TUTTOSCIENZE 7 luglio 99


STORICO ANNIVERSARIO Luna, il ««piccolo passo»» Trent'anni dal primo sbarco dell'uomo
AUTORE: RIOLFO GIANCARLO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
PERSONE: ALDRIN EDWIN, ARMSTRONG NEIL, COLLINS MICHAEL
NOMI: ALDRIN EDWIN, ARMSTRONG NEIL, COLLINS MICHAEL
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. LE FASI CRUCIALI DEL VIAGGIO DELL'APOLLO 11
NOTE: TRENTESIMO ANNIVERSARIO DELLO SBARCO SULLA LUNA

NELLA notte tra il 20 e il 21 luglio si compiranno 30 anni esatti dallo sbarco dell'uomo sulla Luna, il più straordinario viaggio d'esplorazione mai tentato. Il volo dell'Apollo 11 inizia il 16 luglio, sulla rampa di lancio 39A del Kennedy Space Center, in Florida. I tre astronauti si sono svegliati alle 4,30. Hanno fanno colazione, superato il check-up medico e indossato le tute. Neil Armstrong, comandante della missione, sta per compiere 39 anni. Pilota collaudatore della Nasa, prima di essere scelto come astronauta nel 1962 ha già sfiorato i confini dello spazio con l'aerorazzo X15. Nel 1966 è andato in orbita con la Gemini 8. Edwin ''Buzz'' Aldrin, pilota del modulo lunare, dottorato al Mit di Boston, è colonnello dell'Aeronautica. Durante la missione Gemini 12 ha stabilito il record di attività extraveicolare, con una passeggiata spaziale di 5 ore. Anche Michael Collins è ufficiale dell'Usaf e ha volato sulla Gemini 10. Come ricordano i giornali italiani, è nato a Roma, figlio dell'addetto militare dell'ambasciata americana. Alle 9,32 locali (da noi sono le 15,32), il gigantesco Saturno 5 si solleva dalla rampa. Dopo 11 minuti, l'Apollo e il terzo stadio del vettore raggiungono l'orbita di parcheggio a 184 chilometri d'altezza. A due ore e 44 minuti dall'inizio della missione, il motore del terzo stadio viene riacceso per 347 secondi, permettendo di vincere l'attrazione della Terra e di iniziare il viaggio verso la Luna, che dista 388 mila chilometri. Poi, con una complessa manovra, l'Apollo si stacca dal terzo stadio del Saturno, fa una capriola, si aggancia al modulo lunare (Lem) e lo estrae dal razzo. Tre giorni più tardi il convoglio spaziale entra in orbita attorno al nostro satellite. Il 20 luglio Armstrong e Aldrin prendono posto sul Lem. Collins rimane solo nel modulo di comando. Alla centesima ora dal lancio, le due astronavi si separano. Da questo momento assumono due diversi nominativi radio: Columbia la capsula Apollo, Eagle il modulo lunare. Armstrong e Aldrin cominciano la discesa verso il luogo scelto per l'atterraggio, nella regione chiamata dagli astronomi Mare della Tranquillità. E' la fase più delicata della missione. Per due volte, sul display del computer di bordo lampeggia un segnale di allarme: la memoria dell'elaboratore (un aggeggio che oggi farebbe sorridere) è ingolfata dall'afflusso dei dati. Ci sono attimi di tensione, poi da Houston dicono di proseguire. Non manca il brivido finale: guidato dal computer, il Lem sta andando dritto contro un cratere. A 150 metri d'altezza, Armstrong prende il controllo manuale e dirige il modulo verso un'area pianeggiante. Finalmente, le quattro zampe del Lem toccano il suolo. Nei serbatoi del motore di discesa è rimasto carburante per appena 30 secondi. L'Aquila è atterrata, comunica Armstrong, mentre l'orologio nella sala di controllo segna 102 ore, 45' e 58' dalla partenza. ««Ricevuto»», risponde da Houston l'astronauta Charles Duke (scenderà sulla Luna con l'Apollo 16). E aggiunge scherzando: ««Qui parecchi ragazzi sono diventati blu a forza di tenere il fiato, adesso siamo tornati a respirare. Grazie»». Nelle ore successive, gli astronauti preparano il Lem per il decollo (in caso d'emergenza potrebbe mancare il tempo). Quindi decidono di rinunciare al previsto periodo di riposo e di procedere con l'attività extraveicolare. Armstrong è il primo a uscire dal portello. Aziona il comando che spalanca il comparto equipaggiamenti e mette in posizione la telecamera in bianco e nero per trasmettere a Terra le immagini dello sbarco. Quindi scende lentamente i nove gradini della scaletta. Dall'ultimo alla superficie c'è un metro. Armstrong si sofferma ai piedi del Lem e consegna alla storia la celebre frase: ««E' un piccolo passo per un uomo, ma un balzo gigantesco per l'umanità»». In Italia sono le 4,56 del 21 luglio. Per prima cosa, l'astronauta raccoglie alcune pietre e campioni del suolo: una precauzione nel caso di una partenza improvvisa. Un quarto d'ora più tardi è Aldrin a scendere la scaletta, mentre Armstrong lo fotografa. La passeggiata lunare dura in tutto 2 ore e 31 minuti. Sistemano gli strumenti scientifici (un sismografo, un riflettore laser che servirà a misurare l'esatta distanza tra la Terra e la Luna, una speciale pellicola per raccogliere le particelle del vento solare), compiono carotaggi del suolo, scattano fotografie e piantano la bandiera americana. Scoprono anche una targa, fissata a una gamba del Lem: ««Qui gli uomini del pianeta Terra per la prima volta hanno posato il piede sulla Luna. Luglio 1969. Siamo venuti in pace, a nome di tutta l'umanità»». Seguono le firme degli astronauti dell'Apollo 11 e del presidente Nixon, che dalla Casa Bianca parlerà al telefono con i due americani sulla Luna. E' tempo di tornare a bordo dell'Aquila. Gli astronauti sistemano i 21 chilogrammi di rocce e di campioni di terreno raccolti. Finalmente si concedono alcune ore di riposo, ma per la scomodità della cabina e per l'eccitazione, non riescono a dormire che pochi minuti. Dopo 21 ore e 36 minuti di permanenza sulla Luna, Armstrong e Aldrin accendono il motore del Lem e decollano per raggiungere Collins in orbita. Inizia il viaggio di ritorno verso la Terra, che si conclude con un tuffo nell'Oceano Pacifico, a 1500 chilometri dalle Hawaii e 24 dalla portaerei Hornet. L'ammaraggio avviene alle prime luci del 24 luglio (in Italia sono le 18,50). Dalla partenza sono trascorsi 8 giorni, 3 ore, 18 minuti e 35 secondi. Giancarlo Riolfo


INTERVISTA CON EUGENE CERNAN ««Fui l'ultimo a camminare lassù»» Ricordi, rimpianti e previsioni dell'astronauta di Apollo 17
AUTORE: LO CAMPO ANTONIO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
PERSONE: CERNAN EUGENE ANDREW
NOMI: SCHMITT JACK, CERNAN EUGENE ANDREW
LUOGHI: ITALIA
NOTE: TRENTESIMO ANNIVERSARIO DELLO SBARCO SULLA LUNA

EUGENE Andrew Cernan, 65 anni, puntualizza: ««Nella cronologia dei dodici uomini che hanno camminato sulla Luna sono l'undicesimo. Jack Schmitt vi dirà che l'ultimo è lui perché è sceso dopo di me, ma io fui l'ultimo a rientrare nel modulo lunare al termine della nostra terza e ultima escursione. Quindi l'ultimo uomo ad aver lasciato la proprie orme sulla Luna sono io. Ma ormai la gente non mi ferma più per strada, non mi riconoscono neppure al ristorante...»». ««Quando lasciammo la Luna per l'ultima volta»» - ricorda Cernan, che fu il comandante dell'ultima spedizione, quella dell'Apollo 17 - ««pensavamo che entro il 2000 sarebbe stato lanciato un progetto concreto per farvi ritorno. Ma sapevamo che difficilmente l'uomo sarebbe ridisceso sulla Luna entro fine millennio: già ai tempi della nostra missione, nel dicembre 1972, la Nasa aveva subito forti tagli al bilancio e il futuro appariva alquanto incerto»». Cernan ebbe l'opportunità di andare sulla Luna come "secondo" di John Young con l'Apollo 16. Ma pur di avere una missione tutta sua rifiutò. ««Chiesi in modo specifico di scendere sulla Luna come comandante. Pensavo di avere ormai la giusta esperienza. Come pilota del modulo lunare avevo già partecipato al volo dell'Apollo 10 nel maggio del 1969. Poi fui la riserva di Alan Shepard, comandante dell'Apollo 14, e per me fu un grande onore: seguendo in tv l'impresa di Shepard del 1961, quando divenne il primo americano nello spazio, mi ero innamorato del volo spaziale. Due anni dopo ebbi la fortuna di diventare astronauta della Nasa»». La discesa nella vallata di Littrows, e le esplorazioni di Cernan e del geologo Jack Schmitt sul ««Lunar Rover»», furono alcuni tra i momenti più spettacolari del programma Apollo. ««Jack sembrava un bambino in un mondo pieno di giocattoli. Era eccitatissimo, non sapeva da che parte guardare tanto era impegnato ad osservare le rocce e il suolo. Ed era giusto così: l'avevano mandato lì apposta. Io invece guardavo molto più spesso la Terra, una visione incomparabile. Riflettevo molto sul perché di quel viaggio così straordinario nel tempo, nello spazio e nella realtà. Vedere la Terra lì sospesa come una boccia azzurra e luminosa, nel buio più buio che si possa immaginare, era stupendo. Non mi saziavo mai di vederla. E poi era divertente sapere che in Italia era notte e a Houston ora di pranzo, solo con un'occhiata. Una fantastica macchina del tempo»». Cernan continua a occuparsi di astronautica. Da quasi vent'anni dirige una società privata a Houston, la ««Cernan Corporation»», che fa consulenza ingegneristica per la Nasa e in particolare per il programma dello shuttle e della stazione spaziale. ««Non so quando torneremo sulla Luna»» - dice ancora mostrandoci il suo libro "The last man on the Moon" - ma ««penso che ci torneremo presto, poiché la Luna è una straordinaria base per ricerche scientifiche e astronomiche. Anche la recente scoperta di ghiaccio va incontro a chi pensa di installare sulla Luna basi scientifiche e un piccolo poligono di partenza per lanciare navicelle verso Marte a costi e peso contenuti, data la gravità ridotta a un sesto»». ««In fondo io stesso mi sento un pioniere dei futuri colonizzatori lunari. Si parla di basi e colonie. Beh, io sono stato sulla Luna per ben tre giorni. Lassù avevo una casa, che era il Lem, avevo un lavoro e persino l'automobile. Tutto questo per dire che già avevamo iniziato. Purtroppo non si è colto in pieno il significato delle ultime, e più evolute, missioni del programma Apollo»». Antonio Lo Campo


Ma la vera scoperta fu quella della Terra Così fragile, così violata
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: TRENTESIMO ANNIVERSARIO DELLO SBARCO SULLA LUNA

IL 21 luglio 1969 l'uomo sbarcava sulla Luna. Il 31 luglio 1999 la sonda ««Lunar Prospector»» vi si schianterà: un suicidio programmato dalla Nasa con l'obiettivo di trovare conferma alla scoperta di ghiaccio intorno ai poli lunari. In queste due missioni spaziali si misura bene il cambiamento avvenuto in trent'anni. Ieri la conclusione di un'impresa titanica compiuta davanti al mondo attonito. Oggi un esperimento che emoziona soltanto pochi specialisti. Ieri il coinvolgente rischio umano, oggi un freddo test scientifico. Ieri un investimento di 24 miliardi di dollari (pari a 70 attuali) giustificato dalla rivalità tra Usa e Urss. Oggi una missione che costa quanto un film con effetti speciali hollywoodiani. Con il distacco storico che consentono i trent'anni passati, che peso ha lo sbarco sulla Luna nella cultura del secolo? Quale bilancio possiamo trarre di quel colossale sforzo umano, tecnologico e finanziario? Delle missioni ««Apollo»» ci rimangono 382 chilogrammi di sassi lunari suddivisi in 2196 campioni e, complessivamente, 300 ore-uomo trascorse su un altro corpo celeste da 12 cittadini americani. Quei sassi, e molte altre informazioni raccolte grazie ai sei sbarchi (l'ultimo nel dicembre 1972), ci hanno dato una conoscenza migliore, benché tuttora insoddisfacente, del nostro satellite e quindi, più in generale, del sistema planetario che ci ospita. Ma, per importanza scientifica, niente di paragonabile alle altre grandi conquiste del secolo, che rimangono la teoria della relatività, la meccanica quantistica, la fisica nucleare e subnucleare e la scoperta del codice genetico dentro la molecola di Dna. Ci sono però alcuni aspetti delle missioni ««Apollo»» che, benché poco percepiti dall'opinione pubblica, hanno un rilievo importante. Proponendo la conquista della Luna come ««nuova frontiera»» degli Stati Uniti nel suo famoso discorso alla nazione del 1961, il presidente Kennedy spostò la ««guerra fredda»» tra blocco occidentale e blocco sovietico su di un piano simbolico. Portare la sfida nello spazio, trasformava la rivalità tra le superpotenze in una competizione quasi di sapore sportivo. E quindi, parlando etologicamente, in uno scontro stilizzato. La conseguenza fu il tramonto della guerra fredda e l'inizio della collaborazione nelle attività spaziali, sancita dalla famosa missione congiunta Apollo-Soyuz del luglio 1975. Un secondo aspetto da considerare riguarda l'effetto-volano delle missioni ««Apollo»» sullo sviluppo tecnologico: e la tecnologia spesso cambia il mondo più della politica (si pensi a Internet). I brevetti di derivazione spaziale sono decine di migliaia. Tra le ricadute dirette o indirette del volo umano verso la Luna dobbiamo registrare gli enormi progressi dei computer (la rivoluzione tecnologica più pervasiva degli ultimi trent'anni), la tv e il telefono satellitari, tutti i sistemi spaziali che oggi fanno parte della nostra vita quotidiana, dai satelliti per le previsioni del tempo ai Gps che ci permettono di localizzare l'auto rubata con la precisione di 10 metri. Il terzo e ultimo aspetto è più filosofico. Viaggiando verso la Luna l'uomo uscì per la prima volta dal campo gravitazionale terrestre e per la prima volta poté abbracciare la Terra in un solo colpo d'occhio, scoprendola in tutta la sua bellezza e tutta la sua (violata) fragilità. La Terra, dopo quei voli verso la Luna, non fu più la stessa. Da allora siamo diventati consapevoli di vivere su una sorta di astronave lanciata nello spazio: un sistema chiuso, con risorse limitate, con equilibri delicatissimi che non devono essere turbati. La coscienza ecologica più seria nasce di lì. In fondo, l'uomo, animale esploratore per eccellenza, andando su un altro mondo, cercava e trovava se stesso. Verso il 2010 si tornerà sulla Luna per stabilirvi piccole colonie temporanee e piazzarvi strumenti scientifici. Forse per spiccare il volo verso Marte. Dell'Apollo si disse che fu una vittoria dell'intelligenza e una sconfitta della ragione. Qualcuno lo ripeterà a proposito di Marte. Per fortuna non siamo fatti di sola razionalità. Piero Bianucci


SCIENZE FISICHE. ««EXPERIMENTA»» A TORINO Nei segreti dell'energia Una mostra per capire giocando
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ENERGIA
LUOGHI: ITALIA, (TO), ITALIA, TORINO
TABELLE: T. IL CAMBIAVALUTE ENERGETICO

SE non ci fossero le centrali elettriche, per mantenere il medesimo tenore di vita, ciascun italiano avrebbe bisogno di un centinaio di schiavi che, giorno e notte, in turni da otto ore, pedalassero per lui su delle cyclette collegate a una dinamo. L'energia ci è indispensabile, ma è difficile capire quanto sia preziosa e quanto sia pervasiva della nostra vita quotidiana. Accendere una lampadina è facile, basta pigiare l'interruttore. Ma cosa c'è dietro questo gesto quotidiano, a cui non facciamo nemmeno caso? Quanta fatica occorre fare per produrre l'energia necessaria a tenere accesa una lampadina, per far funzionare lo stereo, un auto o un'intera città? E poi: come si fa a produrre tutta l'energia di cui abbiamo bisogno inquinando il meno possibile e rispettando i delicati equilibri della natura? Per trovare la risposta a tutte queste domande (e a molte altre) basta visitare la mostra interattiva Experimenta 99, tradizionale appuntamento delle estati torinesi, che quest'anno è dedicata al tema "Energia e ambiente". Prima di proseguire nella descrizione della mostra, è importante segnalare il luogo ove è stata allestita: le gabbie e i padiglioni dell'ex parco zoologico di Torino, chiusi da una quindicina d'anni e fino a pochi mesi fa assolutamente degradati. Ora invece, dopo un'attenta operazione di recupero e parziale restauro a cura dello studio Dedalo, una parte dell'ex zoo è tornata a vivere ed è stata restituita ai cittadini. Experimenta 99 si compone di circa 70 tra exhibit, macchine interattive, oggetti esposti (e si ricorda a tutti che qui "toccare è severamente consigliato"), suddivise in 6 aree tematiche. Il percorso inizia dall'ambiente, per scoprire come il sole sia indispensabile alla vita della natura, come le piante siano indispensabili alla vita dell'uomo e come l'uomo, in campagna e in montagna, è stato capace di sfruttare con intelligenza tutte le risorse energetiche e sua disposizione, per poi passare a un padiglione dedicato alla percezione dell'energia (con le macchine per schiavi-pedalatori di cui sopra). Un'ampia area è dedicata alle fonti alternative, eolico e solare e fotovoltaico, ormai una realtà e non più vaghe promesse, mentre tutta la "seconda parte" della mostra è dedicata al futuro dell'energia, dalle auto elettriche alla levitazione magnetica, dal teleriscaldamento e ai sistemi di cogenerazione ai metodi di risparmio energetico. In chiusura un padiglione ci ricorda i pericoli dell'inquinamento e dell'effetto serra; in mezzo una saletta cinematografica propone un film in 3D sull'ecosistema marino e altri video sui temi dell'energia. Sparsi qua e là una decina di computer per navigare su cd-rom a carattere scientifico. Doveroso (e non di rito) segnalare gli artefici di tutto questo; gli enti pubblici promotori (assessorati alla Cultura, Ambiente e Agricoltura della Regione Piemonte, con la collaborazione del Comune di Torino); il comitato scientifico composto da Piero Bianucci, Giovani Del Tin, Luca Mercalli, Mario Palazzetti, Maurizio Pallante e Tullio Regge; il coordinamento con Santo Grasso, Graziella Mare, Maura Verna; la gestione di Tiellebi. Experimenta 99 resterà aperta fino al 31 ottobre (ex zoo, parco Michelotti, corso Casale 15, Torino), dal martedì al venerdì dalle ore 16 alle 24, il sabato dalle 15 alle 24 e la domenica dalle 10 alle 20 (dopo il 12 settembre la chiusura sarà sempre alle 20). Il biglietto costa 12 mila lire, 5 mila lire il ridotto. Dal 20 settembre è prevista l'apertura mattutina appositamente per le scuole (ore 9-13) e su prenotazione; al termine della visita guidata, ogni classe riceverà in omaggio del materiale didattico preparato dall'Enel, per giocare con l'energia anche in classe, e il volume "Dal fuoco all'atomo", appositamente realizzato per la mostra da Editoriale Scienza. Per ulteriori informazioni, tel. 011.839.92.49 Andrea Vico


SCIENZE FISICHE. MUSICA & DIDATTICA A Crema una scuola per il restauro degli organi Strumenti di grande fascino e complessità, richiedono tecnici molto esperti
Autore: A_L_C

ARGOMENTI: MUSICA
NOMI: MANTOVANI MARIO, RICCI MAURIZIO
LUOGHI: ITALIA, (CR), CREMA, ITALIA

COSTRUIRE un organo, strumento principe dell'animazione liturgica, è un lavoro da certosini, che richiede un corso di formazione che coniughi teoria e pratica in laboratorio. Inoltre sono pochi i centri specializzati: in Italia ce ne sono solo due, uno a Roma, e l'altro a Crema. ««Ma la nostra scuola è più completa - spiega Mario Mantovani, direttore del centro cremasco che organizza corsi per organari - Il nostro corso si prefigge di creare professionisti che sappiano fare un po' di tutto. Non solo l'organaro, che costruisce e restaura lo strumento, ma anche l'organologo, che dello strumento sa tutto, e l'organista, che invece lo suona»». Nonostante le indicazioni del Concilio Vaticano II riguardanti l'««alta considerazione»» dell'organo, negli ultimi decenni questo strumento era stato messo da parte. Di recente si è però assistito a un rinnovato interesse e a richieste di molti restauri. ««Il problema è che spesso vi lavorano organari improvvisati - dice l'organologo Maurizio Ricci - e si rischia di rovinare autentici capolavori»». La complessità dello strumento si riflette sul suo montaggio o restauro. Quando vediamo in una chiesa quella fila di canne la cui altezza varia, chiamata ««registro»», potrebbe non apparire così complicato metterle assieme. Si comincia con i progetti, i disegni con tecnigrafi e computer, e la lunga fase tra i banchi di prova e sala montaggio per l'accordatura e intonazione, i collegamenti tra le canne, la tastiera, e ogni altro particolare che va curato, provato e riprovato molte volte. Il corso, tra teoria e pratica è articolato in varie materie, tra le quali organologia, teoria musicale, laboratorio, disegno applicato, tecnologia del legno, nozioni di elettricità applicata, matematica lingue estere e informatica con programmi quali Excel, Word, Access, ecc. ««Il corso si svolge in due anni formativi, seguiti da un terzo di specializzazione - spiega Mantovani - per un totale di 1160 ore. Chi possiede una solida formazione in campo musicale, può essere esentato dalla teoria musicale, ma dovrà impegnarsi di più in laboratorio, e viceversa. Al termine vengono rilasciati due diversi attestati di qualifica e specializzazione riconosciuti dalla Regione Lombardia»». Chi ha i requisiti necessari per iscriversi? ««Chiunque abbia una provata esperienza nell'arte organara o in settori attinenti, come la lavorazione artistica del legno o di strumenti musicali, e gli organisti e studenti di conservatori o istituti musicali»». Non è casuale che Crema sia la capitale di questo strumento: sui 16.000 organi che si stima esistano in Italia, duemila sono stati prodotti nella città lombarda; da Pavia vengono anche quello della Cattedrale di Città del Messico, il più grande al mondo, e quello del Duomo di Milano. Quanto costa un organo? ««Non è un lavoro puramente tecnico - dice Vittorio Ramina, frate francescano di Rezzato - ma è come realizzare un'opera d'arte, così come il restauro è un'opera d'arte. Tant'è vero che i costi sono simili: solo una fila di canne costa 15 milioni, mentre un intero strumento ne vale almeno 150»». I corsi per ««operatore organaro»», si svolgono a Crema,(Cremona), presso il Centro di formazione professionale della Regione Lombardia, tel. 0373-203.215, 203.195. La ditta più impegnata è la ««Inzoli Cavalier Pacifico di Bonizzi»» di Crema, fondata nel 1867, che esporta strumenti in tutto il mondo. In Italia vi sono circa 70 ditte che operano nel settore ma solo una quindicina sono quelle che offrono garanzie di qualità. \


SCIENZE FISICHE. ARCHEOLOGIA La chiave del mondo egizio Due secoli fa si trovò la Stele di Rosetta A Champollion si deve la scoperta della scrittura a geroglifici
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
PERSONE: CHAMPOLLION JEAN FRANCOIS
NOMI: CHAMPOLLION JEAN FRANCOIS
LUOGHI: ITALIA, AFRICA, EGITTO, ROSETTA
TABELLE: C.

LA napoleonica campagna d'Egitto non fu soltanto una spedizione militare, ma ebbe anche una importante ricaduta culturale. Evidentemente Napoleone era convinto che l'impero che avrebbe voluto costruire non potesse essere basato esclusivamente sulla forza, ma anche su solide basi culturali. E pertanto spedì le sue truppe in Egitto non soltanto per combattere, ma anche per condurre ricerche archeologiche che avrebbero notevolmente allargato le conoscenze sugli antichi egiziani. E proprio durante questa campagna militare, due secoli fa, nell'agosto del 1799, nei pressi del forte di Rosetta alle foci del Nilo fu rinvenuta una grossa pietra di basalto nero, la famosissima ««stele di Rosetta»», che avrebbe consentito finalmente di decifrare l'impenetrabile lingua geroglifica egizia. Sulla stele, infatti, era inciso il testo di un decreto emanato dal Concilio generale dei sacerdoti egiziani per celebrare l'anniversario del regno di Tolomeo V Epifane, che era stato incoronato solamente otto anni dopo la sua investitura, e l'aspetto più importante del rinvenimento fu lo scoprire che il decreto era scritto in tre lingue diverse: greco (54 righe, parte inferiore), demotico (32 righe, parte centrale) e geroglifico (14 righe, parte superiore). La pietra (alta un metro, larga 0,70 e spessa 30 centimetri) fu trovata durante i lavori intorno al forte Jullien dal capitano Pierre-Francois-Xavier Boucard, che provvide immediatamente a inviarla al generale Menou il quale per molto tempo la ritenne suo possedimento personale, fino a quando Napoleone non lo obbligò a consegnarla all'Istituto Nazionale che aveva appena creato al Cairo. Della pietra furono fatte alcune copie col metodo della litografia e queste furono inviate agli studiosi. Nel 1801 il prezioso reperto venne consegnato all'Inghilterra dove approdò materialmente nel 1802 e dopo una temporanea sistemazione in una sala della Società degli antiquari, passò alla ««sezione egiziana»» del British Museum, dove ancora oggi si può ammirare. Della pietra furono eseguiti numerosi calchi in gesso per essere a disposizione degli studiosi e da questo momento iniziò la sua decifrazione. Nel 1814 cominciò a interessarsi dell'argomento anche l'eclettico fisico Thomas Young, il quale basandosi su studi precedenti scoprì che certe parole erano scritte foneticamente e che i nomi dei re erano inseriti all'interno di un ovale. In questo modo identificò il nome ««Tolomeo»» anche se non riuscì a definire i valori dei segni. La decifrazione completa fu portata a termine dal giovane studioso francese Jean-Francois Champollion il quale dedicandosi allo studio delle parole all'interno degli ovali scoprì che il nome ««Tolomeo»» era scritto in maniera quasi identica sia nella ««stele di Rosetta»» sia in un obelisco rinvenuto a File. Da questo confronto furono individuati cinque segni fonetici e applicando il sistema ad altri ««ovali»» si giunse alla identificazione di nuovi segni. La decifrazione, però, non è così semplice come potrebbe sembrare, perché si scopre che la grafia di Tolomeo non è sempre la stessa e che in certi casi all'interno dell'ovale vengono inseriti altri segni che complicano la lettura. Inizia allora il confronto con altre iscrizioni e alla fine Champollion giunge alla importantissima scoperta che le scritture rinvenute sui monumenti egizi anteriori all'epoca greco-romana non sono nè del tutto alfabetiche nè simboliche, ma composte da entrambe le forme di scrittura. Champollion fu un genio precocissimo: a 14 anni conosceva il greco, il latino, l'ebreo, l'arabo, il caldeo e il siriano. Al Louvre di Parigi fondò il ««Museo di Egittologia»». Per lui fu istituita al Collegio di Francia la prima cattedra di ««Antichità egiziane»», ma morì poco dopo, il 4 marzo 1832 a soli quarantadue anni. Alla famosissima stele è stata intitolata una straordinaria missione spaziale che partirà il prossimo 2003 con l'obbiettivo di far scendere, nel 2011, un ««modulo»» sulla cometa Wirtanen. E il nome è azzeccatissimo, perché la missione tenterà di ««decifrare»» i materiali della cometa al fine di arricchire le nostre conoscenze sull'origine del sistema solare. Franco Gàbici Planetario di Ravenna


SCIENZE FISICHE. TECNOLOGIA Microscopio acustico anti-Cernobil
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L' ANALOGIA fisica che appaia le onde ottiche alle acustiche rende a prima vista molto strano il ritardo di quasi un secolo intercorso tra la scoperta dell'effetto fotoacustico, avvenuta nel 1888 ad opera del famoso inventore e fisiologo Graham A. Bell (notissima la contesa che ebbe con lui il nostro Meucci a proposito della priorità dell'invenzione del telefono), e la costruzione del prototipo di microscopio acustico, che ne era fin dall'inizio la prevista applicazione pratica, in effetti realizzata solamente nel 1975. Un ritardo così forte (quasi un secolo!) è però spiegabile con la necessità di definire un complesso sistema tecnologico rivolto a trasformare in immagini le frequenze delle onde acustiche impiegate. In pratica si trattava di riuscire a ottenere immagini di campioni che misurano non più di un micrometro (cioè un millesimo di millimetro) impiegando onde acustiche di altissima frequenza ossia di almeno 1 GHz (gigahertz), pari a un miliardo di cicli (oscillazioni) al secondo. Come si riuscì a dimostrare sperimentalmente a conclusione di lunghe ricerche, questa elevatissima frequenza si può ottenere impiegando targhette di materiale piezoelettrico (quarzo o tormalina, per esempio) dello spessore di un micrometro. Il microscopio acustico, che può ingrandire sino a un migliaio di volte l'immagine del campione, offre numerosi vantaggi rispetto ai microscopi ottici ed elettronici; tra di essi la possibilità di ottenere immagini interne del campione a qualsivoglia profondità, variandone la distanza dall'obiettivo, nonché di poter visualizzare anche materiali trasparenti e di non recare alcun danno al campione attraversato con i suoi supersuoni. Tutti questi vantaggi fanno preferire il ricorso al microscopio acustico piuttosto che a quello elettronico ? o acustico? in numerosi e differenti campi: dalla microelettronica, per i circuiti stampati, alla biologia, per ottenere immagini dei componenti delle cellule animali e vegetali e, in particolare, dei cromosomi. Un altro dei molto importanti ma poco conosciuti impieghi si è reso possibile in questi giorni dandoci lo spunto per trattare l'argomento. Il microscopio acustico è diventato anche un prezioso strumento per evitare drammatici incidenti tipo quello alla centrale nucleare di Cernobil: serve infatti a individuare molto per tempo microfessure in formazione nel nòcciolo fortemente radioattivo delle centrali nucleari. Frutto di un ventennio di intense ricerche teoriche e applicate, il nuovo microscopio acustico è stato costruito in Francia dal Centro Nazionale di Ricerca Scientifica, in cooperazione con l'Università Montpellier 2. Il suo impiego rende possibile prevedere in tutta sicurezza il momento preciso in cui va bloccata l'attività operativa di una centrale nucleare al fine di evitare un pericolo in avvicinamento. La caratteristica primaria del microscopio acustico è rappresentata dalla possibilità di funzionare senza limiti di tempo anche in un ambiente altamente radioattivo. E' dotato di un'ampia possibilità operativa data la larga gamma delle sue frequenze, comprese tra i 15 megahertz (milioni di hertz) e i gigahertz: ne consegue una capacità risolutiva che gli consente di visualizzare oggetti le cui dimensioni vanno da una frazione di millimetro a un micrometro. Mario Furesi


SCIENZE DELLA VITA. IL NEEM INDIANO Una pianta tuttofare Utile dall'agricoltura alla medicina
Autore: ROTA ORNELLA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

IN Oriente lo usano da millenni, in Occidente la ricerca scientifica se ne occupa da qualche decennio, continuamente scoprendo potenzialità: è il neem, albero originario indiano, diffuso in tutti i climi caldi, compresi quelli desertici. Accertato effetto antiplacca e antibatterico nel cavo orale (la prova scientifica è venuta dal dipartimento di biologia dell'università di Washington, St. Louis), constatata efficacia sia nel preservare la carta e le derrate agricole dagli insetti fitofagi sia nel neutralizzarli quando sciamano sugli alberi, tradizionali doti antipiretiche e di disinfezione intestinale, nonché possibili risvolti antimalarici, sono le virtù finora più note di quest'albero della famiglia dei Mogano. Nel subcontinente indiano e nel Myanmar, il neem viene generalmente utilizzato o succhiandone direttamente i rametti, o preparandone decotti, oppure macerandone semi in acqua che, dopo una notte, viene spruzzata sui campi. Il fatto poi che quest'albero cresca, e molto velocemente, anche in terreni aridi, ne fa l'ideale per la lotta antidesertificazione: su queste caratteristiche si incentrano gli studi della FAO. In Europa cominciammo a parlarne negli anni '30, quando, in Palestina, una scienziata ebrea constatò che, nel suo giardino, uno sciame di locuste aveva devastato tutti gli alberi, tranne, appunto, questo: sulle sue fronde, le locuste erano rimaste per due/tre settimane, senza però intaccare nemmeno una foglia, poi erano morte. Negli anni '50, in Germania, Heinrich Schmutterer, dell'istituto di fitopatologia e zoologia applicata dell'università di Giessen, avviò le prime ricerche per individuare i principi attivi, soprattutto nei semi. In altre parti del mondo, altri scienziati vi si dedicarono. Nel 1968 il canadese David Morgan, da una quarantina di anni in Inghilterra, riuscì, all'università di Keele, a isolare la azadiractina, molecola che si è rivelata la più attiva (bastano 5 parti per milione) delle circa 200, tutte dei limonoidi, finora individuate. Intanto, del neem continuavano a essere scoperte nuove proprietà come quelle spermicide, su cui, in India, è attualmente in corso la sperimentazione su esseri umani, finché, nel 1992, comparve negli Stati Uniti il libro 'Neem, a tree for solving global problems' (Neem, un albero per risolvere i problemi globali): autore N.D. Vietmeyer, edizioni National Academy Press, a cura della National Academy of Sciences. Sulle insetti fitofagi, il neem può avere effetto letale (inibitore della crescita) e/o fagorepellente; sulle loro larve, comprese quelle delle zanzare portatrici di malaria, agisce uccidendole, oppure bloccandone o alterandone l'evoluzione. Il biologo olandese Stephen Andrew van der Esch (dal 1984 all'ENEA), precisa che, invece, gli effetti sono praticamente nulli su insetti utili quanto i predatori dei fitofagi (vespe, ragni, coccinelle ecc.) e gli impollinatori (come le api). Nel nostro Paese, dal '94 al '97, l'Enea ha, sul neem, compiuto lo studio Aztec (Azadirachtin TEChonology, finanziato dalla CEE), coordinando _ con il biologo Fabio Vitali _ i lavori dei dipartimenti di chimica delle università di Cambridge, Keele, Giessen, e della Cattolica, e di tre industrie. In rappresentanza di tutti questi ricercatori, Stephen Andrew van der Esch ha illustrato i risultati, in una recente conferenza mondiale su quest'albero, organizzata, a Vancouver, dall'università British Colombia. Aztec ha consentito di produrre tramite un processo biotecnologico, in vitro, dalle cellule vegetali, l'azedractina e tante altre molecole, in quantità simile a quella che si trova nei semi. Sono state inoltre individuate funzioni antifungina, e nuovi metodi di estrazione attraverso fluidi (CO2) ad alta capacità estrattiva e selettiva ('supercriticì), che alla fine del processo evaporano e sono innocui; finora, per tali procedimenti si utilizzavano invece solventi ecologicamente incompatibili. Per le sue caratteristiche, legate alla alta biodegradabilità dell'azadiractina e dei composti correlati - spiega van der Esch - il neem si candida tra i maggiori produttori per lo sviluppo di pesticidi di origine naturale, compatibili con lo sviluppo sostenibile. Pur se su scala ridotta rispetto agli anni del comune impegno europeo, all'Enea continuano gli studi sulla produzione di tali molecole. Rimangono da approfondire le applicazioni in agricoltura e in medicina, e praticamente tutte da scoprire le proprietà dell'olio di neem, con molecole apolari, tradizionalmente usato contro la forfora dei capelli, e per prodotti di cosmesi e saponette. Ornella Rota


SCIENZE DELLA VITA. RIESAMINATO IN CANADA Il cervello di Einstein Aveva in effetti caratteristiche insolite
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA
PERSONE: EINSTEIN ALBERT
NOMI: EINSTEIN ALBERT
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, CANADA

SECONDO un recente studio canadese il cervello di Einstein mostrerebbe il lobo parietale sinistro più ampio del normale e mancante di un solco. Ciò lo fa apparire stranamente simile al destro. Possiamo spiegare la straordinaria intelligenza di Einstein su queste basi? E' il destino dei cervelli appartenenti a persone di intelligenza eccezionale di finire in formalina in un Istituto Anatomico per essere fotografati, pesati, sezionati ed analizzati con cura. Da quello del matematico Gauss a quello degli scrittori Turgheniev (peso di 2012 grammi) e Anatole France (peso di soli 1017 grammi) fino a quello di Lenin (peso normale) ora anche il cervello di Einstein (peso normale) è stato (ri)-esaminato dal Dipartimento di psichiatria e neuroscienze dell'Università Mac Master di Hamilton in Canada. I risultati vengono riportati in un articolo della rivista inglese Lancet. Perché un interesse così in ritardo (Einstein morì per la rottura di un aneurisma aortico nel 1955 a 76 anni di età)? Intorno al giro del secolo esisteva un interesse molto maggiore di adesso per lo studio di possibili relazioni tra intelligenza e caratteristiche anatomiche del cervello. Il rinnovato interesse è dovuto al fatto che la moderna neurobiologia e le scienze cognitive stanno dando un significato molto più preciso alle facoltà intellettuali di quello fornito dall'anatomia descrittiva di un tempo. Utilizzando tecniche come la Pet (tomografia ad emissione di positroni) e la risonanza magnetica funzionale si possono per la prima volta esaminare le varie funzioni del cervello inclusa l'intelligenza (intesa come capacità di risolvere problemi) mentre si osserva contemporaneamente l'attivazione di varie aree cerebrali nell'individuo vivo e non anestetizzato. La conoscenza della relazione tra struttura cerebrale e funzioni psicologiche era assai limitata all'inizio del secolo in quanto poco si conosceva circa la loro localizzazione corticale e la funzione cognitiva in generale. Il cervello di Einstein prelevato sette ore dopo la morte per sua espressa volontà e con il permesso dei familiari non presentava dei segni patologici particolari ad un esame esterno; neppure era più pesante o più voluminoso della norma. Ciò dimostra che non è necessario possedere un grosso cervello per ««esserne»» uno. Ma ad un esame più particolare delle varie regioni non sfuggiva ai ricercatori canadesi una caratteristica assai rara dei lobi parietali e particolarmente di quella parte inferiore che si estende a livello dell'orecchio per due terzi posteriormente a questo. Paragonato ad altri 182 emisferi appartenenti a 91 individui normali di ambo i sessi e della stessa età il lobo parietale, specie quello sinistro, del cervello di Einstein appariva più ampio di circa il 15%. In effetti era di dimensioni e forma eccezionalmente simile a quello di destra. Il lobo parietale inferiore è ben sviluppato nell'uomo e si associa a funzioni quali il riconoscimento visivo e spaziale, al pensiero matematico e di sintesi e a come ci immaginiamo i movimenti del corpo. Lo sviluppo intellettuale eccezionale e il processo mentale caratteristico del pensiero di Einstein (««le parole non mi dicono molto, ma è la loro associazione e l'immagine visiva di esse che conta»») potrebbero giustificare uno sviluppo maggiore di questa regione coinvolta appunto nell'ideazione matematica e nella formulazione del pensiero. A livello microscopico non si rivelavano differenze particolari tolto un possibile aumento di alcune cellule di sostegno (glia) sempre nella corteccia parietale di sinistra. Non veniva però contato con precisione il numero dei neuroni o delle loro connessioni sinaptiche. Aspetti, questi, del grado di sviluppo della rete nervosa, cruciali per la funzione cognitiva. Chiaramente lo studio canadese non risolve il problema della relazione cervello/intelligenza e del substrato anatomico di essa ma pone piuttosto un'ipotesi utile per studi futuri con tecniche più fini come la Pet e la risonanza magnetica funzionale associata a test neuropsicologici. Per questo gli autori dello studio si rivolgono a tutti gli individui di intelligenza normale e superiore affinché facciano dono post-mortem del proprio cervello alla scienza nell'interesse delle ricerche sulla funzione e sulle malattie del sistema nervoso centrale così come esplicitamente dispose Einstein quattro anni prima della morte. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. I MANATI DELLA FLORIDA Grossi, ma di salute delicata Salvati dall'estinzione nel parco delle Everglades
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, FLORIDA, USA
TABELLE: D. LAMANTINO COMUNE O MANATO

SONO diventati un'attrazione turistica i manati della Florida. Li si vede raffigurati un po' dappertutto, sulle magliette e sulle cartoline, sulle targhe delle automobili e sui giornali. Per avere l'emozione di vederli da vicino e perfino di accarezzarli, basta andare nel Parco Nazionale del Cristal River, in Florida, dove ci si può immergere e nuotare insieme con loro. La sottospecie della Florida (Trichechus manatus latirostris) è stata lì lì per estinguersi e sarebbe certamente scomparsa se gli americani non avessero pensato in tempo a proteggerla creando per lei il Parco delle Everglades. Quando il freddo diventa eccessivo, i manati si trasferiscono nel Blue Spring, un fiume ricco di sorgenti calde nei pressi di Orange City, dove la temperatura non scende mai al disotto dei 21°C. Ed è lì che li si può osservare da vicino, mentre dormono tranquillamente sul fondo o quando vengono di tanto in tanto alla superficie per respirare. Sono bestioni dalla sagoma tondeggiante, lunghi da due metri e mezzo a quattro metri. Possono pesare la bellezza di settecento chilogrammi. Nel capo si aprono lateralmente due occhietti minuscoli ricoperti da spesse palpebre. Il labbro superiore, diviso da un solco mediano in due grossi lobi che sembrano natiche, è talmente rigonfio che occupa quasi tutto il muso. La testa è saldata senza soluzione di continuità al corpo massiccio. Non c'è ombra di collo. Chi li vede per la prima volta si domanda perché mai questi esseri così poco estetici appartengano a una famiglia dal fascinoso nome di "Sirenidi". Una famiglia che oltre alle tre specie di manati conosciuti, il manato dell'Amazzonia (Trichechus inunguis), il manato comune (T. manatus) e il manato africano (T. senegalensis) comprende anche i dugonghi, i loro cugini marini dell'Indopacifico. Fino a prova contraria, le mitologiche sirene che ammaliavano i naviganti erano sì donne solo per metà, ma quella metà, in topless, era degna dello scalpello di Fidia. Eppure la parola "manato" è derivata dal termine indiano "manattoui" che significa "petto di donna". Francamente, però, ci vuole una buona dose di fantasia a scambiare per sirena un manato femmina intenta ad allattare il suo piccolo, sol perché ha anche lei mammelle pettorali e sorregge il neonato con la pinna ripiegata, come farebbe il braccio di una donna! Ma si dice che fu proprio Cristoforo Colombo a prendere questa grottesca cantonata. I manati sono gli unici mammiferi acquatici erbivori, grandi mangiatori della vegetazione che cresce spontanea sul fondo dei fiumi e degli estuari. Hanno una dentatura a rotazione. Appena un dente si logora, ce n'è subito pronto uno di ricambio. In pratica la serie dentale di ciascuna mezza mascella che comprende da 5 a 8 molari (gli incisivi cadono in età giovanile), si sposta in avanti come se scorresse su un "tapis roulant" al rallentatore. Questi animali che scivolano nell'acqua come dirigibili sono talmente voraci che in molti paesi tropicali vengono importati apposta per distruggere la vegetazione troppo rigogliosa che ostacola la navigazione fluviale. Ma, per quanto passino la metà della vita a mangiare, i manati hanno tempo di giocare, di far l'amore e di allevare con tenerezza figli. A vederli così robusti e corpulenti, ci si immagina che abbiano una resistenza a tutta prova. E invece sono delicatissimi di salute. Basta un abbassamento della temperatura dell'acqua perché si buschino una polmonite e muoiano. Di carattere sono dei gran bonaccioni. Molto cordiale il rapporto tra i membri del branco, a giudicare dal modo con cui si annusano e vocalizzano, come se conversassero animatamente. Nel periodo degli amori, i maschi si schierano l'uno contro l'altro per battersi in duello, ma il combattimento è solo un mezzo ritualizzato per misurare le rispettive forze. Non appena uno dei due dimostra la propria superiorità fisica, l'altro si ritira in buon ordine e rinuncia alla femmina contesa. L'accoppiamento può avvenire alla superficie o sott'acqua. La femmina in calore non fa la schizzinosa e si concede a vari maschi. Quando nasce un piccolo - evento che si verifica ogni due o tre anni- la madre non si separa da lui per un solo istante. Se lo trasporta sulla nuca o se lo tiene attaccato al petto, coccolandolo con infinita dolcezza. Se un altro manato o magari un subacqueo compare nelle vicinanze, la madre con rapida mossa s'interpone tra il figlio e l'intruso. E se questi si avvicina troppo, se ne fugge insieme al suo piccolo. Durante la fuga, madre e figlio parlottano vivacemente. La madre emette continui vocalizzi e il figlioletto risponde. Sono creature pacifiche e inoffensive i bizzarri manati. E' l'uomo casomai che si è dimostrato pericoloso nei loro confronti da quando si è accorto che hanno quintali di carne commestibile, una pelle eccellente per farne calzature e altri manufatti. E per giunta trasuda dai loro occhi una secrezione usata dagli indigeni come talismano d'amore. Ce n'è quanto basta per rendere la vita difficile ai sirenidi superstiti. Ma oggi altre insidie mortali li minacciano. Dighe, motoscafi, reti da pesca sono tutti aggeggi che mettono in forse la loro sopravvivenza, anche se nelle aree protette della Florida grossi cartelli ammoniscano i motoscafi a rallentare la velocità e ci siano multe salate per i trasgressori. Particolarmente insidiose sono le chiuse che controllano il livello delle acque nel labirinto di canali della Florida. I manati sono particolarmente attratti dallo scroscio dell'acqua quando una chiusa si apre. Sanno che dietro quel cancello c'è un ricco pasto di erbe galleggianti. Ma quando si richiude, quella chiusa diventa una spietata ghigliottina che si abbatte sugli inermi bestioni e li uccide. Rischiano di fare la fine di un loro non lontano antenato, che gli uomini sono riuscoiti a far fuori in tempo record nel giro di 23 anni. E' la Rhitina stelleri. Un gigantesco mammifero lungo otto metri e pesante quattro tonnallate che viveva nelle isole Commodoro, nel mare di Bering. Scoperta nel l741, fu trasformata subito in olio e bistecche e si estinse ne l764. Di lei ci rimangono solo uno scheletro esposto nel Museo zoologico di Leningrado e un cranio conservato nel Museo di Storia Naturale di New York. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE A SCUOLA. MEDICINA DELLO SPORT Il sangue di Pantani Perché è importante il livello di ematocrito
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

CHE cos'è l'ematocrito di cui tanto si parla dopo il caso Pantani? E in che modo può influire sulle prestazioni di un atleta? Il sangue è composto da una parte liquida, il plasma, e da una parte di corpuscoli, in massima parte globuli rossi. Se facciamo centrifugare in un tubo graduato del sangue reso incoaugulabile otteniamo la separazione delle due parti e abbiamo anche determinato l'ematocrito (dal greco, separare), che è il valore in percentuale della parte in corpuscoli. Valore che in condizioni normali è compreso tra il 36 e il 45 per cento nelle donne e tra il 43 e il 49 per cento negli uomini. Poiché il costituente principale dei globuli rossi è l'emoglobina, cha ha la funzione di captare con la respirazione l'ossigeno atmosferico per trasportarlo ai tessuti, quanto maggiore è la massa circolante dei globuli rossi, cioè quanto maggiore è l'ematocrito, tanto maggiore sarà la capacità del sangue di rifornire di ossigeno i tessuti. E questo particolare è di estrema importanza per alcune attività sportive. Le unità funzionali dei muscoli sono le fibre muscolari, cellule cilindriche nel cui interno si trovano le miofibrille. Queste sono formate da proteine contrattili (miosina, actina, tropomiosina, troponina) che, modificandosi in risposta ad uno stimolo nervoso, producono una contrazione. L'energia necessaria per queste modificazioni deriva dalla scissione di una molecola ad elevato potenziale chimico, l'adenosintrifosfato o Atp. Il muscolo, in quanto ««trasduttore»» di energia, è in grado di trasformare l'energia chimica liberata dalla scissone dell'Atp in energia meccanica. L'energia prodotta dall'Atp già presente nei mitocondri delle fibre muscolari si esaurisce in pochi secondi e non vi sarebbe la possibilità di compiere alcun movimento se questa molecola non venisse continuamente sintetizzata. Ma il processo di continua rigenerazione dell'Atp necessita, a sua volta, di molta altra energia. Questa energia è fornita dalla combustione di substrati energetici (glucidi, lipidi e, solo in casi particolari, protidi), combustione che avviene nei mitocondri (la ««centrale elettrica»» delle cellule) solo in presenza di ossigeno. Il processo scientificamente si chiama ««fosforilazione ossidativa mitocondriale»». Ecco dove sta l'essenzialità dell'ossigeno, la cui disponibilità è un importante fattore condizionante le prestazioni delle attività sportive che utilizzano di preferenza questa via metabolica per la produzione di Atp, e perciò dette ««aerobiche»». Sono le attività di resistenza (soprattutto la maratona, lo sci di fondo e il ciclismo su strada, ma anche le corse su distanze superiori agli 800 metri, il nuoto in gare superiori ai 200 metri) che si avvalgono essenzialmente del sistema energetico aerobico. Attività assolutamente dipendenti da un apporto ininterrotto, attraverso la circolazione sanguigna, di ossigeno e substrati energetici, senza i quali non può essere generato Atp alla stessa velocità con cui viene consumato. Si comprende ora perché ai cultori di sport non sia per nulla indifferente avere un ematocrito alto o basso. Il controllo fisiologico di questo parametro si deve alla eritropoietina, un ormone prodotto dal rene, che stimola il midollo osseo alla produzione di globuli rossi in funzione del livello di ossigeno circolante. Lo stesso effetto produce ovviamente l'eritropoietina iniettata dall'esterno, più nota come ««epo»». Essendo una sostanza fisiologica, è invisibile ai controlli antidoping. Un ematocrito alto, quindi, non prova l'uso dell'««epo»». Ma lo fa sospettare. A parte l'illecito sportivo, è bene che siano fermati per un certo periodo gli atleti che risultano avere un ematocrito superiore alla norma, potendosi determinare durante fatiche intense e prolungate, per l'inevitabile perdita di liquidi attraverso il sudore, un'ulteriore concentrazione del sangue, con seri rischi di trombosi. Antonio Tripodina


SCIENZE A SCUOLA. ALIMENTAZIONE Il gusto della montagna I cibi alpini hanno qualità particolari
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

IL Parlamento Europeo oggi non riconosce ai prodotti della montagna un marchio di qualità. Nel recente volume Alimenti montani edito dalla Società Italiana di Scienza dell'Alimentazione, il presidente Franco Defrancesco (Università di Trento) sottolinea che un riconoscimento del genere sarebbe invece doveroso, perché l'agricoltura di montagna fornisce molti alimenti da valorizzare. Basta pensare che su 403 formaggi censiti in Italia, ben 298 sono un esclusivo prodotto dei territori montani. Il latte prodotto negli alpeggi è più ricco di terpeni (nerolo, pinene, limonene), di acidi grassi poliinsaturi, di alcani (decano, undecano) rispetto al latte di pianura e quindi adatto a darci formaggi e carni gustose che si diversificano in ogni vallata. Oltre a queste sostanze che conferiscono aromi universalmente apprezzati (aldeidi, chetoni, composti furanici), bisogna ricordare anche la miglior qualità biologica del latte di montagna, soprattutto per quanto riguarda il contenuto vitaminico (vitamine liposolubili A - E). L'influenza dell'ambiente (microclima) sulla produzione agricola oggi è molto studiata per quanto riguarda la vite, tenuto conto dell'importanza che ha questa coltivazione nell'economia del Paese (dopo la Francia siamo i maggiori produttori di vino). Ma ci sono altri settori che meritano investimenti. Basta pensare alle mele che in montagna crescono con maggior difficoltà (pezzature minori), però alcune qualità si presentano con intensità di colore più marcata (Red delicious), più gradevoli, oltre ad avere altri parametri positivi per la vendita (maggior rugginosità dell'epidermide nelle renette). Il colore della frutta non ha solo valore estetico: segnala anche la presenza di carotenoidi e composti polifenolici (flavoni, flavononi, auroni) dotati di attività antiossidante, in grado di combattere i pericolosi radicali liberi oggi ritenuti responsabili di numerosi processi degenerativi (invecchiamento) e di patologie particolarmente gravi (neoplasie). Sotto questo profilo vanno valorizzati i frutti del sottobosco (mirtilli, more di rovo, ribes nero) che, quando provengono dalle aree montane, hanno dimostrato di possedere un contenuto elevato di antociani, catechine, pigmenti calconici, tannini idrolizzabili, tutte sostanze dotate di attività protettiva per la salute dell'uomo. Anche alcune specie di funghi sinora apprezzate solamente dai buongustai (Boletus edulis, Cantarellus cibarius, Psalliotas campestris) hanno dimostrato di possedere un'interessante azione antiossisante nei confronti dell'irrancidimento di grassi alimentari indotto dal trattamento termico. Nei prossimi anni srà bene potenziare i corsi di formazione per gli addetti ai lavori, allo scopo di ottenere garanzie sulle materie prime, sull'igiene, sui sistemi di controllo e sugli standard di qualità imposti dall'Unione Europea. I princìpi nutritivi oggi conosciuti sono circa 40: vitamine, minerali, proteine, acidi grassi, glicidi. In futuro, fra gli aromi e i colori che la natura regala, la ricerca individuerà certamente altre sostanze: basta pensare che sono già stati individuati più di 1000 flavonoidi che bisognerà valutare. Renzo Pellati


SCIENZE A SCUOLA. STORIA DELL'OCULISTICA Una vista da cavallo... I primi trapianti di cornea equina
Autore: BODINI ERNESTO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
PERSONE: GIANI PIERO
NOMI: GIANI PIERO
LUOGHI: ITALIA

QUARANT' ANNI fa, a Torino, ogni mattina un uomo attraversava la città al volante di una Fiat 1500 color latte. Portava con sè una valigetta a soffietto dal contenuto insolito: occhi di cavallo appena estratti dalle orbite. Quel signore non era un sadico, ma il dottor Tommaso Pansini, un oculista assistente all'ospedale Maria Vittoria. Ogni giorno doveva procurare bulbi oculari al suo primario, Piero Giani, il primo chirurgo italiano che abbia tentato innesti parziali di cornee fresche dagli animali all'uomo. Pansini si recava al mattatoio pubblico per prelevare le cornee dei cavalli destinati al macello: da 30 a 40 ogni settimana. Il prelievo lo eseguiva Mario Biletta, l'addetto al macello che, con una grossolana enucleazione, asportava i bulbi oculari e li consegnava a Pansini per la conservazione alla temperatura di 4°C e l'utilizzo entro le 24 ore successive. A questo punto interveniva Piero Giani, allora cinquantasettenne. Dopo oltre 150 studi sulla cornea (nonostante il problema fosse stato dimenticato da più di mezzo secolo) aveva ripreso in esame la possibilità di praticare etero-innesti, rimettendo in discussione un vecchio dogma, ossia l'impossibilità di usare cornee animali per trapianti corneali sull'uomo, e confidando nei risultati ottenuti da Paul Payrau (un insigne clinico all'ospedale Val de Grace di Parigi) in seguito ad etero-innesti, ma servendosi di cornee trattate con la silico-disseccazione. Nel discutere questo metodo con il Payrau nel 1951 a Parigi, Giani espresse al collega i suoi dubbi che il semplice disseccamento potesse eliminare completamente il potere antigenico delle cornee e, per questo, si sentiva tentato di usare la cornea animale fresca. I primi due interventi furono eseguiti il 15 aprile del 1961, seguiti da altri sei prima di giugno: sette pazienti ricevettero la cornea fresca di cane; innesti perfettamente riusciti tanto da essere presentati dal Payrau a Parigi e pubblicati in una comunicazione sulle ««Annales d'Oculistique»». Nessuno, prima di Giani, lo aveva mai fatto perché nessuno era abbastanza ottimista per tentare la prova, in quanto tutti convinti che soltanto il disseccamento potesse eliminare il potere antigenico delle cornee animali. Ma in che cosa consisteva l'intervento del Giani? Dopo aver stabilito che il soggetto era cieco per scomparsa della trasparenza corneale (la causa della cecità era la cheratite erpetica, una malattia che colpisce l'uomo e alcuni animali a causa del virus ««Herpes simplex»») procedeva all'asportazione parziale della cornea opaca e alla sostituzione con una cornea trasparente di vitello, cane o cavallo, effettuando così l'innesto: unico rimedio, perché allora non esistevano ancora appropriati farmaci antivirali. Con questa tecnica, Giani (aiutato da Amerigo Liborio e Tommaso Pansini) ha ridato la vista a decine di persone affette da esiti cicatriziali causati da leucoma corneale. Il problema del rigetto - spiega Pansini - era ben ««controllato»» grazie a un procedimento di disidratazione iniziale del tessuto da innestare, successivamente reidratato con soluzione fisiologica, che ne riduceva il potere allergenico; ma anche perché alcuni animali, come il cavallo e il cane, sono immuni dalla forma virale erpetica che colpisce l'essere umano. Confortato da questi risultati, Giani divenne sempre più convinto che la cheratoplastica poteva tentare altre strade. In sostanza sosteneva che il tessuto corneale animale, soprattutto del cavallo, può essere trapiantato in sede non solo extracorneale ma addirittura extraoculare per plastiche mucose e cutanee. Un primo trapianto in una mucosa buccale fu fatto nel settembre 1962, con ottimi risultati. Piero Giani era nato a Torino nel 1904. Laureatosi in medicina, si dedicò a studi di batteriologia e immunologia all'ospedale Maria Vittoria (qui fu primario di oculistica per 25 anni), in particolare sulla immunizzazione dell'occhio con antivirus e sulla microbiologia del tracoma. Affascinato dai problemi della cheratoplastica, iniziò una serie di studi sui trapianti corneali. Dopo la sua morte (8 marzo 1963, a 59 anni) l'indicazione di innesto di cornee animali per il trattamento della cheratite erpetica non ebbe seguito, soprattutto perché alcuni anni dopo furono realizzati nuovi farmaci antivirali in grado di curare questa malattia. Ernesto Bodini


SCIENZE A SCUOLA. DEFIBRILLATORE Che fare se il cuore si ferma
LUOGHI: ITALIA

UN nuovo defibrillatore esterno, automatico e di facile impiego anche da parte di personale non specializzato, è stato messo a punto dal Gruppo Medicale Hewlett-Packard. L'apparecchio, denominato HP Heartstream ForeRunner, è stato presentato nei giorni scorsi all'undicesimo World Symposium on Cardiac Pacing and Electrophysiology. Il defibrillatore automatico esterno è una apparecchiatura portatile che serve a somministrare una scarica salvavita alle vittime di arresto cardiaco improvviso. Questa patologia, in assenza di un intervento immediato con defibrillatore, è mortale. Le vittime di arresti cardiaci sono ogni anno circa trecentomila nella sola Europa occidentale. Fondamentale è la rapidità di intervento. L'American Heart Association stima che l'accesso pubblico alla defibrillazione potrebbe salvare almeno un terzo di queste vite. Oggi la diffusione dei defibrillatori automatici esterni si allarga sempre più tra le persone tradizionalmente dedicate al trattamento delle emergenze (medici, infermieri, vigili del fuoco, forze di polizia). Il lunedì e il venerdì pomeriggio, inizio e fine della settimana lavorativa, sono i due giorni in cui l'arresto cardiaco si manifesta più frequentemente. Oltre all'ambiente di ufficio, il rischio di arresto cardiaco improvviso si presenta in ambienti di lavoro come edilizia, trasporti, comunicazioni, aziende manifatturiere, dove è più frequente l'esposizione a correnti di alta e bassa tensione, con conseguenti folgorazioni. Questi settori registrano i due terzi del totale delle folgorazioni sul posto di lavoro. L'età media dlle vittime è di 34 anni. Oltre il 90 per cento degli arresti cardiaci avviene al di fuori dell'ambito ospedaliero. Per questo è importante la disponibilità immediata di defibrillatori in luoghi pubblici e di lavoro. Con una defibrillazione tempestiva le probabilità di sopravvivenza aumentano dal 5 a oltre il 45 per cento.


SCIENZE A SCUOLA. LE DEPRESSIONI Mal di vivere Cause e cure del disagio
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LEGGO che Michelangelo Antonioni sta per iniziare le riprese d'un film su una donna ammalata di depressione. Il cinema è sempre aperto ai grandi problemi (un'altra famosa donna depressa è Marnie in un film di Hitchcock), e la depressione è stata in ogni tempo fonte di sofferenza per l'umanità, forse più di qualunque altra patologia. Reazione naturale quando è suscitata da circostanze dolorose, la depressione diventa malattia quando non scompare col tempo e trasforma la personalità (abbassamento del tono psichico, turbamento dell'umore orientato nel senso della tristezza, astenia). Oggi la depressione, con i suoi numerosi aspetti clinici, è uno dei maggiori problemi sanitari, vi è un aumento progressivo dei casi specialmente fra i 18 ed i 45 anni, le donne sono colpite in proporzione doppia rispetto agli uomini. Molti sono ancora i punti oscuri o per lo meno incerti, tuttavia non mancano gli orientamenti positivi. La terapia anzitutto: cinquant'anni fa non esisteva un medicamento psicotropo degno di questo nome, oggi se ne conoscono più di cento efficaci, con azione farmacologica diversa, ben tollerabili, tali da far sì che la maggioranza dei casi sia più o meno rapidamente curabile. Accanto a questa terapia biologica ecco la psicoterapia, con molteplici tecniche - oltre 400 ufficializzate - essenzialmente sintetizzabili in tre grandi correnti, le psicoanalitiche o di ispirazione psicoanalitica, le cognitive-comportamentali e quelle dette ««di sostegno»». Associata alla terapia biologica, base indispensabile del trattamento, la psicoterapia migliora i risultati, modifica profondamente certi tratti della personalità e certi modi di pensare favorenti la depressione nei suoi aspetti psicogeni. Buone conoscenze si hanno anche dei meccanismi patogenetici della depressione, nonostante che i legami fra gli aspetti biochimici e gli aspetti clinici siano difficili da stabilire data la straordinaria complessità delle funzioni cerebrali. Sono coinvolti diversi sistemi biochimici cerebrali, vengono considerati con particolare interesse la noradrenalina e la serotonina (neuromediatori di diverse funzioni biologiche), la dopamina, il cortisolo, gli ormoni tiroidei. Tuttavia il substrato neurobiologico dela depressione non è ancora ben conosciuto stante la multiformità dei meccanismi in giuoco. Il problema fondamentale è comunque la patogenesi: perché si diventa depressi? Che il rischio possa essere accentuato da fattori esterni ambientali è indiscutibile: appaiono più predisposti i vedovi o i divorziati o i separati, le persone con difficoltà socio-economiche, nonché le persone coinvolte da avvenimenti stressanti, felici o infelici che siano (lo stress è uno stato di tensione, di insicurezza). Circa la metà degli anoressici e dei bulimici hanno una concomitante depressione, e così pure gli alcolisti. Anche una malattia organica può favorire la depressione per il suo impatto psicologico e biologico, ma in una percentuale limitata di casi. A parte queste componenti esogene, è fondamentale il fatto endogeno, personale: esiste un coefficiente genetico, risultano spesso antecedenti depressivi familiari. Ma rimane difficile esplorare le disfunzioni del sistema nervoso, tanto più che non è possibile valersi di modelli animali trasferibili all'uomo. Ulrico di Aichelburg


IN BREVE Tutto sul mare sabato con "Specchio"
ARGOMENTI: ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: SPECCHIO DELLA STAMPA
LUOGHI: ITALIA

Con ««La Stampa»» e il consueto settimanale ««Specchio»», sabato i lettori troveranno in edicola un numero speciale aggiuntivo di ««Specchio»» interamente dedicato all'Acquario di Genova e al mare. In 136 pagine e in otto grandi servizi viene illustrato ogni aspetto dell'acquario genovese, il più moderno d'Europa. Il prezzo di vendita complessivo (Specchio, La Stampa e supplemento) è di 3500 lire.


IN BREVE Spedizione Tunguska partenza il 14 luglio
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

Tutto è pronto per la spedizione scientifica ««Tunguska99»» che si propone di chiarire il misterioso fenomeno celeste che nel 1908 distrusse un'ampia regione della foresta siberiana. La partenza è prevista per il 14 luglio dall'aeroporto di Forlì. Nei giorni scorsi si è svolto il test del catamarano gonfiabile che servirà per esplorare un piccolo lago sul cui fondale si spera di trovare qualche traccia del meteoroide all'origine del fenomeno.


IN BREVE Premiato ai Lincei il fisico Sergio Fubini
ARGOMENTI: FISICA
PERSONE: FUBINI SERGIO
NOMI: FUBINI SERGIO
LUOGHI: ITALIA

Il fisico Sergio Fubini ha ricevuto la medaglia d'oro di ««Benemerito della scuola e della cultura»». La consegna da parte del ministro della Ricerca scientifica Zecchino è avvenuta a Roma, presso l'Accademia dei Lincei.


IN BREVE "Forza motrice" in mostra nel Biellese
ARGOMENTI: TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

La mostra ««Forza motrice»», dedicata a Galileo Ferraris, prosegue presso ««La fabbrica della ruota»» a Pray Biellese. Un bel catalogo ne illustra i contenuti, con saggi di Sigfrido Leschiutta, Giovanni Vachino e Maurizio Schmidt.


IN BREVE Borsa di studio "Franco Romano"
ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: PREVOST CHIARA
LUOGHI: ITALIA

Una borsa di studio in ricordo del generale dei carabinieri Franco Romano, morto in un incidente aereo nel dicembre '98, è stata consegnata a Chiara Prevost, neolaureata in medicina. La cerimonia si è è svolta all'Università di Novara su iniziativa del direttore della clinica neurologica, Francesco Monaco.




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