TUTTOSCIENZE 16 dicembre 98


SCIENZE DELLA VITA I due midolli Attenzione all'errore
Autore: AIDALA ENRICO

LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: D. Midollo spinale e midollo osseo

IN una recente trasmissione di Rai 2 per ben tre volte si è ribadita l'impossibilità di reperire un midollo "spinale" compatibile per un bambino malato di leucemia e in attesa di un trapianto. Ovviamente, invece, si sarebbe dovuto parlare di midollo osseo. L'errore è grave, anche per il risvolto etico: può suscitare false speranze in persone con malattie che colpiscono, appunto, il midollo spinale: paraplegia, tetraplegia, sclerosi multipla. Il midollo spinale è parte integrante, insieme all'encefalo, del sistema nervoso centrale (Snc); esso è contenuto nella colonna vertebrale: quindiincidenti che ledano la colonna possono danneggiarlo irreversibilmente. Sebbene alcuni recenti studi, effettuati essenzialmente sulle cellule di un'area definita del cervello, l'ippocampo, possano modificare, in futuro, tale concetto, è noto che le cellule del Snc sono perenni, cioè non si replicano più dopo lo sviluppo completo del cervello: una loro lesione, patologica, traumatica, o fisiologica, come nell'invecchiamento, è irreversibile. Dunque, con le conoscenze attuali, il trapianto di midollo spinale è, anche concettualmente, impossibile poiché non si potrebbero formare collegamenti con le terminazioni nervose della persona ricevente. Il midollo osseo, invece, è la sorgente delle cosiddette cellule staminali totipotenti, i precursori di tutte le cellule del sangue e del sistema immunitario, globuli rossi, globuli bianchi, piastrine, essenzialmente. Questa struttura è contenuta nelle cavità midollari delle ossa lunghe e tra le trabecole spugnose di tutte le ossa; dopo la nascita il midollo osseo viene sostituito da grasso in alcune ossa e, intorno ai 20 anni, esso permane nelle coste, sterno, vertebre, scapole, ossa dell'anca e femore. In patologie come le leucemie acute, certe leucemie croniche, alcuni linfomi, il mieloma multiplo e in altre malattie non neoplastiche delle cellule del sangue, la terapia si avvale anche del trapianto di midollo osseo. Poiché la maggior parte delle cellule midollari esprime alcune proteine, dette antigeni di istocompatibilità, necessarie all'organismo per distinguere ogni cellula e struttura propria, il " self", da tutto ciò che è esterno, batteri, virus, sostanze varie ed altre cellule, il tutto detto "non self", il maggior problema riguardante il trapianto di midollo osseo è la ricerca di un donatore compatibile, cioè con la maggior parte delle proteine uguali a quelle del ricevente. Con tale compatibilità, la stessa richiesta per i trapianti degli altri organi, si cerca di "ingannare" il sistema immunitario, la nostra difesa. Per i vari organi trapiantati, cuore, fegato, rene, polmoni, si deve evitare che la difesa del ricevente distrugga l'organo trapiantato; per il midollo osseo, che dà origine a tale difesa, si deve evitare che esso attacchi il suo ospite, distruggendo i vari tessuti. La compatibilità è massima tra gemelli omozigoti, alta tra fratelli, molto bassa tra soggetti non famigliari; quest'ultima è la ragione per cui le Banche del Midollo devono avere un numero molto alto di donatori tipizzati per avere possibilità di successo nella loro ricerca (tipizzarsi per essere donatori significa effettuare un prelievo di sangue per valutare quali sono gli antigeni di istocompatibilità che possediamo); posto che il rischio della donazione sia praticamente nullo, un nostro piccolo gesto può davvero salvare una vita. In sostanza oggi si eseguono trapianti di midollo osseo per la cura di varie malattie; non è, invece, alla nostra portata alcun intervento di sostituzione del midollo spinale. Enrico Aidala


SCIENZE DELLA VITA. MEDICINA I progressi dei marcatori biologici
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, GENETICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

PROGNOSI è un termine derivante dal greco che significa "conoscenza anticipata di un evento rispetto al suo avverarsi". E' chiaro che il giudizio prognostico è di gran lunga più incerto e aleatorio di quello diagnostico (al quale è intimamente legato). Per questo desta grande interesse l'attuale studio dei "marcatori" biologici, ricco di promesse a tale proposito. Prendiamo l'artrosi, la più frequente malattia delle articolazioni. Il problema principale dell'artrosi è il suo graduale sviluppo, la tendenza ad aggravarsi. Il grado di distruzione della cartilagine articolare è il più importante indice per la prognosi, ma in realtà soltanto un marcatore biologico può consentire previsioni sull'evoluzione dell'artrosi. Neppure gli esami radiologici, fondamentali per valutare la situazione, permettono previsioni fondate. I potenziali marcatori dell'artrosi sono numerosi. In rapporto con le lesioni della cartilagine abbiamo Comp (Cartilage Oligomeric Matrix Protein) e Cmpg (Cartilage Matrix Glyco Protein): sono molecole da ricercare nel siero di sangue, le quali aumentano in correlazione all'aggravamento dell'artrosi, dunque importanti marcatori della distruzione della cartilagine. Marcatori cartilaginei sono anche i proteoglicani, dosabili nel liquido sinoviale delle articolazioni. La concentrazione di queste molecole predice lesioni non ancora manifeste ma in procinto di diventarlo, e che con gli esami tradizionali sarebbero rilevabili soltanto parecchi mesi più tardi. L'analisi di questi e altri indicatori dell'aggravamento, consentendo di identificare i malati a rischio, potrebbe permettere provvedimenti preventivi efficaci. Ultimamente, da lavori pubblicati in New England Journal Medicine, la più autorevole rivista mondiale di medicina, si è appreso che nuovi marcatori biologici permettono di meglio definire la prognosi dei pazienti operati per tumore del colon- retto. Asportato il tumore, nell'attesa che trascorrano i classici successivi cinque anni di vigilanza, è importante prescrivere la chemioterapia ai pazienti con un elevato rischio di recidiva. Da tempo è noto, come marcatore biologico dei pazienti a rischio, l'antigene carcino-embriogenetico, ma nuovi marcatori sono stati scoperti, sotto forma di anomalie del Dna delle cellule tumorali. Secondo numerosi studi un contenuto anormale di Dna nel nucleo di queste cellule, in confronto al nucleo delle cellule normali, ha un valore prognostico. Altri marcatori molecolari della trasformazione maligna della cellula sono le mutazioni del gene P53 nel braccio corto del cromosoma 17, e la perdita del braccio lungo del cromosoma 18. Ancora in New England, in Cancer e in altre riviste, sono stati pubblicati lavori riguardanti i tumori polmonari, grande problema attuale dei Paesi industrializzati. L'insieme dei mezzi curativi utilizzati e combinati, chirurgici e (o) radio- chemioterapici, non ha consentito in questi ultimi anni miglioramenti significativi della sopravvivenza a lungo termine, onde la ricerca di nuovi elementi prognostici mediante la biologia molecolare. Bene: l'attenzione si è appuntata sul gene K-ras, situato sul cromosoma 12, codificante la proteina p21: mutazioni del gene implicano la codificazione d'una proteina diversa, generatrice di cellule cancerose. Queste mutazioni sono dunque un fattore prognostico peggiorativo. Ulrico di Aichelburg


MEDIOEVO 2000 L'astrologo decide le assunzioni
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, GIOVANI, INDUSTRIA
ORGANIZZAZIONI: CORRIERE DELLA SERA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

DUE brevi articoli apparsi di recente sull'inserto "Lavoro" del Corriere della Sera hanno dell'incredibile: vi si legge che l'astrologia può essere applicata al mondo del lavoro, in particolare nell'assunzione del personale e - udite, udite! - nella previsione dell'andamento dei mercati finanziari e valutari (chissà che ne pensa Mario Deaglio!). Sembra impossibile, ma è vero: non nel medioevo ma alle soglie del 2000, e non su una delle (purtroppo) tante riviste "specializzate" ma su uno dei quotidiani più diffusi si dà credito a tesi di questo genere. A sentire l'anonimo articolista, conoscendo il sesso, la data, l'ora e il luogo di nascita di una persona, certi astrologi, dei quali viene fornito anche il numero di telefono, sarebbero in grado di stabilire se è opportuno o meno procedere all'assunzione e, in caso positivo, consigliare la destinazione professionale del neoassunto. Ma c'è qualcosa di più: il quadro astrale di una società, costruito tenendo conto della posizione dei pianeti al momento della sua costituzione, permetterebbe di conoscere il periodo più adatto per prendere decisioni importanti. Nel secondo articolo si legge invece che l'"astrologia finanziaria" è oggi uno dei pochi strumenti di previsione a disposizione per valutare l'andamento dei mercati, in altre parole, conoscendo il quadro astrale di una società altri " esperti" sarebbero in grado di prevedere l'andamento delle sue azioni, anche in questo caso vengono forniti i recapiti di " consulenti finanziari astrologi". Chissà se il finanziere Soros, che sembra aver perso decine e decine di milioni di dollari in una delle sue ultime speculazioni, si è rivolto a qualcuno di questi consulenti. Per rendere più credibili le affermazioni a cui abbiamo fatto cenno, l'articolo sulla "astrometodologia aziendale" si apre definendo l'astrologia "la scienza che studia stelle e pianeti e la loro influenza sulla vita degli uomini". Invito caldamente l'anonimo articolista ad andarsi a leggere la definizione di astrologia data da uno dei tanti dizionari della lingua italiana. Per risparmiargli la fatica riporto quanto scritto sul Devoto-Oli: " Astrologia: pseudoscienza, nata tra i babilonesi, che presumeva di determinare i vari influssi degli astri sul mondo terreno, congetturando sul futuro o sulle cause oscure di fatti passati". Non mi stancherò mai di ripetere che gli unici oggetti celesti che influenzano o possono influenzare il nostro pianeta sono il Sole perché ci illumina e ci riscalda e talvolta con le sue imprevedibili tempeste magnetiche può disturbare le telecomunicazioni, la Luna che è responsabile delle maree, l'impatto sulla Terra di un asteroide o di una cometa e infine un'esplosione stellare (Supernova) nelle nostre vicinanze. Tutti gli altri presunti influssi di costellazioni e pianeti non hanno il minimo fondamento scientifico. La pubblicazione di articoli del genere sulle pagine di un quotidiano autorevole, i cui annunci di offerte di lavoro vengono consultati da centinaia di migliaia di persone, spesso alla disperata ricerca di un posto, è un fatto grave. Pensate ad un giovane che ha speso anni sui libri, sacrificando se stesso e la sua famiglia, per ottenere un grado di istruzione qualificato e un'alta specializzazione quando, leggendo quell'articolo, si rende conto che probabilmente il suo futuro dipende dal responso di uno dei tanti ciarlatani che con furbizia e a caro prezzo sfruttano l'ignoranza (perché, ahimè, il nocciolo del problema è qui) di impresari che si affidano a loro per le assunzioni. Purtroppo, nonostante ci si prepari a sbarcare su Marte e le sonde automatiche abbiano esplorato tutti i pianeti del sistema solare (eccetto Plutone), l'Homo sapiens sapiens sembra avere sempre più bisogno di affidarsi ad astrologi e maghi. Per carità, ognuno è libero di credere in quello che vuole, anche che gli asini volano, ma sarebbe bene che tali credenze non andassero a influenzare la vita degli altri. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


SCIENZE DELLA VITA. IIN NORD ITALIA L'invasione dei gamberi americani
Autore: OSELLA LEONARDO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
NOMI: DELMASTRO GIOVANNI BATTISTA, MANCINI ALESSANDRO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

MA chi l'ha detto che i gamberi d'acqua dolce sono scomparsi? Domandatelo a chi vive nel Roero, quella zona di Piemonte fra Carmagnola e Bra; oppure a chi abita le sponde del lago d'Iseo, in Lombardia. Vi risponderanno che le rive lacustri o delle peschiere stanno franando rovinosamente proprio a causa dei gamberi che scavano gallerie e riducono il terreno a groviera. Per la verità non si tratta del gambero nostrano, quello che la nomenclatura linneiana qualifica come Austropotamobius pal lipes. Questo, raro era e raro rimane, confinato in zone prealpine come la Valsesia e il Biellese, e la legge lo protegge vietandone l'uso culinario. I gamberi che sovrabbondano sono di origine americana e la loro presenza dalle nostre parti si deve a tentativi, non andati a buon fine, di acclimatarli a scopo di allevamento. Almeno così è sicuramente avvenuto per il Procambarus clarkii della Louisiana, un decapode neartico che si è diffuso nell'Italia del Nord. "Questa specie - scrive Giovanni Battista Delmastro, che studia il fenomeno per conto del Museo civico di storia naturale di Carmagnola - colonizza in particolare un breve tratto del Rio Venesima, corso d'acqua tributario del Banna, che a sua volta confluisce nel Po, ed è sfuggito da un'azienda agricola dove c'era un piccolo allevamento intensivo su scala sperimentale". Il primo ritrovamento in Piemonte di questo animale è stato fatto nel settembre 1989: un esemplare piuttosto grosso, della lunghezza di 10 centimetri (può raggiungere al massimo i 15). Pochi mesi dopo furono esaminate alcune pozze d'acqua, piuttosto piccole, e con gli opportuni accorgimenti in una di esse, profonda 80 centimetri e con una superficie di 2 metri quadrati, ne vennero trovati ben 63, così classificati in base al sesso e alle dimensioni: un maschio di 112 millimetri, quattro femmine fra i 73 e i 65, sei tra 58 e 48 e 52 tra 40 e 26 millimetri. Queste e altre successive osservazioni fatte provano che questi gamberi possono sopportare condizioni estreme di prosciugamento idrico ed escursioni termiche dell'acqua che vanno dagli 0 ai 30 gradi. Nel frattempo altri ritrovamenti sono stati segnalati nel lago di Iseo. In questo caso si tratta di un'altra specie neartica, l'Orconectes limosus, originario del Maine e della Virginia e già acclimatato in Austria, Francia, Germania, Polonia e Svizzera. Fu catturato in Italia per la prima volta con reti a tremaglio nel 1991 a Clusane da pescatori e guardapesca. Osserva ancora Delmastro, commentando le ricerche svolte in merito da altri biologi: "C'è il rischio che questi gamberi colonizzino gran parte del bacino padano, e questa è un'eventualità assai negativa: infatti il gambero americano, data la sua notevole aggressività, potrebbe causare non trascurabili squilibri ambientali nei nostri biotopi acquatici". Oltretutto pare ormai assodato, secondo studi fatti in Scandinavia, che le specie americane trasmettano come portatrici sane a quelle europee la "peste del gambero" (non patogena per l'uomo). E in ogni caso, come ha fatto osservare un altro esperto, Alessandro Mancini, a proposito del Procambarus clarkii, "si tratta di una specie in grado di danneggiare seriamente specie ittiche pregiate, disturbandole soprattutto nel periodo della frega". L'Orconectes del lago d'Iseo non vanterebbe neppure particolari benemerenze organolettiche e perciò anche l'eventuale promozione della sua cattura avrebbe uno scarso interesse economico. Quello dei gamberi importati è un altro esempio della dissennatezza con la quale spesso l'uomo si muove a scapito della natura. E sì che la storia ha qualcosa da dire. Lo stesso Mancini scrive che già nel 1930 il Pro cambarus clarkii, importato in Giappone come cibo per la Rana toro (a sua volta allevata a scopo alimentare), portò soltanto danni e nessun beneficio. Altrettanto avvenne nel 1934 nelle Isole Hawaii, quando 400 individui di Procambarus importati si dispersero nelle campagne allagate e diventarono un terribile flagello, " divorando indiscriminatamente piante coltivate e non". Leonardo Osella


SCIENZE DELLA VITA. UNA RISERVA QUASI INESPLORATA La farmacia in fondo al mare Inedite sostanze chimiche da pesci e molluschi
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA

GIORNALI e tv nei giorni scorsi hanno annunciato la scoperta di un antidolorifico enormemente più efficace della morfina, che si ricava da un mollusco marino. Una notizia del genere ripropone il tema dello sfruttamento degli animali marini dal punto di vista farmacologico. Si può dire che siamo ancora all'anno zero in questo campo. Piante e animali marini costituiscono un'immensa riserva quasi inesplorata. Se ci limitiamo ai pesci, ne esistono oltre 300 specie velenose nei mari del mondo. E della maggior parte dei loro veleni si ignora ancora la composizione chimica. Lo stesso discorso vale per la numerosissima schiera di invertebrati marini velenosi, dalle meduse a quei temibilissimi molluschi dalla conchiglia pregiata che sono i coni. Eppure, a quanto hanno dimostrato le ricerche più recenti, questi veleni, in dosi minime, si possono trasformare in farmaci benefici per la salute dell'uomo. Contengono infatti sostanze antivirali, vermifughe, antibiotiche, analgesiche, antinfiammatorie e via elencando. Eccone due esempi. Uno è il pesce palla (genere Tetraodon), caratteristico perché è capace di ingoiare acqua o aria fino a diventare una sorta di palloncino. Contiene una sostanza molto tossica, la tetrodontotoxina, un veleno contenuto soprattutto nel fegato e nelle ovaie. Ne bastano otto-dieci milligrammi per uccidere un uomo. Ciò nonostante, proprio con i pesci palla si prepara in Giappone un piatto tradizionale "il fugu", considerato un'autentica "delicatesse". Ma poiché non tutto il veleno viene distrutto dalla cottura, i cuochi che vogliono preparare il fugu devono frequentare una scuola speciale. Eppure la tetrodontoxina, che determina in pochi minuti una completa e irreversibile paralisi di tutto il sistema nervoso, si è rivelata di grande aiuto nelle ricerche neurofisiologiche, specialmente nello studio del sistema di trasmissione degli impulsi nervosi. L'altro esempio di animali marini velenosi che si sono rivelati utili in medicina è quello dei coni, parenti alla lontana delle chiocciole terrestri. Sono molluschi provvisti di una conchiglia perfettamete conica, che contano circa 400 specie, tra le quali almeno otto capaci di secernere un veleno mortale anche per gli esseri umani. La loro conchiglia ha grandezza variabile. Si va da quella del minuscolo Conus rutilus, lunga appena cinque millimetri a quella dei Conus geographus, il gigante della famiglia, che supera i quindici centimetri. Quasi tutti i coni abitano i mari tropicali. Nel Mediterraneo ne vive una sola specie assolutamente innocua. Per la bellezza della loro conchiglia e l'eleganza dei disegni e delle ornamentazioni, alcuni coni tropicali sono stati battezzati con nomi da almanacco di Gotha, come imperia lis, regius, nobilis, princeps e via discorrendo. Ma l'araba fenice della famiglia, la perla dei collezionisti, è il celebre Conus gloria maris che raggiunge sul mercato quotazioni favolose. Il suo habitat è limitato alle acqua costiere delle Filippine e di alcuni arcipelaghi dell'Oceania occidentale, dove purtroppo sta diventando sempre più raro. Preziosità a parte, tutti i coni ospitano nella loro conchiglia un mollusco non dissimile dagli altri gasteropodi (così si chiamano i possessori di conchiglia formata da un unico pezzo). Però, a differenza delle altre specie, il cono possiede un sofisticato apparato velenifero, una sorta di faretra corredata da una ventina di minuscole frecce e una proboscide estensibile che funziona come una vera e propria cerbottana. Per cacciare, il cono si infossa nella sabbia del fondo e lascia sporgere solo l'apice della proboscide, con cui percepisce olfattivamente la preda. Appena ne sente l'odore, mette in funzione l'apparato velenifero. Stimolata da energiche contrazioni muscolari, una delle freccette si stacca dal legamento che la tratteneva e discende fino all'imbocco della proboscide. Qui si riempie di veleno e la proboscide, (che quando si allunga misura tre quarti della lunghezza della conchiglia) distendendosi di scatto, provvede a conficcarla nelle carni della vittima designata. Può lanciarla anche a parecchi centimetri di distanza. Con questo sistema sbrigativo i coni mettono fuori combattimento le loro prede: molluschi di diverse specie, pesciolini, vermi e altri animali marini che costituiscono il loro pasto quotidiano. Li uccidono e se li mangiano. E' chiaro che l'uomo non rientra nel novero delle vittime abituali. Gli incidenti che conducono alla morte o a gravissimi fenomeni di paralisi si verificano di solito quando li maneggiano incauti ed inesperti raccoglitori. Sulle prime non succede nulla, perché il mollusco, spaventato, si ritrae nell'interno della conchiglia, ma dopo qualche istante, rimesso dalla sorpresa della cattura, il cono si difende, lanciando i suoi strali micidiali. Si è riusciti ad isolare in laboratorio l'essenza del veleno responsabile del maggior numero di omicidi. Si tratta dell'omega- conotossina che oggi viene impiegata in dosi infinitesime per analizzare e dosare meglio le terapie neurologiche. Il ventaglio delle specie marine che si rivelano preziose in medicina, per quanto ancora limitato, si va sempre più allargando. Da vari molluschi nudibranchi (privi di conchiglia) si ricava la doridossina, una biotossina che non solo ha proprietà antinfiammatorie e antiallergiche, ma è anche in grado di abbassare il ritmo cardiaco. Gli anemoni di mare contengono alcune sostanze (polipeptidi) che aumentano la potenza del muscolo cardiaco. Dalle orecchie di mare del genere Haliotis si ricava una sostanza particolarmente attiva contro ceppi batterici resistenti alla penicillina. Perfino dalle ostriche si estrae un efficace principio antivirale. La farmacologia marina ha compiuto finora soltanto i primi passi. Ma, come ci fanno intravvedere queste ricerche d'avanguardia, ci aiuterà probabilmente a risolvere molti problemi. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA. BOTANICA La potatura, come e quando Ogni pianta reagisce in modo diverso
Autore: VIETTI MARIO

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Sezione trasversale di un tronco; T. Qualche consiglio per la potatura

CHI si occupa della gestione del verde, pubblico o privato, trova spesso due fronti in tema di potatura: tagliare drasticamente oppure lasciare che le piante seguano una crescita più naturale. In pratica i sostenitori di questa seconda opinione affermano che la potatura è un'operazione che va contro natura in quanto le piante allo stato selvatico seguono ugualmente il loro ciclo vitale, con fiori e frutti, anche se nessuno le pota. In realtà anche in natura le piante subiscono una specie di potatura, benché disordinata e incontrollata, quando rami vecchi, secchi, indeboliti o cresciuti male vengono eliminati dal vento o durante i temporali oppure dalla scarsità di acqua o di luce nei boschi troppo fitti. Con la potatura fatta dall'uomo si accelera questo processo di rinnovamento e lo si tiene sotto controllo, tagliando le parti divenute inutili e stimolando l'emissione di nuovi getti. Tuttavia i tagli drastici sono da effettuare solo quando in casi di assoluta necessità: alberi pericolanti o diventati troppo grandi, errori di impianto, malattie. Il comportamento giusto sta nel mezzo: potare ma con criterio e senza esagerare e soprattutto potare conoscendo bene come la pianta reagirà al trauma che le infliggiamo. Alcune piante infatti non hanno bisogno di alcun tipo di potatura mentre altre traggono sicuramente beneficio da questa operazione. Allo stato spontaneo le piante presentano un equilibrio tra la parte ipogea (le radici) e quella epigea (tronco e chioma); ogni intervento di potatura provoca un mutamento di questo equilibrio al quale la pianta risponde con precise reazioni. In pratica con la potatura si aprono delle ferite nei tessuti delle piante che possono diventare facili vie di accesso per crittogame o altri parassiti; le piante, a differenza degli animali, non sono in grado di ricostituire i tessuti lesionati ma mettono in atto un particolare sistema di difesa: isolano i tessuti danneggiati rinforzando i compartimenti che le compongono. Ogni pianta infatti è composta da vari tessuti o compartimenti disposti a strati ben separati come il cambio, il libro, la corteccia... facilmente visibili quando si osservano i cerchi di un tronco tagliato per stabilire l'età dell'albero. Si crea così una vera e propria barriera che circonda il tessuto alterato ed evita che il processo distruttivo si diffonda al legno sano. Nuovi tessuti verranno generati in un altro punto in modo da permettere alla pianta di continuare nel suo ciclo vitale. Non tutte le specie reagiscono alla potatura nello stesso modo: faggi e platani non tollerano potature troppo radicali, betulle e frassini non gradiscono il raccorciamento dei rami; in generale tutti gli alberi adulti sopportano meno bene i tagli e comunque, se ben formati da giovani, richiedono solo rari interventi di potatura mentre arbusti e rampicanti rispondono meglio a potature energiche. Ecco perché non è possibile improvvisarsi potatori, ma è necessario conoscere a fondo ogni aspetto della vita delle piante e sapere con esattezza quali effetti produrrà una certa operazione su quella specie. In generale con il termine potatura si intende quella tecnica agricola mediante la quale alcune parti della pianta vengono tagliate per darle una forma più armoniosa, farla crescere più sana e forte, stimolare la fioritura e migliorare la produzione di frutta sia in qualità sia in quantità. Ma la potatura può anche servire a rendere più agevoli le operazioni colturali oppure a contenere lo sviluppo eccessivo, soprattutto nel verde urbano o nei giardini privati, ad evitare possibili situazioni di pericolo. Si hanno così vari tipi di potatura: di produzione, di allevamento o formazione di giovani esemplari, di eliminazione di rami morti, deperiti o malati, di trapianto (si rende necessaria per riequilibrare la chioma rispetto all'apparato radicale), di ristrutturazione in seguito alla rottura di rami o a precedenti errori di potatura (coma la capitozzatura), di riduzione della chioma quando questa invade spazi che non le competono (strade, case, proprietà confinanti, altre piante, cavi elettrici...) o di sfoltimento per lasciare entrare più aria e luce all'interno della chioma stessa, di ringiovanimento (si usa per fruttiferi, rose e altri arbusti da fiore). C'è poi una potatura intesa più come " arte", nella quale prevale l'aspetto estetico rispetto agli scopi agronomici, e comprende tutti quegli interventi non proprio necessari che si effettuano sulle piante per dar loro una forma diversa da quella che avrebbero naturalmente (siepi, spalliere, topiari). La regola deve essere comune a tutti i tipi di potatura: ogni intervento deve rispettare lo sviluppo naturale di una pianta senza crearle traumi che potrebbero danneggiarla e abbreviarne la vita. Un altro aspetto importante è la giusta collocazione di alberi ed arbusti nelle aree verdi. Capita spesso che dopo qualche anno ci si accorge che una pianta è diventata troppo grande rispetto allo spazio assegnatole inizialmente. Se invece un giardino è ben progettato e nella collocazione delle piante si tengono in considerazione le dimensioni che raggiungeranno da adulte, si potranno ridurre molti degli interventi futuri di potatura. Mario Vietti


La ricerca nell'Università Fine della "stagione delle piogge"
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, UNIVERSITA', STATO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

L'ITALIA investe in ricerca scientifica l'uno per cento del prodotto interno lordo: un terzo dei Paesi con cui deve competere. Quel poco, bisognerebbe almeno spenderlo bene. Invece, nell'università e nel Cnr, ci eravamo abituati ai finanziamenti a pioggia: di quei pochi soldi, se ne davano pochissimi, quasi niente, ma a tutti. In modo da non scontentare nessuno, o quasi. Conseguenza: nessuno riusciva a fare qualcosa di concreto. Quegli spiccioli se ne andavano in studi preliminari, viaggi, congressi (spesso inutili). Soltanto negli ultimi tempi, sotto il ministero di Luigi Berlinguer, le cose sono un poco migliorate. Ora la ricerca ha un nuovo ministro, Ortensio Zecchino, e per adesso non si conoscono le sue intenzioni. Staremo a vedere. Ma intanto ci sembra utile far conoscere ai lettori qualche dato sui primi segni di cambiamento, augurandoci che il processo iniziato non si fermi lì. L'Università ha due compiti che devono aiutarsi l'un l'altro: insegnare e fare ricerca. Specialmente quella ricerca di base che, non potendo dare nell'immediato applicazioni redditizie, l'industria non farebbe. Purtroppo, pagati i docenti e le strutture, alla ricerca rimane un misero 5 per cento del finanziamento complessivo. E' questa la somma residua che veniva amministrata a pioggia. Un passo avanti si è fatto due anni fa introducendo il cofinanziamento: brutta parola per dire che i soldi vengono dati soltanto a chi ha già da altre fonti almeno il 30 per cento della cifra che gli serve. Un secondo criterio introdotto è stato quello della valutazione dei progetti di ricerca da parte di esperti indipendenti, italiani e stranieri, scelti in un'ampia lista da un comitato di cinque garanti scientifici. Le domande di cofinanziamento, infine, devono essere redatte anche in inglese (è incredibile, ma questa norma in Italia rappresenta un filtro!) e la valutazione avviene rapidamente via Internet nella massima trasparenza. Quest'anno erano disponibili 200 miliardi, il 34 per cento di più rispetto al 1997, ma da dividersi tra 50 Università (! ). Le domande sono state 1358 e le unità di ricerca oltre 8400. Tante, ma pur sempre il 18 e il 20 per cento in meno rispetto all'anno precedente: quelli abituati ad aspettare la pioggia forse si sono fatti da parte. In media venivano chiesti per ogni progetto 50-60 milioni per le discipline umanistiche e più di 100 per quelle scientifiche. Bene: con la nuova tendenza è stato possibile assegnare in media l'85 per cento della cifra richiesta, mentre in passato, per accontentare tutti, non si andava oltre il 20-30 per cento. Questo significa che i soldi potranno davvero servire a realizzare i progetti presentati. Chi ha a cuore la qualità della ricerca si augura che il nuovo ministro non faccia passi indietro. Rimangono tuttavia alcuni problemi. Uno per tutti: sono tagliati fuori dalla possibilità di proporre progetti i giovani che, pur lavorando all'Università, non sono ancora strutturati e non hanno posizioni stabili. Qui emerge un dato davvero preoccupante: l'età media dei ricercatori universitari strutturati supera i cinquant'anni. Se questi sono i "giovani", gli altri... Piero Bianucci


UN'INCHIESTA PIENA DI SORPRESE Lei si fida della scienza? Ottimismo negli Usa, più cautela in Italia
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, SCIENZA, SONDAGGIO, STATISTICHE, STATO
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL SCIENCE FOUNDATION
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA
TABELLE: T. Interesse degli americani nel 1998 (scienza, economia, politica estera). Investimenti nella ricerca in percentuale del prodotto interno lordo

CHI ha fiducia nello sviluppo scientifico? I dati 1998 del rapporto biennale della National Science Foundation degli Stati Uniti dicono che il 70 per cento degli americani è interessato al progresso delle scienze. E' la più alta percentuale mai registrata (61% nel 1992 e 65% nel 1995). L'interesse per la scienza sorpassa non solo quello per la politica estera (47%) ma anche quello per l'economia (67%). Tanto interesse sembra derivare da una maggiore cultura scientifica, in parte dovuta al crescente numero di articoli di scienza nei giornali e di programmi scientifici alla tv. Utilizzando i dati di un'inchiesta analoga condotta in Europa e in Giappone si sono stabiliti un "indice di aspettativa" e uno di " riserva verso la scienza". Il quoziente tra i due fornisce un " indice di fiducia" del pubblico. I risultati indicano che, anche se molte nazioni europee e il Canada raggiungono gli Stati Uniti in fatto di interesse e fiducia nel progresso scientifico, in genere ci sono più riserve circa le soluzioni scientifiche. Gli italiani, ad esempio, non solo sono meno entusiasti della scienza degli americani e degli altri europei ma sono anche molto più diffidenti circa le sue promesse, con un'indice di fiducia dell'1,2 rispetto all'1,9 degli americani. L'atteggiamento positivo degli americani è interpretato come un indice dei successi degli Usa nel campo della medicina, della fisica, delle telecomunicazioni, dei computer e dell'astronautica: quando una società prende coscienza del proprio successo scientifico, tenderebbe a celebrarlo e a crederci. Passiamo ora a dati meno incoraggianti. Intanto esiste ancora nel pubblico americano ed europeo una confusione tra scienza e tecnologia, alimentata in parte da giornali e tv, che danno più enfasi alle conquiste tecnologiche che a quelle scientifiche. Poi alcuni concetti fondamentali sono ancora poco familiari. Non si sa bene cosa sia una molecola (appena l'11 per cento dà la risposta giusta), nè se l'elettrone sia più piccolo o più grande di un atomo (il 44 per cento risponde correttamente). Incredibilmente, solo il 45 per cento del pubblico è a conoscenza del fatto che la Terra impieghi un anno per ruotare intorno al Sole. La metà è rimasta ferma al concetto pre-copernicano. Tra questi, la metà dorme tranquillamente mentre il Sole - secondo loro - ruota attorno alla Terra in 24 ore! Esiste una correlazione tra la fiducia di un Paese verso il proprio progresso scientifico e l'investimento economico che esso è pronto a compiere? I recenti dati pubblicati dal consigliere scientifico del ministero britannico della scienza e tecnologia dicono che non sempre i due concetti vanno d'accordo. L'investimento, pubblico o privato che sia, viene fatto sempre con l'aspettativa di un rendiconto economico. E' però interessante notare come in tutti i Paesi industriali senza eccezione la maggior percentuale degli investimenti (in relazione al prodotto nazionale lordo) sia pubblica e non privata (negli Stati Uniti oltre il 60 per cento proviene da sorgenti governative e solo il 20 per cento dall'industria o da fondazioni private; in Italia circa il 50 per cento). Esaminando i dati pubblicati nel 1998 risulta che tra i 12 Paesi più industrializzati (che corrispondono all'80 per cento degli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo) la spesa per la ricerca scientifica è aumentata in media dall'1,8 per cento del prodotto nazionale lordo nel 1980 al 2,2 per cento nel 1996. Il maggiore investimento non è degli Stati Uniti (2,5 per cento) ma di Paesi come Svezia e Giappone (rispettivamente con il 3,5% e il 2, 75%). Un dato storico costante è rappresentato dall'Italia, che ha mantenuto con grande coerenza il primato di ultima nazione nella spesa per la ricerca (oscillando tra un minimo dell'0,8 per cento e un massimo dell'1,25, per tornare nel 1996 a circa l'1%). L'Italia si piazza quindi tra le quattro nazioni a minore investimento nella ricerca in compagnia dell'Australia, del Canada e della Danimarca (quest'ultima sta però raggiungendo rapidamente il 2 per cento). Nel valutare l'efficacia relativa di tali investimenti possiamo esaminare due tipi di risultati di carattere molto diverso; quelli che si riferiscono al numero di lavori scientifici pubblicati in relazione all'investimento economico compiuto (ad esempio pubblicazione di dati scientifici di base/milioni di sterline investite) e quelli che riflettono la capacità di un Paese di sfruttare la propria ricerca a scopi industriali (numeri di brevetti industriali internazionali). Sulla base dei dati della produzione scientifica di base (numero di pubblicazioni in relazione al rispettivo investimento economico) vediamo che il Regno Unito sarebbe al primo posto e il Giappone all'ultimo (l'Italia lo precede di poco). Tra le nazioni maggiori produttrici di dati scientifici troviamo piccoli Paesi come Danimarca, Svezia e Svizzera. Dal punto di vista del numero di brevetti internazionali emergono gli Stati Uniti e, in Europa, Svezia, Germania e Svizzera. Gli Stati Uniti e il Giappone sono ovviamente in testa per quanto riguarda il numero totale di brevetti depositati negli Stati Uniti ma cadono al nono e ottavo posto per il numero di brevetti europei.Riassumendo, questi dati potrebbero indicare una certa correlazione tra livello di cultura scientifica, fede nel progresso scientifico espresso da un dato Paese e investimenti compiuti nel campo della ricerca scientifica. Questa correlazione sarebbe giustificata dal fatto che le spese per la ricerca scientifica sono sostenute per la maggior parte dalle tasse pagate dai cittadini e non da fondi privati o dall'industria, come si potrebbe credere. Più facilmente dimostrabile è la correlazione tra gli investimenti nella ricerca e il benessere economico del Paese investitore, benessere che può derivare direttamente dalle scoperte compiute nei propri laboratori. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. DIBATTITO Ma i grattacieli servono ancora? Il telelavoro riporterà le città a misure umane
AUTORE: HUTTER SERGIO
ARGOMENTI: ECOLOGIA, URBANISTICA, ARCHITETTURA
LUOGHI: ESTERO, ASIA, CINA, SHANGAI

Pubblichiamo volentieri questa lettera che apre un interessante dibattito HO letto in TuttoScienze del 25 novembre l'articolo sui grattacieli più alti del mondo e in particolare sul World Financial Center di Shangai, alto 460 metri, nuovo primato mondiale. Sono stato a Shangai nel '96 e mi sono reso conto della drammaticità con cui si sviluppa questa città di 14 milioni di abitanti. Poteva essere l'occasione per introdurre nuovi concetti urbanistici, invece diventerà una delle tante metropoli assurde che affliggono il pianeta, e di cui conosciamo benissimo l'errore di fondo (crescita incontrollabile, dimensioni che determinano la morte della "polis", quartieri di qualità e socialità troppo diverse, inquinamento, problemi di sicurezza, di servizi, di viabilità). Gli amministratori di Shangai importano festosamente dall'Occidente modelli edilizi e urbani superati perché non hanno previsto i presumibili cambiamenti dovuti alle nuove tecnologie informatiche. Si parla ancora di centri di affari o commerciali, come ai tempi della Carta di Atene. Si pensi alla consultazione del 1992 per il centro di affari di Lu Jia Zui: quattro milioni di metri cubi, il 70 per cento uffici, il 20% abitazioni e il 10% commerciali, gran consulto fra gli architetti Rogers, Foster, Perrault, Nouvel, Fuksas e Piano! Parliamo dunque dei grattacieli. Nascono alla fine dell'Ottocento e discendono dall'invenzione dell'ascensore, come giustamente fa osservare l'autore dell'articolo. E obbediscono a due necessità: sfruttare il terreno urbano e rendere possibile la intercomunicazione fra gli addetti dei grandi complessi terziari. Oggi noi diamo un significato molto diverso allo sfruttamento urbano, perché con il concetto della qualità della vita, concetto sviluppatosi solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, il rapporto fra la superficie di cementificazione del suolo (con il correlativo insediamento umano) e quella dell'area a verde, si è modificato a favore di quest'ultima. Quindi, intorno a un grattacielo da 20.000 persone come quello citato, secondo la cultura urbanistica attuale bisognerebbe lasciare a verde almeno 20.000 metri quadrati al netto di strade, cioè un'area di 140 metri di lato. Si tratta di un mega edificio, con destinazioni simili a quelle previste dalla consultazione Lu Jia Zui: 70 per cento di uffici, che nei giorni festivi si svuotano, mentre il 20 per cento di prestigiosi appartamenti negli ultimi piani si svuota perché i loro abitanti si godono i week-end. Per due giorni su sette l'edificio è vuoto salvo il 10% degli spazi commerciali: ristoranti, bar, negozi. In sostanza il 90 per cento dell'edificio è inutile per 2 giorni su 7. Ma la regione più seria per cui mi sembra che la tipologia del grattacielo e del concetto di centro di affari siano superati, è la caduta della sua originaria necessità di risolvere la intercomunicazione fra gli addetti dei grandi complessi terziari, che appunto oggi è largamente sostituita dall'informatica e da Internet. La velocità di diffusione di questi mezzi fa presumere che in un prossimo futuro il lavoro torni all'abitazione, e si ponga fine all'esodo casa-lavoro della fine del Seicento, inizio dell'industrializzazione, che appunto ha prodotto prima lentamente poi con una velocità cancerogena la formazione delle città industriali e poi le sempre più vaste concentrazioni metropolitane, con tutte le loro conseguenze sociali. Credo dunque ad un ritorno a degli insediamenti umani rinascimentali, cioè fine della metropoli, ritorno a città di 20/30 mila abitanti, sviluppate in altezza (non più di 120/160 metri), dove il lavoro si svolge all'interno della propria abitazione; abitazione/ufficio, abitazione/lavoro artigianato o a cottimo per grandi industrie. Ma se è valida l'ipotesi che il lavoro ritorna all'abitazione, quali altri motivi vi sono nel persistere ad alimentare la tipologia delle metropoli, dei grattacieli e dei centri finanziari? Resta l'orgoglio (discutibile) che il mio è più alto del tuo! Sergio Hutter Architetto


SCIENZE A SCUOLA. LA LEZIONE / IL MOTO ONDOSO Mediterraneo molto mosso Qual è l'origine delle burrasche
Autore: LIONELLO PIERO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Moto ondoso

MAREG-GIATE diforte intensità sono frequenti nel periodo autunnale. Nel Mediterraneo formano onde alte parecchi metri e nell'Adriatico settentrionale causano un innalzamento di alcuni decimetri del livello delle acque. La loro evoluzione è descrivibile a partire da un'adeguata previsione meteorologica fatta sulla base di modelli numerici, ossia complessi programmi mediante i quali i calcolatori risolvono le equazioni della dinamica tra mare e atmosfera. Le previsioni meteorologiche moderne iniziarono mezzo secolo fa negli Stati Uniti, quando, negli anni 50, furono sviluppati i primi programmi per elaboratori elettronici in grado di risolvere le equazioni matematiche che regolano l'evoluzione delle variabili meteorologiche. I calcolatori usati erano 10 milioni di volte più lenti degli attuali e consentivano di prevedere solamente l'evoluzione del campo di pressione in quota. Questa veniva usata dai meteorologi come un'informazione ausiliaria che integrava l'informazione riportata sulle mappe meteorologiche. L'abilità e l'esperienza del meteorologo erano ingredienti fondamentali per una buona previsione. Oggi programmi numerici complessi analizzano una quantità enorme di osservazioni su scala globale e predicono l'evoluzione di tutta la struttura tridimensionale dell'atmosfera con più giorni di anticipo. Dai dati elaborati si estraggono le informazioni necessarie per la previsione di onde e livello del mare: venti e campi di pressione. Le previsioni di onde e livello del mare con finalità operative si sono fortemente evolute negli ultimi decenni. Le prime previsioni di onde furono sviluppate dagli alleati durante la seconda guerra mondiale per minimizzare le perdite durante le operazioni di sbarco. Solo negli Anni 70, però, si raggiunse una buona affidabilità. Gli utilizzi principali sono la gestione delle attività portuali, del traffico marittimo e delle piattaforme petrolifere. La previsione determina, a partire dal vento, l'energia delle onde al variare della loro frequenza e direzione sulla base del calcolo dell'energia ricevuta dal vento, persa per frangimento e scambiata con onde di altre frequenze e direzioni. Questa informazione complessa viene utilizzata solo in casi particolari. Generalmente si tracciano mappe che mostrano semplicemente l'altezza complessiva e la direzione media di propagazione delle onde. Le previsioni del livello del mare furono attuate in risposta a disastrose inondazioni costiere, in particolare a quella che nel 1953 causò 1500 morti sulle coste del Mare del Nord. Inizialmente erano basate su tecniche statistiche che descrivevano la relazione esistente fra livello del mare e opportune variabili meteorologiche. Attualmente, si risolvono numericamente le equazioni che descrivono la variazione nel tempo e nello spazio delle correnti marine dovute all'azione del vento e della pressione atmosferica. La figura mostra i risultati di una simulazione numerica che riproduce una mareggiata che ebbe luogo nel novembre 1996: descrive una bassa pressione che si trova sopra le Alpi dopo aver risalito la costa nord del Mediterraneo occidentale; alla bassa pressione è associato un vento, rappresentato dalle frecce, che raggiunge la sua massima intensità (circa 70 km/h) sopra al mare, a ridosso della costa algerina e nell'Alto Adriatico, dove viene canalizzato e intensificato dalle catene montuose prossime alla costa. Le aree grigie indicano le zone di più intensa piovosità, dove il vento, risalendo di quota sopra gli Appennini e le Alpi, rilascia l'umidità accumulata soffiando sopra il mare. Le onde molte alte sono prodotte da un forte vento che le genera soffiando per centinaia di chilometri sopra il mare. Nel caso mostrato ciò si verifica tra Sardegna e costa africana, dove le onde cresciute progressivamente a partire dalle coste spagnole superano i 4 metri. La situazione è analoga, anche se meno intensa nello Ionio e nell'Adriatico. La superficie di quest'ultimo si inclina in risposta al forte vento determinando un incremento superiore ai 50 centimetri a ridosso delle coste venete e friulane. Il livello effettivo risulta dalla sovrapposizione di questo incremento e della marea. I valori riportati non sono eccezionali. Il caso rappresenta l'inizio di un periodo di intense mareggiate che ebbe luogo nella seconda metà del novembre 1996, durante il quale onde superiori ai 5 metri giunsero alle coste del Mar Tirreno e del Mar Ligure, e il livello del Nord Adriatico si alzò più volte di oltre un metro. Piero Lionello Università di Padova


SCIENZE DELLA VITA. SPERIMENTAZIONE IN ITALIA Midollo osseo, è svolta Ora i trapianti sono più facili
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: AVERSA FRANCO
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DI PERUGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

SONO passati trent'anni da quando il trapianto di midollo osseo fu applicato per la prima volta con successo su bambini colpiti da immunodeficienza congenita, una malattia che rende il sistema immunitario incapace di svolgere il suo compito di difesa contro gli agenti nocivi provenienti dall'ambiente. Da allora questa tecnica si è estesa ad altre malattie del sangue, come le leucemie, tanto che ogni anno nel mondo ben 30 mila pazienti si sottopongono a un intervento che può rappresentare la loro unica speranza di salvezza. Ma non tutti quelli che ne avrebbero bisogno possono affrontare l'operazione. Perché l'intervento vada a buon fine, occorre che il midollo del donatore sia compatibile con quello di chi lo riceve: cioè le cellule del sistema immunitario del malato e quelle del tessuto trapiantato devono "andare d'accordo". Questa condizione si ha sempre se donatore e ricevente sono due gemelli identici, con lo stesso patrimonio genetico, ma si verifica soltanto una volta su quattro se chi dona il midollo è fratello di chi lo riceve, ed è frutto del caso se il donatore non ha nessun grado di parentela con il malato. Chi non ha un familiare compatibile deve cercare un midollo che vada bene nell'immensa banca dati mondiale dei donatori, che raccoglie più di cinque milioni di iscritti. Ma soltanto 6 volte su 10 la ricerca ha successo. Per superare queste difficoltà un gruppo di medici dell'Università di Perugia guidato da Franco Aversa ha fatto ricorso a una tecnica mai impiegata prima sull'uomo, riuscendo di fatto a rendere compatibile un midollo che sulla carta non lo era, e salvando la vita a quasi un terzo dei pazienti trapiantati che, malati di leucemia acuta, non avevano trovato un donatore che facesse al caso loro. I malati sono stati sottoposti a un trattamento chemioterapico molto intenso per inibire la reazione di rigetto del loro sistema immunitario verso il tessuto non compatibile. Nello stesso tempo si è stimolata la produzione di cellule staminali, da cui originano le altre cellule del sangue, nel midollo del donatore e, prima dell'intervento, sono state eliminate dal tessuto da trapiantare le cellule che ne avrebbero impedito l'attecchimento: i linfociti T. In questo modo in nessuno dei 43 pazienti trattati il nuovo midollo è stato rigettato dal sistema immunitario, nè si è verificato l'attacco dei linfociti trapianti nei confronti dell'ospite. Questi risultati sono molto importanti, perché il rigetto e la reazione aggressiva del trapianto verso i tessuti del malato sono i due eventi che si verificano quando il midollo non è compatibile. Le due reazioni dipendono dalle proteine Hla, un complesso che sporge dalla membrana delle cellule e che, come una piccola bandiera, dice al sistema immunitario che quel tessuto non è un estraneo, ma fa parte dell'organismo e come tale non va attaccato. Un donatore compatibile è quello che ha la stessa bandierina del malato, ma poiché la variabilità di queste strutture è molto grande è difficile trovare qualcuno che vada bene. La tecnica impiegata a Perugia è riuscita a impedire le reazioni del sistema immunitario contro una bandiera diversa. Il metodo non è tuttavia privo di rischi. Infatti l'inibizione delle barriere difensive necessaria al successo dell'operazione ha esposto molti dei pazienti all'attacco di virus e batteri, e sono state proprio le infezioni a causare la morte di 17 dei 31 malati non sopravvissuti. Inoltre, pur definendo la ricerca una pietra miliare nella storia del trapianto di midollo, un editoriale di commento pubblicato sulla rivista che ha ospitato l'articolo degli italiani (il New England Journal of Medicine) ha tuttavia fatto notare che è passato soltanto un anno e mezzo dagli interventi. E anche se i pazienti sopravvissuti stanno bene, i risultati dell'anomalo trapianto dovranno essere valutati su un periodo di tempo più lungo. Margherita Fronte


SCIENZE A SCUOLA. EDWARD JENNER Scoprì gli anticorpi del vaiolo senza saperlo Nel 1796 usò per primo il siero proveniente da un bovino infetto
AUTORE: BUONCRISTIANI ANNA
PERSONE: JENNER EDWARD
NOMI: JENNER EDWARD
LUOGHI: ITALIA

A Berkeley, in Inghilterra, nel 1749 nasceva Edward Jenner, il padre dell'immunologia; è suo, infatti, il primo approccio scientifico alla prevenzione del vaiolo, malattia virale gravissima di cui si hanno tracce già nel secondo millennio a. C. in mummie egizie e in cronache cinesi. In Europa comparve solo nel sesto secolo d. C. e prese il nome dal latino varius (maculato, in riferimento all'aspetto della pelle dei malati). Nel Cinquecento fu portato in America dai conquistatori spagnoli, e nel solo Messico uccise oltre tre milioni di indigeni. Ovunque si presentasse, il vaiolo causava epidemie con migliaia di morti; chi si salvava, rimaneva orribilmente sfigurato. Già dall'antichità in Cina, in Arabia, in Etiopia e nel Caucaso c'era l'uso di inoculare ai ragazzi il liquido proveniente da lesioni di individui che avevano contratto il vaiolo in forma lieve. Questa pratica causava una malattia per lo più a decorso benigno e salvava da infezioni successive: si era visto, infatti, che chi aveva già avuto il vaiolo, non lo prendeva più. Tale metodo si diffuse all'inizio del diciottesimo secolo in varie corti europee e in seguito si estese alle popolazioni. Fu ostacolato dalla facoltà teologica di Parigi e visto con perplessità da molti studiosi, ma più che altro il suo fallimento fu dovuto al fatto che la malattia trasmessa era vaiolo vero e proprio, e poteva dar luogo anche a epidemie. La pratica, nonostante l'accoglienza entusiastica di alcuni, come il Parini che le dedicò un'ode nel 1765, fu abbandonata, anche perché proprio alla fine del Settecento si sparse la notizia che usando pus del vaiolo delle mucche si ottenevano ottimi risultati senza correre rischi. E' a questo punto che s'inserisce il lavoro di Jenner. Egli, da giovane, aveva sentito una contadina dire che non avrebbe contratto la malattia perché aveva già preso il vaiolo vaccino: era questa, infatti, la voce che girava per le campagne. L'occasione di mettere in pratica le sue teorie Jenner la colse quando una mungitrice s'infettò con il vaiolo delle mucche e sviluppo' delle pustole sulle mani. Egli prelevò dalle lesioni del materiale che il 14 maggio 1796 inoculò nel braccio di un ragazzo sano di circa otto anni. Dopo una settimana, questi cominciò a star male: lamentava dolori all'ascella, poi sensazioni di freddo e mal di testa, ma dopo qualche giorno tutti i disturbi scomparvero. Per vedere se il ragazzo si era effettivamente immunizzato, Jenner un mese e mezzo dopo gli inoculò del materiale preso da una pustola di una persona malata di vaiolo: il piccolo non si ammalò. La prova fu ripetuta successivamente, sempre con lo stesso risultato. Lo scienziato compì molti altri esperimenti simili e ne dedusse che un individuo infettato con la malattia delle mucche viene preservato dal più temibile vaiolo umano. Ovviamente Jenner, con le conoscenze del tempo, non poteva sapere che il successo del suo esperimento era dovuto al fatto che il virus dei bovini e quello dell'uomo hanno in comune alcune sostanze (antigeni) capaci di suscitare nel nostro organismo reazioni difensive: gli anticorpi prodotti in seguito all'inoculazione del vaiolo vaccino proteggono dunque anche da un'eventuale infezione dell'altro virus. Se Jenner è stato il primo ad aver fatto una vaccinazione interpretandola con rigore scientifico, solo un secolo dopo Louis Pasteur riuscì a capire che tale pratica si poteva generalizzare per prevenire vari tipi di malattie mediante l'inoculazione di germi opportunamente attenuati. Per questo motivo il termine "vaccino", che originariamente indicava il vaiolo dei bovini, è ora usato per qualsiasi sostanza capace di produrre immunità specifica nei confronti di una data infezione. Nel 1798 Jenner rese pubblici i propri studi. Ben presto, però, fu attaccato da varie parti: si sosteneva che l'immunizzazione con il vaiolo vaccino non era una sua invenzione, bensì era già stata applicata altre volte. Egli si difese dichiarandosi il vero scopritore del metodo. In realtà prima di lui altri avevano fatto le stesse osservazioni. Jenner aveva forse copiato l'idea? Chissà! Gli va comunque riconosciuto il merito di aver affrontato per primo il problema con spirito scientifico e di aver collaborato a diffondere la vaccinazione, salvando moltissimi dalla malattia che per secoli aveva terrorizzato intere popolazioni. Nel maggio 1980 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato scomparso il vaiolo: si tratta della prima malattia infettiva debellata dall'uomo. Quindi la vaccinazione ormai non si usa più: per ogni evenienza, tuttavia, esistono ancora depositi di vaccino. Per evitare che il virus del vaiolo possa uscire casualmente o per fini terroristici dai laboratori in cui è studiato, la sua conservazione è autorizzata solo in due strutture di ricerca, in Russia e Stati Uniti. Da tempo si discute se debbano essere eliminati anche questi ultimi ceppi. Anna Buoncristiani


SCIENZE A SCUOLA. AMBIENTE Una "rete" per i parchi delle Alpi
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUATTORDICI parchi nazionali, quasi 50 parchi regionali. Senza contare la rete europea dei biotopi. Questi dati sanciscono da soli l'importanza, nella politica delle aree protette, dell'arco alpino, bioregione cerniera tra l'Europa continentale e il Mediterraneo. Questo giacimento di ambiente e di biodiversità tuttavia è sparso a macchia di leopardo e mortifica spesso quel concetto di continuità che invece è alla base della moderna gestione del territorio ambientalmente straordinario. Per ovviare a questa situazione e costruire una politica comune, i parchi alpini si sono organizzati, dando vita alla Rete delle aree protette alpine. L'iniziativa si ispira all'articolo 12 del Protocollo Protezione della natura e gestione del paesaggio della Convenzione delle Alpi: " Le parti assumono le misure idonee a creare una rete nazionale e transfrontaliera di aree protette costituite di biotopi e altri beni ambientali protetti o meritevoli di protezione. Esse s'impegnano ad armonizzare gli obiettivi e le misure in funzione di aree protette transfrontaliere". Ad avviare il progetto è stata la Francia che, con il coordinamento del Parco Nazionale degli Ecrins, ha ottenuto l'adesione degli altri Paesi che hanno ratificato la Convenzione. A seguito della Prima Conferenza Internazionale delle Aree Alpine protette tenutasi a Gap nel 1995, i parchi alpini si sono organizzati per l'applicazione del protocollo. L'iniziativa, accolta positivamente dai ministri dell'ambiente dei Paesi alpini nel corso della Conferenza Alpina di Brdo (Slovenia) del febbraio 1996, ha deciso di affidare a un Comitato Permanente la preparazione di un programma di lavoro. Si sono così concretati progetti su temi come: i rapaci, lo stambecco, i grandi ungulati, il ritorno dei predatori, la comunicazione e la gestione del turismo. La seconda Conferenza internazionale della Rete, che ha trattato i temi generali sul futuro del progetto ma soprattutto gli aspetti di gestione faunistica collegati al protocollo della Convenzione delle Alpi, si è tenuta l'1 e 2 ottobre a Pollein (Aosta), per l'organizzazione del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Un primo momento di informazione è stato messo a punto con la pubblicazione del " Bollettino della rete delle aree protette alpine". Informazioni: P.N. degli Ecrins, c/o LAMA, 17 Rue M. Gignoux, 38031 Grenoble Cedex; tel. 0033 476635946; fax: 0033 476635877; e-mail: pguido&iga. ujf-grenoble.fr fgranzot&iga.ujf-grenoble.fr Nei prossimi mesi entrerà in funzione un sito Internet. Tra gli altri impegni assunti dalla Rete, la redazione di un "Inventario dei tipi di aree protette alpine e proposta di tipologie" e, su incarico del Soia (Sistema di Osservazione e d'Informazione delle Alpi), la realizzazione di una ricerca tesa a stabilire gli indicatori ambientali necessari alla costituzione di una banca dati su fauna, flora, aree protette, ambiente. In prospettiva, la Rete può svolgere un ruolo fondamentale nell'assicurare alla regione alpina la necessaria politica unitaria per uno sviluppo ecocompatibile che non può che partire dai modelli studiati e realizzati nei parchi. Ma è chiaro che una politica di gestione del territorio non globale, con aree protette ed altre aggredite da modelli di sviluppo incompatibili, non può che andare a scapito delle prime, il cui unico scopo rischia di divenire quello di fungere da alibi a indirizzi generali non solo non condivisibili, ma nemmeno più giustificabili. Le Alpi possono davvero diventare un territorio strategico per il futuro delle politiche ambientali in Europa e costituire un caso esemplare capace di dimostrare la possibilità di un modello di sviluppo che coniughi natura e cultura, uomo e territorio. Sarà così possibile salvaguardare l'ecosistema più fragile e minacciato del pianeta: 1200 chilometri di catena alpina per una superficie di 191.000 chilometri quadrati in cui vivono oltre 13 milioni di cittadini di otto nazioni. Le Alpi sono solo lo 0,19 per cento delle terre emerse, ma come tutti i rilievi rappresentano uno scrigno di risorse naturali, a cominciare dall'acqua potabile, destinate a divenire strategiche. Walter Giuliano




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