fu una tranquilla transizione. Gli oceani furono presumibilmente più volte vaporizzati interamente da colossali impatti. La presenza stessa del vapore acqueo nell'atmosfera determinava un enorme effetto serra e un'altissima temperatura in superficie. Così, nonostante la somiglianze nella composizione iniziale e nella collocazione nel sistema solare di Venere, Marte e Terra, solo quest'ultima riuscì a conservare l'abbondante riserva d'acqua e a formare immensi oceani, che ora possiamo ammirare, consapevoli della loro complessa origine ed iniziale precarietà. Piero Lionello Università di Padova


MOSTRA A RAVENNA Il mappamondo gigante di Coronell Del diametro di 4 metri, realizzato per Luigi XIV, con dentro un planetario
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: STORIA SCIENZA
PERSONE: CORONELLI VINCENZO
NOMI: CORONELLI VINCENZO
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, RA, RAVENNA

ALLA vigilia del 350° anniversario della nascita, la Biblioteca Classense di Ravenna dedica una mostra al geografo e costruttore di "globi" Vincenzo Coronelli (1650-1718), cosmografo della Serenissima, Commissario e direttore perpetuo del Danubio e fondatore della "Accademia degli Argonauti", prima società geografica del mondo. E la chiave di questa mostra ("Vincenzo Coronelli e l'imago mundi") è fornita proprio dal simbolo che il geografo adottò per la sua "accademia": un globo terrestre sormontato da un veliero. Per Coronelli si tratta ovviamente della mitica nave di Argo, ma il motto "plus ultra" richiama alla memoria la nave dell'Ulisse dantesco, con tutto il suo desiderio di conoscere la realtà. E Coronelli, come mostrano le numerose carte esposte, lavorò soprattutto per la conoscenza del mondo, che i viaggi e le conseguenti scoperte di nuove terre andavano continuamente ridisegnando. Ma attraverso il suo Atlante veneto e l'Epitome cosmografica, questo geniale monaco (appartenne ai Minori conventuali, dei quali sarebbe diventato "generale") si fa promotore di una geografia che non si identifica nella cartografia tout court, ma che ispirandosi a certi modelli rinascimentali connette questa disciplina alla storia (diceva Ortelius che "la geografia è lo sguardo della storia"). In questo modo la cartografia diventa lettura del territorio e apre la strada a quel nuovo modo di intendere la geografia che sarà ereditato nell'Ottocento da un altro grande cartografo romagnolo, Agostino Codazzi, considerato uno dei padri della cartografia moderna. Ma la nave di Argo si muove sul mare tenendo presente le stelle ("il pilota non ignora gli astri", scriveva Cicerone nel De Republica) e il Coronelli, quasi a voler riunire cielo e terra, realizza carte e "globi" celesti da affiancare ai suoi mappamondi. Ne costruì di tutte le taglie e in mostra si può ammirare un globo di 14 cm di diametro accanto ai due globi conservati dalla Classense. Ma la fama del Coronelli fu legata ai globi che costruì per Luigi XIV e che un video per la prima volta presenta in tutta la loro bellezza. Sono globi di quasi 4 metri di diametro e attraverso una porticina potevano accedere all'interno una trentina di persone per ammirare le stelle in ottone dorato, proprio come in un moderno Planetario. Probabilmente Coronelli apprese l'arte di costruire globi a Ravenna, città che lo vide adolescente e dove un fratello maggiore lo aveva mandato a imparare un mestiere presso la bottega di un falegname. E in città probabilmente sentì parlare del geografo ravennate Guidone o dei "globi" che aveva costruito Gerberto d'Aurillac, il colto arciverscovo di Ravenna e futuro papa Silvestro II, il papa dell'anno Mille. Può anche essere verosimile, infine, che vi incontrasse il cappuccino Reitha (morto in esilio a Ravenna intorno al 1660), un abile costruttore di strumenti astronomici al quale dobbiamo una delle prime mappe della Luna. La vicenda scientifica di Coronelli, pertanto, si salda con la storia di una città. Va ricordato, infine, che il Coronelli a sedici anni pubblicò l'Almanacco del frate, prototipo dei moderni almanacchi che ebbe ben 39 edizioni e la Biblioteca universale sacro-profana, antico-moderna, prima grande enciclopedia in ordine alfabetico. In occasione della mostra l'editore Longo ha pubblicato il catalogo e lo studio di Massimo Donattini "Vincenzo Coronelli e l'immagine del mondo fra isolari e atlanti". "Vincenzo Coronelli e l'imago mundi" a cura di Donatino Domini e Claudia Giuliani (consulenza scientifica Marica Milanesi) Fino al 5 dicembre 1999. Biblioteca Classense - Via Baccarini, 3 - Ravenna Orario: 10.30-18.30 (lunedì chiusura) Franco Gabici




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