TUTTOSCIENZE 17 giugno 98


SEGNALI DIGITALI La tua voce? E' una lunga serie di numeri Così il cellulare trasforma le parole in bit e viceversa
Autore: A_R_M

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, ELETTRONICA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Telefonini

LA tecnica più semplice per digitalizzare la voce, ossia per convertire il segnale analogico che esce dal microfono in una sequenza di "uno" e "zeri", è quella adottata nella rete Isdn. Si rilevano dapprima i valori del segnale in istanti predefiniti, posti a distanza costante. Poiché la frequenza con cui si prelevano questi "campioni" del segnale deve essere almeno il doppio della più alta frequenza che si vuole ricevere e poiché la parte più importante dell'informazione di un messaggio "vocale" (non di un canto o di una musica) è contenuta nel campo delle frequenze inferiori a 4000 hertz, si prelevano 8000 valori del segnale ogni secondo. Ciascuno di questi 8000 valori viene poi espresso in un codice binario, utilizzando, per la rappresentazione di un campione, un numero di bit tanto maggiore quanto più alta è la qualità desiderata della riproduzione. Nel compact disc musicale, a fedeltà molto alta, si impiegano 16 bit per campione, ma nella telefonia di Isdn ci si accontenta di 8 bit. Comunque, 8000 campioni al secondo moltiplicati per 8 bit al campione producono 64.000 bit al secondo, un numero relativamente elevato. Per ridurre il numero di bit al secondo da trasmettere in una comunicazione telefonica, in modo da rendere possibile l'instradamento di più linee sullo stesso canale, si sono sviluppate tecniche molto complesse e interessanti. Il ragnetto che converte i bit in voce e viceversa, che abbiamo definito "fisiologo", si è studiato a fondo l'apparato umano di fonazione, la teoria dei segnali, la modellazione matematica, oltre, ovviamente, all'ingegneria del software, che è la sua prevalente vocazione professionale. La prima cosa che ha appreso è che la maggior parte dei suoni elementari che costituiscono la voce è prodotta dalla vibrazione delle corde vocali, due membrane carnose che per effetto della pressione dell'aria insufflata dai polmoni si aprono e chiudono in rapida vibrazione. La frequenza di apertura e chiusura della fessura fra le due membrane è dell'ordine di cento hertz, ossia cento aperture al secondo, ed è più alta per le donne e più bassa per gli uomini. Inoltre, la frequenza di vibrazione delle corde vocali non è costante ma varia con continuità nell'arco della frase. Nella lingua degli antichi mandarini pare che le variazioni della frequenza fondamentale portasse informazione sulle parole pronunciate; ciò non avviene più nella grande maggioranza delle lingue attuali. Tuttavia, il modo con cui varia la frequenza fondamentale nel corso della frase convoglia informazione importante sul tipo di frase - esclamativa o interrogativa, ad esempio -, sull'identità del parlatore, sulla sua inflessione dialettale, e così via. Il segnale prodotto dalla vibrazione delle corde vocali è molto ricco di componenti, di varie frequenze, e può quindi essere immaginato come la composizione di tante note musicali. Spetta al "tratto vocale", ossia al complesso sottosistema acustico composto dalla cavità orale e dall'associata cavità nasale, con il palato, la lingua, i denti, le labbra, amplificare alcune delle note prodotte dalle corde vocali e attenuarne altre, come avverrebbe in uno spartito musicale con mille note in ogni ottava e non con sette, con il do, il do diesis e cento do stonati di varia frequenza fra il do e il do diesis. In sostanza, il tratto vocale si comporta nei confronti delle corde vocali come la cassa del violino nei confronti della corda che vibra, strofinata dall'archetto, con la differenza che nel violino l'informazione è prevalentemente affidata alla nota, mentre nel nostro apparato fonico l'informazione è convogliata nel timbro. Vi sono poi dei suoni, come la "s" e la "f", detti "non vocalizzati", che non sono prodotti dall'eccitazione delle corde vocali, ma da una qualche fonte di turbolenza nel flusso d'aria che esce dai polmoni; altri, come la "p" e la "t", chiamati "esplosivi", che sono generati chiudendo per un istante il flusso d'aria in corrispondenza delle labbra o del palato e aprendolo improvvisamente, in modo da produrre un breve picco di energia acustica. Il ragnetto si è studiato a fondo tutti questi meccanismi e ha sviluppato tecniche molto raffinate, basate sulla teoria dei segnali e sulla modellazione matematica, per indurre, istante per istante, la tipologia del segnale emerso e determinarne le caratteristiche numeriche. Così, invece di trasmettere 8000 valori del segnale ogni secondo, il telefonino trasmetterà, molto più raramente, all'incirca 100 volte al secondo, un pacchetto di bit che diranno: "In questo momento il segnale è vocalizzato; le corde vocali vibrano a questa frequenza; l'energia del segnale è tot; il tratto vocale comprime queste frequenze ed esalta queste altre". In ricezione, il ragnetto utilizzerà i dati ricevuti per controllare un modello matematico dell'apparato umano di fonazione e riprodurrà con un complesso processo di sintesi la voce del parlatore remoto. Adottando questa tecnica, frutto dell'intelligenza di tanti ricercatori e della straordinaria velocità di calcolo del ragnetto fisiologo, una comunicazione vocale potrà essere compressa in circa 10.000 bit al secondo, la sesta parte dei 64.000 bit al secondo necessari nel tradizionale campionamento, in modo da attuare sei comunicazioni contemporanee al posto di una. In laboratorio si è già scesi a 4000 bit al secondo, a parità di qualità, e per adesso non è ancora stato individuato il limite a cui si riuscirà a scendere. Ma è sicuro che a quel limite arriveremo molto rapidamente, per la congiura di interessi scientifici ed economici.(a. r. m.)


TECNOLOGIA QUOTIDIANA Smontiamo il telefonino Contiene tre computer grandi come monetine
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, ELETTRONICA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Telefonini

UNA ventina di anni fa, in un vasto locale del Politecnico di Torino, cento metri quadrati, avevamo attrezzato un laboratorio dove facevamo ricerche sull'elaborazione della voce e dove orgogliosamente accompagnavano i visitatori. In quel laboratorio avevamo investito i fondi di dotazione dell'Istituto per almeno cinque anni consecutivi: una cifra ragguardevole, quasi interamente dedicata ad acquisire ed espandere un calcolatore specializzato nell'elaborazione dei segnali. Il laboratorio esiste ancora oggi, ed è attrezzato con strumenti e calcolatori molto più complessi e potenti di quelli di allora, ma là non accompagniamo più i visitatori, perché sarebbe come invitare un amico ad ammirare i dipinti del proprio salotto dopo aver visitato la Cappella Sistina. Tutto il laboratorio di vent'anni fa, opportunamente arricchito di funzioni e potenziato di molta capacità di calcolo, costituisce soltanto uno dei tre componenti elettronici fondamentali di un oggetto molto diffuso in natura, con milioni di esemplari anche nel nostro Paese: il telefonino cellulare Gsm. Tre veri e propri sistemi di elaborazione miniaturizzati, strettamente interconnessi fra loro in quella che non è improprio definire una "rete di calcolatori", sono nascosti sotto la tastiera del telefonino. Cominciando dall'alto, ossia dall'antennina, il primo sistema che incontriamo è quello che in linguaggio tecnico è definito il "gruppo di alta frequenza" e che noi potremmo chiamare più familiarmente, il " riconoscitore dei bit". Le due definizioni ricordano due caratteristiche ugualmente importan ti. Infatti, il segnale che arriva all'antennina in fase di ricezione e quello che il telefonino produce in trasmissione sono di frequenza molto alta, dell'ordine di 900 MHz ("megahertz"), ossia 900 milioni di oscillazioni complete ogni secondo. "Ogni tanto", quel segnale che oscilla o vibra freneticamente su e giù, 900 milioni di volte al secondo, viene fatto incespicare, ossia, per dirla in linguaggio più tecnico, viene sottoposto a una variazione di fase. Il fenomeno è analogo a quello che succede, a noi uomini, due volte all'anno, quando mettiamo la sveglia alle due di notte, per spostare di un'ora le lancette dell'orologio avanti o indietro. Ho scritto "ogni tanto" tra virgolette per ricordare che quel "tanto" per noi uomini, che abbiamo un cuore che batte un colpo al secondo, corrisponde a molto poco, essendo dell'ordine di frazioni piccolissime del millesimo di secondo, ma è veramente tanto per il sottosistema di alta frequenza, che palpita a una frequenza di quasi un miliardo di battiti al secondo. Quando il nostro sottosistema di alta frequenza sente una variazione di fase del segnale, allora cattura un bit, ossia un " quantum" di informazione che può assumere solo due valori, "uno" oppure "zero". Più esattamente, se la variazione di fase è in anticipo, analogamente a quanto succede a primavera, quando spostiamo le lancette dell'orologio in avanti, il ricevitore acquisisce un "uno": quando invece la fase viene fatta variare in ritardo, il ricevitore acquisisce uno "zero". Per questa ragione, il sottosistema di alta frequenza è stato chiamato "riconoscitore dei bit" e per la stessa ragione il telefono cellulare Gsm deve essere considerato un esempio importante di multimedialità digitale. Nell'attuale telefonia residenziale e nella stessa telefonia cellulare della generazione precedente il Gsm, il segnale propagato sui cavi o sull'etere aveva una forma d'onda molto simile o analoga all'onda di pressione prodotta nell'aria dell'apparato umano di fonazione e per questa ragione tale telefonia poteva essere classificata come analogica. Invece nella telefonia Gsm il segnale viene rappresentato con un codice opportuno costituito esclusivamente da "uni" e "zeri", e per questo la trasmissione viene classificata come digita le. Il secondo sottosistema del telefonino è un microprocessore, ossia un vero e proprio calcolatore realizzato su un unico microcircuito delle dimensioni di un'unghia, che per i piedini metallici spuntati su tutti i lati del suo corpo a sezione quadrata assomiglia a un ragnetto. In fase di ricezione, questo ragnetto di silicio riceve dal sottosistema di alta frequenza i bit che quest'ultimo ha ricevuto dall'etere e li converte nel segnale elettrico che l'altoparlante convertirà in un segnale acustico con la stessa forma. Viceversa, in fase di trasmissione, il ragnetto traduce il segnale elettrico proveniente dal microfono, che ha la stessa forma del segnale acustico nella sequenza di "uni" e " zeri" corrispondente secondo la tecnica di codifica convenuta. Per essere efficiente, ossia per rappresentare il messaggio vocale in pochi bit al secondo in modo da rendere possibili più comunicazioni contemporanee sullo stesso campo di frequenze, il ragnetto si è studiato a fondo il trattato di fisiologia dell'apparato umano di fonazione, insieme alla teoria della modellazione e quella dell'informazione, come raccontato nell'articolo a fianco. Il terzo sottosistema del telefonino è ancora un ragnetto, ma con caratteristiche diverse da quelle del ragnetto fisiologo che converte i bit in voce e viceversa. Infatti, mentre quest'ultimo è un digital signal processor (o elaboratore digita le di segnali) specializzato nel trattare segnali eseguendo molti milioni di operazioni aritmetiche al secondo, il terzo è un elaboratore generico, senza una specifica specializzazione. Succede spesso fra gli uomini che quelli che non sanno fare nulla particolarmente bene comandano chi sa fare; analogamente, il nostro ragnetto generalista comanda, o coordina (parola più elegante), gli altri microcircuiti del telefonino. Inoltre, a differenza di quanto avviene fra gli uomini, questo microprocessore (ragnetto) si dà da fare in mille lavoretti utili, per giustificare il suo stipendio. Ad esempio, acquisisce le indicazioni date dall'utente attraverso la tastiera e le traduce in comandi operativi per gli altri microcircuiti del telefonino. Così, se questa indicazione è il numero telefonico di un altro utente, si generano i segnali per chiedere la connessione a quel numero; se invece si desidera inviare un breve messaggio ad un amico, utilizzando uno dei molti servizi ausiliari del Gsm, il ragnetto generalista traduce i singoli caratteri del messaggio introdotto da tastiera nei bit corrispondenti secondo un codice opportuno e li trasmette al sottosistema di alta frequenza per il successivo invio al destinatario via etere. Inoltre, il ragnetto capetto comanda un centopiedi di silicio, una piccola memoria allocata sulla scheda che si infila nel telefonino. Questa memoria contiene i dati fondamentali dell'utente, come il suo numero, il codice segreto per accedere all'apparecchio, l'eventuale disponibilità residua. Concludo con qualche informazione su cui riflettere. Il nostro Paese è leader europeo nella diffusione dei telefoni cellulari (14 milioni) e fanalino di coda, o quasi, nel numero di personal computer e nel numero di cittadini collegati a Internet. Inoltre, l'offerta internazionale di ragnetti, centopiedi, telefonini e apparati per la realizzazione di reti cellulari non registra alcuna presenza significativa di imprese italiane. Vi sarà un motivo? Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino


SCIENZE DELLA VITA. LIGURIA L'agronomo Mario Calvino
AUTORE: ACCATI ELENA
ARGOMENTI: BOTANICA
PERSONE: CALVINO MARIO
NOMI: MAMELI EVA, CALVINO MARIO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

CATTURARE l'attenzione degli agricoltori era difficile un tempo come può esserlo ora. Curioso è lo stratagemma a cui fece ricorso un giovane e brillante neolaureato ligure, Mario Calvino, il futuro padre dello scrittore Italo, nel 1900: si improvvisava giocoliere maneggiando una innocua biscia sul sagrato di una chiesa di domenica. Alla gente teneva una lezione di agricoltura spiegando l'uso dei concimi chimici (una novità per l'epoca), i fitofarmaci, la potatura degli ulivi (tanto che ancora oggi si parla di «potatura Calvino»). La decadenza dell'ulivo, seguita dal salvataggio della vite colpita dalla filossera su cui divulga la tecnica dell'innesto sul selvatico americano, l'organizzazione di vivai cooperativi per fornire i viticoltori di barbatelle innestate e la fondazione dei consorzi agrari cooperativi sono le prime attività a cui si dedica riscuotendo interesse e stupore. Comprende l'importanza dellasperimentazione agronomica e della divulgazione: promuove la diffusione del carciofo con le spine (Cynara scolymus). Comprende ben presto le potenzialità della floricoltura, si occupa di ibridazione della rosa e del garofano che diventeranno le principali specie da fiore della Riviera Ligure di Ponente. Quindi, in Messico prima e a Cuba poi, inizia una esperienza professionale di grande impegno, esprimendo un'attività vulcanica: introduce in quei Paesi la pratica del sovescio (concimazione mediante l'interramento di leguminose, piante azotofissatrici), propaganda l'innesto per rendere possibile la coltivazione su suoli diversi, introduce la sistemazione del suolo per coltivare la patata dolce, la copertura del suolo con strame per conservare l'umidità, conduce esperimenti su piante che chiama «feculente» alla ricerca dell'amido panificabile come surrogato della farina di frumento, insegna la coltura del pomodoro, coltiva le zucche nel deserto con un artificio: interra una notevole quantità di pale del fico d'India (Opuntia) fornendo in questo modo una riserva di acqua necessaria allo sviluppo delle zucche, fatto che sbalordisce i peones. La vita di Mario Calvino, però, non può essere dissociata da quella della moglie Eva Mameli, biologa e genetista che ha sempre condiviso la passione per la ricerca del marito, seguendolo nei suoi viaggi oltre oceano. Nel 1925, essendo stata fondata la Stazione Sperimentale di floricoltura a Sanremo, Mario Calvino viene chiamato a dirigerla. Tuttavia essendo esigui i finanziamenti egli offre la sua casa, Villa Meridiana, per ospitare uffici e laboratori. Lo sviluppo della floricoltura industriale lo vedrà impegnatissimo accanto alla diffusione delle numerose piante introdotte dal Sud America ancora oggi presenti in Liguria e perfettamente acclimatate: dall'avocado (Persea gratissima) alla Forestiera durangensis un ulivo nano, ma con un frutto bianco, dallo Schinus molle (falso pepe in tempo di guerra usato come succedaneo del pepe vero), di cui esistono esemplari maschili e femminili adatti a formare viali nelle zone a clima mediterraneo, ad alcune specie di dalie gigantee che fioriscono in inverno, dalla Casimiroa che produce frutti in settembre-ottobre nella zona di Sanremo. Nel mondo vegetale molto c'è ancora da scoprire e provare, come afferma il genetista Tito Schiva che ha curato una biografia di Mario Calvino (Ace International - Calco, Como) che ha visto la luce in questi giorni, mentre si celebra il centenario della floricoltura ligure. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. ARCHEOLOGIA IN LIBIA Le città del silenzio Sulle spiagge di Tripolitania e Cirenaica
Autore: SCAGLIOLA DAVIDE

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, LIBIA

TEATRI augustei e agorà spettacolari. Terme grandiose e mosaici raffinati, colonnati, statue, templi e basiliche bizantine. Intere città romane affiorano tra la sabbia e il mare lungo il litorale libico. Leptis Magna, Sabrata, Apollonia, Cirene, Tolemaide giacciono tra il Sahara e il Mediterraneo sulle spiagge di Tripolitania e Cirenaica. Una straordinaria serie di vestigia imperiali che costituiscono un patrimonio archeologico degno di Pompei, Atene e Roma stessa. Strabilianti musei all'aria aperta, nella terra di Gheddafi, poco frequentati, spesso silenziosi e ben tenuti. Leptis Magna ad esempio è una città completa rimasta sepolta per secoli e venuta alla luce solo nei primi anni di questo secolo. Si intuisce ancora tutta la struttura grandiosa dell'urbe. Il grande Foro, i capitelli scolpiti, i busti di marmo, le decorazioni della basilica e le colonne sbriciolate al suolo, sparsi tra il mare in tempesta e il verde della macchia mediterranea, sono surreali. Così come il grande teatro augusteo: lame di luce attraversano l'ampia cavea e il palco a emiciclo, sottolineando i bassorilievi e le statue che ancora adornano il proscenio. Dietro si intravedono le colonne di marmo cipollino del tempio dedicato a Cerere Augusta, il ninfeo monumentale, il chiosco ottagonale del mercato, le strutture della basilica severiana e il lungo cardo, la strada lastricata che divideva le insulae (i quartieri). Leptis venne fondata dai Fenici intorno al VI secolo a. C. e divenne presto il porto principale per le grandi carovane sahariane. Dall'Africa centrale arrivavano tonnellate di avorio, oro in polvere, pelli, sale e gemme, schiavi e belve per i circhi di Roma. Leptis si trasformò nel centro commerciale più importante del Nord Africa imperiale. Divenne splendida sotto Settimio Severo (146-211 d.C.). Le Terme di Adriano per esempio, già sontuose, vennero completamente marmorizzate. Bagni turchi, piscine, frigidarium e latrine comuni, divennero il centro degli incontri sociali della città. A partire dal IV secolo d.C. il suo porto cominciò però ad insabbiarsi, i dintorni s'impaludarono e le prime scorrerie polverizzarono l'economia. Gli arabi la distrussero completamente. Levantini, Vandali, Bizantini e Berberi compirono saccheggi e minarono gli scambi commerciali. Nell'anno Mille infine Leptis scomparve dalle cronache. I venti la protessero fino ai primi del '900, quando iniziarono le prime opere di scavo italiane. Ma gravi razzie vennero compiute nel corso dei secoli: colonne e lastre di marmo prezioso, statue e mosaici presero il mare alla volta di lidi arabi, inglesi e francesi per mano di ambasciatori e mercanti senza scrupoli. Alcune testimonianze sono ancora visibili per esempio a Windsor, in alcune moschee arabe e nei musei di Parigi. Gli italiani invece, che compirono la maggioranza dei lavori tra il 1912 e il 1922 sotto la guida di Aurigemma e Romanelli, non trafugarono granché. Anzi la colonia italiana costituì un Servizio delle Antichità trasformando gli uffici archeologici in soprintendenze organizzando anche gli scavi di Sabrata e catalogando tutti i tesori rinvenuti. Oggi Leptis, che si trova 128 chilometri a Est di Tripoli, è uno dei siti archeologici più importanti d'Africa. Il nuovo museo poi, costruito accanto alle rovine, raccoglie statue, bassorilievi, anfore, gioielli, monete, mosaici e capitelli fenomenali. Sabrata invece, insediamento di origini fenicie, si trova a Ovest della capitale libica. E' un altro dei leggendari «emporia», la ricca serie di porti commerciali imperiali. Divenne colonia romana nel 149 dopo Cristo. Tra le molte rovine numidi e bizantine spicca il gigantesco teatro romano. Misura 92,50 metri di diametro e conserva un proscenio multilivello imponente. La scena, a pochi metri dal mare, è quasi intatta: tre ordini di colonne scavate da tre esedre semicircolari rappresentano la scenografia. Al piano terra e ai livelli superiori un corridoio circolare contorna la cavea. Le gradinate ospitarono ancora nel 1937 un grande spettacolo (una commedia di Terenzio) organizzato da Italo Balbo (l'allora console in Libia) alla quale presenziò persino Mussolini, giunto appositamente in idrovolante dall'Italia. Una curiosità: tra le navate della grande basilica di Sabrata nel 157 d.C. si svolse anche il celebre processo a carico di Apuleio. La sua leggendaria apologia difensiva venne declamata sotto gli occhi di Iside e del proconsole Claudio Massimo tra le colonne e i capitelli preziosi. Davide Scagliola


SCIENZE DELLA VITA. CIRENE A mezza collina sul mare di Apollonia
Autore: D_SC

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, LIBIA

CIRENE, Apollonia e Tolemaide sorgono 600 chilometri a Est di Tripoli. Furono città e sbocchi commerciali importanti, ma con caratteristiche più greche che romane. Ad esempio Cirene, città apollinea cantata da Erodoto, fu patria di Teodoro (matematico), Aristippo (filosofo), Erastotene (che determinò per primo la lunghezza del meridiano terrestre), Callimaco (poeta) e di innumerevoli sportivi, artisti e intellettuali. Le rovine di Cirene si trovano a mezza collina, quasi a picco sul mare di Apollonia, suo porto naturale. Restano in piedi parte delle Terme adrianee, il Foro romano, il ginnasio, alcune statue di marmo bianco, la grande agorà colonnata e alcuni templi. La città venne costruita a 500 metri di altezza sull'altipiano di Jabal al-Akkdar dai Terei nel VII secolo a. C. tra lauri, mirto e speroni di roccia. Divenne la città degli asfodeli esaltata da Pindaro e fu sede della leggendaria fonte di Apollo. Il suo porto, Apollonia appunto, conserva ancora un suggestivo anfiteatro greco-romano, i magazzini e i resti delle basiliche bizantine con le colonne di marmo azzurro bagnate dalle onde. Sulla collina si trova invece il grande tempio di Zeus, il più grande d'Africa, eretto in stile dorico arcaico intorno al VI secolo a. C. Un tempo ospitò la copia della statua di Zeus, capolavoro di Fidia, alta 13 metri. Oggi non ne rimangono che pochi frammenti. (d. sc.)


SCIENZE DELLA VITA. MERCANTOUR E ALPI MARITTIME Il gipeto diventa international Progetto comune Italia-Francia, tra i due parchi gemellati
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: PARCO NATURALE REGIONALE DELLE ALPI MARITTIMEW, PARCO NAZIONALE DEL MERCANTOUR
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, ITALIA, FRANCIA
TABELLE: C. Distribuzione nelle Alpi italiane fino al 1994 delle osservazioni di gipeti reintrodotti 1) Alti Tauri 2) Engandina 3) Alta Savoia 4) Argenterea-Mercantour

DAL 10 luglio del 1987 il Parco naturale regionale delle Alpi Marittime e Parco nazionale francese del Mercantour sono gemellati. Ora questi due spazi naturali fanno un ulteriore passo in avanti dando alla collaborazione l'impegno di concretezza che deriva dalla sottoscrizione della carta di gemellaggio. La firma ufficiale posta il 6 giugno a Tenda, borgo medievale delle Alpi Marittime passato alla Francia nel 1947, che ben simboleggia l'internazionalità di questi territori, ha come obiettivi principali la tutela e l'arricchimento del patrimonio ambientale e culturale transfrontaliero e la creazione di una identità comune, per una montagna europea senza frontiere. Si tratta di un passo significativo verso la creazione di una sola entità protetta che aspira a diventare il primo parco europeo e che potrà essere seguita da numerosi esempi alpini in cui accade sovente che le aree protette siano confinanti, come è il caso, per rimanere ai parchi di interesse nazionale, di Gran Paradiso e Vanoise e di Stelvio ed Engadina. La carta di gemellaggio segna un punto significativo nella collaborazione tra le aree protette delle Alpi che progressivamente si consolida anche attraverso la costituzione della «Rete delle aree protette alpine». A significare che il documento di collaborazione non è solo una dichiarazione di intenti Alpi Marittime e Mercantour ne danno immediata esecuzione con un importante atto concreto nell'ambito dell'iniziativa che da anni seguono, il Progetto Gipeto. Un progetto internazionale organizzato e seguito da Wwf, Uicn e Società Zoologica di Francoforte che in quest'area ha avuto la sua prima realizzazione nel 1993 con il rilascio, sul versante francese, di tre giovani esemplari, Argentera, Mounier e Florent, seguita nel 1994 da analoga operazione nel parco italiano con il lancio nel Vallone del Valasco, di Topolino e Mercantour. Il programma di reintroduzione del gipeto sulle Alpi continua ora con due esemplari battezzati non a caso Aisone e Vernante, con il nome di due Comuni del parco, e liberati il 20 giugno. Il terzo rilascio italiano di una coppia di avvoltoi avrà come scenario il Vallone del Gesso della Barra, nel cuore del Parco naturale delle Alpi Marittime. Il rilascio sarà anche l'occasione per continuare la campagna internazionale di informazione sul ritorno di questo grande uccello nella catena alpina. Nel Centro di visita di Entracque il personale del parco condurrà i visitatori alla scoperta del progetto attraverso i 14 pannelli e i giochi interattivi della mostra «il gipeto sulle Alpi» che consente di apprendere le informazioni più importanti sulla biologia e l'etologia del grande avvoltoio. Sarà anche l'occasione per presentare l'iniziativa «L'uovo del gipeto» che si propone il coinvolgimento della gente nell'iniziativa di reintroduzione. Un uovo di cioccolato al latte, confezionato in una scatola di cartone riciclato, e messo in vendita nei Centri di Visita del parco e negli esercizi commerciali locali, contiene un fumetto che illustra le fasi della reintroduzione, sollecitando i frequentatori dell'area a segnalare, comunicandola ai responsabili del progetto, la presenza dei gipeti rilasciati. La collaborazione di turisti, escursionisti, alpinisti, è infatti indispensabile per poter svolgere un monitoraggio efficace che permetta di seguire gli esiti della reintroduzione, a partire dagli spostamenti degli avvoltoi. Walter Giuliano


SCIENZE FISICHE. L'ESPERIMENTO DECISIVO Assedio al neutrino Icarus dirà se ha davvero una massa
Autore: BRESSAN BEATRICE

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: PONTECORVO BRUNO, RUBBIA CARLO, PUALI WOLFGANG
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. D. Le fasi dell'esperimento

UN gruppo di 120 fisici giapponesi e americani impegnati nell'esperimento Super-Kamiokande, in Giappone, ha annunciato che il neutrino, la più inafferrabile delle particelle subatomiche, possiede una massa. Se così fosse, poiché il cosmo è pervaso da un enorme numero di neutrini, l'universo potrebbe avere una massa sufficiente a farlo collassare. Anche i ricercatori dell'esperimento Macro in corso nel Laboratorio del Gran Sasso hanno presentato dati favorevoli alla massa del neutrino. In entrambi i casi gli indizi sono indiretti: provengono dalla teoria della sua "oscillazione" formulata da Bruno Pontecorvo, secondo la quale i tre tipi di neutrino potrebbero trasformarsi l'uno nell'altro. Per avere una risposta definitiva bisognerà attendere un altro esperimento, denominato Icarus. Icarus (Imaging Cosmic And Rare Underground Signals), di cui il Nobel Carlo Rubbia è il coordinatore, rappresenta la nuova generazione di esperimenti sul neutrino dell'Infn (Istituto nazionale di fisica). La collaborazione Icarus prima e l'Infn poi hanno chiesto ufficialmente al Cern di Ginevra di produrre un intenso fascio di neutrini, sfruttando in parte l'infrastruttura già prevista per il futuro acceleratore, il Large Hadron Collider (Lhc). Il progetto prevede di inviare un fascio di neutrini dal Super Proto Sincrotone del Cern, alle pendici della catena montuosa del Jura, ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso in Italia, facendo percorrere a queste particelle 732 chilometri nella crosta terrestre a una profondità massima di 10,5 chilometri. La storia del neutrino ha radici nei primi Anni 30, quando per salvare le leggi della conservazione dell'energia nel decadimento beta, problema che da oltre trent'anni travagliava la comunità scientifica dell'epoca, Wolfgang Pauli propose l'esistenza di una nuova particella neutra leggera anticipando di ben ventisei anni la prima osservazione sperimentale. Enrico Fermi qualche anno dopo inserì questo costituente ultimo della materia, da lui battezzato " neutrino", nella sua nuova formulazione della teoria del decadimento beta. Oggi è patrimonio comune della fisica che il decadimento beta sia un processo radioattivo nel corso del quale in un nucleo instabile un protone si trasforma spontaneamente in un neutrone con l'emissione di un antielettrone e di un neutrino (decadimento beta più), o viceversa, un neutrone in un protone con l'emissione di un elettrone e di un antineutrino (decadimento beta meno). Grazie al neutrino il numero dei costituenti elementari della materia è aumentato. Il Modello Standard suddivide tutte le particelle in due grandi famiglie: quark e leptoni. Accanto ai sei quark e ai sei antiquark, ci sono sei leptoni e sei antileptoni, tre dei quali sono il neutrino elettronico, il neutrino muonico e il non ancora osservato neutrino tauonico, con i relativi antineutrini. Uno dei principali misteri di queste particelle è legato alla possibilità che esse abbiano massa o meno. Le teorie di Grande Unificazione, imponendo la simmetria tra quark e leptoni, richiedono che anche i neutrini abbiano massa, sia pur piccola. Ancora oggi le misurazioni dirette al riguardo non sono del tutto soddisfacenti e forniscono solo i limiti superiori per la massa del neutrino: 5 elettronVolt per quello elettronico, 160 kiloelettronVolt per quello muonico e 24 MegaelettronVolt per quello tauonico. La massa di queste particelle è legata anche a un altro affascinante aspetto della fisica, quello che oggi viene spesso denominato l'enigma dei neutrini solari. Le reazioni termonucleari che avvengono all'interno del Sole producono, tra l'altro, anche neutrini che raggiungono dopo pochi minuti la Terra. La loro osservazione è forse l'unico mezzo per riuscire a capire in maniera diretta i processi di fusione, nonché poter verificare il Modello Solare Standard, la teoria oggi più affidabile sul Sole. La prima misurazione dei neutrini solari, effettuata dall'apparato sperimentale americano di Homestake e confermata da quello giapponese di Kamiokande, ha fornito un risultato inatteso: il flusso dei neutrini risultava tre volte inferiore rispetto alle previsioni teoriche. La soluzione più suggestiva a questo mistero si appoggia all'ipotesi, suggerita nel 1958 da Pontecorvo, detta "oscillazione del neutrino", secondo la quale i neutrini emessi dal Sole possono cambiare specie (per esempio da muonici ad elettronici), sfuggendo così all'osservazione. Processo possibile solo se queste particelle possiedono massa non nulla. Nell'esperimento Gallex dei laboratori del Gran Sasso, una collaborazione italo-franco-tedesca espose al flusso di questi corpuscoli provenienti dal Sole 30 tonnellate di gallio in 100 tonnellate di soluzione per garantirsi la possibilità di osservare almeno un neutrino solare al giorno. E nel 1992 Gallex rivelò il primo segnale. Dopo anni di osservazione il flusso dei neutrini misurato con questo esperimento risulta oggi circa il 60 per cento di quello teorico, a conferma del fatto che i problemi delle proprietà dei neutrini e della dinamica del Sole sono ancora aperti. Oltre a Super-Kamiokande, per accertare l'esistenza delle oscillazioni del neutrino sono in corso gli esperimenti Sno in Canada e Borexino al Gran Sasso. La massa dei neutrini potrebbe fornire preziose informazioni sul destino dell'universo, determinando notevoli cambiamenti sia in cosmologia sia in astrofisica. Una continua espansione, una contrazione o il raggiungimento di uno stato stazionario sono le diverse possibilità previste dalla teoria sulla fine dell'universo, e tutte sono connesse alla massa del neutrino. "Icarus", confrontanto i neutrini di una sorgente ben nota (quella del Cern) con quelli ricevuti al Gran Sasso, permetterà di verificare se esistono davvero le " oscillazioni". Inoltre, osservando i neutrini solari e delle supernove, sarà possibile studiare tutti gli altri aspetti di queste particelle. Icarus si avvarrà di un rivelatore criogenico ad argon liquido in grado di fornire immagini tridimensionali delle reazioni che avvengono al suo interno. Per lo studio sistematico di un gran numero di eventi fisici in una vasta banda di energie, da qualche megaelettronVolt tipica delle interazioni dei neutrini solari a quelle più elevate del decadimento del protone, un GigaelettronVolt, fino a quelle altissime delle interazioni dei neutrini cosmici, è prevista la realizzazione di un rivelatore di parecchie migliaia di tonnellate, diviso in moduli di 600 tonnellate ciascuno. Se tutto va secondo i piani che prevedono l'inizio dei lavori al Cern per tutta la strumentazione di produzione del fascio entro quest'anno, i neutrini potrebbero iniziare il loro viaggio da Ginevra al Gran Sasso nel 2002. Beatrice Bressan


SCIENZE DELLA VITA. CALCIO E VIOLENZA Hooligans: per ora inguaribili Ancora oscure le ragioni dell'aggressività
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

I tifosi del calcio hanno sempre fatto baruffa, ma talora si è arrivati a violenze tragiche. Tutti ricordiamo la carneficina, un centinaio di morti, nello Stadio Heysel di Bruxelles nel 1988, ma ve ne erano state altre in precedenza: nel 1964 a Lima, 400 morti; nel 1967 a Kaiseris, Turchia, 40 morti; nel 1968 a Buenos Aires, 80 morti; nel 1971 a Glasgow, 65 morti; nel 1985, ancora a Bruxelles, 38 morti. I Mondiali di calcio in Francia stanno rinnovando l'allarme. Si sono lette molte considerazioni di carattare psicologico e sociologico sulle imprese degli hooligans e dei nostri ultrà, i guerrieri della domenica, poche invece sull'aggressività come carattere biologico del comportamento umano. L'aggressività fa parte del nostro essere ed i biologi la studiano come studiano altre manifestazioni legate al sistema nervoso. Molte ricerche sono indirizzate a stabilire le cause biologiche dell'aggressività, indagando sul cervello, sugli ormoni, dovunque possa originarsi una pulsione verso il comportamento aggressivo. Guai se l'aggressività non ci fosse, saremmo come una macchina svuotata, la lotta per la vita richiede una certa carica aggressiva, ma vi è anche una patologia dell'aggressività, la violenza e il terrorismo. Lo spagnolo Josè Delgado fece esperimenti fondamentali lavorando nell'Università di Yale. Egli stimolava zone del cervello di animali mediante elettrodi radiocomandati, e osservava le reazioni. Sotto l'effetto di queste stimolazioni l'animale diventava un giocattolo, andava in collera oppure si acquietava. Un toro in procinto di lanciarsi a capo basso veniva bloccato quando si mandava la corrente a un determinato elettrodo: si arrestava, perdeva la sua carica. Nella zona centrale dell'encefalo vi sono costellazioni di cellule nervose fra loro correlate in continuo equilibrio dinamico, strettamente connesse con le reazioni di aggressività. Queste correlazioni possono suscitare, oppure inibire, uno stato di aggressività, come si è visto specialmente nel gatto, con esperimenti che raggiungono grande finezza e precisione ed i cui risultati vengono espressi con coefficienti matematici. Certo i meccanismi cerebrali responsabili del comportamento aggressivo umano sono molto complessi e ancora scarsamente noti. Tuttavia si ottennero indicazioni interessanti dall'uomo stesso, sempre per mezzo di elettrodi inseriti nel cervello allo scopo di curare sindromi psichiatriche. Si vide che il comportamento violento si accompagnava con alterazioni dell'elettroencefalogramma registrato in corrispondenza dell'ippocampo ventrale, dell'amigdala mediana, del mesencefalo (zone del cervello) e del cervelletto. Stimolando queste zone si suscitavano stati di ira e di violenza. E' ben noto che molte malattie mentali possono avere sintomi di aggressività e non per niente c'erano le famose "camicie di forza" (il che non significa, però, che i violenti siano sempre malati di mente). Esiste insomma una base biologica dell'aggressività, collegata con una disposizione genetica. Questi meccanismi nervosi sono influenzati dalla composizione chimica del sangue e in particolare dagli ormoni (è ben nota l'importanza degli ormoni sessuali per l'aggressività, altri ormoni collegati con l'aggressività sono le catecolamine - adrenalina e noradrenalina - prodotte dalle ghiandole surrenali) e per via artificiale da droghe, da alcol, da intossicazioni da farmaci, da traumatismi, da malnutrizione. Naturalmente l'aggressività risente di numerosi stimoli culturali, economici, sociologici, ideologici, filosofici, ma questi fattori devono pur sempre essere "filtrati" dal cervello e agiranno mettendo in moto nei centri cerebrali una serie di meccanismi particolari, tali da condurre ad un comportamento aggressivo e anche alla violenza. Soprattutto negli anni formativi l'ambiente è determinante attraverso i cambiamenti che induce a livello neurochimico e neurobiologico. Le nostre conoscenze del meccanismo biologico del comportamento aggressivo non ci danno ancora un quadro esauriente dell'organizzazione cerebrale implicata nell'aggressività, tuttavia è chiaro che alcune forme di violenza sono il risultato d'una disfunzione biologica. E' logico quindi domandarsi se sia possibile curare con mezzi biologici l'aggressività patologica. Esiste un'ampia gamma di farmaci che riducono o prevengono il comportamento aggressivo, e si sta studiando una scelta razionale dei farmaci in base all'analisi computerizzata del tracciato elettroencefalografico e degli effetti dei farmaci sul tracciato stesso. Intorno agli Anni 40 fu proposto un intervento chirurgico sul cervello, la "leucotomia", per fare scomparire manifestazioni impulsive e neutralizzare tendenze antisociali, poi questa psicochirurgia, applicata anche alla cura di malattie mentali, fu abbandonata, anzi pubblicamente condannata, poiché in questo modo è facile aprire la via a concezioni repressive pericolose (si ricordi il film di Milos Forman "Qualcuno volò sul nido del cuculo"). Bisogna prima di tutto progredire nello studio della biologia della violenza. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE FISICHE. MATEMATICA E NOTE L'errore musicale di Pitagora A correggerlo fu il padre di Galileo Galilei
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: MATEMATICA, MUSICA
NOMI: PITAGORA, GALILEO GALILEO, NEWTON ISAAC
LUOGHI: ITALIA

IL mio articolo Pitagora: la matematica dell'armonia, uscito di recente in un'altra parte del giornale, ha suscitato (per fortuna]) alcune reazioni. Sorvolerò su certe opinioni integraliste, nonostante gli incitamenti alla discolpa avanzatimi nella lettera di o.d.b. del 30 maggio, e mi concentrerò invece sulla leggenda narrata da Giamblico. Almeno un lettore (Filippo Demonte-Barbera) ha notato che essa è falsa, e chiede di essere correttamente informato su martelli, corde e note: cosa che faccio con piacere qui, perché la storia è particolarmente interessante per il pubblico scientifico. La leggenda, per chi non la sapesse o l'avesse dimenticata, è la seguente. Un giorno Pitagora passò di fronte all'officina di un fabbro e si accorse che il suono dei martelli sulle incudini era a volte consonante, e a volte dissonante. Incuriosito, entrò nell'officina, si fece mostrare i martelli e scoprì che quelli che risuonavano in consonanza avevano un preciso rapporto di peso. Ad esempio, se uno dei martelli pesava il doppio dell'altro, essi producevano suoni distanti un'ottava. Se invece uno dei martelli pesava una volta e mezzo l'altro, essi producevano suoni distanti una quinta. Tornato a casa, Pitagora fece alcuni esperimenti con nervi di bue in tensione, per vedere se qualche regola analoga valesse per i suoni generati da strumenti a corda, quali la lira. Sorprendentemente, la regola era addirittura la stessa] Ad esempio, se una delle corde aveva lunghezza doppia dell'altra, esse producevano suoni distanti un'ottava. Se invece una delle corde era lunga una volta e mezzo l'altra, esse producevano suoni distanti una quinta. La storia di Giamblico si può condensare, in termini moderni, dicendo che Pitagora aveva scoperto che la frequenza di un suono determinato da una corda in tensione è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda, e direttamente proporzionale alla sua tensione. Queste due leggi dell'armonia pitagorica furono tramandate per secoli senza che nessuno si preoccupasse di verificare se fossero davvero corrette: l'esperimento l'aveva fatto Pitagora, e gli altri si fidavano. Il problema è che solo una delle due leggi è corretta, mentre l'altra è sbagliata] Il primo a rendersene conto sembra essere stato Vincenzo Galilei, padre di Galileo. Nel Discorso intorno alle opere di Gioseffo Zerlino, pubblicato nel 1589, egli notò che i suoi esperimenti mostravano che in realtà la frequenza di un suono determinato da una corda in tensione è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda, ma è direttamente proporzionale alla radice della sua tensione. In altre parole, per raddoppiare la frequenza è vero che si deve dimezzare la lunghezza, ma è falso che basta raddoppiare la tensione: bisogna quadruplicarla] Ci si può scandalizzare che siano dovuti passare più di due mila anni prima che un errore tanto grossolano fosse scoperto, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra: quanti hanno mai verificato direttamente le leggi scientifiche e gli esperimenti che i libri riportano? La storia, però, non finisce qui. Dopo aver pubblicato i suoi "Principia", Newton vi aggiunse alcuni commenti che rimasero inediti, e non furono pubblicati che in questo secolo. In uno di questi egli sostiene che Pitagora conosceva già la legge di gravitazione universale, o almeno il fatto che l'attrazione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Il ragionamento di Newton è duplice. Da un lato, Pitagora considerava il Sistema Solare come una lira a sette corde suonata da Apollo e producente la musica delle sfere: dunque, le leggi dell'armonia musicale dovevano essere le stesse di quelle astronomiche. Dall'altro lato, poiché la frequenza è inversamente proporzionale alla lunghezza ma direttamente proporzionale alla radice della tensione, la tensione è inversamente proporzionale al quadrato della lunghezza. Sostituendo tensione e lunghezza con gravitazione e distanza, il gioco è fatto. Attribuendo a Pitagora le leggi scoperte in realtà da Vincenzo Galilei, Newton commetteva però non un errore, ma un vero e proprio falso. Egli sapeva infatti benissimo quali fossero invece le leggi che gli antichi attribuivano a Pitagora, perché su di esse si basava un classico testo di Severino Boezio, di cui egli aveva scritto un commento all'età di 23 anni. Newton era dunque disposto a mentire, pur di poter attribuire agli antichi il credito della sua maggiore scoperta: bei tempi, quelli, in cui un pensatore poteva trovare maggior gloria riscoprendo una saggezza perduta, che non accampando originalità e rivendicando priorità] Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. CERVELLO Le insonni cellule ganglionari
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: BIOLOGIA, GENETICA
NOMI: SHATZ CARLA, LEVI MONTALCINI RITA
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DI TORINO, SIGMA TAU
LUOGHI: ITALIA

LA più pettegola delle donne non tiene testa alle cellule nervose. Potrà parlare per ore, annoiando o divertendo i suoi interlocutori, ma di notte dovrà pur dormire. I neuroni, invece, non tacciono mai: per loro le chiacchiere e i vocalizzi (o meglio, i segnali elettrici attraverso cui comunicano) sono una questione di vita o di morte. E questa attività, che li impegnerà per tutta la vita, inizia prestissimo e ha un ruolo fondamentale, perché ciò che diventerà neurone da adulto è determinato dalla sua abilità di comunicare con gli altri fin dalla più tenera età. Così, per esempio, già negli Anni 70 si scoprì che nel sistema visivo le prime luci che la retina percepisce scatenano un'attività in grado di definire i dettagli della sofisticata e complessa anatomia delle vie nervose che si stanno completando. Tuttavia, secondo quanto sostiene Carla Shatz, neurobiologa dell'Università di Berkeley in California, l'attività nervosa è in grado di modellare le strutture che compongono il sistema visivo già molto prima che l'occhio veda la luce: nell'utero materno. Secondo i suoi studi infatti le cellule che comunicano al cervello le informazioni visive, e in particolare quelle che i neurologi chiamano cellule ganglionari, imparano a parlare molto prima che nella retina si formino i coni e i bastoncelli, i recettori degli stimoli luminosi. Negli adulti sono proprio questi recettori a regolare l'attività dei neuroni ganglionari che, invece, nel sistema visivo in corso di formazione producono spontaneamente segnali elettrici del tutto indipendenti da qualsiasi stimolo luminoso esterno. Recentemente ospite a Torino in occasione della conferenza annuale in onore di Rita Levi Montalcini, organizzata dall'Università di Torino e dalla Sigma-Tau, la Shatz ha mostrato che, nelle prime fasi dello sviluppo questi neuroni si attivano tutti insieme, generando contemporaneamente gli impulsi. " Le onde di attività che risultano da questa scarica sincrona si propagano nelle altre aree del cervello e contribuiscono a modellare l'anatomia del sistema visivo molto prima che l'occhio possa vedere" sostiene la neurobiologa. E' un po' come se, per mettere a punto il tono della voce, le cellule si schiarissero la gola con qualche vocalizzo e qualche colpo di tosse, prima di iniziare il concerto vero e proprio. Successivamente, le scariche spontanee cessano, perché una volta che il maestro ha dato il via, nessuno dei coristi osa tossire nel bel mezzo del canto. Quando nella retina si formano i recettori per la luce, saranno dunque gli stimoli luminosi a dirigere il coro e a garantire, nelle prime battute, una corretta definizione degli ultimi dettagli anatomici. Anche se il meccanismo con cui si generano le onde di attività spontanea non è ancora chiaro, gli studi della ricercatrice statunitense hanno individuato alcune molecole coinvolte in questo strano processo. Ricerche di genetica hanno infatti permesso di identificare la proteina Mhc-1 come una delle principali molecole coinvolte nella formazione delle connesioni fra i neuroni in questa fase precoce dello sviluppo. Sembra che, nel sistema visivo in via di formazione, la sua espressione sia regolata dalle onde di elettricità che si propagano dalle cellule ganglionari e la sua azione contribuirebbe a rendere più precise le connessioni fra un neurone e l'altro, funzionado un po' come un tecnico del suono che aiuta i neuroni a regolare il volume e la direzione della voce. Completata questa fase, la proteina smette di esprimersi nel sistema visivo. Tuttavia, non è certo un caso che la Mhc- 1 sia presente, negli adulti, nella zona dell'ippocampo, l'area del cervello coinvolta nei processi della memoria e dell'apprendimento, caratterizzata da un continuo rimodellamento delle terminazioni nervose durante tutto l'arco della vita. La sua presenza potrebbe quindi essere associata alla capacità dei neuroni di modulare i loro segnali a seconda della necessità. Margherita Fronte


SCIENZE DELLA VITA. COME SARA' LO ZOO DEL FUTURO? Lo spazio del leone Ecosistemi artificiali a San Diego e Montreal
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: SMITHSONIAN NATIONAL PARK, BIODOME
LUOGHI: ITALIA

QUALE sarà lo zoo del futuro? Ce lo domandiamo un po' tutti dopo la crisi profonda che ha investito negli ultimi tempi i giardini zoologici tradizionali. Li si considera un'istituzione anacronistica, superata. Fino all'età moderna le uniche collezioni di animali furono quelle private di re e imperatori. Gli zoo conoscono la loro epoca d'oro nel secolo scorso e agli inizi di questo secolo, quando sorgono quelli delle principali città d'Europa e d'America. Sono una novità che attira il pubblico in tempi in cui quasi nessuno viaggia, quasi nessuno ha occasione di vedere in carne e ossa giraffe, elefanti o rinoceronti. Ma, con il diffondersi dei documentari e dei libri di divulgazione che mostrano una ben diversa realtà, gli zoo entrano in crisi. Un po' alla volta, la nostra concezione degli animali cambia. Ci si rende conto che vedere un animale prigioniero in una gabbia è come vedere un uomo condannato all'ergastolo, in cella di isolamento. Cosa ha in comune il leone che giace apatico e impotente in una gabbia angusta, con il fiero felino fulvo che cammina furtivo nell'erba alta della savana dando la caccia al branco di antilopi? Oppure il gorilla nevrotico che agita ritmicamente la testa sbattendola contro le pareti della gabbia, con il suo compagno di specie che vive libero sulle pendici dei monti Virunga, in mezzo a un'allegra tribù di femmine e di giovani? Il mondo è cambiato. C'è tanta gente che visita i parchi nazionali, che può osservare da vicino gli animali nella libertà della natura. E chi non ha la possibilità di viaggiare, può starsene seduto in poltrona ad ammirare gli splendidi documentari girati nelle foreste dell'Amazzonia, nelle savane africane o nei mari corallini. Gli etologi hanno scoperto finalmente l'immagine vera di questi nostri straordinari compagni di vita sul pianeta. Sappiamo ora che comunicano tra loro in mille modi diversi, che hanno escogitato infiniti stratagemmi per sopravvivere, che amano il gioco, che curano i piccoli, che provano sofferenza e dolore, che sanno usare strumenti e perfino trasmettere cultura. Bando quindi agli spazi angusti, alle gabbie e alle sbarre che rendono gli zoo vecchia maniera simili ai lager. I confini adottati dagli zoo moderni sono fossati e pannelli di vetro. Ma non è stato facile abituare gli animali alle nuove condizioni di vita. Mohini, la tigre dello Smithsonian National Zoo, immessa in un vasto territorio erboso e alberato, ha continuato per parecchi mesi a coprire lo stesso tragitto limitato che era abituata a percorrere nella vecchia gabbia in cui era vissuta per anni. E un orso bianco, pur disponendo di una grande piscina in cui avrebbe potuto sguazzare a piacimento, si è limitato per un bel pezzo a nuotare in cerchio in una ristretta zona d'acqua corrispondente all'estensione della minuscola vasca in cui aveva nuotato per tanto tempo. La clausura in ambienti ristretti ha pesantemente condizionato il loro comportamento. Solo i giovani si abituano in tempi brevi al confort delle nuove residenze. Accettano le novità più facilmente degli adulti. Proprio come succede tra gli uomini. Quello che oggi ci preoccupa è soprattutto la sorte degli animali che in natura rischiano l'estinzione. E gli zoo riacquistano credibilità quando danno vita a centri di ricerca come quelli che affiancano ormai i principali zoo del mondo. I successi non sono mancati. L'orice d'Arabia, la stupenda antilope dalle lunghe corna sottili, sarebbe certamente scomparsa se alcuni esemplari allevati negli zoo di San Diego e di Phoenix non si fossero felicemente moltiplicati. Un boom demografico di proporzioni tali da permettere la reintroduzione della bella antilope nei paesi d'origine. Il cervo di Padre David, scoperto in Cina nel secolo scorso da un missionario francese, sarebbe certamente estinto se non fosse stato allevato negli zoo. Analoga sorte hanno avuto l'oca delle Hawaii e il bisonte europeo. Ma non sempre gli esemplari allevati in cattività possono ritornare ai paesi d'origine. Molte volte il loro habitat non esiste più, cancellato dalla deforestazione o dall'espansione demografica umana. E allora si cerca di riprodurre artificialmente l'ecosistema in cui vive la specie. Come si è fatto a Montreal, dove è sorto il Biodome, un grande complesso che ospita 4000 specie animali e 5000 specie di piante raggruppate in 4 diversi ecosistemi. Il Biodome di Montreal che occupa 7 kmq è un pigmeo di fronte all'immenso Parco degli animali selvatici di San Diego, in California, un'estensione immensa di circa 300 kmq, in cui si alternano zone aride e laghetti, giungle tropicali e savane, distese brulle e floride praterie. Ma è sufficiente tutto questo? Purtroppo no. Affiorano oggi altri motivi di preoccupazione per la sopravvivenza dei selvatici. L'antropizzazione allunga ogni giorno di più i suoi tentacoli, rendendo discontinuo l'habitat naturale di molte specie come la tigre o l'orango. Ci troviamo perciò di fronte a piccole popolazioni separate da autostrade, tenute agricole, zone abitate. Questo rende precaria la loro sopravvivenza. Bastano un cataclisma, un periodo di siccità o un'epidemia per decimarle. Si aggiunga il pericolo della consanguineità. Quando gli individui sono pochi, succede fatalmente che si incrocino tra loro soggetti consanguinei e si ha di conseguenza un impoverimento genetico. Ed è un inconveniente grave perché sono proprio le variazioni genetiche quelle che consentono l'adattamento ai mutamenti dell'ambiente. A maggior ragione il discorso vale per gli ospiti degli zoo, che formano sempre gruppi molto piccoli. Gli scienziati si stanno già occupando attivamente del problema. E hanno creato enormi archivi elettronici in cui sono raccolti i dati genetici di tutti gli animali delle specie in pericolo. In possesso di tali dati stabiliscono quali incroci siano più convenienti per garantire una maggiore varietà genetica. Così combinano i matrimoni, anche se lei si trova, poniamo, in Giappone e lui in Sud Africa. Vuol dire che lo sposo viene portato in aereo al domicilio della sposa o viceversa. La salvezza delle specie in pericolo è affidata dunque al vero protagonista del nostro tempo, il computer. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE FISICHE. ASTRONAUTICA Nello spazio inizia il dopo-Mir
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: GORIE DOM, KAVENDI JANET, PRECOUT CHARLIE, CHANG DIAZ KRANKLIN, THOMAS ANDY
ORGANIZZAZIONI: NASA, AMS, MIR, RSA
LUOGHI: ITALIA

CON un atterraggio perfetto è rientrato lo shuttle "Discovery", con il suo equipaggio di sette astronauti che hanno passato più di 10 giorni nello spazio. Tra gli esperimenti fatti, uno era di particolare interesse: Ams, Alpha Magnetic Spectrometer. L'esperimento Ams, cui hanno collaborato fisici italiani, è stato progettato per rivelare la presenza di anti-materia nello spazio e potrà fornire nuovi dati in supporto alle teorie sull'origine dell'universo che, proprio in questi giorni, si trovano, a fare i conti con l'annuncio della massa del neutrino. L'equipaggio del " Discovery", era composto da neofiti come il pilota Dom Gorie e la " mission specialist" Janet Kavendi, ma anche da veterani dello spazio come il comandante Charlie Precout e soprattutto come Franklin Chang-Diaz, che ha partecipato alla sua sesta missione a bordo dello "Shuttle" - tra cui la missione Sts-75, quella del satellite a filo, dove è stato compagno di viaggio di chi vi scrive - giungendo a eguagliare il primato di Store Musgrave, che aveva effettuato il suo ultimo volo l'anno scorso, all'età di 66 anni. Ma ciò che rende la missione Sts-91 particolarmente importante è che si è trattato dell'ultimo volo della navetta americana alla stazione spaziale russa "Mir". Infatti con il ritorno a terra dell'astronauta Andy Thomas - che è rimasto a bordo della Mir per oltre 4 mesi - si è conclusa ufficialmente la "Phase 1" della "Iss", sigla che identifica la "International Space Station": una fase di studio e di preparazione che la Nasa avviò 4 anni fa in vista delle lunghe permanenze in orbita che saranno la norma nell'era della nuova stazione spaziale. Grazie alla cooperazione con l'Agenzia spaziale russa (Rsa), la Nasa ha potuto garantire oltre due anni di presenza continua nello spazio per i suoi astronauti. E' un'esperienza preziosa per l'ente spaziale americano che, dopo l'avvento dello Shuttle, ha scelto la strada delle missioni brevi, che durano poco più di due settimane. In questi due anni, sette astronauti americani si sono dati il cambio sulla "Mir" e hanno sperimentato cosa significa vivere e lavorare in orbita per lunghi periodi di tempo. Questa esperienza ha un grandissimo valore in vista della " fase due" che comincerà alla fine di quest'anno, quando avranno inizio i voli di assemblaggio in orbita della Stazione Spaziale Internazionale. Durante la fase che si è appena conclusa, otto voli dello Shuttle hanno fatto scalo alla stazione russa e la Mir ha avuto a bordo più astronauti americani che cosmonauti russi. I benefici di questi due anni di attività comune sono andati ben oltre le più rosee aspettative. Complice anche una particolare sfortuna, che si è accanita contro la ormai vetusta stazione, si sono create diverse situazioni critiche che hanno richiesto uno sforzo comune di americani e russi per essere risolte positivamente: un incendio che ha messo a dura prova quasi tutti i sistemi di bordo, la perdita del controllo dell'orientamento rispetto al Sole con la conseguente crisi di alimentazione elettrica da parte dei pannelli solari e infine la rapida depressurizzazione del modulo Spektr. Tutte situazioni cui l'equipaggio ha saputo far fronte anche grazie all'aiuto dei centri di controllo di Mosca e di Houston, che hanno a messo a disposizione tutti i loro uomini e tutte le capacità di calcolo disponibili: un esempio di cooperazione che è andato ben aldilà degli accordi ufficiali. La missione Sts-91 ha segnato anche il primo volo del nuovo serbatoio ultraleggero, che ha permesso di ridurre di circa 4 tonnellate il peso dello shuttle al lancio. Con questa modifica, che si è resa necessaria proprio in relazione ai voli di assemblaggio della "Iss", lo shuttle sarà in grado di portare in orbita anche i moduli più pesanti. Insomma, dopo il recente annuncio di un ulteriore ritardo nella sequenza di lancio, il volo del "Discovery" è servito a fugare gli scetticismi sul futuro della nuova Stazione. Umberto Guidoni Astronauta




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