TUTTOSCIENZE 19 maggio 99


METEOROLOGIA Uragani da libro dei primati Da gennaio fino a pochi giorni fa, una serie di trombe d'aria e di cicloni con raffiche di vento a 500 chilometri all'ora ha sconvolto numerose regioni del continente americano: potrebbe essere indizio di una mutazione generale del clima
Autore: TIBALDI ALESSANDRO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
NOMI: SHAEFER JOE
LUOGHI: ITALIA, AMERICA, USA
TABELLE: C. ZONE DI FORMAZIONE E TRAIETTORIE DI URAGANI E TIFONI

CHI ha visto il film ««Twister»» non potrà dimenticare le sequenze drammatiche in cui numerose trombe d'aria si avvicendano in serie, formandosi improvvisamente in punti diversi. Trombe d'aria terribili che possono provocare in pochi secondi centinaia di morti e danni economici ingentissimi. Dal film di genere catastrofico alle catastrofi reali: nel gennaio di quest'anno si sono verificati negli Stati Uniti più tornado (o trombe d'aria) di quanti se ne siano verificati in passato nello stesso mese. Ben 163 tornado - senza contare gli ultimi, catastrofici, di pochi giorni fa - hanno colpito gli Usa: di questi, 87 si sono verificati nel solo terribile giorno del 21 gennaio. A questi andrebbero aggiunti i tornado che hanno colpito il Centro America, di cui però non si hanno stime attendibili. Il direttore del Centro nazionale per la previsione delle tempeste Joe Shaefer ha dichiarato: ««L'America centrale e quella settentrionale sono le regioni che vengono maggiormente colpite da uragani e tornado, ma non si era mai verificato un numero di trombe d'aria così elevato. A simili valori ci si è avvicinati solo negli ultimi anni e solo nel mese di marzo, il periodo tipico dei tornado»». Secondo molti esperti, questo incremento delle trombe d'aria, e più in generale delle manifestazioni climatiche estreme, è da collegare alla variazione globale del clima in atto. Nel caso di gennaio, l'inusuale concentrazione di tornado è stata spiegata con l'instaurarsi di un forte flusso di venti meridionali provenienti dal Golfo del Messico, i quali hanno trasportato ingenti masse d'aria umida ai bassi livelli dell'atmosfera, in combinazione con una forte onda di pressione negli strati d'aria più elevati. Questo ha comportato la formazione di venti fortissimi attorno ai diecimila metri di quota. In generale è proprio la combinazione di fattori quali la presenza contemporanea di masse d'aria calda e fredda, di forti venti in quota, e di elevata umidità, che concorre nel generare le trombe d'aria, che possono anche essere caratterizzate da venti con velocità al suolo fino a 500 km all'ora. I dati dimostrano quindi che si stanno verificando due cambiamenti: aumenta il numero totale dei tornado per anno, e in più il mese con la loro massima concentrazione si è spostato dalla stagione primaverile a quella invernale. Molti scienziati mettono in relazione questi cambiamenti nella frequenza dei tornado con un generale spostamento, a livello di tutto il pianeta, delle grandi circolazioni dei venti dominanti e delle principali zone cicloniche e anticicloniche. Queste migrazioni provocano nuovi scenari climatici locali le cui conseguenze sono difficili da prevedere, ma tra queste le trombe d'aria e, per esempio, l'uragano Mitch che ha colpito il Centro America potrebbero esserne le avvisaglie. Per prevenire, o più correttamente per mitigare, i danni di queste calamità, il Servizio nazionale Usa di meteorologia ha approntato un nuovo sistema di allarme tornado. Fino a pochi anni fa l'allarme scattava quando la tromba d'aria toccava terra, iniziando così a fare danni; dal 1998 grazie a satelliti artificiali, potenti computer e una rete di sofisticati strumenti a terra, l'allarme viene lanciato, tramite sirene installate nei paesi, con un anticipo medio di undici minuti, sufficienti a raggiungere il più vicino rifugio. In Italia ogni anno si verificano decine di trombe d'aria, ma per fortuna tutte di intensità bassa o molto bassa. Alessandro Tibaldi Università di Milano


CAMBIAMENTI DEL CLIMA Onde e tempeste del 2000 Secondo alcuni studi, oltre all'aumento del livello delle acque, nei prossimi decenni dovremo affrontare anche fenomeni atmosferici più violenti, specie nelle zone tropicali
Autore: P_LIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA

SE in un clima futuro le tempeste sul mare aumentassero di intensità e frequenza, aumenterebbero i rischi di catastrofiche inondazioni, di danni provocati dalle onde marine e l'erosione dei litorali. Infatti, ad uragani e cicloni di maggiore forza corrispondono onde più alte, che colpiscono le coste, e maggiori innalzamenti del livello del mare durante gli eventi meteorologici più estremi. Gli effetti di uragani e cicloni di accresciuta intensità verrebbero inoltre amplificati dall'eventuale aumento del livello del mare. Per combattere questi pericoli sarebbe necessario potenziare le difese costiere, alterare strutture portuali, organizzare protezioni in zone attualmente non soggette a rischio. Perché si teme che in un clima più caldo uragani e cicloni aumentino il loro potere distruttivo? La spiegazione si diversifica per uragani tropicali (denominati tifoni nel Pacifico occidentale) e cicloni alle medie latitudini, parte del globo dove è situata l'Italia. La previsione di un aumento dell'intesità degli uragani si spiega con un'analogia termodinamica: gli uragani tropicali si possono paragonare a macchine termiche che convertono in lavoro (venti) il calore, assorbendolo da un serbatoio a temperatura superiore (la superficie del mare) e trasferendolo ad un serbatoio a temperatura inferiore (la sommità della troposfera). L'efficienza di una macchina termica è proporzionale alla differenza di temperatura fra i serbatoi. Il riscaldamento della superficie marina dovrebbe implicare una maggiore differenza di temperatura fra i due serbatoi di calore e, quindi, una maggiore produzione di energia meccanica, ovvero, in altri termini, un aumento dela forza distruttrice degli uragani. Questo ragionamento non può essere esteso ai cicloni alle medie latitudini, fuori delle regioni tropicali, che non si comportano come gli uragani, ma la cui formazione è associata all'aumento di temperatura dei poli verso l'equatore. Infatti, poiché la temperatura media cresce verso Sud, l'intera colonna d'aria che costituisce la troposfera si espande progressivamente, il suo baricentro si alza ed essa acquisice energia potenziale. I cicloni sono la modalità violenta secondo cui, alle medie latitudini, l'energia potenziale liberata dal mescolamento di masse d'aria calda e fredda si trasforma in energia cinetica (venti). Quindi, i cicloni alle medie latitudini si intensificheranno non se aumenta la temperatura media dell'atmosfera terrestre, ma se aumenta il tasso con cui la temperatura diminuisce verso i poli, il cui riscaldamento, conseguente ad un clima più caldo, dovrebbe quindi, attenuarli. Queste argomentazioni non sono state fino ad ora confermate, nè per gli uragani, nè per i cicloni alle medie latitudini. Prove di un'intensificazione di uragani e cicloni sono state cercate sia nelle simulazioni numeriche del clima più caldo prodotto da un raddoppio di CO2, che in lunghe serie di dati meteorologici, con risultati incerti, ma sostanzialmente negativi. Le evidenze sono contraddittorie e rivelano in ogni caso tendenze deboli e molto differenziate su base regionale. Il dato più chiaro è una lieve tendenza alla diminuzione degli uragani nell'Atlantico negli ultimi 50 anni. Riassumendo: dai dati attualmente disponibili non risulta, su scala globale, una tendenza significativa e convincente all'aumento od alla diminuzione degli eventi meteorologici che suggerisca l'intensificazione delle onde marine e degli allagamenti costieri, nè negli ultimi nè nei prossimi decenni. \


AMBIENTE & FUTURO Un metro di mare in più Interi Paesi minacciati dall'effetto serra
Autore: LIONELLO PIERO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: ECOLOGIA, METEOROLOGIA, INNALZAMENTO DEL LIVELLO DEL MARE

L' INNALZAMENTO del livello del mare è tra le conseguenze più temute di un eventuale mutamento di clima. Un aumento di un metro sarebbe già una minaccia gravissima per molte zone costiere. Per limitarci a qualche esempio, Egitto e Bangladesh perderebbero una parte economicamente importante e densamente popolata del loro territorio, gran parte di Venezia sarebbe in permanenza allagata, i Paesi Bassi, la costa orientale inglese e Hong Kong subirebbero gravi conseguenze. Ancora: senza adeguate opere di salvaguardia, zone oggi asciutte e intensamente popolate, dove prosperano importanti attività economiche e portuali, potrebbero diventare inutilizzabili, gli allagamenti di centri costieri potrebbero diventare estesi, frequenti e distruttivi, l'erosione delle coste potrebbe intensificarsi e zone abitate andare progressivamente distrutte dall'azione del mare. Gli interventi per compensare gli effetti di un accresciuto livello del mare dipendono dalle caratteristiche geografiche, sociali ed economiche della regione considerata. Generalmente, implicano costi enormi e la necessità di una programmazione su scale decennali per la realizzazione di grandi difese costiere o la riorganizzazione delle attività umane. Ci si trova di fronte ad una minaccia concreta o ad una eventualità remota, non sostenuta da argomentazioni di reale valore scientifico? Il livello medio del mare è indubitabilmente soggetto a variazioni legate alla temperatura media. Durante l'ultima grande glaciazione, 18.000 anni fa, quando la temperatura media era di circa 4-5°C inferiore al presente, il livello del mare era circa 100 m al di sotto di quello attuale e la corrispondente quantità d'acqua era concentrata nei ghiacci polari e nei ghiacciai continentali. Da allora, il livello del mare è salito con velocità variabile e generalmente decrescente, fino al secolo scorso. Le osservazioni indicano che durante questo secolo la velocità di salita è aumentata rispetto a periodi precedenti, raggiungendo un valore di poco superiore ad 1mm/anno. Ci si attende una maggiore velocità di salita nel prossimo secolo? Questa previsione dipende a sua volta dalle previsioni di aumento della temperatura media globale. A parte alcune valutazioni contrarie di autorevoli, ma isolati, scienziati, la maggioranza concorda che il raddoppio della concentrazione di CO2 in atmosfera determinerà un riscaldamento compreso fra i 2 e i 4°C alla superficie terrestre e un più lento e contenuto riscaldamento degli oceani. In questo scenario, l'aumento del livello del mare, deriva da tre cause: l'espansione termica degli oceani, lo scioglimento (parziale) dei ghiacciai montani, le variazioni delle masse ghiacciate dell'Antartide e della Groenlandia. L'acqua di mare, se riscaldata, si dilata con un tasso che varia molto con la temperatura e la pressione, e quindi non si può considerare costante. Secondo una stima grossolana, un aumento uniforme pari ad 1°C della temperatura interna degli oceani implicherebbe un aumento superiore al mezzo metro del livello del mare. Tuttavia l'inerzia termica dell'oceano e la dinamica della sua circolazione profonda implicano che gli abissi oceanici seguano con grande ritardo il riscaldamento della superficie terrestre. La difficoltà di stabilire come la velocità di variazione della temperatura interna degli oceani dipenda dalla profondità e dalla posizione geografica implica notevoli incertezze nel calcolo della loro espansione. La valutazione più attendibile prevede un aumento del livello del mare di circa 25 centimetri per la fine del prossimo secolo dovuta all'espansione termica. Ovviamente, un'ulteriore inevitabile espansione seguirà, mentre l'oceano, riscaldandosi progressivamente, si adatterà al clima mutato, superando abbondantemente il metro fra un migliaio di anni. L'Antartide nonostante il suo enorme spessore di ghiaccio, che, in caso di scioglimento totale, determinerebbe un aumento di circa 65 metri del livello del mare, non sembra fornire un contributo significativo nei prossimi 100 anni. Al contrario, in un clima più caldo, alcune simulazioni numeriche suggeriscono un modesto aumento del volume di ghiaccio interno al continente antartico, dovuto ad un aumento della precipitazione nevosa, il cui effetto tenderebbe a diminuire il livello del mare di alcuni centimetri. I ghiacciai continentali, al confronto, potrebbero sembrare meno importanti, perché, sciogliendosi completamente, determinerebbero un aumento del livello del mare di circa un metro. Invece, al contrario dei ghiacci Antartici, in un clima più caldo si ridurrebbero molto (questa tendenza è confermata sia da simulazioni numeriche che da osservazioni) determinando un aumento compreso fra i 10 e i 20 centimetri del livello del mare. I ghiacci della Groenlandia dovrebbero diminuire, ma di poco, aumentando il livello del mare di alcuni centimetri. Lo scioglimento dei ghiacci galleggianti nelle regioni polari non ha alcun effetto, perché il volume di acqua prodotto equivale alla loro parte immersa e non modifica il volume totale degli oceani. Se la previsione della media globale del livello del mare è attualmente soggetta a inevitabili imprecisioni, su scala regionale si aggiungono ulteriori elementi di incertezza. Infatti, le correnti con il loro moto determinano dislivelli permanenti fra le diverse regioni oceaniche. Ad esempio, la Corrente del Golfo è associata ad un dislivello di circa 1 metro lungo la costa americana dell'Atlantico. Se le correnti oceaniche ed i dislivelli che esse determinano mutassero sensibilmente in un clima diverso, la loro azione, sommata ai movimenti verticali della crosta terrestre, potrebbe compensare od accentuare localmente i cambiamenti del livello medio globale del mare. Considerando le varie argomentazioni, in conclusione, sarebbe estremamente sorprendente non osservare un aumento, sia pure contenuto, del livello del mare nei prossimi decenni. Valutazioni e relative incertezze sono sintetizzate dall'Icpp (Intergovernmental Panel for Climate Change) che prevede per il 2100 un aumento compreso tra un minimo di 13 ad un massimo di 94 centimetri, stimando 30 cm come valore più probabile. Purtroppo, la stima più pessimistica non esclude che fra 100 anni, le coste si trovino a dover fronteggiare un mare mediamente quasi un metro al di sopra del livello attuale. Piero Lionello INFN, Padova


SCIENZE FISICHE GIUBILEO Un BipBip come angelo custode
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: MAGNETI MARELLI, TELESPAZIO, VIASAT
LUOGHI: ITALIA

NON avrà le ali, ma come angelo custode se la cava discretamente (e, comunque sia, l'aiuto arriva sempre dal cielo): con il nuovo sistema di localizzazione satellitare i milioni di pellegrini che giungeranno in Italia per il Giubileo avranno un modo in più per chiedere informazioni, per ritrovare la strada in caso di smarrimento, per lanciare l'Sos. Il BipBip è un apparecchietto elettronico poco più grande di una scatola di fiammiferi, pesa appena 50 grammi ed è il più piccolo localizzatore satellitare Gps mai realizzato al mondo. Realizzato da Viasat, joint-venture tra Magneti Marelli (Gruppo Fiat) e Telespazio (Telecom), e brevettato in tutto il mondo, il BipBip è stato studiato per prevenire le difficoltà che milioni di pellegrini stranieri sicuramente incontreranno quando si riverseranno a Roma per il Giubileo del 2000. Questa sorta di angelo custode tecnologico potrà aiutare a trovare la strada per raggiungere la tal basilica, ma non solo. Gli operatori sono in grado di fornire (nella lingua straniera del caso) informazioni turistiche su Roma e altri luoghi meta di pellegrinaggio, potranno indicare quale è la farmacia aperta più vicina, potranno fornire gli orari delle banche e inviare soccorso stradale o sanitario. Anche se fosse a conoscenza dei numeri di pronto intervento, in caso di emergenza un cittadino straniero non saprebbe spiegare con esattezza dove si trova. Allo stesso modo, problemi di lingua potrebbero creare incomprensioni. Con il BipBip tutti questi ostacoli sono risolti: basta attivare il BipBip e puntarlo verso il cielo in uno spazio aperto. Alcuni dei 24 satelliti della costellazione Gps (Global positioning system) capteranno il suo segnale e sapranno identificarne la posizione con un errore massimo di 5-10 metri; quindi la richiesta di aiuto verrà indirizzata alla centrale operativa e basterà chiamarla da qualunque telefono (il cellulare, ma anche la cabina telefonica) per ottenere assistenza. Dal punto di vista tecnico, il BipBip ««discende»» direttamente dal sistema satellitare Viasat per auto, studiato per la sicurezza di chi viaggia. Il Viasat è già noto come sistema antifurto: se qualcuno avvia la vettura senza inserire il giusto codice o ve la ruba sollevandola col carro attrezzi, entro 5 secondi il sistema lancia l'allarme che, sempre tramite i satelliti, viene ricevuto e dirottato sulla centrale operativa. A questo punto basterà avvisare le forze dell'ordine per lanciare la caccia ai ladri. Ma presentare il Viasat solo per questo servizio è riduttivo. L'abbinata telefonino-Gps si rivela utile in molte altre situazioni perché dai resoconti delle forze dell'ordine emerge che quasi la metà delle persone che chiamano i numeri di pubblica utilità hanno difficoltà a indicare con esattezza il luogo dove inviare il soccorso. Inoltre gli operatori della centrale Viasat (che sono oltre 800 distribuiti in turni, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno e che si appoggiano a 3 mila centri di soccorso sanitario e circa 18 mila punti di assistenza tecnica) potranno darvi indicazioni sulla viabilità con estrema precisione e in tempo reale, potranno aiutarvi a trovare un albergo o a districarvi dal traffico caotico di una città che non conoscete. Il BipBip da tenere in tasca costa circa 150 mila lire (con già una serie di servizi pre-pagati), mentre il Viasat completo da auto costa 2 milioni scarsi (installazione compresa) e, tra l'altro, consente di ridurre fino al 60 per cento il premio delle polizze sul furto della vettura. Andrea Vico


SCIENZE FISICHE MACCHINE ... La prima volta che viaggiai in vagone letto
AUTORE: MARCHIS VITTORIO
ARGOMENTI: TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: TECNOLOGIA, TRASPORTI FERROVIARI, TRENI

GLI scompartimenti dei treni hanno un loro destino segnato da leggi misteriose. Ci sono quelli in cui si fa tutto il viaggio senza dirsi una parola e quelli in cui s'incomincia subito a far conversazione e tutti si scambiano caramelle e biglietti da visita, si passano le bottiglie di acqua minerale, si raccontano le proprie storie e si separano con un esagerato desiderio di rivedersi. In generale, vicino a uno scompartimento in cui tutti tacciono, ce n'è uno in cui tutti parlano»». Achille Campanile non è certo un tecnico e neppure uno scienziato, ma riesce nonostante tutto a impostare una sua ««trenologia»». Se la luna mi porta fortuna oltre al titolo di un suo indovinato libro del 1928 potrebbe essere l'augurio per affrontare un tema così spinoso e difficile, soprattutto sapendo che i problemi delle ferrovie (dello Stato?) sono il paradigma della complessità. ««La prima volta che viaggiai in vettura-letto, non avevo la minima idea del funzionamento di tutti i bottoni, bottoncini, campanelli da premere, anelli da tirare, pendolini da spostare e ganci a cui non si sa cosa appendere; ero solo e passai tutta la notte a studiare cautamente le funzioni e il significato dei misteriosi accessori: premevo un bottone, credendo d'aprire il vetro del finestrino, e s'accendeva la luce blu; nell'ombra, annaspando le pareti, trovavo un altro bottone, premevo per far ritornare la luce bianca e un inserviente picchiava alla porta \ Finalmente non osai più toccar nulla e, impotente a far la luce blu, passai la notte fissando i misteriosi congegni. Ce n'era specialmente uno che m'incuriosiva e mi tentava: un anello d'ottone attaccato a una piccola leva, che finora non avevo toccato e del cui funzionamento non avevo la minima idea. Mi guardai bene dal toccarlo \ L'indomani, quando venne l'impiegato, non seppi resistere alla curiosità: ''Mi dica un po'- feci-,a che serve quest'ordigno?'' L'altro sorrise: ''E' un anelletto che teniamo - disse - '' per quei viaggiatori che vogliono prendersi il gusto di toccare qualcosa senza far succedere nullà'»». Da quel lontano 1928 sulle carrozze-letto non molto è cambiato, ma forse rileggendo queste righe acuti ingegneri hanno modificato quel maledettissimo pulsante dei primi ««pendolini»» che, posto all'altezza del gomito, si divertiva ad ogni minimo movimento a far salire e scendere la tendina parasole. Vittorio Marchis Politecnico di Torino


SCIENZE FISICHE INFORMATICA Pinocchio ridotto ai minimi termini Un programma per riassumere qualunque testo
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: INFORMATICA
ORGANIZZAZIONI: ABSTRACT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: PROGRAMMA INFORMATICO, RIASSUNTO, LIBRI, CULTURA, DIDATTICA

L'ESIGENZA di disporre di informazioni in forma compatta è diventata sempre più comune e impellente negli ultimi decenni. Basti pensare al successo di pubblicazioni come Selezione dal Reader's Digest o ai famosi manualetti Bignami. C'è ora un programma per Pc - una specie di Bignami elettronico - capace di ridurre ai minimi termini qualsiasi tipo di testo: articoli giornalistici, pagine Web e perfino una favola densa di significati come ««Pinocchio»». E' esattamente ciò che accade con il programma Abstract, di cui abbiamo parlato per la prima volta su ««Tuttoscienze»» del 12 marzo 1997. Una nuova e più potente versione di Abstract ha analizzato il primo capitolo di ««Pinocchio» » in due passaggi. Nel primo passaggio ha ridotto le frasi da 40 a 23, nel secondo da 23 a 11. Alla fine il testo originale di Collodi era stato ridotto al 27,5%, senza alcuna perdita di significato. - O dunque...? - direbbe mastro Ciliegia - io non lo posso credere. Cosa vuol dire ««senza perdita di significato»»? Non è facile rispondere a questa domanda, senza ricorrere ad una terminologia tecnica. Diciamo che Abstract è in grado di eliminare le frasi ridondanti, mantenendo inalterata la sintassi di tutte le altre e, dunque, preservando il significato complessivo del testo. Speciali algoritmi lavorano sul contenuto informativo, producendo un testo che contiene meno informazioni rispetto all'originale, ma che contiene le più importanti (più che un riassunto, un ««abstract»» , appunto). Per spiegarla in un modo comprensibile anche a mastro Ciliegia: Abstract sottolinea i passi salienti, come un bravo studente alla vigilia degli esami. Il risparmio dello spazio-tempo di lettura rientra nella cosiddetta produttività individuale (relazioni, articoli, discorsi, pagine Web), ma credo che un programma del genere possa dare i migliori risultati nell'ambito della ricerca linguistica. Io stesso ho intrapreso un lavoro di questo genere sui testi poetici, con risultati interessanti. Ad esempio l'ode manzoniana Il cinque Maggio, grazie agli algoritmi di cui sopra, si riduce ad un solo verso (scopritelo sul sito http: //web.tin.it/eloisa/abstract). Potremmo allora chiederci che senso abbia, o quale utilità possa avere, la riduzione di un testo narrativo o addirittura poetico. Ebbene, qualunque sia il criterio seguito per selezionare un insieme di frasi, queste verranno portate alla nostra attenzione, al di là delle intenzioni dell'autore. Poiché i poeti, e gli scrittori in generale, comunicano molto ad un livello subliminale o inconscio, vi è la possibilità di scoprire eventuali messaggi nascosti. Ammettiamo che il criterio di selezione sia prettamente statistico. In questo caso la frequenza delle espressioni (parole o gruppi di parole) è il veicolo di nuove informazioni, e Abstract se ne accorge. Per dovere di cronaca bisogna aggiungere che una funzione di riassunto fa già parte del blasonato programma di elaborazione dei testi Word 97. Mi pare però che Abstract abbia una marcia in più: quella di essere un componente software riutilizzabile, ossia un pezzo di legno - scusate, di software - che qualunque programmatore può inserire nelle proprie applicazioni. Francesco Lentini


SCIENZE FISICHE SPEDIZIONE ITALIANA Indagini a Tunguska Che cosa cadde dal cielo nel 1908?
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: DI MARTINO MARIO, LONGO GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: CNR, OSSERVATORIO ASTRONOMICO DI PINO TORINESE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. LA REGIONE DI TUNGUSKA, IN SIBERIA, DOVE NEL 1908 AVVENNE IL MISTERIOSO FENOMENO ESPLOSIVO
NOTE: ESPLOSIONI, ASTRONOMIA, FISICA, STORIA

A luglio una spedizione italiana coordinata da Giuseppe Longo del Dipartimento di Fisica dell'Università di Bologna partirà alla volta di Tunguska, la regione della Siberia che il 30 giugno 1908 fu teatro di una devastante esplosione causata dall'impatto di un corpo cosmico la cui origine presenta ancora aspetti da chiarire. La spedizione ««Tunguska99»», che porterà nella Siberia centrale circa 25 persone, è organizzata dal Dipartimento di Fisica dell'Università di Bologna insieme a ricercatori dell'Osservatorio astronomico di Torino e dell'Istituto di geologia marina del Cnr di Bologna. Gli scienziati italiani costruiranno un campo base in una regione paludosa a circa 100 km dal più vicino centro abitato, raggiungibile solamente con l'elicottero, e ad alcune centinaia di km dal primo centro dotato di collegamenti stradali con il resto della Russia. Tra i principali promotori della spedizione c'è Mario Di Martino, dell'Osservatorio astronomico di Torino e collaboratore di ««Tuttoscienze»». L'evento ebbe il suo epicentro in prossimità del fiume Tunguska Pietrosa e si verificò circa un quarto d'ora dalla mezzanotte (ora di Greenwich) a una quota compresa fra i 5 e i 10 chilometri e sviluppo' un'energia paragonabile a un migliaio di bombe atomiche del tipo di quelle che furono sganciate su Hiroshima. In seguito a questa esplosione vennero devastati circa 2150 chilometri quadrati di taiga siberiana e l'onda d'urto sradicò oltre 60 milioni di alberi. Le precedenti spedizioni, che da anni si sono recate a Tunguska, non sono riuscite a trovare nè i resti macroscopici del corpo e nemmeno il cratere da impatto e questa seconda spedizione italiana si propone, pertanto, di dare una risposta, si spera definitiva, sulla natura del corpo cosmico che, in epoca storica, ha colpito il nostro pianeta provocando le maggiori devastazioni che siano mai state registrate. Dal momento che le microparticelle prodotte dalla disintegrazione del corpo cosmico possono essere ancora conservate in certi luoghi naturali, ««Tunguska99»» polarizzerà la propria attenzione sul lago Ceko, a 8 km dall'epicentro dell'esplosione. Il lago, largo circa 500 metri e con una profondità massima di 47 metri, è ritenuto un bacino ideale di raccolta e conservazione di queste microparticelle e pertanto verranno scattate fotografie a ultrasuoni del fondo, che sarà anche sottoposto a una dettagliata ispezione con una telecamera subacquea. Le apparecchiature per l'ispezione del fondo, che prevede anche ««carotaggi a gravità»», sono fornite dalla Geological Assistance & Services. Secondo una ipotesi avanzata a Bologna lo scorso anno, nell'area a Sud-Est dell'epicentro sarebbero caduti frammenti non microscopici del corpo cosmico che, precipitando poco prima dell'esplosione, non si sarebbero vaporizzati. Questi frammenti saranno separati dalle rocce terrestri tramite opportuni magneti montati su un apposito carrello insieme a un sensore cercametalli. ««Tunguska99»» provvederà inoltre a effettuare un rilevamento topografico e fotografico della zona e lo confronterà con le foto aeree scattate nel 1938 per trarre ulteriori indicazioni sulla esatta direzione degli alberi abbattuti. Un altro aspetto interessante di questa seconda spedizione italiana è di carattere ambientale. Attraverso rivelatori di radiazione saranno effettuati monitoraggi sia durante il volo da Tunguska a Bologna, sia al suolo durante le due settimane di permanenza. Il confronto con le misure rilevate in precedenti missioni consentirà di studiare le variazioni della radiazione ambientale con l'altitudine, la longitudine, la pressione, la temperatura, l'umidità e l'attività solare. ««Tunguska99»» è in parte sponsorizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, ma come sottolinea Mario Di Martino, ««per una buona riuscita dell'impresa sarebbero necessari altri sponsor. Attualmente, infatti, i fondi ottenuti sono necessari per coprire le spese di viaggio e pertanto, se nessun altro ci darà una mano concreta, si corre il rischio di non attuare tutti i programmi che ci siamo prefissati»». Va infine ricordato che ««Tunguska99»» non è stata organizzata per dare risposta a un solo ««fatto»» (quello del 30 giugno 1908), ma va inserita nel più ampio contesto dei programmi internazionali che studiano gli impatti con la Terra di corpi provenienti dallo spazio: un tema di ricerca molto attuale e dagli evidenti risvolti di interesse pratico per la sicurezza di tutti noi. Franco Gàbici Planetario di Ravenna


SCIENZE FISICHE ESPERIMENTO Un interferometro ultrapreciso Una nuova tecnologia consente misure eccezionali
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: DE BROGLIE LOUIS, MICHELSON ALBERT ABRAHAM
ORGANIZZAZIONI: MIT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: RICERCA SCIENTIFICA, METROLOGIA, TECNOLOGIA

UN gruppo di ricercatori dell'Istituto di Tecnologia del Massachusetts (Mit) ha costruito il primo giroscopio mosso da un fascio d'atomi mediante un interferometro, realizzato con lo stesso procedimento seguito in ottica impiegando le onde luminose. L'impresa ha trovato il punto di partenza nella doppia natura di onda e corpuscolo, ritenuta prerogativa esclusiva della particella unitaria della luce, il fotone, sino a quando un grande fisico francese, Louis de Broglie, non dimostrò che detta doppia natura distingue tutte le particelle elementari e l'atomo stesso. Il primo interferometro ottico fu costruito dal fisico tedesco Albert Abraham Michelson nel 1881 per dimostrare la costanza della velocità della luce qualunque sia la sua direzione, rendendo con ciò immotivata la ipotesi dell'etere e mettendo la premessa alla teoria della relatività ristretta. L'interferometro è quindi nato quale strumento di estrema precisione per la misura di via via nuove grandezze fisiche; la sua elevata capacità di risoluzione consente, ad esempio, di distinguere oggetti distanti tra loro appena 10 Angstrom, ossia un miliardesimo di metro, o di misurare la lunghezza di un'onda luminosa e l'indice di rifrazione o il diametro di una stella remota la cui immagine appare puntiforme. Oltre alle accennate misure effettuabili in campo ottico, l'interferometro può essere utilizzato per misure riguardanti la dinamica, come la misura del moto di rotazione, ma a tal fine conviene seguire un diverso procedimento in cui il fotone viene sostituito dall'atomo ed è questa la non facile impresa portata a buon fine dall'èquipe del Mit, costruendo un interferometro atomico. Il suo funzionamento è basato sulle modifiche che il moto di rotazione apporta al processo di interferenza dei due fasci d'onde impiegate; modifiche che danno la misura del moto di rotazione con una precisione che, a causa della comparativamente molto più grande massa, è propria di un interferometro cento miliardi di volte più sensibile, agli effetti inerziali, di quello dei procedimenti ottici. L'interferometro atomico del Mit è azionato da un getto di atomi di sodio diffratto attraverso un primo reticolo di fenditure microscopiche, larghe 200 miliardesimi di metro; una seconda griglia ha quindi rifocalizzato il getto atomico attraverso una terza microstruttura dove si è formata l'immagine dell'interferenza. Il dispositivo realizzato è stato infine sospeso al soffitto e sottoposto a un movimento di rotazione. L'esperimento ha confermato in pieno le previsioni teoriche azionando con gli atomi un giroscopio di alta precisione. Un altro gruppo di ricercatori americani ha confermato l'alta sensibilità dell'interferometro atomico misurando la rotazione della Terra con la stessa precisione ottenibile con un laser di alta qualità. Mario Furesi


SCIENZE DELLA VITA VACCINI GENETICI Sarebbero efficaci anche contro l'Aids
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: HOFFMANN STEVE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA

SONO passati nove anni da quando sulle pagine di Science un gruppo di ricercatori Usa avanzò l'ipotesi che l'iniezione di frammenti di Dna potesse proteggere da malattie fino ad allora refrattarie a ogni vaccinazione. Era soltanto una nota a conclusione di un articolo, ma da allora l'idea di poter scatenare una risposta delle cellule che proteggono l'organismo dall'attacco dei germi, attraverso l'iniezione di materiale genetico, ha fatto molta strada. Tanto che per alcune malattie, fra cui la malaria, l'Aids e l'epatice B, la meta sembra ormai prossima. Accolti con iniziale scetticismo, i cosiddetti vaccini genetici vengono ora sperimentati sull'uomo e, anche se bisognerà attendere ancora qualche anno prima della loro introduzione nella pratica medica, i risultati di laboratorio sembrano molto promettenti. I vaccini genetici fanno compiere un passo importante all'immunologia. Infatti finora l'attivazione a scopo preventivo delle cellule del sistema immunitario contro un batterio o un virus, che si ottiene attraverso la vaccinazione, era possibile soltanto se nell'organismo veniva introdotto l'agente infettivo, reso inoffensivo. Così composti, i vaccini tradizionali non fanno altro che diffondere l'identikit del nemico; l'organismo impara a riconoscerlo e si prepara alla difesa. Questo metodo ha permesso di sconfiggere molte malattie, come il vaiolo o la poliomielite, ma si è dimostrato inefficace contro altre, come per esempio l'Aids. I vaccini genetici sfruttano lo stesso principio, ma la loro tattica è più raffinata. Nuovamente, la missione da compiere è allertare il sistema immunitario contro un possibile attacco, ma in questo caso l'azione è estremamente specifica e la protezione risulta molto più efficace. Il Dna che viene introdotto con la vaccinazione è infatti in grado di convincere alcune cellule dell'organismo a produrre una proteina che, come un'impronta digitale, è caratteristica dell'agente infettivo da cui ci si vuole difendere. Quando la proteina è prodotta dall'organismo il sistema immunitario impara a riconoscerla, e attaccherà qualunque virus o batterio la possegga. I vaccini genetici non contengono null'altro che Dna (che per questo viene definito nudo) e fanno molto di più che diffondere un generico identikit: rendono noti i segni particolari. Questa caratteristica li rende efficaci anche contro agenti che, come il virus dell'Aids, cambiano continuamente. Il virus potrà mascherarsi o mutare aspetto, ma manterrà sempre qualche caratteristica (una proteina) che lo renderà riconoscibile. Se la ««polizia immunitaria»» è preparata a riconoscere quel particolare, il virus non ha scampo. Anche se le speranze di molti sono rivolte a una possibile vaccinazione contro la sindrome da immunodeficienza acquisita, il primo vaccino generico a uscire dai laboratori potrebbe tuttavia essere quello contro la malaria. Per questa malattia, i primi esperimenti su animali seguirono di poco la pubblicazione dell'articolo di Science del 1990. I topi vaccinati da Steve Hoffmann, immunologo della Naval Medical Centre di Bethesda, negli Stati Uniti, con il Dna del Plasmodium falciparum (il protozoo che provoca la malaria) risultarono inattaccabili dalla malattia. Negli anni seguenti Hoffmann ottenne gli stessi risultati sulle scimmie, e la scorsa estate è iniziata la sperimentazione su 25 volontari. E' però presto per cantare vittoria. Infatti, anche se le vaccinazioni al Dna sembrano promettenti, bisognerà valutare con attenzione i possibili effetti collaterali. Una delle obiezioni più importanti è che questi vaccini potrebbero scatenare la reazione del sistema immunitario nei confronti della proteina codificata dal Dna introdotto nell'organismo, ma contro il Dna stesso e questo potrebbe provocare una malattia autoimmune, in cui il sistema immunitario attacca anche il Dna che appartiene all'organismo. Inoltre molti interrogativi rimangono sul meccanismo di azione dei vaccini genetici e ci si chiede se l'introduzione di materiale genetico dall'esterno non possa provocare anomalie nella sintesi di altre proteine, favorendo l'insorgenza di tumori. Margherita Fronte


SCIENZE DELLA VITA L'ORCA, UN ACCANITO PREDATORE Killer d'alto mare, in livrea Uccide più prede di quante ne possa mangiare
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: CHIVERS SUSAN, HIGGS DAVID, PITMAN ROBERT
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. L'ORCA MARINA
NOTE: ANIMALI, MARE

NOI abbiamo il difetto di umanizzare gli animali. Li vediamo attraverso la nostra ottica che non sempre è obiettiva, anzi il più delle volte non lo è affatto. Molti film di successo concorrono a falsare l'immagine di certi animali. Prendiamo le orche. Tutti ricordano il film strappalagrime 'Free Willy' in cui un'orca e un bambino diventano amici per la pelle. Quel grande cetaceo bianco e nero che familiarizza con il piccolo uomo, obbedendo ai suoi comandi fa pensare che si tratti di un animale docile, mite, remissivo, di un bonaccione insomma. Mentre già il fatto che lo si chiami ««killer whale»», cioè ««balena assassina»» lascia capire che ben altra è la sua indole. E infatti le ricerche e le osservazioni degli studiosi hanno dimostrato che l'orca non è affatto una santarellina. E' un accanito predatore che miete vittime in abbondanza tra le balene di ogni specie, tra i delfini, le foche, i leoni di mare, le otarie, gli elefanti di mare. Anche chi l'abbia vista solo in fotografia, riconosce l'orca a prima vista per quella sua tipica livrea bizzarra e inconfondibile, fatta di zone bianche e nere nettamente distinte. Ma quando viaggia veloce nei mari freddi, quelli che predilige, rivela la sua presenza soprattutto la grande pinna dorsale triangolare, alta quasi due metri nei maschi. Quasi un vessillo inalberato a mò di segnalazione. Non a caso, nella gerarchia del branco, il leader è quello che ha la pinna più vistosa. Ignoriamo ancora un mucchio di cose sul conto dell'orca, ma c'è un fascino sottile in questo bestione (lungo fino a sei metri la femmina e fino a nove il maschio) che ««chiacchiera»» con i compagni di branco non solo a mezzo di suoni udibili dal nostro orecchio e registrati dagli idrofoni - un miscuglio di strani fischi e cigolìi - ma anche a mezzo di ultrasuoni che il nostro orecchio non è in grado di percepire. Un animale che ogni tanto solleva la testa dall'acqua come se volesse curiosare quello che gli succede attorno, che non abbandona mai i compagni feriti, che ricorre ad astute manovre di caccia per intrappolare i branchi di otarie, di foche o di capodogli. E proprio di recente due biologi marini americani, Robert L. Pitman e Susan J. Chivers, sono stati testimoni oculari di uno scontro davvero eccezionale tra un gruppo di capodogli e un branco di orche. Navigando su una nave oceanografica nel Pacifico, al largo della costa californiana, i ricercatori avvistano nove capodogli disposti in una strana formazione ««a margherita»» con le teste rivolte al centro e i corpi disposti a raggera come i raggi di una ruota. L'aveva già notata una formazione del genere nelle acque dell'Atlantico, al largo delle Azzorre, David Higgs, un altro studioso di cetacei. Anche lui è dell'idea che si tratti di una strategia difensiva da parte dei capodogli, tanto più che al centro della margherita si trovano, ben protetti, i cuccioli e i giovani sessualmente immaturi. E' la stessa strategia che adottano i buoi muschiati, quando si vogliono difendere da un nemico. Soltanto che nel caso dei buoi muschiati gli individui si dispongono all'inverso, con le code rivolte verso il centro e le teste munite delle poderose corna rivolte minacciose all'infuori. I capodogli ovviamente non hanno corna da opporre al nemico, ma le loro grandi code che possono dare potenti sferzate rappresentano un'arma altrettanto valida. I due studiosi mericani fanno fermare la nave e osservano attentamente la scena. Così si accorgono della ragione per cui i capodogli si sono disposti in quel modo. Ci sono tre o quattro orche adulte che si aggirano insidiose attorno alla ««margherita»». Ad un certo punto, una di loro carica. Si avventa come un bulldozer contro la formazione dei capodogli e colpisce violentemente uno di loro. Una larga macchia di sangue arrossa l'acqua dimostrando chiaramente che l'aggressore deve aver inflitto una ferita molto seria a uno dei bestioni. Poco dopo, senza nessuna apparente ragione, le orche s'immergono in profondità e scompaiono. I capodogli, prudentemente, mantengono la posizione difensiva. E bene fanno. Perché di lì a poco, ecco comparire quattro orche femmine, facilmente riconoscibili perché a differenza dei maschi hanno pinne dorsali relativamente piccole. Accerchiano i capodogli, mantenendosi però prudentemente a distanza dalle loro code sferzanti. Una di loro riesce a infiltrarsi nella margherita e con un morso formidabile dei suoi 48 denti appuntiti stacca un pezzo di carne dai fianchi di un capodoglio. Nuovo sangue si riversa in mare e il suo odore attira altre due orche che si uniscono alle prime. Ma dopo un altro breve attacco, le orche si ritirano, mentre sembra che i capodogli tengano duro. Gli studiosi rimangono sul teatro della battaglia per tre ore e hanno modo di osservare due dozzine di attacchi. In una pausa tra un attacco e l'altro, assistono poi a un incredibile episodio. C'è un'orca spinta fuori dal gruppo e ferita dagli aggressori. Due compagne le si avvicinano, le si mettono ai fianchi, la sorreggono e la riportano nella formazione difensiva. Uno straordinario atto di altruismo. Comunque, sono sempre le orche femmine che attaccano la formazione dei capodogli. Il resto del branco, che comprende due o tre maschi adulti, si mantiene a oltre un chilometro di distanza. Quando però la battaglia raggiunge il suo culmine, entra in scena un'orca maschio. C'è un grosso capodoglio femmina che è stata ferita e trascinata fuori dalla formazione. Il maschio si avventa contro di lei come un cane arrabbiato, la fa roteare nell'aria, lanciando grandi spruzzi d'acqua e la fa letteralmente a pezzi. Poi scompare con la sua vittima squartata. Quando finalmente le orche si allontanano, lasciano un panorama desolante. Tutti i capodogli della 'margherità sono orrendamente mutilati. Moriranno certo dissanguati. Le orche hanno fatto una strage, uccidendo più prede di quante ne possano mangiare. Un episodio di questo genere suscita molti interrogativi. Come mai i capodogli, che sono molto più grandi delle orche (misurano fino a 12 metri le femmine, fino a 2O i maschi) hanno un atteggiamento così passivo di fronte all'aggressore? E perché rischiano la vita per salvare una compagna in pericolo? Qual'è il ruolo dell'orca maschio nella strategia di caccia? Anche lui, come il leone maschio, lascia alle femmine il rischioso compito di uccidere le grandi prede, per poi intervenire all'ultimo a prendersi la 'parte del leonè? Certo, non si può negare che l'appellativo di 'assassinà ben si addica all'orca. Basti pensare che nell'Antartico si calcola ve ne siano in estate circa 80.000 e si sa benissimo che hanno l'abitudine di aggredire le balenottere minori. Mangiano però soltanto le labbra e le lingue delle vittime. Poi le lasciano morire dissanguate. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA COLORANTI VEGETALI Un arcobaleno tutto naturale Riscoperti fiori e piante con qualità tintorie
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: MARIOTTI MAURO
ORGANIZZAZIONI: EDAGRICOLE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: LIBRI, «LE PIANTE COLORANTI»

A metà dell'Ottocento un ricercatore inglese ha messo a punto il primo colorante di sintesi: la malveina. In passato per colorare tessuti, cosmetici, ecc. si impiegavano poche specie vegetali spontanee nell'area mediterranea come il cartamo, lo zafferano e la robbia (Rubia tinctorium, da ruber, che significa rosso), accanto ad altre introdotte dall'Oriente come l'indaco, la curcuma e l'hennè. Dopo la scoperta dell'America si verificò una vera e propria esplosione di colori naturali; d'altra parte, viviamo in un mondo colorato: dall'abbigliamento ai cibi, dall'arredamento alla natura che ci circonda, in grado di regalarci, in ogni mese dell'anno, sinfonie colorate superbe anche quando predomina il solo verde come avviene in primavera. Il colore ha avuto ed ha una grande influenza sul lavoro dei genetisti che per soddisfare le esigenze dei consumatori cercano di ottenere fiori e frutti dai colori sempre più intensi, vivaci, brillanti, con screziature, maculature, venature. La maggior parte delle piante viene impollinata dagli insetti attirati dai colori più sgargianti; nei fiori esistono tre grandi gruppi di pigmenti: i carotenoidi, liposolubili e localizzati nei cromoplasti che danno le tinte rosse e gialle; gli antociani solubili responsabili dei colori dal rosso al blu e i flavonoidi idrosolubili portatori di molti gialli. A seconda che i coloranti di un gruppo siano predominanti o meno il fiore assume una tinta piuttosto che un'altra. Se possiede soltanto una modesta quantità di flavonoli appare bianco; le combinazioni possibili sono pressoché infinite, anche se prevalgono i gialli e i rossi. Il Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e forestali, particolarmente sensibile all'evolversi delle problematiche interessanti la realtà agricola nazionale, ha promosso e finanziato un progetto di ricerca sulle colture alternative (Prisca). Si ritiene che nei differenti scenari simulati per i prossimi decenni new crops (nuove colture) chiamate anche ««no food»» ossia specie non alimentari, destinate ad impieghi non tradizionali, diventino sempre più importanti. In questo ambito un gruppo di ricercatori di differenti Università italiane ha voluto riscoprire alcune specie ormai dimenticate con buone potenzialità tintorie, semplici da coltivare, adattabili a terreni anche marginali per riproporle in coltivazione. Dalla ricerca è scaturito anche un interessante volumetto a cura di Mauro Mariotti (Le piante coloranti, Edagricole, lire 35.000). Apprendiamo così che l'Amaranto (Amaranthus tricolor e A. cruentus), specie tropicale ormai coltivata come ornamentale nei giardini, e, se pure introdotta dall'India e dalla Malesia da molto tempo presente negli incolti come infestante, fornisce, grazie all'amarantina e alla isoamarantina, due pigmenti presenti nelle foglie e nei fusti, colore rosso. Mentre la calendula possiede carotene nei cloroplasti delle cellule vegetali dei capolini prestandosi a colorare lana e seta di giallo anche se il colore può presentare sfumature di verde. Il carcadè (Hibiscus sabdariffa), originario del Sudan secondo alcuni e secondo altri della Malesia, molto diffuso in Egitto e importante per l'economia egiziana grazie alla produzione di fibre, possiede nel calice due pigmenti, la cianidina e la delfinidina, che colorano di rosso. Il cartamo (Carthamus tinctorius) la cui etimologia significa, dall'arabo, appunto tingere, già adoperato in Egitto 3500 anni fa, possiede anch'esso pigmenti di colore rosso e giallo, forniti dai capolini, adatti per tingere tessuti fini come cotone e seta, ma anche per colori da pittura. Dalle bacche della fitolacca (Phytlacca americana), originaria dell'America Settentrionale,ma naturalizzata in Italia dove è divenuta una infestante delle colture di mais, infestazione che negli Usa si cerca di contenere tramite un fungo (Phoma sorghina), si ottiene un succo rosso intenso utilizzato tra l'altro per preparare l'inchiostro, mentre gli africani utilizzano la radice della pianta ricca di saponine come fonte di detergenti per i tessuti. Dell'Isatis tinctoria, una brassicacea (della stessa famiglia di cui fa parte il cavolo), spontanea in quasi tutta l'Europa, impiegata dagli antichi britannici per tingersi i corpi forse per incutere terrore ai nemici, si utilizzano le foglie per ottenere l'indaco, oggi soltanto più sintetico. Era assai popolare nel medioevo in Toscana, e soprattutto in Normandia, provincia che forniva il famoso blu di Persia di cui i paesi orientali erano incredibili compratori (da Bordeaux venivano esportate ogni anno oltre duecento balle di questa pianta, del peso di 100 kg ciascuna). L'hennè, invece, proviene dalla Lawsonia alba, una litracea (famiglia di cui fa parte anche una popolare ed amata pianta per il giardino, la Lagerstroemia). Le sue foglie e gli steli essiccati e compressi si presentano sotto forma di una polverina giallo-verdastra che secondo una millenaria tradizione viene usata cone tintura arancione, rossa e marrone sia per colorare manufatti e tessuti, sia per tingere i capelli, le unghie e la pelle. Talvolta si miscela all'indaco. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA LA LEZIONE / IL MICROSCOPIO Come vedere l'invisibile Primo: una corretta preparazione del materiale
AUTORE: CARDANO CARLA, ROSSI LAURA
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

MOLTI di voi non avranno potuto nascondere il loro disappunto quando, finalmente in possesso di un microscopio (un normale microscopio ottico composto), si saranno resi conto di non poter osservare affatto tutto quello che veniva loro in mente. Infatti gli oggetti che si prestano ad un'osservazione diretta e soddisfacente sono sì tanti, ma limitati come tipo: piccoli esseri viventi come pulci, rotiferi, larve acquatiche, organismi unicellulari. E poi l'epidermide del fusto verde o del bulbo di alcune piante che, separata come pellicola trasparente, ci mostra le cellule che la compongono, compreso il loro nucleo e i cloroplasti eventuali. Oppure una goccia di sangue, opportunamente diluita, che risulta composta di piccoli dischetti rosati. O anche un pezzettino di lievito, stemperato nell'acqua, che si mostrerà formato da tante piccole entità tondeggianti. Se però prendiamo un po' di fegato, petto di pollo, o quant'altro ci capita fra le mani, e lo utilizziamo a fresco, come nei preparati precedenti, non vediamo un bel nulla, se non una poltiglia incolore e informe. Quali dunque le caratteristiche che ci permettono di osservare un preparato al microscopio? Innanzitutto deve essere sottile, poi deve possedere parti distinguibili, possibilmente provviste di colore. I piccoli organismi sono contemporaneamente di spessore molto modesto e colorati, e così si differenziano bene dal fondo. Le epidermidi vegetali sono anch'esse sottili essendo costituite da pochi strati di cellule, a loro volta provvidenzialmente fornite di parete cellulosica, qualcosa cioè di abbastanza consistente da poter essere vista. Se poi ci sono i cloroplasti, allora anche il colore verde aiuterà a distinguere le strutture. Se invece abbiamo sospensioni liquide, queste, strisciate su un vetrino, lasceranno vedere corpuscoli colorati, come i globuli rossi, oppure provvisti di parete come il lievito. Che fare invece per vedere qualcosa negli altri casi? Le procedure per la messa a punto dei preparati, lunghe e complicate, spesso fanno perdere di vista lo scopo di tante operazioni. Addirittura sembrano suggerirci che alla fine si possa vedere di tutto eccetto il nostro oggetto. Ma il fine è quello di sempre: ottenere preparati sottili come strutture visibili. Il primo scopo si ottiene riuscendo a tagliare i preparati, prima appositamente resi solidi, in fettine sottilissime, il secondo colorando il preparato. Attenzione al colorare, che potrebbe essere malamente inteso; non si tratta infatti di dipingere, bensì di rendere visibili strutture che altrimenti non si distinguerebbero dal resto. Così si utilizzano sostanze in grado di interagire preferenzialmente con certe molecole: i granuli di amido ad esempio potranno essere evidenziati dalla tintura di iodio che li renderà viola. Se abbiamo preso atto dei limiti legati alla scelta del materiale da osservare, superata in qualche modo la delusione, ci aspettiamo a questo punto però di poter vedere particolari sempre più piccoli, grazie a microscopi via via migliori. Ed ecco invece la seconda delusione: i globuli rossi resteranno dischetti rosati, le cellule del lievito sagome circolari e tutto non potrà mostrare altri particolari, qualsiasi microscopio ottico usiamo, anche il migliore di tutti. Coma mai? Si dice sbrigativamente ma correttamente che i limiti sono legati alla radiazione utilizzata che è la luce bianca o luce visibile, in particolare alla sua lunghezza d'onda. Per cogliere però il significato di questa spiegazione che può risultare piuttosto oscura, può essere utile l'esempio di W. L. Bragg, premio Nobel per gli studi di cristallografia. Egli immagina che la luce visibile sia come un pennello grosso. Con esso possiamo abbozzare a grandi linee gli oggetti ma in modo sempre meno preciso i particolari via via più minuscoli. Per quelli occorre usare un pennellino fine. Allo stesso modo i dettagli sempre più minuti di strutture piccolissime possono essere rivelati solo da radiazione a breve lunghezza d'onda. E sono appunto le onde associate agli elettroni che chiariscono le strutture endocellulari, e i raggi X che svelano i reticoli cristallini composti di ioni o di atomi. Ancora un particolare degno di nota: i nostri occhi percepiscono la luce visibile, non le altre radiazioni dello spettro elettromagnetico. I dati ottenuti con microscopio elettronico o raggi X vengono perciò opportunamente rielaborati, in modo da ottenere foto a vari ingrandimenti o immagini al computer. Laura Rossi Carla Cardano


SCIENZE A SCUOLA L'ESPERIMENTO Cosa succede all'aria calda La fisica spiegata con un bottiglione e un palloncino
Autore: MAINA EZIO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

MATERIALE occorrente: un bottiglione di vetro da almeno 1,5 litri, tenuto a temperatura ambiente. Un palloncino. Un recipiente di acqua molto calda. Esecuzione. Attenzione: questa dimostrazione deve essere eseguita con l'aiuto di un adulto. L'acqua calda può provocare gravi ustioni. Distendete l'imboccatura del palloncino sul collo del bottiglione sigillandolo completamente. Scaldate il bottiglione immergendolo parzialmente nell'acqua calda. L'aumento di temperatura provocherà l'espansione dell'aria contenuta all'interno del recipiente che gonfierà il palloncino. Il vetro è un cattivo conduttore di calore e quindi sarà necessario attendere qualche minuto. Quando il palloncino avrà smesso di aumentare di volume, sfilatelo, lasciandolo sgonfiare completamente. Mantenendo il bottiglione in contatto con l'acqua chiudetene nuovamente l'apertura con il palloncino. Appoggiate il bottiglione su una superficie piana e lasciatelo raffreddare. Non cercate di affrettare il processo immergendo il recipiente in acqua fredda. Un raffreddamento rapido potrebbe causare la rottura del vetro. La diminuzione di temperatura provoca la contrazione dell'aria contenuta nel bottiglione e il palloncino verrà risucchiato all'interno del recipiente. Che cosa succede? La temperatura è una misura dell'agitazione termica, cioè della velocità media di atomi e molecole. Nel caso di un gas il quadrato della velocità media delle sue molecole è proporzionale alla temperatura assoluta che si misura in gradi Kelvin a partire dallo zero assoluto corrispondente a -273,15 gradi centigradi. Se un gas è in equilibrio con l'atmosfera la sua pressione resta costante e un aumento della temperatura, e quindi della velocità media delle molecole che lo compongono, provoca un aumento del volume occupato dal gas. Se trascuriamo le forze elastiche generate dalla distensione della gomma di cui è composto il palloncino e la dilatazione del contenitore, il volume occupato da un gas a pressione costante è direttamente proporzionale alla temperatura assoluta. Una temperatura di 25 gradi centigradi corrisponde a 298, 15 gradi Kelvin mentre la temperatura di ebollizione dell'acqua corrisponde a 373,15 gradi Kelvin. La seconda temperatura è quindi più grande della prima di circa il 25%. Di conseguenza, se il gas inizialmente contenuto nel bottiglione raggiungesse i 100 gradi centigradi il suo volume aumenterebbe di circa un quarto. Per rendere l'effetto ben visibile è quindi preferibile utilizzare un contenitore di grandi dimensioni. Se il gas venisse raffreddato da circa 373 gradi Kelvin fino a temperatura ambiente la sua temperatura e quindi il suo volume diminuirebbero di circa il 20 per cento. Ezio Maina Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA CONCORSO Astronomia, ultimi giorni per lo stage
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: FERRARI ATTILIO
ORGANIZZAZIONI: OSSERVATORIO ASTRONOMICO DI PINO TORINESE, TUTTOSCIENZE
LUOGHI: ITALIA

FORMALMENTE è scaduto il 15 maggio il termine per inviare a ««Tuttoscienze»» uno scritto riguardante lo sbarco sulla Luna avvenuto trent'anni fa e il peso che hanno avuto sulla cultura della nostra società le successive imprese spaziali che ci hanno fatto conoscere da vicino numerosi corpi del sistema solare. Considerando però il cattivo funzionamento delle poste italiane, attenderemo fino a sabato 22 maggio l'arrivo degli ultimi elaborati. Una commissione di astronomi dell'Osservatorio di Torino passerà poi ad esaminare le prove che ci hanno inviato gli studenti delle scuole medie superiori e sceglierà a suo insindacabile giudizio i lavori più validi: i prescelti - non più di trenta - potranno partecipare a uno ««stage»» di astronomia e di orientamento alla scelta della facoltà universitaria, ospiti dell'Osservatorio e del Comune di Pino Torinese dal 3 al 10 settembre. Una straordinaria occasione per ««giocare all'astronomo»» sotto la guida e con l'aiuto di professionisti e servendosi di strumenti ottici di solito dedicati alla ricerca scientifica. E' il secondo anno che ««Tuttoscienze»», in collaborazione con l'Osservatorio, accogliendo una proposta del direttore Attilio Ferrari, si fa tramite di questo concorso riservato agli studenti tra i 16 e i 19 anni che frequentano le scuole medie superiori. Gli scritti devono essere indirizzati a ««Tuttoscienze»», via Marenco 32, 10126 Torino. Per altre informazioni ci si può rivolgere al tel. 011-810.19.25. L'organizzazione si avvale della collaborazione dell'Associazione per la divulgazione dell'astronomia, della Divisione Spazio dell'Alenia, del Comune di Pino Torinese, della Regione Piemonte, della Provincia di Torino, del Provveditorato agli Studi e della Crt. I risultati della selezione saranno pubblicati su ««Tuttoscienze»» alla fine di giugno e le ammissioni verranno comunicate ai vincitori con lettera raccomandata. Gli elaborati finora giunti alla nostra redazione sono numerosi e spesso di ottima qualità. A presto!


IN BREVE Premio Voltolino ad Andrea Vico
ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: VICO ANDREA
ORGANIZZAZIONI: PREMIO VOLTOLINO
LUOGHI: ITALIA

Andrea Vico, collaboratore di ««Tuttoscienze»», è tra i vincitori dell'edizione 1999 del Premio Voltolino per la divulgazione scientifica. La giuria, composta dal premio Nobel Renato Dulbecco, Luigi Dadda, Paola De Paoli, Silvio Garattini e Luciano Onder. Tra gli altri premiati, Cecilia Astolfo e Bruno Gambacorta del Tg2, Manuela Campanelli (Le Scienze), Ida Molinari (Famiglia Cristiana).


IN BREVE Piante transgeniche sulla nostra tavola
ARGOMENTI: BIOETICA
LUOGHI: ITALIA

««Piante transgeniche, dal laboratorio al supermercato»» è il tema di una tavola rotonda che si terrà lunedì 24 maggio a Torino, ore 21, presso la Galleria d'Arte Moderna con la partecipazione di Paola Bonfante, Maria L. Gullino, Alberto Matta, Angelo Garibaldi e Alberto Piazza. Organizza la Consulta laica di Bioetica.


IN BREVE «La Scienze» celebra la Levi Montalcini
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: LEVI MONTALCINI RITA
NOMI: LEVI MONTALCINI RITA
LUOGHI: ITALIA

Per il novantesimo compleanno di Rita Levi Montalcini, il mensile ««Le Scienze»» dedica un'ampia sezione del suo numero di maggio agli sviluppi delle ricerche sul fattore di crescita nervosa (Ngf), la cui scoperta ha valso il premio Nobel alla ricercatroce italiana. Altre due ininiziative della rivista diretta da Enrico Bellone: un Cd-Rom dedicato al ««Pianeta Università»» per orientare i giovani nella scelta degli studi superiori e una bella biografia di Enrico Fermi.


IN BREVE Impulsi elettrici contro le zanzare
ARGOMENTI: ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: THE LANCET
LUOGHI: ITALIA

Ne ha parlato anche la rivista medica ««The Lancet»» e sta per arrivare in farmacia: un apparecchio che produce piccoli impulsi elettrici riesce a eliminare il prurito e il gonfiore causati dalle punture di zanzara.




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