TUTTOSCIENZE 15 aprile 98


SCIENZE DELLA VITA. IL FLAGELLO DEI TARLI Avidi divoratori di mobili Sono tante le specie, anche d'importazione
Autore: GROMIS DI TRANA CATERINA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

POTREBBE accadere in un film di Hitchcock: la notte, una vecchia casa un po' sinistra, un ticchettio, qualcosa che scricchiola: un tuffo al cuore e il pensiero che corre alla morte in agguato. Questo può essere il potere di un rumore che racconta solamente il lavoro di un tarlo, e che si può anche cantare per dimenticare lo spavento. "In una vecchia casa/ piena di cianfrusaglie,/ di storici cimeli,/ pezzi autentici ed anticaglie,/ c'era una volta un tarlo/ di discendenza nobile/ che cominciò a mangiare un vecchio mobile...". La canzone di Fausto Amodei intitolata al tarlo è una di quelle del gruppo torinese Cantacronache della fine degli Anni 50. Più avanti, la descrizione s'intreccia con tesi politiche, ma il "tarlo" è proprio lui, quello del naturalista, che inizia la sua vita avanzando lentamente nei legni pregiati e riducendoli in polvere. I tarli sono insetti di diverse specie che hanno tra loro in comune la caratteristica di attaccare il legname da costruzione e dei mobili. Nel nostro territorio, oltre a quelle di casa, si sono diffuse diverse specie clandestine introdotte con legno proveniente da paesi esotici. La maggior parte dei danni da noi è causata da Anobium pun ctatum, il tipico Tarlo del legno, di gusti poco complicati: apprezza legname sia duro sia tenero, di latifoglie come di conifere, e attacca sia l'alburno (la parte più esterna del tronco) sia il duramen (la zona più nascosta e inespugnabile all'interno). Il suo intestino è provvisto di enzimi digestivi in grado di aggredire cellulosa ed emicellulosa. Le larve, scavando gallerie a meandro, producono una rosura a palline di aspetto granulare, e gli adulti sfarfallano lasciando piccoli fori circolari sulla superficie esterna della loro dimora infantile. Il punto debole di questo tarlo, quello che ci permette di combatterlo con successo, è l'ovopositore, formato dagli ultimi segmenti addominali allungati, che la femmina estroflette telescopicamente per inserirlo nelle più minute fessure delle assi: preferisce i mobili antichi e preziosi, non perché sia una raffinata, ma perché le vernici speciali e le sostanze vetrificanti con cui oggi viene trattato il legname le impediscono di deporre le uova. Xestobium rufovillosum è un altro dei tarli più dannosi e comuni. E' detto "Orologio della Morte" per la caratteristica che hanno gli adulti di battere ritmicamente il capo contro tutto ciò che lo circonda, producendo quei famosi ticchettii, evocatori del momento fatale. E invece è il modo che ha scelto il maschio per corteggiare la femmina e invitarla all'amore. Ai nostri occhi la differenza del lavoro invisibile tra queste larve e quelle dell'A nobium è la forma della polvere di rosura, in questo caso più grossolana, con palline schiacciate. Le larve trovano una accogliente dimora in un ambiente umido e poco salubre: ideale il legno colonizzato da muffe che producono una iniziale disgregazione della cellulosa e della lignina, in modo che il lauto pasto sia un po' più facile da digerire. Può essere utile distinguere le diverse specie di tarli da cui siamo minacciati perché ciascuna richiede una strategia particolare di difesa. Pentarthrum hutto ni è un piccolo curculionide le cui larve scavano gallerie a meandro e i cui fori di sfarfallamento sono irregolarmente ellittici. Lyctus brunneus attacca l'alburno, ricco di amidi di cui si nutrono le larve, e disdegna il duramen; quindi produce delle infestazioni a chiazze su assi o travi, dove le zone di alburno, più chiare e rosicchiate, si alternano a quelle più scure di duramen che rimangono immacolate. Questo tarlo, tipicamente infeudato a legname esotico, produce una infestazione subdola e devastante: la rosura è minutissima e farinosa, ma invisibile fino al momento in cui basta la lieve pressione di un dito, per ridurre in polvere una cornice, o un prezioso listello di un parquet. Hylotrupes bajulus è un cerambicide che predilige le conifere e ama il caldo, così sta nelle abitazioni e nelle travi dei tetti. Le sue grosse larve se la spassano per anni scavando gallerie a spese di travi e strutture portanti, riducendole ad un colabrodo, senza danni visibili fino al momento del crollo. Lasciano pochi ma grossi fori di sfarfallamento ellittici e pieni di rosura, quasi ultimo segno di disprezzo verso la loro inconsapevole fonte di sostentamento. Come difendersi da questa moltitudine (quelli descritti sono coleotteri, i più comuni per noi, ma anche in altri ordini di insetti esistono " pecore nere" con le stesse brutte abitudini) di devastatori? Si può usare materiale sintetico o legname ottenuto da trucioli impastati con particolari colle, per cui vengono eliminate le fessure per deporre le uova e le delizione muffe. Però che tristezza questi mobili e pavimenti e travi così asettici, quasi da sala operatoria: si può rimediare inventando per i quadri cornici, oggi molto in voga, appositamente bucherellate, così da sembrare "tarlate". Il legno "vero" però risponde ai gusti dei più, e allora bisogna sapere come difenderlo. Si possono applicare speciali vernici o sostanze vetrificanti che stronchino l'attività nefasta dell'ovopositore telescopico. Oppure, armandosi di infinita pazienza, è possibile iniettare appositi preparati, reperibili nei negozi di vernici, nei singoli fori di sfarfallamento, che vanno poi chiusi, uno ad uno, con cera o paraffina in modo da esaltare l'azione insetticida della sostanza tossica. L'Hylotrupes bajulus va fermato in tempo e richiede una certa concentrazione: si può individuare la posizione delle larve dal rumore di mandibole che non si curano di masticare con discrezione. Vale poi la pena di rovinare un altro po' di legno praticando un piccolo foro nelle immediate vicinanze della grossa larva tronfia e vorace, per inoculare del buon veleno. Il Lyctus brunneus è forse il peggiore tra i piccoli nemici, perché produce un danno invisibile fino al momento del disastro. Quando viene scoperto la cosa più utile, anche se penosa, è distruggere tutti i legnami attaccati e trattare quelli rimasti, sempre appetibili per l'ampia polifagia della specie, con vercnici protettive. L'intervento più drastico contro i tarli, che richiede personale specializzato, è il trattamento del materiale a rischio con gas tossici come il bromuro di metile e l'acido cianidrico. Questo avviene in celle a chiusura ermetica o, in caso di solai e tetti isolando gli ambienti, che vengono impacchettati con teli speciali di materiale plastico, e poi disinfettati, così da rendere quasi irreali i versi scritti da un famoso entomologo, A. Goidanich: "...Vetusto stipo caro, / glorioso e senza bo ria, / di confidenze avaro / ma saturo di storia, / un Tarlo perti nace / ti sta scavando il legno / e senza darti pace / ti imprime il tondo segno /...Bacati nel pro fondo / bei mobili cariati, / ti siam compagni, in fondo, / noi, esseri animati". Caterina Gromis di Trana


SCIENZE FISICHE. IL PROBLEMA CARTA Bruciarla o riciclarla? Tesi provocatoria in Inghilterra
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, RICICLAGGIO, RIFIUTI
ORGANIZZAZIONI: NEW SCIENTIST, CENTRE FOR ENVIRONMENTAL TECHNOLOGY
LUOGHI: ITALIA

LA rivista inglese "New Scientist", che da marzo esce anche in Italia in edizione mensile, ha pubblicato uno studio intitolato provocatoriamente "Bruciami. Se ci tieni all'ambiente non riciclare questo giornale dopo averlo letto, brucialo". Lo studio è stato condotto dall'Imperial College di Londra sotto la direzione di Leach, scienziato del Centre for Environmental Technology e ribalta le idee più diffuse sul riciclaggio della carta, soprattutto giornali e riviste, dimostrando che questo è certamente meglio dello smaltimento nelle discariche con la spazzatura, ma è molto peggio dell'incenerimento. Conclusione scioccante per gli ambientalisti i quali, secondo Sandbrook, direttore di un importante istituto internazionale, rifiutando a priori ogni argomentazione contraria alla loro fede nel riciclaggio, sono responsabili delle difficoltà a ristudiare le varie forme di smaltimento. Queste sono: la riduzione del consumo della carta, soprattutto giornali, il riciclaggio, l'incenerimento e lo smaltimento nelle discariche. Il problema della carta usata ha generato in tutto l'Occidente un business formidabile con 130 kg di carta per abitante in Europa e ben il doppio in Nord America indirizzato sempre più verso il riciclaggio e ciò perché si davano per scontati due dati: il primo che la sostituzione con carta vergine di quella persa nell'incenerimento o nelle discariche depauperasse le foreste, ed il secondo che il riciclaggio fosse "pulito" dal punto di vista ambientale. Ora lo studio li demolisce entrambi. Solo l'1% della carta prodotta nel mondo proviene dalle foreste naturali, la quasi totalità da piantagioni curate dall'uomo che si trovano nella maggior parte nei Paesi produttori di carta come Finlandia, Svezia, Canada e Stati Uniti dove il manto forestale è in aumento. Il riciclaggio poi è tutt'altro che innocuo per l'ambiente come dimostra l'impianto più grande d'Europa ad Aylesford nel Kent dove vengono riciclate ogni anno 450.000 tonnellate di carta. Intanto questa arriva con 30.000 trasporti di autocarri con una percorrenza totale di 4 milioni di chilometri, inquinando l'atmosfera con 5800 tonnellate di CO2. La carta viene quindi trattata con acqua, poi con solventi per rimuovere l'inchiostro, setacciata, centrifugata, ancora trattata per rimuovere punti metallici e colle e questo processo consuma molta energia elettrica e lascia un residuo tossico melmoso che deve poi essere comunque smaltito. L'inceneritore di Edmonton invece genera energia elettrica (20 megawatt di potenza) e altri, soprattutto in Scandinavia, forniscono anche calore alle abitazioni o fabbriche vicine. Per scegliere il processo più opportuno i ricercatori hanno pensato di calcolare il costo delle diverse opzioni assumendo che quella che sarebbe risultata più economica sarebbe stata la migliore perché nei costi sono stati inclusi non solo quelli diretti ma anche i costi degli effetti sull'ambiente. La difficoltà consiste nello stabilire il valore dei benefici ed i costi ambientali. Ad esempio, quanto "costa" una tonnellata di CO2 immessa nell'atmosfera o una tonnellata di carta usata sotterrata in una discarica? I ricercatori hanno utilizzato i dati di una cinquantina di istituti sparsi nel mondo e sono giunti ad una conclusione sorprendente: se si attribuiscono alti valori ai costi ambientali (ad esempio fino a 50 dollari per kg di CO2 nell'atmosfera) risulta più conveniente bruciare i due terzi della carta usata e sotterrare il resto. Viceversa se non si dà troppo valore all'ambiente conviene riciclare l'80% della carta e smaltire nelle discariche il 20% della carta peggiore. Questo studio ha provocato numerose reazioni da parte di vari enti, istituti, associazioni come Friends of the Earth, che controbattono alcuni punti, ad esempio dalla Nuova Zelanda si fa notare che l'incenerimento disperde nell'atmosfera gli stessi residui tossici che avevamo trovato nei residui melmosi oppure che è stato dimenticato il costo dell'energia necessaria a tagliare e trasportare alle cartiere il legno per produrre la carta vergine e, poiché queste sono concentrate in pochi siti (Scandinavia), il maggior costo del trasporto della carta vergine rispetto a quella che esce dagli impianti di riciclaggio, molto più diffusi. Quasi tutti concordano comunque sulla necessità di uno studio più approfondito rimettendo in discussione un'idea non basata su dati scientifici ma finora accettata come atto di fede. Rimane per ora una certezza: se non possedete un caminetto nel quale bruciare il giornale letto, non gettatelo con la spazzatura: questa è certamente la soluzione peggiore. Gian Carlo Boffetta


SCIENZE DELLA VITA. DOMODOSSOLA Disabili al lavoro in campagna Una cooperativa per assistenza e recupero
Autore: BODINI ERNESTO

ARGOMENTI: DIDATTICA
NOMI: GUARDUCCI IVAN
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, DOMODOSSOLA

TRA le realtà sociali che riguardano giovani handicappati, ve n'è una che ha caratteristiche non solo umanitarie ma anche imprenditoriali. Si tratta della cooperativa "La Prateria" di Domodossola (località Regione Nosere, provincia di Novara, tel. 0324/249.260), che occupa una superficie di sei ettari messa a disposizione dalla Comunità Montana Valle Ossola. Benché istituita solo dal giugno 1994 (con il contributo del Lions Club del Verbano Cusio Ossola, presieduta da Ivan Guarducci, medico ortopedico di Domodossola) come proseguimento dell'attività della "Associazione Centri del Vco" voluta da un gruppo di genitori di disabili (associazione novarese che in 25 anni ha curato oltre duemila handicappati), è già un moderno centro per l'assistenza e l'avvio al lavoro di giovani affetti da handicap. Obiettivo principale la creazione di opportunità di lavoro per questi ragazzi, potenzialmente attivi, come attività agricole e zootecniche che ruotano attorno ad una stalla per cento capi di bestiame e ad una scuderia per 15 cavalli. L'attività agricola si basa sulla coltivazione biologica di frutta e verdura poi messa in vendita al pubblico. Viene pure attuata, con l'ausilio di un operatore specializzato, l'ippoterapia, una delle moderne discipline per il recupero neuromotorio del disabile psico- fisico: il rapporto tra questi disabili e il cavallo è di fatto molto positivo perché favorisce la normalizzazione del tono muscolare e migliora la concentrazione, l'equilibrio e la coordinazione dei movimenti. Una moderna scuola di equitazione, iniziata nell'aprile del 1996, e un centro di vita sociale completano le attività della cooperativa, gestita da sei ragazzi maggiorenni portatori di handicap (soci-lavoratori, regolarmente assunti e retribuiti), da "tutori" e otto volontari effettivi. Sono di prossima realizzazione l'agriturismo, la coltivazione in serra, un centro permanente di ristorazione, l'allevamento di animali da cortile, gare sportive e diverse altre iniziative di carattere sociale. Ernesto Bodini


SCIENZE A SCUOLA. A DEHRA DUN "Ecoriabilitazione" per le foreste indiane In un istituto con 300 ricercatori, che ospita anche sette musei e un erbario
Autore: TARALLO PIETRO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, DIDATTICA
NOMI: SHIVA VANANDA, BAHUGUNA SUNDERLAL
ORGANIZZAZIONI: 'INDIAN COUNCIL OF FORESTRY RESEARCH AND EDUCATION INSTITUTE
LUOGHI: ESTERO, ASIA, INDIA, DEHRA DUN

IN India, un Paese che si è accanito attraverso i secoli contro le sue foreste, riducendole del 50% negli ultimi 50 anni, fino a far sì che occupassero soltanto un quinto del suo territorio, esistono ben 12 centri di ricerca forestale sparsi in tutta la nazione. A Dehra Dun, cittadina a circa 200 chilometri a Nord di New Delhi, si trova quello più importante, l'Indian Council of Forestry Research and Education Institute (Icfrei), dove sono impegnati in un'attività di ricerca d'avanguardia e nello studio del patrimonio forestale indiano numerosi scienziati di livello internazionale. Alla sua guida vi è N. K. Joshi, 57 anni, che coordina anche l'attività degli altri centri analoghi indiani, e che segue personalmente il progetto di "ecorehabilitation" in corso dal 1990 nella parte centrale dell'Himalaya. Si tratta di un programma finalizzato alla salvaguardia dell'ambiente montano in generale e in particolare delle sue specie arboree, come i cedri deodara sottoposti negli anni passati ad un insensato taglio a causa del loro legno pregiato. All'istituto si deve anche la messa a punto dell'arsenic-copper chromate: un sistema chimico di trattamento del legno per la sua conservazione che ormai è stato adottato in tutto il mondo. Sono in corso da qualche anno studi diretti ad appurare le proprietà curative delle piante indiane, in stretta collaborazione con le industrie farmaceutiche locali e multinazionali operanti nel Paese. Il complesso, immerso nel verde, costruito nel 1906 da un architetto inglese, ha un'elegante struttura neoclassica in mattoni a vista di estrema armonia architettonica. Nel corpo centrale, ritmato da ampi porticati, sono ordinati sette musei e un erbario, diretti da A. N. Shukla. Ancora allestiti secondo i criteri museali di fine Ottocento, vi è ricostruita la storia botanica, zoologica e geologica di tutto il subcontinente indiano. Attorno vi sono le altre strutture del campus, città nella città, dove vivono i 300 ricercatori con le loro famiglie e i 400 studenti provenienti da ogni parte dell'Asia, per un totale di 4000 persone. Nei vivai e nelle serre, che occupano circa 450 ettari, sono presenti tutte le 300 specie arboree esistenti nel Paese, fra cui anche una piantagione di Paulownia. Pianta di origine cinese, a rapida crescita, utilizzata per la produzione della cellulosa, che viene clonata attraverso un complesso procedimento messo appunto nel '94 da K. S. Bhandari, direttore del Cellulose and Paper Division dell'istituto. All'avanguardia anche le colture di bambù, comprese le varietà che vengono impiegate abitualmente nell'edilizia e quelle da cui è possibile ricavare le materie prime per la fabbricazione della carta. Sempre nel settore delle biotecnologie genetiche forestali sono in corso esperimenti di ibridazioni di eucalipti, produzioni di biomasse e creazioni di frutteti sperimentali. Come pure si stanno portando avanti ricerche nel campo della micologia patogena e del controllo degli insetti responsabili della morte delle piante, in particolare del teak. Qui vive anche Vananda Shiva, una delle animatrici del movimento ecologista "Cipko Andolan", "gli Abbracciatori degli alberi". Organizzazione, nata in India verso la fine degli Anni Settanta da Sunderlal Bahuguna, che cerca di contrastare con ogni mezzo pacifico la deforestazione. Spesso i suoi attivisti, che sono in gran parte le donne dei villaggi ai margini delle foreste, si incatenano agli alberi e li " abbracciano" per evitare che vengano abbattuti. La studiosa, nota per le sue opere in tutto il mondo, in Italia ha pubblicato " Sopravvivere allo sviluppo" (Isedi, Torino 1990) e "Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologie e agricoltura scientifica" (Bollati Boringhieri, Torino, 1995). Vananda Shiva è stata anche una delle protagoniste del vertice sull'ambiente, che si è svolto a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, dove ha sostenuto che "le nostre foreste sono più di una risorsa economica, per noi sono la vita e hanno un valore spirituale". Pietro Tarallo


SCIENZE A SCUOLA. INGLESE Il neutro plurale latino
Autore: CARDANO CARLA

ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

SE avete occasione di incontrare studenti native spea kers of English, provate a chiedere perché alcune parole inglesi abbiano uno strano plurale che termina in -a: pochi vi risponderanno. Al contrario molti di voi potranno esibire i propri studi classici e facilmente riconoscere nell'insolita -a il neutro plurale latino. Una parola di questo tipo molto frequente nei testi scientifici è sicuramente data (datum al singolare). Usata molto di più al plurale, essa si riferisce a una serie di osservazioni, misurazioni o fatti, come la corrispondente italiana (dati) e come data = cose date, in latino. Un sinonimo è informa tion, che tuttavia viene usato in contesti diversi. Per quanto ci riguarda, dobbiamo fare attenzione alla pronuncia, inglese o americana: infatti la parola suona molto diversa sulle due sponde dell'Atlantico. Una quantità di altri vocaboli scientifici mostra il plurale latino in -a e appare uguale alla parola latina da cui deriva. Alcuni esempi: ostium (ostia al plurale), con il significato latino di ingresso, porta, apertura, si riferisce ai pori delle spugne, alle aperture del cuore degli artropodi; poi stratum (strata al plurale), che vuol dire strato nei diversi campi delle scienze come in italiano. Analogamente quan tum (al plurale quanta) e spe ctrum (spectra al plurale), parole fondamentali e importantissime nella fisica e nella chimica moderne. In altre situazioni il plurale latino non si mantiene: ecco ad esempio ratio (ratios al plurale) con uno dei significati dell'antica parola e cioè rapporto, proporzione, o ciò che esprime questo concetto. La parola è usata in moltissime situazioni nella matematica ma anche nella fisica, nella chimica e in tutti i settori tecnologici. Ricordiamo alcuni esempi fra i tanti: ratio = titolo nel senso di concentrazione in chimica, isotopic ratio = percentuale isotopica, ratio print = copia in scala, steam ra tio in the air = titolo di vapore acqueo (o di umidità). Diversa è la vicenda di semen, (al plurale semina, ma anche se mens) che ci racconta un pezzetto di storia della biologia. In latino semen significava seme o semente e per estensione anche sperma o liquido seminale. I romani, e molti prima e dopo di loro, davano al liquido seminale lo stesso significato biologico che ha il seme di una pianta, interpretando la fecondazione come la semina; così come il seme germoglia nella terra, similmente nel corpo della donna si sarebbe sviluppato e accresciuto il seme dell'uomo. In realtà i due eventi sono simili solo da un punto di vista poetico: il seme di una pianta è già un embrione, anche se allo stato quiescente. Al contrario, il liquido seminale non lo è: esso contiene invece gameti maschili, uno dei quali potrà eventualmente unirsi a quello femminile per generare una nuova vita. In inglese il termine semen viene utilizzato esclusivamente con il significato di liquido seminale. Il seme di una pianta si chiama invece seed che è parola abbastanza diversa dalla precedente. Carla Cardano


SCIENZE FISICHE. INFORMATICA Ologrammi invece che floppy
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: INFORMATICA, TECNOLOGIA
NOMI: WOZNIAC STEPHEN, JOBS STEVE, COUFAL HANS, HESSELINK BERT
ORGANIZZAZIONI: APPLE, SONY, FUJI
LUOGHI: ITALIA

SE volete scoprire il futuro dell'informatica, dimenticate i laboratori sofisticatissimi o i megacentri di ricerca. Le grandi rivoluzioni sono sempre avvenute nei garage e nei sottoscala. In un garage, nel 1976, due studenti poco più che ventenni, Stephen Wozniac e Steve Jobs, costruirono lo storico Apple, il primo personal computer. Nel '78 ancora dalla Apple uscì il primo floppy disk. E fu un'altra rivoluzione per il mondo dell'informatica. Prima i programmi e gli archivi giravano su cassette magnetiche, che vennero presto sostituite da un disco flessibile (detto floppy, in inglese), piccolo, comodo da trasportare, capace di contenere una grande quantità di dati (almeno per allora). A vent'anni dalla nascita, il floppy disk comincia a sentire il peso del tempo. Il computer, nel frattempo, è diventato davvero multimediale. Nella sua memoria trovano spazio videoclip, figure tridimensionali, registrazioni audio, immagini ad alta definizione. Dove immagazzinare tutti questi file, di solito "pesantissimi"? I dischi rigidi (o hard disk) sono sempre più capienti e contengono gigabyte (cioè miliardi di byte) di dati, registrati su dischi di alluminio ricoperti da un sottile strato di materiale ferromagnetico. Memorizzazione, lettura e cancellazione dei dati avvengono con una o più testine che magnetizzano o smagnetizzano il materiale ferromagnetico. I vecchi floppy disk tanto floppy non sono più: sono diventati rigidi e più robusti e dal formato originale a 5 pollici e un quarto si sono rimpiccioliti a 3 pollici e mezzo. Le informazioni vengono memorizzate su poliestere, ricoperto da materiale ferromagnetico su entrambi i lati: il disco viene detto perciò a doppia densità. Nonostante i tentativi per aumentarne la capacità, la registrazione magnetica sembra però insufficiente a tenere il passo con le crescenti esigenze dei computer multimediali. La nuova frontiera dell'immagazzinamento dei dati in spazi ridotti sembra essere la registrazione olografica. Il principio, scoperto proprio mezzo secolo fa dall'ungherese Dennis Gabor (premio Nobel nel '71), è quello usato per creare le minuscole etichette di sicurezza nelle carte di credito, che contengono una piccola immagine tridimensionale, detta ologramma. Questa è il risultato dell'interferenza di due fasci di luce, così che l'illuminazione con un fascio ricostruisce l'altro, creando l'immagine tridimensionale. Mentre negli ologrammi delle carte di credito l'immagine viene ricostruita con la luce ordinaria, quelli costruiti all'interno di un cristallo hanno bisogno di un laser per essere ritrovati. E proprio con il laser funziona il metodo di immagazzinamento dei dati proposto da Hans Coufal, ricercatore dell'Ibm, e da Bert Hesselink, fondatore della Optitek. La tecnologia resta digitale: come sempre, il processore del computer trasforma tutti i dati in stringhe di uno e di zero. La memoria olografica le trasforma in zone di luce o di buio all'interno di un cristallo: una grande scacchiera di ologrammi che rappresenta l'informazione, leggibile con un fascio laser. Invece della superficie piatta di un disco magnetico, si possono sfruttare le tre dimensioni del cristallo. I due ricercatori pensano che si possa immagazzinare un terabyte (cioè mille miliardi di byte) di dati dentro un cristallo non più grande di un cubetto di zucchero. Intanto, mentre tutti ne stanno già scrivendo il necrologio, il " vecchio" floppy disk sembra deciso a non mollare. Soprattutto ora che Sony e Fuji hanno realizzato una nuova generazione di dischetti da 200 megabyte compatibile con i floppy attuali. Giovanni Valerio


SCIENZE FISICHE. PROGETTI Parlare con il computer
Autore: LENTINI FRANCESCO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA, COMUNICAZIONI
NOMI: GATES BILL
ORGANIZZAZIONI: MICROSOFT CORPORATION, NLP, INTERNET
LUOGHI: ITALIA

UN uomo è seduto davanti al computer, con le mani libere: sta prenotando un posto in treno, o forse in aereo, ma la cosa non ha molta importanza. Il fatto importante è che quell'uomo sta dialogando con il computer. E non ci troviamo a bordo di un'astronave, nel 2023, ma in una sala-conferenze della Microsoft Corporation, nel 1998. Si tratta di una promessa di Bill Gates, o meglio dell'obiettivo a breve scadenza del centro di ricerca della potente casa di Seattle (http://www.rese arch.microsoft.com). Ad un sistema di conversazione come quello descritto lavorano da anni gli uomini di un gruppo chiamato Nlp (Natural Language Processing). Essi prevedono lo sfruttamento massiccio delle risorse multimediali esistenti (dizionari ed enciclopedie su Cd- rom, banche-dati, online), al fine di estrarre da queste le informazioni già disponibili e renderle accessibili tramite semplici comandi verbali. L'approccio - la vera novità - è di tipo pragmati co, ossia non si basa su nessuna teoria linguistica particolare. Un lavoro analogo viene svolto dal gruppo Ui (User Interface) e dall'ancor più avanzato Leap (Lan guage Enabled Applications), guidato dall'italo-americano Bruno Alabiso (già noto per Win dows 95). Significa decine di ricercatori, pagatissimi, che tentano di realizzare il sogno di Alan Turing. Significa che Bill Gates ha ottime probabilità di mantenere la sua promessa. Ma come funziona, a grandi linee, un software così avanzato? Gli uomini non sono moduli di codice. Quando un input arriva da un essere umano, un computer dovrebbe assumere che è corretto e non respingerlo, ma lavorare per ricostruirlo. Su tale principio si basano il progetto delle interfacce uomo-macchina della prossima generazione e anche un programma chiamato Natural, già a disposizione dei navigatori italiani (download gratuito da http://web.tin.it/eloi sa/natural). Natural non svolge compiti tradizionali, come fare calcoli, impaginare o disegnare, ma ti guida nei meandri del World Wide Web attraverso la cosa più semplice che vi sia: la conversazione. Così Internet diventa ciò che realmente è, ossia una rete globale di computer che risponde a speciali parole "magiche", le quali consentono di annullare le distanze e di scoprire cose nuove. Infatti, grazie al dialogo uomo-macchina sempre attivo, non solo è più facile arrivare all'informazione desiderata, ma aumenta del 50% la probabilità di scoprire nuovi siti. Natural si comporta come un personaggio virtuale con cui è possibile interagire ad un livello elementare. Puoi dire la prima cosa che ti passa per la mente, con una certa probabilità che il programma intenda e ti risponda in modo coerente (in caso di difficoltà saranno suggerite alcune frasi alternative, in modo che la conversazione vada comunque avanti). Ma non finisce qui: se disponi di un software di riconoscimento vocale (parlato continuo), puoi dettare le tue frasi al microfono. Questo tipo di soft ware, oggi piuttosto diffuso, consente di controllare qualsiasi applicazione Windows o di dettare all'interno di essa, e ciò vale anche per l'onnipresente programma chiamato browser. Tuttavia nessun browser possiede l'intelligenza necessaria per interpretare gli input in linguaggio naturale. Supponiamo di voler andare alla ricerca dei siti che si occupano di lavoro. Devi solo lanciare Natural e digitare (o dettare al microfono) la frase " Parliamo di lavoro". Se desideri navigare subito userai il comando " Cerca: lavoro", mentre se desideri una risposta discorsiva userai il comando "Rispondi: lavoro". E così per molti altri argomenti di conversazione e/o paradigmi di ricerca. L'attuale versione di Na tural lavora in lingua italiana e supporta il servizio Virgilio (http://www.virgilio.it), nel senso che funziona da client verso questo motore di ricerca. Se la ricerca ha successo, Virgilio comunica a Natural un elenco di almeno 10 siti Web da visitare all'istante. Suppongo che le prossime versioni saranno capaci di estrarre le informazioni da fonti ancora più grandi: i motori Altavista e Infoseek, la libreria elettronica Amazon (http://www. amazon.com) e chissà che altro. Francesco Lentini


SCIENZE DELLA VITA. FRUTTA E VERDURA Primizie in tutte le stagioni Cosa c'è nei vegetali che vengono da lontano
Autore: BURI MARCO, ARIOTTI RICCARDO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

FRAGOLE di stagione, oppure "ortaggi freschi appena colti": così qualche volta un cartello ci accoglie nei piccoli negozi di paese in campagna, facendoci riflettere (noi, abitanti della città) che la natura ha pur sempre i suoi cicli biologici. Ma allora quegli enormi banchi nei supermercati? Frutta e verdura in grande quantità, primizie durante tutte le stagioni dell'anno che vengono prodotte in serre o importate da Paesi più o meno lontani per soddisfare sempre e comunque le nostre sfiziose richieste. Sappiamo che il mercato necessita di coltivazioni intensive con produzioni industriali per la società dei consumi, cioè noi con le nostre esigenze. Già, ma i frutti esotici (e non solo), devono fare un lungo viaggio per arrivare sulle nostre tavole. Come vengono conservati? Freezer e frigoriferi, ovviamente, ma non solo; devono anche essere un po' " trattati" all'origine. Perché, se non sono intaccati dagli insetti e dalle muffe, si conservano meglio durante il tragitto e si presentano bene all'esposizione. Ma trattati con cosa? Principalmente antiparassitari e qui i nostri desideri culinari si scontrano con l'atroce dubbio: ma allora farà male a noi consumatori? Forse sì] Caccia spietata quindi a tutti i conservanti, additivi e anticrittogamici vari, perché va bene che lo imponga il mercato ma è in gioco la nostra salute e qualche serio controllo va pur fatto. Qui si impone un passo indietro per spiegare qualcosa sulla catena alimentare. Laddove l'ambiente è caratterizzato da un ecosistema particolarmente delicato, privo di sostanze estranee, si viene a creare un equilibrio tra i vari esseri viventi che lo compongono siano essi fiori, piante, animali inferiori, superiori e sostanze minerali. Tale equilibrio venutosi a creare con il passare degli anni ed in molti casi di secoli o millenni, può improvvisamente diventare precario a causa di contaminazioni esterne. In questi ecosistemi però vi sono alcuni esseri viventi che prima di altri "segnalano" le modificazioni del sistema. Essi sono i più delicati, quelli che avvertono un disagio anche per la presenza di minime quantità di inquinanti. Poche parti per miliardo di sostanza, cioè pochi microgrammi di inquinanti disciolti in acqua, possono variare le condizioni che tenevano in equilibrio il sistema. Questi esseri viventi, vegetali o animali, per queste peculiarità vengono indicati dagli scienziati come "indicatori biologici". Lo studio approfondito degli indicatori e la loro classificazione è frutto di importanti ricerche che suggeriscono agli studiosi del settore lo stato di salute dei vari habitat del pianeta. I processi di industrializzazione, le produzioni annonarie intensive e di conseguenza i loro residui inquinanti hanno comprensibilmente mutato l'ambiente agro- urbano, rendendolo un "non- eco-sistema" per eccellenza. Tra le sostanze maggiormente inquisite troviamo i fitofarmaci, detti anche pesticidi tra i quali spiccano gli organofosforati, i carbammati, gli organoclorurati, i piretroidi, le atrazine e non ultimi gli inibitori della chitina. Questa è una proteina simile alla cheratina che è componente principale di peli, unghie e capelli dei mammiferi. La chitina invece conferisce robustezza all'esoscheletro degli insetti; i coleotteri, veri e propri carri armati in miniatura, ne sono un esempio d'eccezione. I pesticidi, inibitori della chitina, agiscono rendendo "molli" gli esoscheletri di future generazioni di insetti che ne sono venuti a contatto. Ovviamente, l'impatto ambientale di queste sostanze è negativo, soprattutto per la loro azione sugli insetti utili come api, formiche e farfalle. Tra i fitofarmaci utilizzati in agricoltura, gli esteri organici dell'acido fosforico, detti comunemente organofosforati, sono quelli che vengono ancora maggiormente inseriti nei piani di lotta contro gli insetti. Questa categoria di pesticidi ha preso il posto che in passato era occupato dagli organoclorurati, il cui capostipite fu il tristemente famoso Ddt. Il Ddt fu responsabile di terribili inquinamenti, per il suo tropismo nei confronti dei grassi animali. Passava attraverso la catena alimentare dai foraggi agli erbivori, quindi dalla carne di questi ultimi ai carnivori, compreso l'uomo. Fu trovato addirittura nel grasso di foche e balene artiche. Alcuni indicatori biologici sono, in questi casi, un importante segnale d'allarme: il lombrico può concentrarlo fino a 14 volte e l'ostrica fino a 70.000 volte. A differenza dei derivati del Ddt, gli organofosforati sono meno stabili nell'ambiente e dovrebbero degradarsi velocemente nell'arco di pochi giorni o settimane. I problemi legati alla presenza di questi residui nelle derrate alimentari sono da ricondurre però alla loro elevata tossicità acuta e al noto potere cancerogeno dei loro composti. Le normative vigenti impongono tempi di sospensione prima della raccolta e quantità minime ammissibili per ogni loro composto nei vari alimenti. Tuttavia le difficoltà legate alla loro rilevazione sono alla base dei problemi che le strutture di controllo devono risolvere quotidianamente. La normativa in materia di residui organofosforati non contempla la quantità tollerabile di tutte le sostanze tossiche presenti nell'alimento. Questa è intesa come la sommatoria di tutte le molecole e dei loro derivati presenti contemporaneamente nella sostanza alimentare. I pesticidi, penetrati nell'organismo, attraverso meccanismi di detossicazione più o meno complessi svolti solitamente nel fegato, vengono trasformati in composti meno tossici. Non sempre questo meccanismo funziona in questo modo; ad esempio nel caso del Parathion, il suo prodotto di trasformazione Paraoxon risulta essere più tossico. In modo analogo nell'ambiente i processi di degradazione di tali molecole possono produrre residui pericolosi ancora poco noti. Proprio prendendo spunto dagli indicatori biologici e dal fatto che i composti organofosforati inibiscono enzimi specifici, le colinesterasi e le pseudocolinesterasi, si stanno mettendo a punto ricerche di controllo di tali residui sulle derrate alimentari e sugli operatori del settore. Infatti nel siero e nei globuli rossi degli animali e delle persone venuti a contatto con queste sostanze, si rilevano quantità di enzimi inibiti. Marco Buri Riccardo Ariotti


DUE CONGRESSI A GINEVRA Tre nuove molecole per la cura dell'Alzheimer Farmaci inediti sperimentati su oltre seimila pazienti in 25 Paesi diversi
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL INSTITUTE OF AGING
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, SVIZZERA, GINEVRA

DIECI anni fa il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan lanciava una sfida alla malattia di Alzheimer. Di fronte al fatto che ne sono colpiti oltre 4 milioni di americani e quasi la metà di coloro che raggiungono gli 85 anni (già oggi è l'età media delle donne in Giappone e in Italia), Reagan aumentò il finanziamento del National Institute of Aging (Nia, Istituto nazionale dell'invecchiamento) concentrando la ricerca sull'Alzheimer in 15 nuovi centri con uno stanziamento di 200 milioni di dollari l'anno. Oggi il bilancio del Nia è salito ai 600 milioni di dollari, i centri nazionali di ricerca Alzheimer sono 27 e l'investimento totale ha superato il miliardo di dollari. Purtroppo un equivalente sviluppo non si è verificato in Europa. Sei anni dopo la sua decisione, Reagan dichiarava di essere egli stesso affetto dalla malattia. E' stato un buon investimento? Si può affermare che nella storia delle malattie neurologiche (l'Alzheimer è di gran lunga la più frequente nell'ambito delle malattie neurodegenerative) non si ricorda un progresso altrettanto rapido delle nostre conoscenze. Il premio Nobel per la medicina è stato assegnato nel 1997 ad una scoperta in questo campo (i prioni). Quattro geni direttamente collegati alla malattia, tra i quali uno (chiamato Apoe-4) costituente un fattore di rischio notevole per il 60 per cento della popolazione, sono stati scoperti negli ultimi 5 anni. Il processo di formazione delle placche senili cerebrali, i cimiteri di cellule nervose che costituiscono la lesione più caratteristica della malattia, è oggi conosciuto fino a livello molecolare. I bersagli principali della terapia sono stati identificati e quest'anno tre nuove molecole entreranno in terapia in Usa ed Europa. Riconoscendo l'eccezionale interesse di tali conquiste, la Svizzera ospita due congressi internazionali a Ginevra da oggi al 23 aprile. Il primo è dedicato esclusivamente alla terapia e alla diagnosi dell'Alzheimer. I tre nuovi farmaci hanno tre nazionalità diverse; il primo (il donepezil, già in vendita in Italia) è nato in Giappone ma è stato sviluppato in Usa; la seconda molecola, la rivastigmina, è nata in Israele ma è stata sviluppata in Svizzera e Usa; la terza sostanza, il metrifonato, è nata in Germania ma è stata sviluppata in Usa. Gli studi su questi farmaci presentati a Ginevra sono frutto di ricerche eseguite nel corso degli ultimi 5 anni su oltre 6 mila pazienti in 25 Paesi diversi, con un costo superiore al miliardo di dollari. Questi studi dimostrano che i tre farmaci sono in grado di migliorare in modo significativo il funzionamento cognitivo e la qualità di vita del paziente rendendolo più attivo e più indipendente durante i 3 primi anni dopo la diagnosi. Il deterioramento cognitivo del paziente viene rallentato, per cui si può parlare di farmaci stabilizzatori della malattia. Fino a poco tempo fa si credeva che l'effetto delle cure fosse limitato a soli sei mesi. I dati di due nuovi studi riportati a Ginevra dimostrano il permanere dell'effetto terapeutico fino ad oltre un anno. Poiché la spesa annua in Italia per aiuti, cure e sostegno di chi soffre di Alzheimer (circa 400 mila persone) è superiore ai 10.000 miliardi di lire (oltre la metà sostenuta dalle famiglie), è facile calcolare il risparmio ottenibile a livello nazionale utilizzando tale terapia. Si calcola che un farmaco che riuscisse a ritardare l'insorgere della malattia di cinque anni ridurrebbe alla metà il numero dei pazienti sofferenti. I tre farmaci presentati a Ginevra hanno un bersaglio biochimico comune e preciso: il più rapido ed efficiente enzima posseduto dal cervello, chiamato acetilcolinesterasi. Riducendo l'azione dell'enzima (per questo sono chiamati farmaci inibitori) fino ad un 20%, si viene a prolungare notevolmente la vita del mediatore chimico chiave della memoria, l'acetilcolina, e a rinforzarne l'azione (nel 1982 si scoprì che l'acetilcolina è fortemente diminuita nel cervello dei pazienti di Alzheimer). Tutti e tre i farmaci producono effetti collaterali, ma in genere ben tollerati (al contrario del predecessore, la tacrina). Altre tre nuove strategie terapeutiche verranno proposte a Ginevra. La prima si basa sui risultati ottenuti da studi retrospettivi (e quindi di valore ancora limitato) su migliaia di donne trattate in Usa con estrogeni dopo la menopausa. La seconda è il risultato di un primo studio clinico compiuto negli Stati Uniti sull'effetto della vitamina E e della selegilina (entrambi ad azione anti-ossidante). Il terzo approccio è fondato su osservazioni statistiche retrospettive compiute su migliaia di soggetti trattati con terapie anti-infiammatorie per disturbi artritici. I tre studi suggeriscono che trattamenti così diversi (ormoni estrogeni, farmaci anti-ossidanti e farmaci anti-infiammatori) potrebbero ognuno esercitare un effetto di prevenzione e ritardare l'insorgere della malattia. Le terapie future dell'Alzheimer si orientano verso un tentativo di rallentamento della produzione delle molecole precursori della sostanza detta amiloide che si deposita irreversibilmente nel cervello bloccandone la funzione. La conoscenza del gene che favorisce l'accumulo (la presenilina 1 responsabile di circa il 50% delle forme familiari della malattia) rappresenta un grande vantaggio nello sviluppo di questa nuova terapia. Anche per la diagnostica si attendono notevoli progressi nella individuazione precoce (e quindi nel trattamento) della malattia. Ezio Giacobini


PER LA MOLE ANTONELLIANA Un'anima d'acciaio Sofisticate tecnologie ingegneristiche per il restauro
AUTORE: ANTONETTO ROBERTO
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ARCHITETTURA, EDILIZIA
NOMI: BORTOLOTTI ANTES, GRITELLA GIANFRANCO, PERONE UGO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: D. Sezione della Mole Antonelliana. I lavori di restauro

IMPRESSIONANTE: il cantiere di restauro della Mole Antonelliana di Torino dà questa sensazione. Una seconda Mole dentro la prima. Il che è tutto dire, se si ricorda che nel secolo scorso quel cantiere fu, per quasi trent'anni, una sfida gigantesca portata oltre il limite delle conoscenze tecnico-scientifiche acquisite. Tocca ora alla tecnologia più sofisticata dei nostri giorni dispiegarvi tutte le sue risorse per dare nuova sicurezza e nuova destinazione al monumento torinese per eccellenza. Trentasei chilometri di tubi, collegati da 16 mila giunti, creano nella cupola una fitta giungla d'acciaio che riempie interamente l'enorme vuoto. E' questo ponteggio che ha permesso di restaurare, centimetro per centimetro, 3 mila metri quadrati di superficie interna, solcata da 34 chilometri di costoloni baccellati, originariamente ricoperti di foglie d'oro zecchino. E restaurare ha significato ripristinare gli elementi decorativi mancanti, ridorare dov'era necessario, tinteggiare gli specchi tra i costoloni con i colori originari, il beige e il verdino ricuperati con indagini stratigrafiche. Visto da sotto, il castello di tubi è sensazionale anche perché non poggia a terra, ma fiorisce a mezz'aria (a 37 metri dal suolo) poggiando su quattro tralicci orizzontali lunghi 27 metri e pesanti 13 tonnellate ciascuno, ancorati alle pareti nel punto di attacco della cupola. Issare fin lassù gli elementi di queste strutture è montarli è stata, di per sè sola, una operazione acrobatica. Ma dove la tecnologia del restauro architettonico ha realizzato gli interventi più avanzati è stato nella parte di edificio sottostante la cupola: cioè nel basamento a pianta quadrata che dal livello della strada sale fino a 25 metri, restringendosi poi nell'alto tamburo che lo collega alla cupola. E qui bisogna tornare un momento al progetto di Alessandro Antonelli, alla sua "folle" intenzione di scalare il cielo con un edificio in muratura alto quanto nessun'altro al mondo. Per sorreggere il peso della Mole (e noi ora sappiamo, grazie ai modelli matematici di cui disponiamo, che sono 23.500 tonnellate]) Antonelli ideò come sostegno una scacchiera di 56 grandi pilastri: 28 sono a forma cilindrica con un diametro di 1,20 metri, distribuiti ad intervalli regolari nello spazio interno; altrettanti, a sezione rettangolare, sono incorporati nelle pareti perimetrali. La piccola selva di pilastri, che regge tutta la Mole, ha le sue radici nel sottosuolo e sale articolandosi in volte possenti e suggestive. I pilastroni laterali salgono poi ancora a formare i tre piani di gallerie perimetrali che circondano lo spazio di quella che avrebbe dovuto essere (e non fu mai) l'aula del tempio israelitico. Negli Anni 30 del nostro secolo, per contrastare la tendenza della Mole a "spanciarsi", vennero aggiunti nei primi due piani altri otto grandi piloni, e 48 di quelli preesistenti vennero ingabbiati in grosse strutture di cemento armato che si inerpicano fino alla cupola trasformandosi in una rete di costoloni di irrigidimento della cupola stessa e di sostegno della guglia. Sono quei vistosi gabbioni grigi, certamente snaturanti ma necessari, che colpiscono subito l'occhio del visitatore. In quegli stessi anni vennero sovrapposti alle volte del primo e secondo piano due pavimenti in cemento armato, spessi 60 centimetri. Nell'attuale restauro, ispirato dall'intento di riportare almeno in parte la Mole alla fisionomia originaria oltre che di realizzarvi la sede del Museo del Cinema, si è deciso di eliminare gli otto piloni aggiunti. I valori spaziali sarebbero così radicalmente migliorati. Ma per realizzare l'intento, bisognava che la Mole potesse fare a meno di otto della sue enormi gambe per il tempo necessario a sostituirle con sottili aste d'acciaio. Ed ecco l'acrobazia: svincolare i solai in cemento armato dalle volte antonelliane e farli "galleggiare". Sono stati sollevati con martinetti idraulici per i pochi millimetri necessari a farvi passare sotto un filo d'acciaio, come quello usato nelle cave per tagliare i blocchi di marmo. Il filo ha separato i due strati del "sandwich" e nella fase in cui il piastrone di cemento armato non pesava più sulle volte antonelliane, sono stati demoliti i pilastroni e sostituiti con sottili aste d'acciaio. Infine lo strato superiore è stato riappoggiato sulle volte. Ora il gigantesco cantiere è vicino alla conclusione. La consegna dei lavori è prevista per settembre, compresi i restauri esterni della cupola, che verranno coperti (incredibile ma vero) con i risparmi realizzati dal ribasso di gara rispetto ai 18 miliardi stanziati. L'immenso ponteggio interno si sta smaterializzando via via che i tubolari vengono smontati, e svela il nuovo volto interno della cupola. Sono terminate le grandi centrali tecnologiche ricavate, per otto metri di profondità, sotto il giardinetto della Mole: una piccola città di macchinari capaci di scaldare, condizionare e proteggere i 24 milioni di metri cubi del monumento. Ha preso ormai corpo l'invenzione architettonica che colpirà di più il pubblico: la scala elicoidale appesa ad un unico tirante di acciaio alto 20 metri, tratto iniziale della balconata che porterà vero l'alto il visitatore facendogli percorrere due volte il perimetro della grande aula del Tempio e lo affaccerà agli ambienti superiori del futuro Museo. Il progetto, una delle più complesse e interessanti applicazioni della scienza e della tecnologia al patrimonio artistico, è degli architetti Antes Bortolotti e Gianfranco Gritella, il quale ultimo ha svolto anche la direzione generale dei lavori. Gli ingegneri Paolo Napoli e Vittorio Nascè hanno progettato le opere strutturali, l'ingegner Vincenzo Gerace gli impianti tecnologici. A quando il Museo del Cinema nella Mole restaurata? Nei mesi scorsi i giornali lasciavano intravedere sopravvenuti dubbi e polemiche sulla destinazione. Ma l'assessore comunale alla Cultura, Ugo Perone, di dubbi non ne manifesta alcuno. "Il restauro - ribadisce - è stato fatto in funzione della sistemazione a Museo del Cinema e tale rimane. E rimangono i processi decisionali già acquisiti". Poiché a sua volta l'architetto Gritella non ha incertezze sulla consegna dei lavori di restauro nel prossimo settembre, l'allestimento del Museo potrebbe essere terminato già nel '99. Addirittura, come richiede l'assessore, nella prima metà dell'anno. Roberto Antonetto


SCIENZE FISICHE. ENTRO LA FINE DEL '99 Una pila rivoluzionaria Funzionerebbe con metanolo o etanolo
Autore: PISTOI SERGIO

ARGOMENTI: ENERGIA, TECNOLOGIA
NOMI: HOCKADAY ROBERT, GROVE WILLIAM
ORGANIZZAZIONI: LOS ALAMOS NATIONAL LABORATORIES
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA

SE ho voglia di scrivere questo articolo ascoltando il cinguettio degli uccelli, non ho che da prendere il mio computer portatile e andare al parco, o in montagna. Collegando poi il computer ad un telefono cellulare, non solo posso conversare, ma ricevere e inviare dati, disegni, fax e persino sequenze video. Tutto questo in città come nel mezzo della foresta pluviale, dove un ricevitore gps portatile mi indicherebbe in ogni momento le mie coordinate. Sempre che la carica della batteria duri abbastanza. Ritrovarsi di colpo con l'inutile peso di un apparecchio ormai privo di vita è un'esperienza che accomuna tutti i possessori di telefoni cellulari e computer portatili. Teniamo duro, entro la fine del 1999 tutto questo sarà solo un triste ricordo. Così ha annunciato Robert Hockaday, un fisico americano che ha costruito una rivoluzionaria pila a combustione miniaturizzata con un'autonomia 50 volte superiore alle batterie attuali, cosa che permetterebbe di utilizzare i nostri apparecchi per più di quattro giorni ininterrottamente. Per la ricarica? Nessun problema, basta aggiungere un po' di alcol. Non si tratta di magia, ma del frutto di dieci anni di caparbie ricerche iniziate da Hockaday lavorando come ingegnere presso i Los Alamos National Laboratories, e proseguite poi a casa propria in un laboratorio artigianale ricavato nelle cantine, proprio sotto la cucina. I principi su cui si basa la pila di Hockaday sono noti da tempo ai fisici, basti pensare che l'antenata delle attuali pile a combustione fece la sua comparsa nel 1839, ad opera di Sir William Grove, un giudice gallese appassionato di scienza. Più di recente, pile a combustione hanno alimentato le navicelle delle missioni spaziali Gemini e Apollo, e tuttora forniscono corrente elettrica e acqua all'interno dello Shuttle. Come le normali batterie, le pile a combustione trasformano in corrente elettrica l'energia liberata in una reazione chimica, detta di ossido-riduzione. L'ossido-riduzione può essere paragonata ad un "furto" di elettroni (particelle con carica negativa) da parte del composto ossidante a spese di quello riducente; sia le normali batterie che le pile a combustione "incanalano" questo flusso di cariche creando così una corrente elettrica. Mentre però in una normale batteria la reazione coinvolge gli stessi elementi che la compongono, che tendono quindi a consumarsi, la pila a combustione sfrutta la reazione che avviene fra composti introdotti dall'esterno. Uno di questi è sempre l'ossigeno, l'ossidante per antonomasia, che "ruba" elettroni ad un combustibile. Quest'ultimo, idealmente è l'idrogeno: la sua reazione con l'ossigeno produce acqua più energia elettrica. Per gli usi pratici, però, è possibile utilizzare come combustibili diversi idrocarburi o alcoli, fra cui il metanolo. In questo caso oltre all'acqua, viene prodotta anche anidride carbonica. Si tratta in termini chimici di una vera e propria combustione, come quella che avviene in una stufa. La differenza è che nella pila il combustibile, invece di generare luce e calore, "brucia" silenziosamente producendo energia elettrica, con minimo dispendio di calore. Si tratta in definitiva del sistema più efficiente e "pulito" di cui si dispone per trasformare in elettricità l'energia chimica contenuta nel combustibile. Proprio per questo alcuni costruttori, fra cui la General Motors, stanno sperimentando l'uso di questi dispositivi per alimentare le automobili di nuova generazione. Per quanto riguarda l'uso quotidiano, il limite delle pile a combustione realizzate finora è quello di funzionare in modo efficiente solo ad alte temperature, cosa che rende impossibile il loro utilizzo in apparecchi portatili. Inoltre, la maggior parte di questi apparecchi è relativamente ingombrante, più o meno della grandezza di un gruppo elettrogeno. La pila di Hockaday, oltre ad avere dimensioni minuscole, è in grado invece di funzionare a temperatura ambiente, una proprietà che ne decuplica le possibili applicazioni. Il segreto è nella particolare composizione dell'elettrolita, il "cuore" della pila che ha il compito di separare l'elettrodo positivo da quello negativo, e che permette il movimento delle particelle cariche all'interno dell'apparecchio. Riguardo a ciò Hockaday non ha però voluto svelare alcun particolare, almeno fino a quando non avrà ottenuto il brevetto. Un altro vantaggio per gli utilizzatori sarà dato dalla durata di vita delle nuove pile, che potremo utilizzare per almeno venti anni: basterà ogni volta aggiungere un po' di metanolo diluito, senza alcun tempo di attesa. Una sola nota viene a guastare questo scenario idilliaco: il metanolo è tossico anche a dosi relativamente basse (ricordiamoci le tristi vicende del vino al metanolo di qualche anno fa). Su questo punto, l'inventore è rassicurante: "La pila - ci ha raccontato - è costruita in modo da immobilizzare il combustibile in modo che non ci siano perdite", e aggiunge perfino di essere riuscito ad alimentare la pila con etanolo. Chissà se presto, invece di asettici caricabatterie, non troveremo in dotazione una ben più piacevole fiaschetta di grappa da dividere con il nostro telefonino. Per ora, possiamo immaginare che Hockaday brinderà con ottimo e costoso champagne: solo negli Stati Uniti, il mercato delle batterie per telefoni cellulari raggiunge la ragguardevole cifra di un miliardo di dollari all'anno. Sergio Pistoi




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio