TUTTOSCIENZE 15 settembre 99


NEL KANSAS L'università mette al bando Darwin
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: DRAWIN CHARLES
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, KANSAS, USA

IL Consiglio degli Studi dello stato del Kansas (Usa) ha votato e ha deciso di eliminare le teorie evoluzionistiche dai programmi di biologia e fisica. A partire da questo anno scolastico gli studenti di tutti i livelli delle scuole del Kansas (che includono sei istituti universitari) impareranno che il mondo e l'universo furono creati secondo il racconto della Bibbia. L'uomo (e la donna) sarebbero apparsi sulla terra circa 6 mila anni fa. Il capitolo della Genesi che descrive la creazione sostituirà il concetto di 4-6 milioni di anni di continua evoluzione dell'uomo, il Bing Bang e l'evoluzione secondo Darwin, e ciò benché lo stesso Giovanni Paolo II qualche anno fa si sia pronunciato a favore dell'evoluzionismo darwiniano. Gli studenti del Kansas avranno sicuramente parecchie difficoltà a superare gli esami di ammissione ad altre Università visto che saranno i soli a portare la Bibbia come materia di studio agli esami di biologia e fisica. Sarà dimenticato il fatto ormai noto anche al grosso pubblico che solo negli ultimi cinque anni siano stati aggiunti all'albero genealogico dell'uomo ben quattro nuove specie di ominidi (l'ultimo scoperto pochi mesi fa) datanti da 800.000 anni a 4,4 milioni di anni. L'ultima scoperta suggerisce l'ipotesi che l'uomo moderno e i Neandertal (di 30.000 a 200.000 anni fa) si siano accoppiati tra di loro con successo e il fatto che già 2,5 milioni di anni fa i nostri predecessori fossero in grado di usare utensili di pietra. Queste scoperte assieme a quelle degli ultimi cento anni ( il primo Homo erectus fu scoperto nel 1891 in Indonesia ) confermano l'ipotesi di di una molteplicità di specie umane e non di un capostipite umano solo dal quale discendano tutti gli uomini moderni. Tali dati ci portano sempre più vicini a una soluzione degli ultimi misteri dell'evoluzione umana. I biologi molecolari che hanno misurato la distanza tra l'uomo moderno e lo scimpanzè attuale usandone i rispettivi Dna sono giunti alla stessa conclusione dei paleontologi: gli ominidi che ci hanno preceduto e le grandi scimmie deriverebbero da un avo comune (non scimmia e non uomo)dal quale si sono separati tra i 4 e i 6 milioni anni fa dividendosi in molte speci diverse delle quali l'uomo moderno ne rappresenta una. Non esiste ancora una prova diretta di un avo comune a scimmie e uomini (resti fossili) e l'ominide più vecchio conosciuto fino a pochi anni fa (Astralopithecus Afarensis) datava a soli 3,6 milioni di anni. Il record dei quattro milioni di anni fu battuto recentementee e la barriera violata ben due volte in Etiopia e in Kenya checché ne pensino gli abitanti del Kansas. I rettori delle 6 università del Kansas hanno espresso pubblicamente i loro commenti sulla legge votata da 6 su 10 rappresentanti del Consiglio della Pubblica Istruzione : "Questo cambiamento danneggerà il futuro dell'educazione delle scienze nel Kansas e porterà il nostro Stato indietro di un secolo. Esso renderà difficile trovare nuovi insegnanti e i presenti saranno incoraggiati a cambiare materia". L'insegnamento dell'evoluzione non è un tema periferico ma il principio centrale che organizza tutte le scienze biologiche. Chi ignora i concetti basilari dell'evoluzione non può comprendere la biologia moderna. La rivista Nature in un editoriale uscito in agosto intitolato "La scienza e il dogma" stigmatizza il grave episodio come l'ultimo tentativo del movimento di disgregazione della scienza da parte degli ambienti religiosi creazionisti americani iniziato negli anni 20 col processo (e la condanna) nel Tennesee di un insegnante di liceo che aveva insegnato la scienza evoluzionistica e che continuò con la legge degli anni 70 in Arkansas e Louisiana sulla parità di tempo per l'insegnamento dell'evoluzionismo e del creazionismo. Recenti sono i tentativi di sopprimere i dati evoluzionistici dai libri di testo delle scuole medie in California. L'articolo in Nature raccomanda agli scienziati di marcare di più la differenza tra dogma e scienza sottolinenando il carattere della scienza come un insieme di dati in continua "evoluzione". Ezio Giacobini


IL CRETINO SCIENTIFICO Chi non legge questo articolo è un imbecille I rischi della specializzazione in un libro di citazioni sulla stupidità umana
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: PONTE DI PINO OLIVIERO
LUOGHI: ITALIA

IL 29 gennaio 1997 su ««Tuttoscienze»» l'antropologo Alberto Salza poneva questo problema. Un comportamento stupido dovrebbe essere meno vantaggioso di un comportamento intelligente; ma se è così, come mai dopo tre milioni di anni di evoluzione esistono ancora innumerevoli esemplari della specie ««Homo»» stupidi al di là di ogni ragionevole dubbio? Si direbbe che qualcosa non funzioni nel principio darwiniano secondo cui i più adatti alla sopravvivenza (i sani, i belli, i forti, gli intelligenti) vengono selezionati a danno dei meno adatti. Delle due, l'una: o Darwin ha sbagliato, o la stupidità costituisce un vantaggio evolutivo. Mentre l'intelligenza, forse, è addirittura un handicap. L'osservazione sperimentale della nostra società, e in particolare degli individui che essa seleziona per porli ai posti di comando, favorisce la seconda ipotesi. L'argomento di Salza è ora ripreso in un libro che scandaglia i vertiginosi ««misteri della stupidità»» attraverso 565 citazioni. Lo ha cucito con pazienza il torinese Oliviero Ponte di Pino, applicandogli un titolo intimidatorio dal quale non dovete lasciarvi impressionare: ««Chi non legge questo libro è un imbecille»» (Garzanti, 244 pagine, 22 mila lire). Infatti non è che leggendolo - e io l'ho fatto - vi mettiate al sicuro. Diceva Einstein (che di nome era Albert, non Alfred: attento ««editor»» di Garzanti, ti pagano per correggere le sviste degli autori): ««Solo due cose sono infinite: l'universo e la stupidità, e sul primo non sono sicuro»». Il tema affrontato è dunque dei più vasti, e Ponte di Pino cerca di essere sistematico: la stupidità nei proverbi, nella filosofia, nell'umorismo, nella televisione, nella letteratura, nella scienza... Quest'ultimo è un settore particolarmente interessante, che possiamo inscrivere in un tema di più ampio respiro: la sublime stupidità degli intelligenti. La scienza moderna ha ottenuto fulgidi successi applicando il metodo riduzionistico. Come la parola suggerisce, esso consiste nello scomporre un singolo problema complesso (ad esempio ««come funziona il cervello»») per ridurlo a una molteplicità di problemi semplici (come è fatta una cellula cerebrale, quale fattore la fa sviluppare, quale molecola mette in contatto due neuroni e così via quasi all'infinito). Il metodo riduzionistico comporta una sempre maggiore specializzazione dei ricercatori e un progressivo frammentarsi delle specializzazioni. Tanto che sempre più spesso lo scienziato di oggi sa tutto su niente e non sa niente sul Tutto. Questo meccanismo perverso, che pure - ripetiamolo - ha dato frutti meravigliosi, nelle sue conseguenze estreme conduce alla figura inquietante del ««Cretino Specializzato»», contigua a quella del ««cretino intelligentissimo»». Se guardiamo agli ultimi vent'anni, a parte l'eccezione della biologia molecolare, dove il metodo riduzionistico è tuttora fecondo, nessuna disciplina scientifica ha fatto balzi spettacolari. La fisica atomica è ferma al suo Modello Standard, soddisfacente, certo, ma imperfetto. La chimica vive di ordinaria amministrazione. Le scienze della Terra si accontentano di perfezionare il paradigma della tettonica a zolle. La cosmologia pare impantanata nelle aporie del Big Bang... Se qualche luce si vede, è proprio in quelle discipline che sono più adatte ad affrontare la complessità dei fenomeni, come la teoria del caos e la matematica dei frattali. Sembra, insomma, che il cretino specializzato abbia fatto il suo tempo. Da un altro punto di vista, la riflessione si applica anche a scienziati consacrati dal premio Nobel per aver fatto qualcosa di grande nella loro disciplina: attenzione, non per questo sono dei geni fuori del loro ristrettissimo ambito. Quindi non intervistiamo Dario Fo sulle biotecnologie nè Rubbia o la Levi Montalcini su qualcosa che non sia la fisica delle particelle o il Nerve Growth Factor. Ultima noterella. Derrick de Kerckhove, l'erede di McLuhan, sostiene che con Internet è nata una meta-intelligenza connettiva: mettere in rete milioni di computer permette infatti ad altrettante persone di interagire con estrema rapidità in qualunque parte del mondo si trovino, come se condividessero un unico grande cervello. Vero. Ma se a interagire con i computer (macchine simili a cretini specializzati) sono prevalentemente dei cretini specializzati in carne e ossa, non avremo come risultato una meta-stupidità? I segnali non mancano. Piero Bianucci


L'ATLANTE diventa DIGITALE
Autore: CICCARESE LORENZO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
ORGANIZZAZIONI: NGC
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C.

NOI sappiamo dei problemi ambientali d'ogni parte del mondo grazie a complesse e sofisticate invenzioni che li segnalano e li descrivono. Il remote sensing (l'osservazione a distanza della Terra) fornisce caratteri del nostro pianeta grazie all'uso di strumenti di rilevamento (sensori) sempre più raffinati, operanti su aerei o satelliti, che catturano immagini più o meno dettagliate. Queste sono poi sottoposte ad analisi che interpretano i dati, estraggono informazioni e le usano nella pianificazione-gestione del territorio. Il remote sensing produce informazioni sullo stato dei deserti, degli oceani, delle foreste e delle calotte polari, ragguagli sui cambi climatici, sull'inquinamento dell'aria e sulla disponibilità di nuove risorse. Con lo sviluppo del telerilevamento, dei Gis, d'altri sistemi avanzati e dell'integrazione tra questi, si prospetta la sostituzione della cartografia cartacea con quella elettronica e digitalizzata. Molte aree del mondo, acque, suoli, vegetazione, infrastrutture industriali sono ormai registrate in forma digitale, con un grande vantaggio: mentre le carte geografiche ci informano sull'aspetto immutabile della Terra, il telerilevamento consente di rilevare flussi e trasformazioni e dà una rappresentazione dinamica. Ma, nonostante la vasta gamma di dati disponibili, la reattività degli utenti - imprese private, agenzie ambientali, dipartimenti governativi - appare lenta e contrastata. Quali sono i motivi? Quali le strade per rendere operativi gli strumenti d'osservazione a distanza della Terra per fini ambientali? Le ragioni che finora ne hanno limitato l'uso sono di tre tipi: costo, mancanza a livello europeo di formati standard dei dati, conformi alle richieste dei clienti, basso livello di formazione professionale del personale nella pubblica amministrazione. In Italia, i dati spaziali sono relativamente costosi: l'unico fornitore vende le immagini da satellite a un costo che varia da 3 a 15 milioni di lire per immagine, in relazione al tipo di risoluzione, ripresa e così via. A questo proposito, è utile segnalare alcune interessanti novità che danno un'idea delle trasformazioni del mercato e della fruizione dei dati satellitari. Nel 1997 è stato lanciato un progetto di grande portata denominato Terra-Server, il cui obiettivo è quello di costruire un sistema di testi, dati numerici e multimediali di tutti gli agglomerati urbani con più di 50.000 abitanti. Il Terra-Server è accessibile mediante un pc, con un qualsiasi web browser e a costi relativamente contenuti (25 dollari) consente di scaricare l'immagine richiesta, con una risoluzione di 1 metro per 1 metro. Le immagini a risoluzione superiore a 12 per 24 metri sono scaricabili gratuitamente (http://www.terraserver.micorsoft.com; http://spin-2.com/). Anche in Italia, l'amministrazione centrale dovrebbe avviare una politica di maggiore copertura, permettendo agli utenti di avere accesso a una più vasta quantità di dati, offrendo gratuitamente le informazioni. Anche se non consideriamo i benefici sull'ambiente, i costi sopportati dallo Stato sarebbero controbilanciati da un aumento delle entrate fiscali conseguente a un aumento della produttività delle aziende di prodotti e servizi operanti nel settore. Dal 1994, negli Usa, le agenzie che hanno responsabilità sulla gestione dei dati spaziali hanno l'obbligo di metterli a disposizione del pubblico gratuitamente, e in effetti sono disponibili su Internet gratis quando sono inferiori a 50 Mbites. La distribuzione secondaria e le copie sono ammesse e le imprese possono integrare i dati spaziali forniti dalle Amministrazioni pubbliche con i loro prodotti. Ancora negli Usa, nel 1994 è stato istituito il Federal Geographic Data Committee, Fgdc (http://fgdc.gov/), incaricato di raccogliere i dati geografici in un formato normalizzato e di attuare il National Geospatial Clearinghouse, Ngc (http://fgdclearhs.er.usgs.gov/), concepito come una rete di produttori, gestori, utenti, collegati elettronicamente, senza un controllo centrale. Attualmente il Ngc raccoglie 100 server di banche dati spaziali, in forma digitale. Per un qualsiasi cittadino è sufficiente un insieme di telefono, modem, software di comunicazione e un pc, perché possa avere accesso a una quantità di server di banche dati che forniscono informazioni carto-geografiche. Per scambiare dati cartografici attraverso info-strade (traduzioni e abbreviazione da information high.ways), è necessario stabilire e adottare norme comuni per gli archivi digitali di immagini da satellite, di forme cartografiche e di attributi geografici. In Europa, purtroppo, ancora non si è giunti alla definizione di standard per le informazioni geografiche telematiche. Il persistere di diverse concezioni di formati riguardo a contenuto, rappresentazione, estensione geometrica e temporale, sistema di riferimento spaziale, qualità e gestione dei dataset, è un ostacolo alla diffusione della tecnologia. Nel novembre 1998, il Comité Technique n. 287 del Comitato Europeo di Normalizzazione (Cen/Tc 287), nell'ambito dell'Iso/Tc 211, intitolato Geographic Information/Geomatics, è giunto alla redazione del documento European Prestandards (Envs), in cui sono definiti gli standard per applicazioni a carattere sperimentale. (http://forum.afnor. fr/work/afnor/gpn2/z13c/public/web/english/pren.h tm). La necessità da parte delle agenzie di disporre di personale in grado di usare le tecniche di telerilevamento non può essere sottovalutata. Servono formazione a partire dalle scuole secondarie, programmi di insegnamento nelle università e corsi per operatori e professionisti. Le applicazioni e i vantaggi di queste tecnologie sono destinati ad aumentare nel prossimo futuro, con il miglioramento della risoluzione spaziale, la messa punto di sistemi esperti più intelligenti, la tendenza a uniformare procedure e codici, l'adozione di percorsi scientifici testati sulla conservazione, la classificazione, la selezione e la scelta delle informazioni che contano tra milioni di dati. Teoricamente, la penetrazione di questi strumenti sarà contagiata da un nuovo senso di responsabilità ambientale, da un ambientalismo che usa scienza e tecnologia, accoglie il profondo cambio evolutivo e accetta l'idea che la protezione dell'ambiente non appartiene solo all'idea romantica di lasciare la natura al proprio corso, ma sempre più alla deliberata gestione eco-sistemica. Lorenzo Ciccarese Italian Environment Protection Agency


A FIRENZE Si salverà l'aula di Schiff per la chimica
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: STORIA SCIENZA
LUOGHI: ITALIA, FI, FIRENZE, ITALIA

LA modernità l'impone: i laboratori chimici nei centri urbani prima o poi devono essere trasferiti. Lo richiedono sia la sicurezza degli abitanti, sia l'accesso e la sosta degli automezzi del personale e dei fornitori, sia il bisogno di spazio per nuovi servizi. Così avverrà, per esempio, a Firenze, dove il dipartimento di chimica dell'università traslocherà dalla zona di San Marco in un "campus" a Sesto Fiorentino. Ma cosa avverrà dell'aula magna, progettata personalmente dall'illustre professor Ugo Schiff, a cui è intitolata? Sarebbe davvero un peccato che venisse destinata a qualcosa del tutto al di fuori dello spirito che la fece nascere e che nel tempo l'ha nobilitata. Nelle intenzioni del Laboratorio di Ricerca Educativa in Chimica e Scienze Integrate, diretto da Paolo Manzelli, la vecchia struttura non dovrà troncare i legami col dipartimento; dovrà inoltre ospitare un centro per la diffusione della cultura scientifica, con forte attenzione alla storia della chimica pura e applicata. Il progetto sta sviluppandosi in collaborazione con la Chemical Heritage Foundation di Filadelfia, e ha fra i suoi primi obiettivi quello d'ospitare nell'ottobre del 2000 un congresso internazionale di storia della chimica. Manzelli e collaboratori pensano anche di fare dell'aula Schiff la base di corsi e seminari storici e didattici, da rendere disponibili tramite Internet. Anche una rivista "in linea" a carattere chimico rientra nelle loro idee. Chi volesse conoscere i dettagli, può trovarli nei siti http://www. chim.unifi.it:8080/ugo_schiff/ugo_page.html e http://campus.sede. enea.it/Scienza/scienza/00000008.htm. Nato a Francoforte sul Meno nel 1834, Schiff ricevette i nomi Hugo e Josef; trasferitosi dapprima per qualche anno a Berna (a causa di difficoltà incontrate in patria per l'origine semita e le idee liberali) e poi in Italia (1863), scelse di firmarsi Ugo all'italiana. Nel nostro paese egli cominciò a lavorare a Pisa, in un laboratorio non lontano dalla torre pendente, dove non era stato allacciato ancora il gas. Il chimico tedesco vi rimase pochi mesi; pur in condizioni così precarie, avviò tuttavia le sue ricerche sulla sintesi e le proprietà di quelle che ancor oggi si chiamano appunto basi di Schiff. Passò quindi al Museo di Storia Naturale di Firenze e poi all'università di Torino (1877-1879). Tornato a Firenze, vi rimase fino alla morte (1915), compiendo per lunghi anni un'opera assidua di ricercatore e docente, che ebbe riconoscimenti internazionali e ha lasciato varie tracce nei libri di testo: oltre che alle basi suddette, il suo nome è tuttora associato a un saggio analitico, in cui la fucsina serve a riconoscere i composti organici detti aldèidi. Schiff fu inoltre precursore d'Emil Fischer nello studiare la struttura delle proteine. Uomo di vasta cultura anche in campo umanistico, nel progettare l'aula fiorentina volle occuparsi perfino dei particolari architettonici, aggiungendo medaglioni e busti dei più celebri chimici del '700-'800, nonché una grande iscrizione greca dal libro della Sapienza: è il versetto 11, 20, che suona particolarmente adatto agli studi chimici; eccolo tradotto: "Tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso" . All'esterno, Schiff fece porre una lapide latina con parole sue originali, occasione di scontro con la facoltà di lettere, che voleva sindacarne forma e contenuto. Del resto questo tedesco trapiantato aveva un carattere duro: si rivolterebbe nella tomba, se Firenze ritardasse la naturale destinazione dell'aula che con tanta tenacia lui volle per la chimica. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


AMBIENTE Forse risolto l'enigma del carbonio latitante
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. IL CICLO GLOBALE DEL CARBONIO

LAVOISIER ci insegnò che nulla si crea e nulla si distrugge. Eppure, nel complicato scambio di carbonio fra oceani, atmosfera e biomassa, ciò non sembra avvenire. Il maggior serbatoio di carbonio (C) sono le pietre calcaree ma poiché i loro scambi sono lentissimi, li trascureremo. Gli altri serbatoi? Eccoli, i valori sono in gigatoni (1 Gt=un miliardo di tonnellate): Oceani 40.000 (+1,5; Atmosfera 700 (+3,5); Combustibili fossili 7000 (-6); Piante 800 (-2); Suolo 1500 (-1). La prima cifra di ogni voce è il contenuto di C, mentre la seconda messa tra parentesi, indica perdite e guadagni annuali. L'umanità brucia circa 6 Gt di combustili fossili l'anno e quindi tale serbatoio perde una quantità equivalente di C l'anno: cioè -6. La deforestazione impoverisce le piante di circa 2 Gt l'anno e l'erosione del suolo fa perdere un altro Gt. I conti però non tornano. Mancano 4 miliardi di tonnellate: è il mistero del carbonio sparito! Gli oceanografi e i fisiologi delle piante e del suolo ci assicurano che nè gli oceani nè piante e suolo possono risolvere il problema. E le radici? Quant'è la biomassa che va nelle radici e quella che va in rami e foglie? Sarebbe preferibile che l'aumento dell'anidride carbonica (CO2) causasse un maggior aumento delle radici perché esse sono più durevoli mentre rami e foglie decadono ritornando il C all'atmosfera nei giro di un anno. Esperimenti in condizioni controllate indicano che in effetti quando la CO2 aumenta, il rapporto ««radici/rami-foglie»» cresce, un fatto ben gradito poiché ci dice che per mantenere il loro metabolismo stabile, le piante abbisognano di meno foglie. Costa loro meno far crescere radici che foglie. Può essere questa la soluzione al mistero? I dati sperimentali di Keeling da Mauna Loa, che datano dal 1958, indicano che la CO2 - gas a effetto serra - è in aumento dallo 0,0315% allo 0,036%. Sovrapposto a questa crescita, c'è un ciclo stagionale: in primavera, c'è più vegetazione, più CO2 viene assorbita e quindi se ne trova di meno nell'atmosfera; in inverno, il contrario: Keeling ha fatto notare che l'ampiezza di questo ciclo è aumentata dal 1958 di circa il 10 per cento, il che sembra dirci che la ««biosfera del Nord»» ha aumentato la sua attività al tasso dello 0,5% l'anno. Può sembrare poco, ma in effetti basta a spiegare in gran parte i 4 Gt di CO2 che sembravano essere spariti. Passiamo all'ossigeno. Bruciando combustibili fossili si genera CO2 e si consuma ossigeno atmosferico (una mole di C=12 grammi, una mole di O2=32 grammi). Quindi, ogni 3 tonnellate di C che si generano, ««spariscono»» 8 tonnellate di ossigeno. L'umanità brucia 6 Gt di C all'anno, il che equivale a 16 Gt di ossigeno sottratto all'atmosfera. Poiché quest'ultima contiene 1,2 milioni di Gt di ossigeno, questo consumo corrisponde a 13 parti per mille l'anno: in 75 mila anni l'avremo consumato tutto. Si può misurare la diminuzione? Sì, eppure gli sforzi in questa direzione non sono molti. Il pubblico è giustamente preoccupato per la distruzione dell'ozono; forse, se fosse al corrente del consumo di O2 ci sarebbe una maggiore pressione per misurare tale fenomeno in modo preciso. Meglio cominciare con gli oceani, dove ce ne sono solo 8400 Gt contro i 1,2 milioni di Gt dell'atmosfera. Il calo dell'ossigeno oceanico è di una parte per mille l'anno, quindi di gran lunga maggiore, e quindi più facile da misurare, delle 13 parti per milione dell'atmosfera. Ma l'oceano non è così benigno come l'atmosfera, la quale, grazie al suo stato di turbolenza permanente, è assai più mescolata e quindi una misura in un punto della Terra è rappresentativa di qualsiasi altro punto. L'oceano è molto meno uniforme e per ottenere statistiche affidabili, bisognerebbe effettuare svariate misure in molti posti diversi. Vediamo la situazione così: l'atmosfera è ricca di ossigeno e povera di C; l'oceano, l'opposto. Quindi, l'atmosfera è molto sensibile a cambi della CO2 mentre l'oceano è sensibile ai cambi di ossigeno. Qualora raddoppiassimo la CO2 atmosferica, riusciremmo a sopravvivere, mentre qualora riducessimo l'ossigeno oceanico a zero, sarebbe una catastrofe vera e propria. Stiamo asfissiando gli oceani? Con un calo annuale di 8 Gt di ossigeno, l'asfissia avverrà in 840 anni, che non sono poi molti. L'oceano non è però ben mescolato e certe parti possono già essere state seriamente ferite. Per esempio, l'Oceano Pacifico contiene 50% dell'acqua dei mari ma solo il 40% dell'ossigeno totale. Poiché l'idea di una lenta asfissia degli oceani è psicologicamente più potente dell'aumento della CO2 atmosferica, la ««morale»» è che conviene puntare sul ««rischio oceani»» per convincere l'umanità a cambiare rotta. Vittorio M. Canuto Nasa, New York


ARMI DI NUOVA CONCEZIONE I proiettili all'uranio L'eredità della guerra Nato alla Serbia
Autore: VOLPE PAOLO

ARGOMENTI: ARMI
LUOGHI: ITALIA

DURANTE la guerra nel Kosovo, ma già in quella del Golfo, sono stati usati proiettili e corazze di carri armati fatti con uranio impoverito (Du=Depleted Uranium). Molti si sono chiesti la ragione di ciò, talvolta attribuendo ai proiettili una non ben chiara ««potenza nucleare»» o, più spesso e realisticamente, pensando che ciò comportasse rischio da radiazioni. Infatti molti reduci dalla guerra del Golfo (per quella del Kosovo è presto per dirlo) soffrono di una strana patologia che viene chiamata Gws (Gulf War Syndrome) che qualcuno imputa proprio al Du. Un recente articolo apparso sul bollettino della Sirr (Società italiana ricerche sulle radiazioni) discute l'argomento in modo approfondito, giungendo a conclusioni che qui proverò a sintetizzare. L'uranio, relativamente abbondante sulla Terra, è anche uno dei più pesanti elementi naturali (1,7 volte il piombo). E' questa la principale ragione per cui viene usato per foggiare proiettili: è infatti intuibile anche da chi non ha nozioni di balistica che, se si imprime una medesima velocità iniziale a corpi di uguale forma ma di diverso peso specifico, il corpo a peso specifico maggiore assumerà un'energia cinetica più alta e quindi maggior forza di impatto e maggior gittata. Il Du poi, come materiale di scarto è venduto a un prezzo stracciato. Esso non è altro che ciò che rimane dell'uranio naturale (U-238 + U-235) quando ne viene estratta gran parte del prezioso U-235 da utilizzare nelle centrali nucleari; è quindi uranio in cui l'isotopo 235 è ridotto allo 0,2 per cento circa ed è quindi meno radioattivo dell'uranio naturale, perché tra gli isotopi il 238 è quello a periodo di dimezzamento più lungo. Per vedere se l'ipotesi di rischio radiologico ha qualche fondamento analizziamo gli effetti dell'uso militare di Du. Un proiettile di questo materiale che colpisce la corazza di un carro armato, un muro o qualsiasi corpo resistente produce per sfregamento polvere finissima che, essendo l'uranio piroforico, si incendia spontaneamente disperdendosi in aria come aerosol di ossidi di uranio. Questo può essere inalato o, dopo deposizione, ingerito. Per di più, in vicinanza di masse di uranio (proiettili usati o no) si è esposti alle sue radiazioni. Nel caso di inalazione o ingestione vanno considerate sia la tossicità chimica sia la dose di radiazione interna (radiotossicità). La tossicità chimica dell'uranio non è molto elevata. Una certa quantità di uranio naturale molto variabile da individuo a individuo (da 2 a 60 microgrammi) fa parte naturalmente della nostra composizione chimica. Quasi tutto questo uranio viene rinnovato entro tre-quattro giorni, essendo escreto con le urine e reintrodotto con il cibo, un eccesso di uranio (come potrebbe essere l'assunzione di Du bellico) perdura quindi per tale periodo, distribuito tra ossa, fegato, grasso, muscoli e soprattutto reni, che sono l'organo critico rispetto alla tossicità chimica dell'uranio. Secondo la Health Physic Society, bisogna inalarne 8 milligrammi per averne effetti temporanei e 40 milligrammi per averne danni permanenti. Queste sono quantità che è inverosimile vengano prodotte sul campo di battaglia con l'uso di proiettili a Du; esse sono state raggiunte come aerosol solo in incidenti di laboratorio: decine di milligrammi per metro cubo d'aria. In uno di questi incidenti le concentrazioni di uranio nelle urine dei protagonisti il giorno dell'incidente erano di 20 milligrammi/litro e sono scese a valori normali solo dopo una settimana; tuttavia nessuna persona coinvolta ha riportato danni renali nè tumori anche anni dopo l'incidente. Per quanto riguarda la radiotossicità, l'International Commission on Radiological Protection stabilisce che bisogna inalare 50 milligrammi di Du per arrivare alla dose annuale massima ammissibile di 50 milliSievert. Questo esclude la possibilità di danno da radiazione interna sul campo di battaglia, ma lascia il dubbio sull'effetto genotossico alla popolazione in quanto, a lungo andare, gli ossidi di uranio accumulati nell'ambiente (acque e vegetali) potrebbero essere responsabili di effetti stocastici. La genotossicità dell'uranio è stata dimostrata ««in vitro»» su cellule di criceto, mentre ««in vivo»» esistono precedenti studi su minatori in cave di uranio; in tutti e due i casi si sono notate aberrazioni cromosomiche, ma non tali da dire una parola definitiva sugli effetti mutageni delle inalazioni di uranio. Sull'irradiazione esterna, dovuta alle radiazioni gamma dell'uranio (molto tenui) e dei suoi prodotti di decadimento, si possono fare misure e calcoli più certi. Per quanto riguarda i militari la situazione più critica è quella di un pilota di carro armato che trasporta proiettili a Du e che, inoltre, ha anche la corazza rinforzata con questo materiale. La dose a cui esso è esposto è circa dieci volte la dose naturale, ma sempre inferiore alla dose ammissibile. Per quanto riguarda il rischio alla popolazione, il bilancio della situazione si può far meglio nel caso della guerra del Golfo, i cui dati sono ormai accertati. Secondo un'ipotesi pessimistica (di parte irachena) furono in quel conflitto sparati circa un milione di proiettili a Du, del peso medio di 300 grammi; dunque 300 tonnellate di Du che, se raccolte in un mucchio, potrebbero fornire una dose di radiazioni letale per un essere umano in 15 minuti. Naturalmente invece questi proiettili sono sparsi in un territorio vasto e la probabilità di essere casualmente in vicinanza di più di uno di essi è molto bassa; tenuto conto che le radiazioni dell'uranio si attenuano a breve distanza, si può asserire che la radiazione ambientale è rimasta pressoché invariata. Se poi per caso una persona si trovasse in presenza di uno di questi proiettili o ne stesse a contatto (ad esempio lo tenesse in tasca) continuamente per un anno, ne riceverebbe una dose di 500 microSievert alla pelle ma molto meno come dose interna; il rischio di cancro per questa persona sarebbe aumentato, rispetto alla norma, dell'1 per cento. In base a queste considerazioni e a molte altre che sul bollettino Sirr sono analizzate minuziosamente, non solo si può ragionevolmente escludere che la Sindrome della Guerra del Golfo sia da attribuire agli effetti del Du, ma anche ritenere che gli effetti sulla popolazione residente e sull'ambiente siano quasi trascurabili. Paolo Volpe Università di Torino


EPATITE B La subdola infezione del viaggiatore
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL rischio di contrarre l'epatite B durante i viaggi internazionali è elevato. Se ne è parlato a Venezia alla Conferenza europea di medicina del turismo. L'epatite B è causata dal virus HBV. Importanza predominante ha la trasmissione sessuale, altri rischi provengono dalle siringhe contaminate, come accade ai tossicodipendenti, e dalle trasfusioni di sangue. Orbene, in base alle indagini coordinate dal prof. Steffen di Zurigo su oltre 9 mila turisti di nove Paesi europei, è risultata alta la percentuale dei viaggiatori a rischio di contagio: il 40 per cento svolge attività sportive che possono provocare lesioni cutanee contaminabili dal virus, il 7 per cento si ammala durante il viaggio per cui subisce trasfusioni o viene a contatto con siringhe, il 14 per cento ha rapporti sessuali non protetti. A questi vanno aggiunti rischi minori quali tatuaggi, piercing, manicure o pedicure, uso in comune di rasoi. L'epatite B ha una singolare evoluzione: di solito rimane inavvertita e guarisce spontaneamente, insomma non ci si accorge di essere contagiati. Nel 10 per cento dei casi, invece, si insedia stabilmente, si manifesta con un'epatite cronica, e a distanza di anni possono aversi gravi conseguenze quali la cirrosi ed il carcinoma epatico. Come difendersi da questi pericoli? Anzitutto bisogna conoscerli, invece l'ignoranza al riguardo è diffusissima. Le indagini di cui si diceva hanno rivelato che gran parte dei turisti non aveva mai sentito parlare dell'epatite B, taluni ritenevano trattarsi d'una patologia degli omosessuali o da abuso di alcol. In realtà è una delle più frequenti infezioni dei viaggiatori, tanto che si calcola che su ogni aereo di ritorno da un Paese ad alta contagiosità (Est europeo, Paesi mediterranei, Africa, Medio Oriente, India, Sud-Est asiatico, Sud America) un passeggero abbia ricevuto l'infezione. I portatori cronici che possono trasmettere il contagio sono 300 milioni nel mondo. Il rischio di trasmissione del virus è elevato; l'epatite B è cento volte più contagiosa dell'Aids. Come ha detto Zuckerman è sufficiente una quantità di sangue pari a 0,0004 millilitri per trasmettere il virus HBV mentre per la trasmissione del virus HIV è necessario 0,1 ml.; inoltre HBV può resistere fino ad una settimana nel sangue essiccato, HIV soltanto 24 ore. Mezzo essenziale di profilassi è la vaccinazione (tre iniezioni), obbligatoria dal 1991 in Italia alla nascita e nell'età adolescenziale fino a 12 anni. Il vaccino è disponibile nelle farmacie e presso i centri di medicina del turismo istituiti nelle Asl. Inoltre usare sistematicamente il profilattico nei rapporti sessuali e siringhe sterili per le iniezioni. Ulrico di Aichelburg


UN COMPLESSO CODICE ESPRESSIVO Il linguaggio del cavallo Segnali visivi, olfattivi e corporei
Autore: BURI MARCO

ARGOMENTI: ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. SCHEMA DELLA FUNZIONE NEURO-ENDOCRINA LEGATA AI SENSI

UN' IMPENNATA violenta, un nitrito profondo e modulato, un veloce movimento di occhio ed orecchio. Alla base della comunicazione del cavallo ci sono questi segnali che l'animale usa per farsi capire dai suoi simili e dall'uomo che lo accudisce. Ovviamente il linguaggio è il medesimo sia per dire ad un suo compagno che c'è un pericolo in arrivo, sia per comunicare al cavaliere che non vuole fare quel determinato esercizio. Essendo stati noi ad entrare bruscamente nel suo ambiente alterandone gli spazi vitali, costringendolo al lavoro e ad altre nostre esigenze, sarebbe bene che ci fermassimo con più attenzione almeno a captare i suoi segnali, cercando di leggerli e soprattutto tenendone conto poi con le nostre azioni. Il cavallo può rispondere ai messaggi inviati verso di lui dal mondo che lo circonda con un suo specifico linguaggio comunicativo. Gli studiosi affermano che il comportamento sociale sia di beneficio al cavallo nella sua vita individuale, migliorandone il codice espressivo. Dobbiamo, quindi, capire e rispettare la sua capacità di comunicazione che ne rafforza la socialità, consolidando i legami tra individui (soggetti di un branco, o rapporto con l'uomo) aumentando sicurezza e serenità dell'animale. Se pensiamo, inoltre, che molte volte la vita sociale del cavallo in attività agonistica si esaurisce quasi esclusivamente nel lavoro imposto dal cavaliere, possiamo facilmente renderci conto dell'assoluta importanza di questo aspetto. Gli stati emotivi degli equini sono molto imitativi nel senso che tendono a riprodurre la tranquillità o la tensione che esiste intorno a loro. Questi modi di essere possono essere creati da altri cavalli, ma anche dall'uomo stesso. Così non è difficile osservare persone nervose con animali nervosi e viceversa. L'emissione di un segnale può essere sonora, olfattiva, corporea ma anche visiva e gustativa; l'importante è che il messaggio vada a segno e si raggiunga lo scopo di trasmettere la sensazione da comunicare. Ciò, come sappiamo bene, restituisce molta serenità perché farci capire è spesso, anche per noi, uno dei problemi più grossi che può portare con sè ansia. Per il cavallo, con un linguaggio che possiamo definire non meno raffinato del nostro, è assolutamente indispensabile non essere isolato in quel determinato atteggiamento o sensazione e il poterlo comunicare è fonte di sicurezza. Essendo meno sviluppato, complesso ed articolato il messaggio sonoro, gli equini sono efficacissimi nella comunicazione visiva, olfattiva e corporea. A volte ci accorgiamo che il cavallo può mandare un messaggio ad altri suoi simili anche senza dei segnali precisi e che dopo un po' la risposta degli altri individui è consona all'azione instaurata. Per esempio un capobranco si sposta libero in un prato, scegliendo cibo, luce e direzione, seguito dal gruppo. Dietro le nostre grossolane conoscenze e classificazioni dei movimenti creati da orecchie, corpo, arti, insieme a vari tipi di nitriti, si nasconde sicuramente un mondo di messaggi che non riusciamo per ora neanche a percepire. I messaggi olfattivi o ««ferormoni»» sono molecole chimiche prodotte da ghiandole epiteliali sparse in particolari zone cutanee. Nei cavalli queste agiscono, insieme alle ghiandole sudoripare e a quelle sebacee, trasmettendo segnali di presenza nella zona, segnali sessuali e di benessere o malessere ai componenti del branco. Anche feci e urine sono piene di sostanze ferormonali che, associate all'odore dell'alito, conferiscono un riconoscimento sociale a gruppi di cavalli che condividono lo stesso territorio e la stessa alimentazione. Il rotolamento sul terreno è un altro modo di comunicare la propria presenza ad altri individui, oppure la necessità di integrarsi con gli odori del branco rotolandosi appunto sui loro escreti. Se in aperta campagna separiamo un soggetto da un suo compagno di scuderia e lo lasciamo libero di procedere a redini lunghe, quasi sicuramente inizierà a seguirne le tracce con il muso rivolto verso il terreno e le orecchie tese in ogni direzione. Vengono ««aperti»» molti sensi e se l'odore non è più sufficiente a dare notizie del cavallo lontano, potrà seguirne i rumori portati dalla direzione del vento. Ma l'aspetto più importante dei ferormoni olfattivi sta nel riconoscimento della fattrice verso il puledro e nel comportamento dello stallone verso le cavalle in calore. Il primo segnale positivo sul puledrino neonato è quello che la cavalla ottiene odorandolo e leccandolo a fondo; essendo appena passato attraverso la sua vagina, questa lo ha impregnato profondamente del suo ««marchio chimico»». Poi colostro, latte e feci lo renderanno riconoscibile per molto altro tempo. Anche il puledro riconosce la mamma, in folti gruppi di fattrici, solo per l'odore emanato. Crescendo, il piccolo un po' cambierà odore, così la fattrice lo annuserà spesso per adeguarsi all'eventuale cambiamento. Può anche succedere che cavalle, specialmente se primipare, ignorino il puledro; ciò potrebbe dipendere dalla mancanza di sufficiente contatto sociale con altri cavalli, a causa del precedente intenso lavoro e del rapporto esclusivo con l'uomo. In questo caso è necessario ripristinare lentamente il suo equilibrio naturale con il branco e con il piccolo cospargendo quest'ultimo con paglia intrisa di sue feci ed urine, affinché riprenda la stimolazione olfattiva del riconoscimento. Difficilmente uno stallone individuerà un puledro come suo figlio, ma lo aggregherà al branco appena questi avrà l'odore di tutti i componenti del gruppo. Lo stallone come capobranco e la femmina quando è in calore marcano più spesso degli altri il terreno comune con feci ed urine, normalmente seguendo sempre i medesimi percorsi. I ferormoni servono allo stallone per riconoscere una cavalla in calore, in modo da sincronizzare i tempi e le azioni dell'accoppiamento; agiscono anche in parte come afrodisiaci al fine di dare più possibilità al concepimento. La ghiandola pituitaria è alla base del comportamento sessuale: è qui che i messaggi olfattivi arrivano per essere analizzati e da qui partirà la risposta chimica sugli organi sessuali specifici. Quando la femmina è in calore i ferormoni sono secreti nell'urina ad alte concentrazioni per attirare il maschio anche a grande distanza. Avvicinatisi e riconosciuti gli intenti comuni comincia il corteggiamento durante il quale passano molto tempo a fiutarsi, a toccarsi su tutto il corpo e ad odorare le rispettive feci e le urine. A volte uno dei due soffia direttamente nelle narici dell'altro fino a che quest'ultimo produce uno sbruffo che può essere inteso come un sufficiente riconoscimento. Marco Buri


««DANNI IATROGENI»» Ammalarsi di medicina Il problema dei dolori post-operatori
Autore: MARCHETTINI PAOLO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UNA scossa elettrica non-stop accompagnata da formicolii e torpore, alla quale si aggiunge un bruciore da ustione solare accentuato dallo sfregamento dei vestiti sulla pelle: immaginate che questa sensazione duri non un istante o poche ore, ma ininterrottamente per giorni, mesi o anni. Questi sono i sintomi di una nevralgia. Le nevralgie possono essere causate dalla compressione dei nervi nei tessuti, che si inspessiscono con l'invecchiamento, oppure da malattie come il diabete, dall'alcolismo o da insufficienza renale. Il più delle volte, però, sono conseguenza di interventi chirurgici o terapeutici. Danni iatrogeni, si chiamano in linguaggio medico. Causati, cioè, dalla medicina. Un'analisi della Harvard Medical Press riporta che nel '91 le complicazioni iatrogene hanno colpito 1.300.000 pazienti ricoverati negli ospedali americani e che almeno il 70 per cento di esse avrebbe potuto essere prevenuto. Le lesioni iatrogene sono spesso responsabili di sindromi dolorose croniche: uno studio epidemiologico scozzese condotto nel 1998 su 5130 pazienti affetti da dolore cronico ha documentato che per ben 1130 di essi era conseguente a danni provocati da interventi chirurgici. Altre indagini effettuate quest'anno in Danimarca e Inghilterra confermano che le complicazioni iatrogene costituiscono la seconda causa più comune di dolore cronico, superate solo dalle lesioni traumatiche provocate da incidenti. Sono dati allarmanti che ci ricordano che la ««malasanità»» non è solo un problema italiano, ma un tarlo intrinseco alla medicina moderna, che pur essendo diventata più efficace e potente è contemporaneamente diventata più pericolosa. E' questo tributo pagato dai pazienti il prezzo necessario del progresso, come lo sono gli inquinamenti e gli incidenti del traffico? Lo studioso Ivan Illich, nel suo libro ««Nemesi medica»» del 1976, aveva anticipato molte di queste contraddizioni e provocatoriamente adombrato che la medicina contemporanea fosse diventata una grande minaccia per la salute. Fuor di metafora, è indubbio che, sedotti dal potere della scienza e delle nuove tecnologie, gli specialisti hanno delegato la responsabilità diagnostica, cardine dell'arte medica. Di questa rinuncia all'««autorità»» sono stati responsabili anche gli enti deputati al rimborso sanitario (negli Stati Uniti le assicurazioni, in Italia il ministero della Sanità) che hanno privilegiato quelli per le prestazioni chirurgiche rispetto a quelle diagnostiche. Favorire l'atto chirurgico-terapeutico, ossia la precedenza dell'azione sulla ragione, ha sicuramente amplificato la iatrogenesi. Per restituire sicurezza all'azione medica, quindi, è necessario in primo luogo ripristinare il valore culturale ed economico dell'atto diagnostico. Non tutte le colpe, però, sono da attribuire al ««bisturi selvaggio»»: spesso le circostanze del danno sono inevitabili. E dal momento che solo nel 5-10 per cento dei casi una lesione iatrogena provoca dolore, mentre il più delle volte si verifica soltanto una perdita di sensibilità più o meno completa, prevenire e riconoscere le nevralgie è oggettivamente difficile. I medici che involontariamente possono provocare queste complicanze tendono così a sottovalutarle, anche perché il dolore può apparire a distanza di tempo dal momento della lesione e quindi non essere immediatamente riconducibile ad essa. Cosa può essere fatto, allora, per limitare queste preoccupanti conseguenze? In primo luogo, evitare interventi rischiosi quando non siano strettamente necessari: molti pazienti affermano che se avessero potuto immaginare i dolori cronici che stanno soffrendo non si sarebbero mai sottoposti all'intervento. Questa considerazione deve indurre a riflettere quando si prevedano degli interventi minori, cosmetici o non indispensabili. Le possibili complicanze iatrogene dovrebbero poi essere sempre menzionate nel richiedere il consenso informato. Fondamentale inoltre è identificare le più comuni. Esaminando la casistica di 12 anni di attività del Centro di Medicina del Dolore dell'Istituto Scientifico San Raffaele di Milano, presentata al recente congresso mondiale di Vienna della International Association Study of Pain, abbiamo riscontrato che le lesioni nervose iatrogene si ripetono con sorprendente costanza. Tra le più frequenti ci sono le lesioni ai nervi del collo causate dalle biopsie dei linfonodi cervicali, quelle ai nervi ascellari provocate da interventi sulla mammella e quelle ai nervi genitali, causate dalle plastiche inguinali. Ma anche una banale asportazione delle vene varicose non di rado provoca lesioni dei nervi delle gambe. Paradossalmente anche le ultime, sofisticate tecniche endoscopiche non invasive, utilizzate particolarmente per interventi sul polso (tunnel carpale) e sulle ginocchia, causano più lesioni nervose di quanto non facessero precedentemente gli interventi tradizionali. Un altro sforzo per ridurre questo dramma è quello fatto dalla ricerca. In base ad esperimenti per ora eseguiti soltanto su ratti, sembrerebbe possibile prevenire la comparsa delle lesioni nervose bloccando completamente i nervi con anestetici locali al momento del trauma. Paolo Marchettini direttore del Centro di Medicina del Dolore Istituto Scientifico San Raffaele di Milano


LE LERINS DI CANNES Le isole del lentisco e del rosmarino Straordinario paradiso della macchia mediterranea
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, FRANCIA

QUANDO all'inizio del quinto secolo Sant'Onorato, attratto dall'ideale monastico, si stabilì a Saint Honorat, una delle due isole dell'arcipelago Lerins (l'altra è Sainte Marguerite), accessibili in un quarto d'ora di barca da Cannes, non avrebbe immaginato che quell'isoletta sarebbe divenuta, con l'altra isola, uno dei modelli di tutela della flora mediterranea. Entrambe le isole erano già conosciute ai tempi dei Romani: esistono tracce di porti e terme risalenti al quarto secolo a.C. Il clima caldo e asciutto d'estate e l'assenza di stagioni ben definite e venti come il mistral hanno determinato una particolare vegetazione che si caratterizza per una forma ridotta della superficie delle foglie e delle parti aeree, ispessimento e indurimento della cuticola delle foglie che diventano coriacee, infossamento degli stomi nelle foglie, peluria diffusa. Vi sono specie che riescono a insinuarsi negli anfratti delle rocce come il Crithmum, dalle foglie finemente suddivise e i fiori in grandi ombrelle di colore bianco verdastre, e la Plantago subulata, alta 20 centimetri con fiorellini bianchi, la carota selvatica, numerose specie di statice, la cui forma coltivata viene utilizzata anche per le composizioni di fiori essiccati. Un po' più lontano dal bordo del mare e andando verso l'interno si possono ammirare cuscinetti di Thimelea hirsuta che stupisce per la sua pronunciata pelosità, l'astragalo dalle lunghe, feroci spine disposto a formare cuscini definiti comunemente come i ««cuscini della suocera»». Ma è la macchia mediterranea, quella alta e quella bassa, a prendere il sopravvento su tutto. La prima compare facendosi largo tra le sughere o in seguito alla scomparsa di queste: è una formazione lussureggiante i cui arbusti si elevano fin a 6-8 metri; prevalendo su tutti il corbezzolo che si ricopre in autunno di fiori bianchi disposti in grappoli tra frutti rosso vivo dell'anno precedente e l'Erica arborea; queste due specie possono coesistere o l'una prendere il sopravvento sull'altra; formano un insieme talmente fitto da impedire lo sviluppo del sottobosco. Soltanto in alcune aperture si possono fare largo faticosamente alcune liane come la Smilax aspera, molto spinosa dalla bacche rosse e la Lonicera implexa, parente del caprifoglio. E' un tipo di vegetazione che presenta una grande capacità di rigenerazione agli incendi purché non siano troppo ripetuti. La macchia bassa indica uno stadio più accentuato di degradazione ed è tipicamente formata da due Ericacee, la Calluna vulgaris e l'Erica scoparia, piante tipiche di ambienti acidi e della brughiera, dotate di un fascino particolare in quanto connotano fortemente il paesaggio al momento della fioritura. A queste si aggiungono specie intensamente profumate come la lavandula, l'elicriso, che i francesi chiamano immortelle, con le infiorescenze gialle (è una specie largamente presente anche all'isola del Giglio), il Bupleuro dall'intensa fragranza molto singolare, il timo e il rosmarino. Nei luoghi in cui vi sono affioramenti geologici compatti (graniti) s'installano in abbondanza i cisti, da quelli a fiori bianchi a quelli a fiore rosa (il fiore ricorda una rosa di macchia) che dopo la fioritura, sicuramente spettacolare, si dissecca ed è a rischio di incendio, facilitato anche da foglie vischiose per la presenza di terpeni. Da ricordare per la loro bellezza il lentisco, Pistacia lentiscus, dalle foglie persistenti ellittiche, piccole con fiori numerosissimi rossi e bacche nere lucenti a maturità e il Pino d'Aleppo o pino bianco. Per fortuna questa splendida natura delle isole Lerins è al sicuro: a Parigi in Avenue Marceau esiste un apposito ente, il ««Conservatoire du littoral»», che cerca di limitare la lottizzazione di terreni sulle coste particolarmente ricche di vegetazione affidandoli per la loro gestione ai Comuni o ad associazioni ambientaliste. Elena Accati Università di Torino


STORIA DELLA METCALFA I guasti della farfallina venuta dall'America
Autore: STELLA ENRICO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LO spettacolo si replica in Italia ormai da venti anni, ma ora è talmente esteso che anche il passante più distratto deve averlo notato. D'estate la vegetazione urbana e rurale si copre qua e là di una pruina nivea e di fiocchetti altrettanto candidi. Chi, per capirne di più, va a curiosare tra le fronde ha la sorpresa di vedere i piccoli fiocchi animarsi e saltare come grilli, mentre strani insetti grigiastri, lunghi al massimo otto millimetri, si alzano in brevi voli, impauriti per l'intrusione. Dalle alberature stradali poi piovono goccioline collose, visibili sull'asfalto e sulle automobili in sosta. L'assalto coinvolge un numero illimitato di specie botaniche e di colture; ciò ne ha favorito la diffusione progressiva in quasi tutto il territorio nazionale e nei più diversi tipi di ambienti. Protagonista di questa storia è Metcalfa pruinosa, un insetto americano somigliante alle cicaline, destinato ad essere fin troppo conosciuto, anche da noi, per il suo pullulare dappertutto e per il fastidio e i guasti che può produrre. La scoperta della sua esistenza nel nostro Paese risale al 1979, quando se ne avvistarono numerosi esemplari in provincia di Treviso. La notizia ufficiale fu data al mondo scientifico da Sergio Zangheri e Paolo Donadini (Istituto di Entomologia agraria dell'Università di Padova). Già durante il primo biennio di ricerche l'infestazione interessava nel Trevigiano più di 40 specie vegetali, da quelle erbacce alle arboree, che però non presentano particolari segni di sofferenza. L'arrivo del nuovo ospite si spiega facilmente: l'aumentata velocità dei mezzi di trasporto e l'incremento degli scambi commerciali tra un continente e l'altro hanno consentito negli ultimi cinquant'anni l'ingresso accidentale in Italia di almeno 120 specie di insetti esotici. Come le cicale, Metcalfa è un emittero omottero, ma appartiene a una famiglia diversa: quella dei Flatidi. Gli adulti hanno ali a forma di trapezio, disposte a tetto, quasi verticalmente, ai lati del corpo; la livrea immacolata vira presto al grigio con screziature più chiare formate da pruina cerosa. Una cospicua secrezione di cera protegge e maschera le forme giovanili, incapaci di volare, ma atte al salto. Con l'apparato boccale pungente l'insetto trafigge le parti più tenere delle piante per succhiarne gli umori che contengono acqua e zuccheri in eccesso rispetto alle sue necessità alimentari; così deve eliminare dall'intestino quanto non gli serve, sotto forma di ««melata»»: un liquido appiccicoso e dolciastro, ricco di carboidrati. Ecco l'origine della patina viscosa che sporca le foglie, inglobando particelle di smog, e delle gocce cadute al suolo. Il liquido superfluo emesso dalle metcalfe costituisce per altri insetti una notevole fonte di nutrimento: bombi, vespe, mosche e tanti abituali consumatori di nettare vi si precipitano sopra, ed è allora una grande abbuffata! Se scoprono che possono bottinare con minor fatica, anche le api più laboriose smettono di visitare i fiori e si danno convegno sugli alberi della cuccagna. Il loro miele acquisterà un sapore particolare che sembra avere già i suoi estimatori; ma alcuni esperti giudicano questo un danno, non un vantaggio. Inoltre la melata, come quella dei vari omotteri (afidi, per esempio) è ottimo terreno di coltura per minuscoli funghi i cui filamenti vegetativi (ife) formano sulle piante una crosta fuligginosa nociva, conosciuta col nome di ««fumaggine»». Gli amori delle metcalfe sono favoriti dal calar delle tenebre, e anche la funzione materna si svolge di notte. All'inizio dell'autunno, prima che l'unica generazione annuale soccomba per vecchiaia o per mutate condizioni meteorologiche,le femmine fecondate introducono l'ovopositore nelle screpolature delle cortecce e vi nascondono le uova, lunghe meno di un millimetro. Le schiuse saranno scaglionate gradualmente, al ritorno della stagione calda. La presenza del nuovo emittero non è un flagello biblico, ma la sua abbondante diffusione preoccupa i coltivatori perché in certi casi può provocare deperimento dei germogli, caduta di foglie, perdita di frutti. L'uso di insetticidi drastici è inopportuno, data l'ubiquitarietà del nemico da combattere; e poi ne risulterebbe una strage di api e di altri pronubi, accorsi a raccogliere la melata. Perciò si preferiscono lavaggi con soluzioni di sali di potassio. Nella patria naturale Metcalfa Pruinosa risulta innocua: infatti il suo incremento demografico è contrastato da antagonisti specifici; tra questi uno dei più attivi è l'imenottero drinide Neodryinus typhlocybae, inesorabile giustiziere di metcalfe che rappresentano il suo cibo quotidiano. La femmina rassomiglia a una vespa, ma ha il primo paio di zampe armato di grandi pinze che le permettono di afferrare la vittima per divorarla subito o per deporre un uovo sul suo torace; nel secondo caso sarà la larva dell'imenottero a incistarsi nel corpo dell'ospite per svuotarlo dall'interno. Insomma questo nostro alleato ha un duplice importantissimo ruolo: da adulto preda le forme più giovani del flatide, mentre allo stato larvale ne parassitizza gli stadi di sviluppo successivi alla seconda muta. Nel 1994 Vincenzo Girolami e Paolo Camporese (Università di Padova) sono riusciti a moltiplicare, anche nell'ambiente esterno, il prezioso imenottero, espressamente importato dall'America. Questo passo fondamentale ha aperto la via a successive sperimentazioni da parte dei ricercatori del ««Biolab»» di Cesena, il laboratorio pilota, specializzato nell'allevamento di organismi utili, che ha preceduto l'istituzione della prima ««fabbrica»» italiana di insetti ausiliari. Così nella primavera 1995 Maria Grazia Tommasini, con un'agguerrita èquipe dello stesso laboratorio, ha cominciato a liberare, a scaglioni, alcune centinaia di drinidi in un parco pubblico del comune di Riccione (Rimini), su macchie e siepi di pittospori infestati dagli omotteri. Ora in quel comprensorio Neodryinus è perfettamente acclimatato, la sua popolazione è in aumento e dimostra la capacità di diffondersi nelle aree circostanti, mantenendo sotto controllo le metcalfe: un esemplare ritorno alla lotta biologica tradizionale. Enrico Stella Università di Roma ««La Sapienza»»


IN BREVE Rovereto: cinema di archeologia
ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà a Rovereto dal 4 al 9 ottobre la rassegna internazionale del cinema archeologico, diretta da Dario di Blasi e organizzata dal Museo civico di Rovereto in collaborazione con la rivista " Archeologia viva", edita da Giunti. Più di 70 i documentari in programma. La stessa rivista ha organizzato a Ustica la Rassegna del cinema d'ambiente mediterraneo. Hanno vinto ex aequo " Alessandria la magnifica" del francese Millière e "Giglio e Giannutri" di Paolo Notarbartolo di Sciara.


IN BREVE Sul Garda gara per idrovolanti
ARGOMENTI: TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA

Ritorna la famosa Coppa Schneider di velocità per idrovolanti. E' la "Piccola Coppa Scnheider - Targa Francesco Agello" che si svolgerà nei giorni 18-19 settembre a Desenzano sul Garda. La gara è riservata a piccoli idrovolanti dal peso massimo di 500 chilogrammi, con motori da 80 a 100 cavalli.


IN BREVE Medaglia Dirac a Giorgio Parisi
ARGOMENTI: FISICA
NOMI: PARISI GIORGIO
LUOGHI: ITALIA

Il fisico Giorgio Parisi Università di Roma, ha ricevuto al Centro di fisica teorica di Trieste la prestigiosa Medaglia Dirac, già assegnata, negli anni scorsi, a Witten, Zeldovich, Berry e Tullio Regge.


IN BREVE Chirurgia in diretta per tumori gastrici
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Nuove tecniche chirurgiche per asportare i tumori dello stomaco saanno illustrate in diretta a Torino il 24 settembre dal chirurgo giapponese Mitsuru Sasako. Informazioni: 011-434.7900.


IN BREVE Comunicare la scienza «master» a Trieste
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

Sono aperte fino al 30 settembre le iscrizioni al master in comunicazione della scienza istituito presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste. Tel. 040-378.7401.


IN BREVE Agenda Zanichelli con i Premi Nobel
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

E' uscito il diario agenda Zanichelli per il 1999-2000. Oltre a numerose voci enciclopediche, contiene l'elenco aggiornato dei vincitori dei Premi Nobel e numerose tavole scientifiche.


IN BREVE L'automobile tra tecnica e narrativa
ARGOMENTI: TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA

In occasione del centenario Fiat, Paolo Malagodi ha curato per le edizioni de "Il Sole-24 Ore" il volume "Autostorie", che raccoglie pagine di Gadda, Chiara, Tabucchi e molti altri. Prosegue a Torino la mostra "Fiat, 100 anni di industria", via Chiabrera 20, ingresso libero, 011-66.35.119.




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