TUTTOSCIENZE 17 settembre 97


FRONTIERE I nano-robot tra scienza e pura follia
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ELETTRONICA
NOMI: FEYNMAN RICHARD, MCLELLAN WILLIAM, VON NEUMANN JOHN
ORGANIZZAZIONI: AMERICAN PHYSICAL SOCIETY, CORNELL UNIVERSITY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NEW YORK, ITHACA

LE chiamano nanotecnologie. Dove «nano» non significa nano ma è il prefisso che per convenzione indica un miliardesimo di una qualsiasi unità di misura e, per estensione, di qualsiasi oggetto. Un nanometro è dunque un miliardesimo di metro, un nanosecondo un miliardesimo di secondo, un nanobuttiglione un miliardesimo dell'onorevole Buttiglione (entità davvero molto piccola). Possiamo collocare nel 1959 la nascita delle nanotecnologie. In quell'anno Richard Feyn man - che nel 1965 riceverà il Nobel per i suoi lavori sulle particelle subnucleari - intervenendo all'assemblea dell'American Physical Society parlò della possibilità di costruire in dimensioni microscopiche macchine allora, e tuttora, molto ingombranti. Per stimolare le ricerche in questa direzione, Feynman mise in palio mille dollari per chi riuscisse a realizzare una pagina di libro 25.000 volte più piccola di quelle normali e un motore elettrico non più grande di un cubo di 4 millimetri di lato. Il bando di concorso uscì su «Engineering and Science», prestigiosa rivista del Caltech, e su «Popular Science Monthly», dove ricevette il titolo «Come costruire un'automobile più piccola di questa virgola». Feynman, probabilmente il fisico più geniale del secolo dopo Einstein e certamente buon suonatore di bongo, già tre mesi dopo dovette versare mille dollari all'ingegner William McLellan, che gli presentò un motore elettrico dalle misure stabilite e dalla potenza di un milionesimo di cavallo vapore. Non aveva contante, firmò un assegno. Gli altri mille dollari li sborsò 25 anni dopo allo studente Thomas H. Newman, che nel 1985 incise la minuscola pagina con la tecnica dei chip elettronici. Oggi le nanotecnologie diventano una realtà grazie al fatto che si sta imparando a osservare e a manipolare la materia molecola per molecola, atomo per atomo. I microscopi a effetto tunnel e a forza atomica sono strumenti che spianano la strada suggerita da Feynman; la nanochitarra lunga 10 millesimi di millimetro costruita alla Cornell University è poco più di una curiosità, ma dimostra che il traguardo è a portata di mano. Eniac, il primo computer, occupava un appartamento e pesava decine di tonnellate. La sua potenza di calcolo oggi ce la portiamo nel taschino della giacca. Il robot «Sojourner» che sta esplorando Marte pesa dieci chili ed è grande come una valigetta 24 ore. Di questo passo le sonde spaziali del futuro saranno presto poco più grandi di un insetto. E forse un giorno vedremo davvero quei minuscoli robot «costruttori universali» immaginati da John von Neumann, il padre del computer: cioè dei robot capaci di costruire, partendo da materia prima bruta, qualsiasi congegno, e quindi anche una copia di se stessi. Il fisico Frank Tipler (Tulane University, Usa) ha verificato che un «costruttore universale» potrebbe pesare molto meno di 100 grammi. Ecco la dimostrazione. Il robot di von Neumann dovrebbe avere come minimo le capacità intellettuali di un essere umano. Il nostro cervello contiene cento miliardi di neuroni e può memorizzare 10 elevato alla quindicesima bit, equivalenti a 100 milioni di libri. Questa potenzialità, nel caso del cervello umano, è contenuta in un organo che pesa un chilo e mezzo. Attualmente si ammette che è già possibile codificare un bit ogni 20 atomi. In futuro, con i calcolatori quantistici, è pensabile che si arrivi a un bit ogni atomo. Cento grammi di materiale più leggero del ferro contengono 10 alla ventiquattresima atomi. Poiché la potenzialità cerebrale umana equivale a 10 alla 15 bit, in 100 grammi di materia si possono codificare 10 alla 24 bit: un miliardo di volte il contenuto di un cervello. Anche ammettendo che un singolo costruttore universale di von Neumann abbia bisogno delle competenze di centomila cervelli umani, cioè di 10 alla 20 bit, un oggetto nanotecnologico dal peso di 100 grammi potrebbe contenere diecimila costruttori universali. La popolazione di una piccola città. Vista così, la colonizzazione dell'universo sembra qualcosa di (remotamente) realizzabile. Ma non dimentichiamo che tra il genio e la follia talvolta il confine è sottile. Piero Bianucci


CONQUISTA TECNOLOGICA Chi si vede, un atomo] I miracoli di un nuovo microscopio
Autore: CONTI ALDO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

FIN dallo sviluppo dei primi modelli che descrivevano la materia come costituita da minuscoli mattoni, l'uomo ha sempre desiderato di «vedere» direttamente gli atomi. Purtroppo le leggi fisiche impediscono di realizzare strumenti ottici in grado di raggiungere questo scopo. Neppure la microscopia elettronica, nonostante abbia notevoli capacità di distinguere dettagli minuscoli, ci riesce. Sebbene se ne parli poco, esistono però degli strumenti in grado di spingersi nell'analisi della materia fino al livello atomico. Capostipite di questa famiglia di microscopi è quello a effetto tunnel che, inventato nel 1981, ha fruttato il premio Nobel ai suoi realizzatori. Consiste in una minuscola punta che viene posta molto vicino al campione, che a sua volta sta su un dispositivo in grado di muoverlo in modo molto preciso e per distanze piccolissime. Applicando una minima differenza di potenziale fra il campione e la punta, quando la distanza fra questi è di pochi Angstrom (decimiliardesimi di metri), alcuni elettroni riescono a superare questa distanza per effetto tunnel, e si misura una corrente che dipende fortemente dalla distanza. Mantenendo costante la distanza fra la punta e il campione, ma muovendo quest'ultimo in modo da analizzarne una porzione, l'intensità della corrente può servire per disegnare un'immagine sullo schermo di un calcolatore, attribuendo colori diversi alle diverse correnti misurate punto per punto. Sorprendentemente, grazie alla sua estrema sensibilità, questo strumento è in grado di analizzare la posizione dei singoli atomi sulla superficie di un conduttore. La grande evoluzione di questo genere di strumenti è avvenuta nel 1986. Uno degli inventori del microscopio a effetto tunnel si chiese se per generare l'immagine non fosse possibile, invece della corrente, utilizzare le forze che agiscono fra gli atomi, permettendo così l'analisi anche di campioni non conduttori. Da questa idea è nato il «microscopio a forza atomica», che, utilizzando una struttura simile rispetto al suo cugino, sfrutta però principi del tutto diversi. La punta esiste ancora, ma è montata all'estremità di una sensibilissima asta che si flette anche sotto sforzi minimi. Portando molto vicini il campione in esame e la punta, le forze fra gli atomi faranno flettere l'asta su cui quest'ultima è montata; se il dorso dell'asta è riflettente, tramite un piccolo laser è possibile misurare la flessione con grandissima precisione e utilizzare questa misura per ricostruire un'immagine sullo schermo di un calcolatore. Anche in questo caso, per ottenere l'immagine, il campione viene mosso al di sotto della punta. Questi strumenti riescono a vedere dettagli su scala atomica, ma sono altre le caratteristiche che ne hanno decretato il successo. Per prima cosa, essi sono in grado di ottenere informazioni tridimensionali, analizzando dettagli di dimensioni estremamente diverse, da qualche decimo di millimetro fino alla scala atomica. A differenza dei microscopi elettronici, loro diretti antagonisti, possono analizzare qualsiasi superficie senza che sia necessaria una preparazione preventiva, mentre i microscopi elettronici devono operare sotto vuoto e, se il campione non è conduttore, occorre ricoprirlo con un leggero strato di oro che, come la neve su un paesaggio, cancella i dettagli più fini. I microscopi a forza atomica possono operare senza limitazioni in ogni ambiente, immersi in liquido (anche in acidi molto corrosivi) o sotto vuoto spinto, permettendo di studiare fenomeni finora solamente ipotizzati o indagati con sistemi indiretti come, ad esempio, i processi di crescita dei cristalli. Lo sviluppo della microscopia a forza atomica è proceduto a passi da gigante. E' possibile ora ottenere immagini mantenendo la punta in vibrazione ma lontano dal campione, in modo che questo non possa esserne danneggiato. Tutto questo, unito alla possibilità di lavorare con la punta immersa in un liquido, offre la possibilità, ad esempio, di analizzare direttamente i tessuti viventi ricavandone preziose informazioni non accessibili prima. Su scala ancora più piccola, ma senza uscire dal campo biologico, molte molecole, proteine, ma anche intere sequenze di Dna, vengono ora analizzate con questi microscopi. In alcuni casi si possono analizzare pure cellule viventi e, recentemente, ad un congresso in Italia, sono stati presentati risultati molto interessanti riguardanti gli effetti dei campi elettrici sulla morfologia delle cellule. Alcuni strumenti permettono anche di ottenere immagini diverse, che non rappresentino solo la topografia del campione: punte magnetizzate possono indagare la distribuzione dei domini magnetici del materiale, punte attivate chimicamente sono in grado di studiare la distribuzione di alcune sostanze chimiche sulla superficie in esame, ma anche di particolari recettori sulle membrane cellulari. Altre immagini possono invece mostrare le proprietà elastiche del campione in esame permettendo, ad esempio, di individuare elementi più rigidi al di sotto della superficie. In altri casi si possono eseguire misure di microconducibilità termica o di microriflettività, sostituendo alla punta una minuscola termocoppia o una fibra ottica. Misurando la torsione dell'asta è possibile misurare anche gli attriti fra la punta e il campione, evidenziando zone con caratteristiche diverse. Oltre alle applicazioni nel mondo della ricerca, questi strumenti stanno prendendo piede rapidamente nelle industrie, ed anche in Italia sono cominciate le installazioni di questi microscopi presso privati. In questo genere di ambienti la fanno da padrone le applicazioni riguardanti la scienza dei materiali e, in particolare, gli studi riguardanti le proprietà dei polimeri. Altre applicazioni sono state però trovate nell'elettronica, dal controllo della rugosità dei materiali usati per la costruzione dei dispositivi elettronici, fino al controllo degli stessi, magari studiando a livello microscopico i campi elettrici da essi prodotti o producendo mappe di temperatura di componenti in prova. Tutte le cose descritte finora non esauriscono però le possibilità di questi microscopi, che vanno oltre la loro capacità di produrre immagini o misurare proprietà delle superfici che analizzano. La punta, infatti, può anche essere usata per modificare la posizione degli atomi del campione. Famosa è ormai la scritta Ibm ottenuta spostando atomi di carbonio sulla superficie di un cristallo di mica, e poi «fotografata» con lo stesso strumento. La capacità di manipolare gli atomi in questo modo fa prevedere sviluppi incredibili in elettronica; già adesso vengono riparate in questo modo le costosissime maschere che servono per fotoincidere i circuiti integrali. Trent'anni fa il fisico americano Richard Feynman aveva parlato delle grandi cose che si sarebbero potute fare avendo la capacità di disporre a nostro piacimento molecole o singoli atomi... Aldo Conti Università di Milano


FRONTIERE I nano-robot tra scienza e pura follia
NOMI: FEYNMAN RICHARD, MCLELLAN WILLIAM, VON NEUMANN JOHN
ORGANIZZAZIONI: AMERICAN PHYSICAL SOCIETY, CORNELL UNIVERSITY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NEW YORK, ITHACA

LE chiamano nanotecnologie. Dove «nano» non significa nano ma è il prefisso che per convenzione indica un miliardesimo di una qualsiasi unità di misura e, per estensione, di qualsiasi oggetto. Un nanometro è dunque un miliardesimo di metro, un nanosecondo un miliardesimo di secondo, un nanobuttiglione un miliardesimo dell'onorevole Buttiglione (entità davvero molto piccola). Possiamo collocare nel 1959 la nascita delle nanotecnologie. In quell'anno Richard Feyn man - che nel 1965 riceverà il Nobel per i suoi lavori sulle particelle subnucleari - intervenendo all'assemblea dell'American Physical Society parlò della possibilità di costruire in dimensioni microscopiche macchine allora, e tuttora, molto ingombranti. Per stimolare le ricerche in questa direzione, Feynman mise in palio mille dollari per chi riuscisse a realizzare una pagina di libro 25.000 volte più piccola di quelle normali e un motore elettrico non più grande di un cubo di 4 millimetri di lato. Il bando di concorso uscì su «Engineering and Science», prestigiosa rivista del Caltech, e su «Popular Science Monthly», dove ricevette il titolo «Come costruire un'automobile più piccola di questa virgola». Feynman, probabilmente il fisico più geniale del secolo dopo Einstein e certamente buon suonatore di bongo, già tre mesi dopo dovette versare mille dollari all'ingegner William McLellan, che gli presentò un motore elettrico dalle misure stabilite e dalla potenza di un milionesimo di cavallo vapore. Non aveva contante, firmò un assegno. Gli altri mille dollari li sborsò 25 anni dopo allo studente Thomas H. Newman, che nel 1985 incise la minuscola pagina con la tecnica dei chip elettronici. Oggi le nanotecnologie diventano una realtà grazie al fatto che si sta imparando a osservare e a manipolare la materia molecola per molecola, atomo per atomo. I microscopi a effetto tunnel e a forza atomica sono strumenti che spianano la strada suggerita da Feynman; la nanochitarra lunga 10 millesimi di millimetro costruita alla Cornell University è poco più di una curiosità, ma dimostra che il traguardo è a portata di mano. Eniac, il primo computer, occupava un appartamento e pesava decine di tonnellate. La sua potenza di calcolo oggi ce la portiamo nel taschino della giacca. Il robot «Sojourner» che sta esplorando Marte pesa dieci chili ed è grande come una valigetta 24 ore. Di questo passo le sonde spaziali del futuro saranno presto poco più grandi di un insetto. E forse un giorno vedremo davvero quei minuscoli robot «costruttori universali» immaginati da John von Neumann, il padre del computer: cioè dei robot capaci di costruire, partendo da materia prima bruta, qualsiasi congegno, e quindi anche una copia di se stessi. Il fisico Frank Tipler (Tulane University, Usa) ha verificato che un «costruttore universale» potrebbe pesare molto meno di 100 grammi. Ecco la dimostrazione. Il robot di von Neumann dovrebbe avere come minimo le capacità intellettuali di un essere umano. Il nostro cervello contiene cento miliardi di neuroni e può memorizzare 10 elevato alla quindicesima bit, equivalenti a 100 milioni di libri. Questa potenzialità, nel caso del cervello umano, è contenuta in un organo che pesa un chilo e mezzo. Attualmente si ammette che è già possibile codificare un bit ogni 20 atomi. In futuro, con i calcolatori quantistici, è pensabile che si arrivi a un bit ogni atomo. Cento grammi di materiale più leggero del ferro contengono 10 alla ventiquattresima atomi. Poiché la potenzialità cerebrale umana equivale a 10 alla 15 bit, in 100 grammi di materia si possono codificare 10 alla 24 bit: un miliardo di volte il contenuto di un cervello. Anche ammettendo che un singolo costruttore universale di von Neumann abbia bisogno delle competenze di centomila cervelli umani, cioè di 10 alla 20 bit, un oggetto nanotecnologico dal peso di 100 grammi potrebbe contenere diecimila costruttori universali. La popolazione di una piccola città. Vista così, la colonizzazione dell'universo sembra qualcosa di (remotamente) realizzabile. Ma non dimentichiamo che tra il genio e la follia talvolta il confine è sottile. Piero Bianucci


Nano-chitarra per i microbi E' lunga dieci millesimi di millimetro
Autore: CAGNOTTI MARCO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: CRAIGHEAD HAROLD, DREXLER ERIC
ORGANIZZAZIONI: CORNELL UNIVERSITY, IBM, XEROX
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NEW YORK, ITHACA

IMMAGINATE un microbo che si esibisce in virtuosismi musicali. Troppo piccolo per maneggiare uno strumento? Non più. Presso la Cornell University a Ithaca, nello Stato di New York, è stata realizzata una chitarra tanto minuscola da essere alla portata perfino di un batterio. Lunga 10 micron (un micron è un milionesimo di metro, e per dare un termine di paragone si può dire che il diametro di un capello misura 200 micron) è ricavata da un singolo cristallo di silicio e ha sei corde larghe 50 nanometri (miliardesimi di metro), cioè non più di cento atomi accostati l'uno all'altro in fila. Se fosse possibile pizzicarle, il microscopico strumento suonerebbe, sebbene a frequenze al di fuori della soglia di udibilità e certamente con un'intensità che solo un protozoo potrebbe forse apprezzare, se avesse orecchie... Per fabbricarla un cristallo di silicio è stato letteralmente scolpito con la tecnica della «litografia a fascio di elettroni», utilizzando un procedimento già sfruttato nell'industria microelettronica per costruire i processori dei computer. Applicazioni? Nessuna, è ovvio, se non la ricaduta in termini di immagine dei ricercatori che hanno messo a punto lo strumento per dimostrare le potenzialità della nanotecnologia, che è diventata oggetto di ricerca in molte università e nei laboratori di importanti industrie come l'Ibm e la Xerox. Mentre la foto della chitarra eseguita con un microscopio elettronico vinceva un importante premio negli Stati Uniti e finiva su Internet, i suoi costruttori si dedicavano a studiare impieghi più utili delle tecniche che hanno permesso di fabbricarla. Qualche futurologo à arrivato a sostenere che dalla nanotecnologia scaturirà in futuro una trasformazione dell'intero ciclo produttivo paragonabile alla rivoluzione industriale. L'americano Eric Drexler si spinge a immaginare schiere di minuscoli robot in grado di costruire in poche ore oggetti complessi e costosi come aerei e automobili, microsonde che navigano nel flusso sanguigno per compiervi analisi e nanomacchine che riparano i denti in maniera completamente indolore. Per il momento, tuttavia, la nanotecnologia si trova ancora allo stadio della sperimentazione, anche se è già in grado di produrre oggetti più utili di uno strumento musicale per microbi. Le prime applicazioni realistiche si trovano in tutti quei settori in cui è necessario lo sviluppo di sonde microscopiche. «Riusciamo a spostare i nostri congegni e a misurarne il moto depositando anche solo un elettrone sulla loro superficie», dice Harold G. Craighead, docente alla Cornell University (Usa) e artefice della nanochitarra insieme con un suo studente che sta preparandosi al dottorato. Una microsonda sarebbe dunque in grado di valutare le forze associate all'azione di ogni singola biomolecola. Ma la nanotecnologia può essere usata anche per far oscillare microscopici specchi e modulare molto rapidamente un raggio laser nelle comunicazioni con le fibre ottiche, incrementandone la velocità di trasmissione. Nella fabbricazione di microapparecchiature elettromeccaniche ormai si è scesi sotto la soglia del micron. La prossima tappa è la realizzazione di particolari delle dimensioni di un nanometro. Ma arrivare a tanto richiederà un approccio completamente diverso. «So che possiamo andare oltre quanto realizzato finora - afferma Craighead - Il vero problema è sapere quanto lontano possiamo arrivare per avere proprietà meccaniche controllabili e misurabili. Penso che ormai siamo arrivati al limite in cui diventa sempre più difficile realizzare particolari più piccoli ma ancora funzionali». Nel frattempo, quasi per gioco, si dedica alla liuteria per microbi. Marco Cagnotti


SCIENZE FISICHE. GEOMETRIA Disegni o teoremi? L'arte matematica di Escher
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: MATEMATICA
NOMI: ESCHER MAURITS CORNELIS
LUOGHI: ITALIA

CONFESSAVA di avere un interesse profondo per le leggi della geometria nascoste nella natura, ma negava qualunque capacità di comprendere la matematica. «Sono assolutamente sprovveduto nella conoscenza delle arti esatte», dichiarava. Eppure tutta l'opera di M. C. Escher - non usò mai il suo nome completo, Maurits Cornelis - esprime curiosità e comprensione dell'ordine geometrico e della simmetria e una straordinaria capacità di inventare «metafore visive» per esprimere i concetti fondamentali della scienza. Nato (nel 1898 a Leeuwarden, in Olanda) da un padre ingegnere, con tre fratelli maggiori scienziati, sviluppo' subito un punto di vista inusuale da cui guardare i dettagli della natura. Un matematico clandestino, lo definisce Doris Schattschneider, docente di matematica al Moravian College di Bethlehem, che ha avuto accesso ai suoi quaderni di appunti e ai disegni «periodici», conservati alla Fondazione Escher. Era ossessionato dal problema della divisione regolare di una superficie piana, che riempiva con cloni di figure che dovevano esprimere l'idea di infinito chiuso in uno spazio finito. «Era un vero matematico - dice Doris Schattschneider -. Si creò le sue categorie, inventò una nuova classificazione, rivestì di immagini perfette concetti astratti difficilissimi da spiegare, come la dualità, l'auto-referenza, l'infinito, la trasformazione topologica, le dimensioni». Con il fiuto del precursore, si appassionò a quella che oggi viene chiamata «simmetria dei colori» quarant'anni prima che i matematici le prestassero l'attenzione che si merita. Lastricava le sue superfici piane con creature - angeli, diavoli, uccelli, farfalle - che si intrecciavano per coprirle tutte, esplorando sistematicamente ogni possibilità della cristallografia. «L'idea che le simmetrie di una pavimentazione possano trascinare con sè i colori - dice Doris Schattschneider - fu presa in considerazione da matematici e cristallografi soltanto negli Anni 50» . Escher trovò soluzioni rivoluzionarie proprio perché era libero dagli schemi correnti: non conosceva nessuna regola di base e riteneva che il problema della divisione di un piano non fosse di pertinenza esclusiva dei matematici e dei cristallografi. «I cristallografi - scriveva - hanno proposto una definizione del concetto, hanno stabilito la natura e il numero dei sistemi per dividere un piano in modo regolare. Ma, com'è nella loro natura, sono interessati al meccanismo che apre il cancello più che al giardino che sta dietro». Lui invece mirava al giardino: il cancello era solo il modo per entrarci. E «giardini» furono inizialmente le grandi pavimentazioni arabe, frutto di algoritmi di cui voleva carpire il segreto - in modo intuitivo e visuale, non teorico. Così visitò l'Alhambra a Granada e la Moschea La Mezquita a Cordoba e realizzò disegni colorati di quelle geometrie. Dopo aver assorbito l'informazione visiva, Escher cercò di sviluppare una sua teoria delle pavimentazioni periodiche, sostituendo a quadrilateri, pentagoni ed esagoni creature colorate, messe in modo che ogni pezzo fosse chiaramente visibile e non confinasse con un altro dello stesso colore, utilizzando il minor numero di colori possibile. Via via che il suo studio progrediva, cercò di limitarsi a due soli colori, il bianco e il nero. «Per gli schizzi preparatori, inventò un'annotazione simbolica - dice ancora Doris Schattschneider - che stabiliva i collegamenti delle linee di ogni singolo pezzo sia fra di loro sia con quelle dei pezzi adiacenti. Alcuni di questi simboli erano già utilizzati dai matematici, ma Escher diede loro un significato nuovo. E' una notazione non convenzionale, ma eccellente: è concisa e suggerisce simbolicamente le isometrie che collegano tutte le parti di un pezzo». A quarant'anni, dopo aver esaminato e scartato un altissimo numero di possibilità, trovò la soluzione finale ai suoi problemi. Classificò 24 tipi diversi di pavimentazione: parallelogrammi, losanghe, rettangoli, quadrati, triangoli. Stabilì il centro della rotazione delle figure, i rapporti tra pezzi adiacenti, la colorazione. E rivestì le forme geometriche con abiti nuovi. Escher era affascinato anche dalla dualità: il giorno e la notte, il paradiso e l'inferno, l'acqua e il cielo. Come renderla visivamente? Come rivelare la matematica che governa un concetto tanto elusivo? «Trovò la soluzione nell'uso del bianco e nero e dei due motivi intrecciati - conclude Doris Schattschneider -. Ognuno ripetuto sempre con lo stesso colore, ognuno figura principale o sfondo, secondo come si guarda il disegno» . Nei celebri motivi a lucertole o farfalle, utilizza un «sistema di triangoli» che ruotano in due modi diversi, in base a precise regole geometriche. Chissà perché si ostinava a negare il suo talento matematico] Marina Verna


IN BREVE Asteroide sull'Italia
AUTORE: P_C
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VITERBO (VT)

Domenica 7 settembre alle ore 0,20 un bagliore ha illuminato il cielo per almeno due secondi, che sono sembrati lunghissimi agli occhi stupefatti dei testimoni oculari. Un oggetto descritto come un «masso incandescente» ha illuminato la notte di bianco-azzurro nella zona di Viterbo per poi allontanarsi silenziosamente verso Nord- Ovest, senza frammentarsi, seguito da una piccola coda. Il fenomeno sarebbe durato poche decine di secondi. Ci sono stati avvistamenti anche da Siena e da varie parti della provincia di Viterbo. L'ipotesi più probabile è quella di una grossa meteora, cioè di un frammento roccioso e/o metallico vagante nello spazio e passato a 70-80 chilometri di quota, dove non si può udire alcun suono. «Fireball» (sfera di fuoco) è il termine esatto per la sua classificazione, mentre il «bolide» si ha quando si ode anche il rumore. Un tipo davvero speciale perché la luminosità raggiunta è senza dubbio maggiore di quella della Luna piena (mag -12), e quindi da collocarsi in un valore di magnitudine attorno a -15, cioè alla luminosità teoricamente diffusa da 16 Lune piene, circa 600 volte le fireball più luminose. La traiettoria seguita pone la meteora tra i rarissimi casi di «sfioramento», cioè di attraversamento della atmosfera terrestre (entrata e uscita), senza impatto nè disintegrazione. Solo un altro caso è stato accertato con fotografie e rilievi da satellite, sul Lago Jackson nello Wyoming (Usa), il 10 agosto 1972. (p. c.)


IN BREVE Tumori: su «Science» scoperta italiana
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: TESTI ROBERTO
ORGANIZZAZIONI: SCIENCE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA

Il gruppo di ricerca di Roberto Testi dell'Università di Tor Vergata (Roma) ha individuato un nuovo meccanismo che causa la morte delle cellule, meccanismo che si potrebbe forse applicare per uccidere le cellule tumorali. La scoperta è uscita su «Science» del 12 settembre.


IN BREVE E' nata «Coelum» rivista di astronomia
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, EDITORIA
ORGANIZZAZIONI: COELUM
LUOGHI: ITALIA

E' in edicola una nuova rivista mensile di astronomia, «Coelum», nata da un contrasto con l'editore del mensile «Il Cielo» che ha portato al distacco di una parte della redazione.


IN BREVE Inquinamento luminoso
ARGOMENTI: ECOLOGIA, ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: ASSOCIZIONE ASTROFILI BRESCIANI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, BRESCIA (BS)

Indetta dall'Associazione astrofili bresciani, il 4 ottobre si celebrerà la Giornata contro l'inquinamento luminoso che ostacola la visione del cielo ad astronomi professionisti e dilettanti. Adesioni: fax 030- 87.25.45. Su questo tema è appena uscito uno studio molto completo di Pierantonio Cinzano: «Inquinamento luminoso e protezione del cielo notturno». L'edizione è a cura dell'Istituto veneto di scienze, lettere e arti (tel. 041-521.0177).


IN BREVE «Heos», rivista telematica
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, EDITORIA
NOMI: PIVATELLO UMBERTO
ORGANIZZAZIONI: HEOS, INTERNET
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VERONA (VR)

A Verona, diretta da Umberto Pivatello, è nata su Internet la rivista scientifica «Heos». Per informazioni: 045-80.156.74. Indirizzo: heos&intesys.it


SCIENZE FISICHE. DAL 6 AL 10 OTTOBRE Torino, l'astronautica è qui Mostra e dibattiti aperti alle scuole
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: VALLERANI ERNESTO
ORGANIZZAZIONI: IAF (FEDERAZIONE ASTRONAUTICA INTERNAZIONALE)
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
NOTE: 48o Congresso mondiale della Iaf

A quarant'anni dal lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik (4 ottobre 1957), e in coincidenza con una nuova fase dell'esplorazione di Marte, si svolgerà tra il 6 e il 10 ottobre a Torino presso il Lingotto il 48o Congresso mondiale della Iaf (Federazione Astronautica Internazionale), una sorta di «Onu dello spazio» che permette ogni anno di radunare i massimi esperti di tutte le nazioni in un grande convegno. L'occasione per l'Italia e per il settore spaziale nazionale è grande, così come per il pubblico che potrà visitare gli stand del Lingotto. Non si tratta, infatti, di una manifestazione per soli addetti ai lavori. L'Alenia Aerospazio organizza visite guidate per le scolaresche, che potranno così ammirare il modello in scala 1:10 della prossima stazione spaziale internazionale, dei razzi americani, russi, europei e di altre nazioni, di satelliti e sonde, incluso il fantastico robottino «Sojourner» che la Nasa ha sperimentato nel deserto dell'Arizona, identico a quello che adesso se ne va a spasso su Marte. Vi saranno anche conferenze didattiche per gli studenti. Tra queste, un ciclo comprende i seguenti temi: «Orologi e Spazio», «Misure della costante di gravitazione nello spazio», «Fisica e aerodinamica», «Gli ultimi 10 alla 90 anni dell'universo», «Perché la Terra rallenta», «Immagini dello Space Telescope», «Perché su Marte» e «La faccia nascosta della Luna». Il provveditore agli studi di Torino, Marina Bertiglia, ha promosso con una circolare alle scuole le visite guidate alla manifestazione della Iaf, che si svolgeranno al mattino e prevedono l'accesso a sistemi multimediali e interattivi per simulare esplorazioni planetarie in realtà virtuale. Sarà anche possibile accedere a collegamenti televisivi in diretta con la Nasa e con altri centri spaziali, in particolare con quelli che raccolgono ed elaborano i dati provenienti dal telescopio spaziale «Hubble». Le varie conferenze permetteranno inoltre di vedere da vicino e ascoltare alcuni tra i grandi protagonisti dei prini quarant'anni dell'era spaziale, come gli astronauti e i progettisti dello Sputnik, che saranno a Torino. Questa 48a edizione della IAF è organizzata dalla Aidaa (Associazione Italiana di Aeronautica e Astronautica). Il suo presidente Ernesto Vallerani, capo del comitato organizzatore, sottolinea che «forse per la prima volta, un congresso tecnico-scientifico su temi astronautici è stato programmato per interessare anche il grande pubblico, sia per il tema centrale, dedicato allo sviluppo del business dello spazio e alle ricadute tecnologiche che da esso provengono, sia per la presenza contemporanea di una mostra, un forum per dibattiti aperti, e una serie di eventi, come lo «Sputnik day», che il 4 ottobre prevede una conferenza a Torino con la partecipazione di astronauti italiani e dei progettisti dello Sputnik». Le scuole interessate a prenotarsi per le visite guidate, possono farlo presso Federico Licci, ai numeri 011-7180739 e 7180902, o al fax 011-7180270. Antonio Lo Campo


SCIENZE FISICHE. RICERCA ITALIANA «Hubble» stana una pulsar E' la settima (su 700 note) identificata otticamente
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: CRAVERO PATRIZIA, GIOVANNI BIGNAMI
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA

A trent'anni dalla loro scoperta, le pulsar non sono più oggetti così misteriosi, pur rimanendo tra i corpi celesti più affascinanti. Si tratta di «stelle di neutroni», cioè aggregati di materia nucleare iperdensi (una volta e mezzo la massa del Sole concentrata in una sfera di 10 chilometri di raggio) che si formano in seguito ad esplosioni di supernova. Anche se in un certo senso le pulsar sono stelle morte, rappresentano, tuttavia, qualcosa di più di semplici «cadaveri» stellari. Esse, infatti, continuano a irradiare energia anche se in modi e in forme diverse dalle stelle normali. In particolare, sono visibili in molte finestre dello spettro elettromagnetico dove segnalano la loro presenza attraverso l'emissione di impulsi principalmente nelle onde radio, e in misura minore anche nei raggi X e nei raggi gamma. La ricerca di questi oggetti nella banda ottica è molto ardua per il fatto che si tratta di sorgenti estremamente deboli. Per questo motivo, i cacciatori di pulsar devono impiegare i telescopi più grandi e potenti del mondo. In trent'anni, infatti, sono soltanto sei le pulsar osservate otticamente su un totale di più di 700, la prima delle quali è stata la famosa Pulsar del Granchio all'interno della nebulosa omonima nella costellazione del Toro. L'osservazione di uno di questi oggetti nella banda visuale costituisce, quindi, un evento assolutamente eccezionale. Recentemente, è stata osservata una settima pulsar, nota con il nome di catalogo di PSR1055-52. La scoperta è stata riportata da un gruppo di astronomi milanesi dell'Istituto di Fisica Cosmica del Cnr del quale fanno parte, oltre a chi scrive, Patrizia Caravero e Giovanni Bignami. Come è facile immaginare, l'impresa non è stata delle più semplici. Alcuni tentativi sono stati effettuati negli anni precedenti utilizzando uno dei più potenti telescopi dell'emisfero australe: il New Technology Telescope (Ntt), dell'Osservatorio australe europeo (Eso), a La Silla sulle Ande cilene. Sfortunatamente, l'osservazione si è subito rivelata molto più complicata del previsto. La pulsar, infatti, ha il pessimo gusto di trovarsi nelle immediate vicinanze di una stella almeno 100 mila volte più brillante e questo rende ancora più difficile rivelarne il debole flusso luminoso. Per fare un esempio, sarebbe come voler individuare la luce di un fiammifero sullo sfondo di un faro potente. La situazione è peggiorata dalla presenza dell'atmosfera terrestre. Per effetto delle turbolenze atmosferiche, l'immagine della stella vicina tende ad allargarsi fino a coprire praticamente la pulsar. Si tratta, quindi, di una osservazione estremamente difficile, praticamente proibitiva per i telescopi terrestri anche sfruttando le migliori condizioni atmosferiche. L'unica possibilità per individuare PSR1055-52 era, quindi, quella di tentare un'osservazione dallo spazio con il telescopio spaziale «Hubble». Così è stato. L'osservazione è stata eseguita lo scorso maggio con lo strumento Foc (Faint Object Camera) per una durata totale di circa 2 ore e mezzo. Per diminuire il rischio di «contaminazione» da parte della stella vicina l'osservazione è stata effettuata usando un filtro sensibile alla radiazione e messa nel vicino ultravioletto dove ci si aspetta che la pulsar sia più brillante della sua vicina. L'osservazione è riuscita al di là delle più ottimistiche previsioni. Le immagini trasmesse a terra dal Telescopio Spaziale mostrano chiaramante debole una sorgente puntiforme (magnitudine 25) al centro del campo di vista dello strumento esattamente nella posizione prevista. Non vi sono, quindi, dubbi che si tratti proprio di PSR1055-52. Quali processi fisici permettono alle pulsar di brillare nella banda ottica? Nelle pulsar più giovani si tratta di radiazione di sincrotrone che viene emessa da particelle cariche quando si muovono nell'intenso campo magnetico della pulsar. L'efficienza di questo processo, però, diminuisce rapidamente con l'età ed è trascurabile per le pulsar più vecchie, come PSR1055-52 (cinquecentomila anni). La luminosità ottica di queste pulsare, invece, è dovuta interamente alla superficie della stella di neutroni, che si raffredda irradiando nello spazio il proprio calore latente. Roberto Mignani Istituto di fisica cosmica Cnr, Milano


SCIENZE FISICHE. DIDATTICA I Cd-rom raccontano le imprese spaziali
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: DIDATTICA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: RIZZOLI NEW MEDIA, HOCHFEILER MULTIMEDIA
LUOGHI: ITALIA

SE siete affascinati dai misteri del cielo o appassionati dalla eccezionalità delle missioni spaziali, la «Grande Enciclopedia dell'Universo» è il cd-rom che fa per voi (Rizzoli New Media, 99 mila lire). Potete ripercorrere tutte le tappe delle missioni Apollo, curiosare nel cuore pulsante di una stella o aggirarvi per la Via Lattea, indagare il mistero della nascita dell'universo, scoprire i retroscena di tutte le missioni spaziali o studiare le schede tecniche dei veicoli che l'uomo ha costruito per conquistare lo spazio. Un capitolo è dedicato a tutti i principali protagonisti dell'epopea spaziale, come Gagarin, il primo uomo che sia andato in orbita, e gli astronauti che sbarcarono sulla Luna, mentre i razzi e le navicelle più importanti sono anche raffigurati in tre dimensioni. Per approfondire singoli temi, la Hochfeiler Multimedia (che, nonostante il nome, è un'editrice di Roma) propone la collana «Voyager», con due titoli già disponibili («Giove» e «Saturno») e altri in preparazione. Immaginando di essere a bordo di una sonda spaziale in orbita attorno a questi pianeti, è possibile una visita virtuale per scoprirne tutte le caratteristiche. Per i più esperti, Tecniche Nuove Multimedia ha realizzato «L'universo in cd-rom» (39 mila lire), che contiene il programma Skyglobe capace di visualizzare tutte le mappe celesti, individuare con precisione la posizione delle stelle nonché compiere tutta una serie di operazioni per preparare il lavoro di una notte al telescopio. Vi sono anche 150 immagini della Nasa che si possono estrarre e ritoccare con gli appositi programmi Windows. Andrea Vico


SCIENZE DELLA VITA. A UN SECOLO DALL'ESTINZIONE Un gipeto nato libero Lieto evento sulle Alpi in Alta Savoia
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: ALP ACTION, APEGE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Gipeto

SPESSO siamo costretti a parlare dell'estinzione di specie viventi: 50.000 l'anno; una su quattro delle 4600 specie di mammiferi potrebbe scomparire per sempre. Finalmente, invece, una buona notizia: da qualche mese il primo gipeto nato in libertà dal progetto di reintroduzione sulle Alpi ha dispiegato il suo volo, a un secolo dall'estinzione della specie sulla catena alpina. La notizia della nascita, avvenuta in Alta Savoia, è stata tenuta segreta sino al 22 agosto per non disturbare il giovane uccello, nato nei pressi del luogo in cui, otto anni fa, i suoi genitori erano stati reintrodotti. E' stato battezzato Phenix Alp Action in onore delle due associazioni Alp Action - Programma Internazionale di Finanziamento Aziendale per l'Ambiente - e Apege - ente per lo studio e la gestione dell'ambiente - che da tempo collaborano al progetto europeo di reintroduzione di questo grande avvoltoio. Presente un tempo su tutto l'arco alpino, il gipeto è stato vittima di una campagna di caccia che lo ha fatto scomparire dalle Alpi. In Italia l'ultimo esemplare fu abbattuto il 29 ottobre 1913 in Val di Rhemes. Proprio a Rhemes Notre Dame, a fine giugno, il Parco del Gran Paradiso e la Regione Valle d'Aosta hanno inaugurato un nuovo Centro Visitatori dedicato al gipeto. La reintroduzione dello splendido avvoltoio è partita con un progetto internazionale del 1978 in seguito a un'iniziativa di Gilbert Amigues e Paul Geroudet avviata nel 1972 in Alta Savoia. Dal 1978 la Società Zoologica di Francoforte e il Wwf hanno assunto il coordinamento internazionale del progetto passato poi nel 1992 alla Fondazione per la Conservazione del Gipeto barbuto. Collaborano 5 Paesi: Germania, Austria, Francia, Italia e Svizzera. Si è partiti da giovani gipeti nati in cattività. Per poterne disporre sono stati coinvolti 30 parchi zoologici, la Stazione di allevamento di Vienna e il Centro d'allevamento dell'Apege in Alta Savoia. Il primo esemplare fu liberato nel 1986 in Austria e a tutto il 1997 erano stati liberati in ambiente naturale 72 gipeti, in cinque località dell'arco alpino: Alti Tauri (Austria, 25), Grigioni (Svizzera, 13) Alta Savoia (Francia, 23) Argentera (Italia, 4) Mercantour (Francia, 7). E finalmente, il 5 agosto scorso, a 116 giorni dalla nascita, Phenix Alp Action ha effettuato il primo volo. E' il primo gipeto nato in libertà sulle Alpi da oltre cento anni. Il padre di Phenix è Melchior, nato allo zoo di Inn sbruck e liberato il 28 maggio 1988 in Alta Savoia. La madre, Assignat, è svizzera ed è nata il primo aprile 1989 allo zoo di Garenne e liberata nella stessa zona di Melchior l'11 luglio 1989. I due neo genitori hanno formato coppia nell'inverno del 1992 e la primavera seguente hanno iniziato a costruirsi il nido sulle pareti rocciose. I primi accoppiamenti sono stati osservati nell'inverno successivo, ma nel 1994 il disturbo arrecato da alcuni fotografi ha indotto Melchior ad abbandonare il suo territorio. Il 7 febbraio 1996 fu individuata una covata. Ma purtroppo la femmina smise di covare dopo tre settimane. Fortunatamente il 16 febbraio 1997 un'altra covata è pronta. I genitori si alternano regolarmente nel loro compito e, specie il maschio, difendono il nido dall'attacco dei corvi imperiali. Passano così i lunghi 54 giorni invernali e, dopo oltre cento anni rinasce un gipeto alpino. E' l'11 aprile quando la «squadra gipeto» dell'Apege, che segue insieme alla rete internazionale di monitoraggio il destino degli uccelli reintrodotti, osserva che Assignat sta nutrendo un piccolo. Phenix rimane nascosto, ben protetto dai genitori. Bisognerà attendere il 2 maggio per vederne la piccola testa e un'ala durante il pasto. Le insidie della montagna sono ancora molte per il piccolo. La notizia viene tenuta nascosta. Per fortuna l'inverno permette alla coppia di trovare cibo a sufficienza, nonostante la scarsità delle valanghe, e dopo sette settimane Phenix trascorre la sua prima notte solitaria nel nido. Poco dopo, a 116 giorni dalla nascita, sarà il tempo dei primi voli a segnare il suo successo, e quello di un'impresa ambiziosa. Il Progetto Gipeto, con questo primo risultato positivo, segna un punto importante ma è tutt'altro che concluso. I responsabili dell'operazione fanno sapere che c'è bisogno della collaborazione di tutti gli appassionati, perché il controllo dei 68 esemplari sin qui rilasciati è possibile solo con l'aiuto di osservatori volontari. Sino a oggi sono state raccolte in una banca dati più di 11.000 segnalazioni provenienti da un migliaio di osservatori. Per l'Italia l'unico sito di reintroduzione è il Parco naturale delle Alpi Marittime. A primavera, nel territorio di Entracque, verranno rilasciati altri due gipeti, portando così il numero complessivo a sei esemplari. Tra il marzo e l'aprile scorsi, nell'area del parco piemontese, sono stati osservati quattro gipeti, ognuno riconoscibile da specifiche marcature fatte decolorando alcune penne per renderli facilmente identificabili. Il Parco delle Alpi Marittime è tra i coordinatori della raccolta delle osservazioni del progetto. Un'apposita scheda può essere richiesta (Parco Alpi Marittime, corso D. L. Bianco 5, 12010 Valdieri) da chi vuole collaborare all'iniziativa. Walter Giuliano


SCIENZE DELLA VITA. BOTANICA Gerani, difendiamoli dai virus
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

E' meritata la popolarità che circonda i gerani, piante di facile coltivazione, sempreverdi, in fiore per un lungo periodo dell'anno purché la temperatura si mantenga di qualche grado sopra lo zero. Solo in Italia erroneamente si parla di geranio anziché di pelargonio: i generi Pelargo nium e Geranium appartengono entrambi alla famiglia delle Germinacee, che deve il suo nome alla parola greca geranos, alludendo al fatto che il frutto ha la forma del becco di una gru. Il Pelargonium però possiede un fiore con corolla irregolare, ha sette stami, è originario del Sud Africa, ha uno sperone nettarifero sotto il sepalo inferiore, mentre il geranium ha fiore regolare, porta dieci stami, è originario di zone a clima freddo e non possiede il tipico sperone nettarifero. La coltivazione del pelargonio è sicuramente una delle più avanzate ed è forse quella a cui la ricerca nel settore della floricoltura ha dedicato la massima attenzione. Si tratta di una specie che proviene dal Sud Africa, da una zona caratterizzata da clima desertico, con scarsa piovosità e terreno povero. Per tale motivo questo genere si adatta a condizioni sfavorevoli per affrontare le quali ha sviluppato un apparato radicale profondo che scende nel terreno fino a un metro; le foglie si sono ispessite e sono divenute tormentose per ridurre la traspirazione, mentre il fusto è diventato legnoso e nodoso con aspetto xerofitico. Dal Sud Africa un nobile veneziano introdusse il Pelargo nium triste nelle ville venete intorno al 1600, da dove poi arrivò all'Orto botanico di Padova. Altri pelargoni, come il P. zonale, il più conosciuto, caratterizzato dalla presenza di un alone marrone sulle foglie, il P. peltatum, noto come edera per la forma delle foglie, furono introdotti dagli olandesi che con le loro naviper approvvigionarsi di acqua, si fermavano al Capo di Buona Speranza provenienti dalle Indie. Quindi ebbero inizio le ibridazioni, gli incroci e le successive selezioni per ottenere le tante forme attualmente coltivate, delle quali ogni anno si producono circa 20 milioni di vasi soltanto nel nostro Paese. Poiché molte varietà di pelargonio provengono da cloni moltiplicati vegetalmente, questo metodo di moltiplicazione contribuisce alla diffusione di virosi. Esistono descrizioni diverse per riferirsi al medesimo virus, fatto che complica di molto la classificazione dei sintomi e l'identificazione dei virus. Inoltre, malgrado la presenza del virus, la pianta non esterna i sintomi o lo fa in modo ridotto. Per questo è stata messa a punto una selezione sanitaria raffinata, che assicura la produzione di talee indenni da virosi attraverso un indessaggio meccanico o sierologico che riesce a rigenerare le piante virosate anche se la varietà è completamente contaminata. Ricerche raffinate al riguardo sono state effettuate presso il laboratorio di fisiologia vegetale del Cnrs ad Angers. Inoltre è stato dimostrato che è possibile aumentare il numero di talee che si possono ottenere da una pianta irrorando con dosi pari a pochi milligrammi per litro quest'ultima mediante una delle cinquanta gibberelline conosciute. Poiché il consumatore è sempre più esigente e richiede vasi fioriti assolutamente compatti, si impiega un brachizzante, prodotto non inquinante, che consente di avere piante di larghezza uguale all'altezza, determina un incremento di clorofilla, anticipa la fioritura e produce tessuti più consistenti. Chi vuole inviare vasi fioriti a grande distanza incontra un grave problema relativo alla caduta dei petali, variabile da una varietà all'altra. Negli Usa è stato messo a punto un apparecchio ingegnoso composto da due braccia scuotitrici che terminano con un allargamento in cui viene infilato un vaso. Queste vengono fatte muovere per qualche secondo: trascorso tale tempo, si conteggiano i petali caduti. Esiste un prodotto, il tiosolfato d'argento, che distribuito per irrorazione entra immediatamente in circolo nella pianta e rallenta la caduta dei petali. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA Un instancabile volatore Anche 400 chilometri al giorno
Autore: FRAMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Gipeto

SECONDO recenti ricerche fatte in Sud Africa, il gipeto spende tre quarti del tempo diurno in volo di perlustrazione a bassa quota alla ricerca del cibo. Ciò corrisponde a oltre 400 chilometri percorsi ogni giorno. Il gipeto si serve piuttosto poco delle termiche e delle altre grandi correnti d'aria ascensionali e sfrutta per lo più il vento nelle forme irregolari e più leggere, come le deboli correnti di origine termica presenti dalle prime ore del giorno, oppure il gradiente del vento cioè le differenze di velocità, specialmente fra il suolo e 15-30 metri di altezza. Il gipeto inoltre deve manovrare con facilità, per seguire il rilievo tormentato del suo habitat esclusivo: la montagna. L'amplissima distribuzione nelle montagne di due continenti (Asia e Africa) prova che esso ha raggiunto una grande padronanza di questo tipo di volo, cioè del volo veleggiato a bassa quota su terreno irregolare. In un habitat apparentemente diverso - il mare - ma anch'esso caratterizzato dal vento, altri uccelli hanno raggiunto grande padronanza del volo su lunghi percorsi: i veleggiatori pelagici. La principale caratteristica aerodinamica degli albatros e delle berte (Procellariformi) sono le ali strette e lunghe, la stessa degli alianti ad alta efficienza. Sono i vortici formantisi all'estremità dell'ala che ne diminuiscono l'efficienza: essi vengono ridotti in parte dalle separazioni («slots») fra le penne estreme dell'ala (remiganti), ma specialmente dal grande allungamento dell'ala stessa («aspect ratio»: rapporto fra lunghezza e larghezza o, più esattamente, fra il quadrato della lunghezza e l'area). Non è un caso che la forma delle ali del gipeto si differenzi da quella larga e digitata degli avvoltoi e dei grandi veleggiatori terrestri, e assomigli piuttosto a quella stretta e appuntita dei veleggiatori marini: è un esempio di evoluzione convergente. Una traccia di ciò è il cambiamento di forma delle ali che si compie nel Gipeto con la prima muta. Le nuove remiganti secondarie sono più corte di quelle mutate, il che aumenta l'allungamento alare di circa il 15% e con esso l'attitudine al volo veleggiato su lunghe distanze dell'uccello ormai emancipato. Rispetto ai veleggiatori marini e a molti terrestri il gipeto ha sviluppato una coda più lunga: è un vantaggio non tanto per la portanza quanto per la manovrabilità. Tale caratteristica è certamente legata al tipo di volo praticato dal gipeto nell'ambiente montano. Sia gli uccelli pelagici, sia per sempio un grande veleggiatore delle savane dalle ali allungate come il gipeto e il falco giocoliere, che volano in campo aperto, hanno code cortissime e pressoché inutili per virare, tanto che normalmente virano mediante improvvisi cambi dell'inclinazione laterale. Le forme esteriori non debbono far dimenticare un fattore invisibile ma indispensabile di ogni buon volatore: l'abilità di manovra. Anche i migliori veleggiatori fra gli uccelli sono meno efficienti aerodinamicamente dei moderni alianti, nel senso che in planata perdono quota più di questi. Ma essi sentono in ogni istante le condizioni del vento e possono reagire e manovrare prima e meglio di qualsiasi pilota. Scrive Jean Dorst a proposito degli uccelli pelagici: «Le traiettorie delle berte, degli albatros e anche dei gabbiani mostrano che vengono seguiti, si può dire, alla lettera i cambiamenti del vento in mare. «Una perfetta percezione delle condizioni aerodinamiche informa gli uccelli sull'istantanea evoluzione del vento, forse con l'aiuto di particolari organi tattili (i Procellariformi ne sarebbero appunto provvisti, come sarebbe dimostrato dalla morfologia del tutto particolare delle loro fosse nasali)». Non pare azzardato ipotizzare qualcosa del genere anche per il gipeto: le strane e caratteristiche appendici attorno al becco in forma di baffi e barba potrebbero servire ad accrescere la sua sensibilità al vento - un organo apposito per un vantaggio non trascurabile a un veleggiatore di lungo corso. Francesco Framarin


SCIENZE DELLA VITA. FORESTA AMAZZONICA Vespe e formiche, alleati micidiali Le due specie di insetti coabitano difendendosi a vicenda
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, BRASILE

LA morale di questa storia potrebbe essere: l'unione fa la forza... se conviene. Lo scenario: la foresta amazzonica soggetta alle periodiche inondazioni del Rio delle Amazzoni e dei suoi affluenti. Protagonisti: formiche e vespe che abitano le une accanto alle altre, se non addirittura nella stessa casa, unendo l'arsenale chimico nella difesa delle rispettive colonie. Aggiungete un uccello tessitore che, sguarnito di armi proprie, gode del vantaggio di avere vicini bellicosi. Formiche, vespe e uccello tessitore appendono il nido al ramo di un albero, in modo che durante i 6 mesi di acqua alta, questa città pendula sia al di sopra del livello dell'acqua. Le formiche, del genere Azte ca, costruiscono enormi nidi di fango essiccato a forma di cono appesi per la base a un ramo in genere di Macrolobium acaciae folium. Lunghezza un metro, cupi e possenti come castelli rovesciati, i formicai hanno la superficie corrugata da una sorta di tegole, così che la pioggia scorre via senza penetrare all'interno. Particolare non trascurabile in una regione tra le più piovose della Terra. Qui dentro vivono circa 250. 000 formiche, che formano una società al femminile: come in tutti gli Imenotteri i maschi compaiono solo all'epoca della riproduzione, perché non hanno altra funzione che quella di donare i loro geni per le generazioni successive. Le formiche, tutte femmine quindi, sono ripartite fra alcune riproduttrici, molte bambinaie, altrettante foraggiatrici e una legione di soldatesse a cui è affidata la difesa della colonia. L'arma è l'acido formico ad alta concentrazione, che sulla cute umana genera una sensazione notevolmente dolorosa. L'esercito pattuglia notte e giorno l'albero della dimora, attaccando qualsiasi estraneo osi anche solo toccare un ramo. Uno o due fori del diametro di 2 o 3 centimetri sulla parete del formicaio e un andirivieni di vespe intorno a queste aperture rivelano la presenza di altre inquiline. L'associazione fra vespe e formiche è un fatto inconsueto da queste parti, dove le vespe sono spesso vittime delle formiche legionarie. Quando un'orda di legionarie si affaccia sul nido, tutte le vespe adulte lo abbandonano di gran carriera radunandosi in uno sciame su un ramo poco lontano, da dove si cercano un altro posto adatto per costruire una nuova casa. Ma per queste vespe, Agelaia myrmecophila e A. hamiltoni, il nido delle Azteca è una fortezza dove vivere al sicuro: non che le vespe non siano dotate di armi proprie, come testimonia il pungiglione con cui termina l'addome delle femmine. Però nessuna gazza, nemico atavico della Age laia, si azzarda ad atterrare su un nido di formiche Azteca per procurarsi un pranzo, con il pericolo di assaggiare invece il fuoco delle armi chimiche delle padrone di casa. E non dovete credere che le vespe, abili ingegneri quanto le formiche e organizzate in una società tutta al femminile analoga alla loro, si accontentino di un semplice buco come casa. Ripartito in più piani, ognuno formato da tante cellette, un nido di vespe occupa all'interno del formicaio delle Azteca un volume della grandezza di un melone, che le formiche tollerano per una ragione di convenienza: sfruttano la loro presenza contro eventuali nemici. E infine, nei periodi di magra avere le vespe in casa può tornare utile: in fondo, sono sempre un ottimo cibo] Come dire: il lupo perde il pelo ma non il vizio. D'altronde le formiche Azteca, che fanno razzia di vermi, larve e piccoli insetti spostandosi lungo le liane come novelli Tarzan da un albero all'altro di un vasto territorio, non sono altro che predoni. Ma durante le inondazioni più forti, quando le liane sono parzialmente sott'acqua, alle formiche viene a mancare il mezzo di trasporto più comune per il rifornimento di cibo. Spinte dal digiuno, in casi estremi, le formiche si rifanno sulle povere vespe: secondo le testimonianze di alcuni scienziati, il campo di battaglia è seminato di centinaia di corpi di vespe smembrati e fatti a pezzi, che le formiche trasportano freneticamente in casa ammassandoli in cambusa. Invece le vespe Polybia rejecta e Synoeca virginiana sfruttano il vicinato con le Azteca senza pagarne costi così alti. Estremamente aggressive, appendono i loro nidi vicino al castello delle Azteca e collaborano efficacemente alla difesa del luogo di residenza. Lo sanno bene gli indios, che per nulla al mondo si avvicinano con la canoa ad un ramo con i loro nidi penduli. Se si valica una certa distanza di sicurezza, infatti, centinaia di vespe si lanciano in massa contro l'invasore. L'attacco può significare anche la morte per un uomo, ma non si può dire che le vespe non avvisino del pericolo. Una parte di loro rimane nella costruzione, un'altra va sulla superficie esterna e quindi tutte insieme battono all'unisono l'addome contro il nido di carta, che rimbomba con il rumore ritmato di un esercito in marcia. Su questi rami fortificati l'uccello tessitore Cacicus cela, nero e giallo, costruisce il suo nido e ci sta benissimo, ma inerme com'è non può far altro che produrre grandi schiamazzi se qualcuno si avvicina. Questa storia, che finora non era mai stata pubblicata, è frutto delle osservazioni di scienziati impegnati nella salvaguardia dell'ambiente amazzonico. Molte domande aspettano una risposta da uno studio più sistematico: quali predatori spingono questi animali alla coabitazione? Quali altri fattori entrano in gioco? In quali circostanze le formiche scindono il contratto di affitto con le vespe? Perciò le Azteca and Company attendono volontari, prima che il loro ambiente scompaia sotto le ruspe. Maria Luisa Bozzi


SCIENZE DELLA VITA. PUGILATO E LESIONI CEREBRALI I traumi del ring Causano i sintomi dell'Alzheimer
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: SPORT, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: CLAY CASSIUS (MOHAMED ALI')
LUOGHI: ITALIA

LE statistiche indicano chiaramente che i danni provocati da traumi cerebrali cronici sono il pericolo maggiore per il pugile professionista. Un pugile su sei ha dei problemi neurologici dopo i 50 anni, principalmente deficit cognitivo e cambiamenti nel comportamento con mancanza di inibizione. E' davanti ai nostri occhi l'immagine anche troppo nota di Mohamed Alì ex campione del mondo dei pesi massimi. Pugile intelligente con straordinarie abilità fisiche e tattiche, è attualmente affetto da una forma molto grave di Parkinson che gli ha permesso a stento di tenere in mano la fiaccola olimpionica all'inaugurazione dei Giochi l'anno scorso. E' ben conosciuto il fatto che ripetuti traumi cranici non solo sul ring ma anche nel contesto di altri sport quali il calcio (colpi del pallone alla testa), football americano (testate violente), hockey su ghiaccio (collusioni con gli avversari e colpi di bastone) producano una costellazione di danni cerebrali e quindi difetti cognitivi permanenti, Parkinson, difficoltà ad eseguire movimenti (atassia), problemi di equilibrio, cambiamenti profondi dell'umore (depressioni) e della personalità. Nei pugili viene descritta una particolare forma di demenza chiamata appunto pugilistica o encefalopatia traumatica cronica. Queste sindromi sono il risultato di danni neurologici prodotti da prolungati e ripetuti traumi cranici non avvertiti immediatamente dallo sportivo e quindi più pericolosi e subdoli. Nella massa cerebrale tali traumi si traducono non solo in piccole emorragie e conseguenti cicatrici ma anche in lesioni simili a quelle riscontrate nella malattia di Alzheimer, le più caratteristiche delle quali sono le placche neuritiche indicative di estesi cimiteri di cellule nervose ed alterazioni cosiddette neurofibrillari indici di alterazioni profonde di quel che costituisce lo scheletro di sostegno della cellula nervosa. Tali alterazioni sono praticamente indistinguibili da quelle riscontrate nell'Alzheimer, la causa più frequente (60%) di demenza senile. Proprio a causa della somiglianza (sintomi e lesioni del cervello) tra demenza pugilistica e Alzheimer ci si è chiesto se non si trattasse della stessa malattia. Recenti studi hanno identificato un fattore genetico di rischio per l'Alzheimer in una proteina cerebrale trasportatrice del colesterolo chiamata apolipoproteina E (APOE) quale concausa delle forme senili più comuni della malattia. L'APOE si presenta sotto tre diverse forme (alleli) genetiche dette E2, E3 ed E4 dando luogo a sei diverse combinazioni genetiche di eredità paterna e materna. L'aver ereditato da entrambi i genitori la forma E4 aumenta notevolmente il rischio di sviluppare più precocemente la malattia (il contrario se abbiamo ereditato la forma E2). E' quindi logico chiederci se quei pugili che siano portatori della forma APOE 4 siano anche maggiormente esposti al rischio di sviluppare la demenza. Se ciò fosse vero sarebbe altamente sconsigliabile per i pugili (e per chiunque fosse esposto a causa della professione a traumi cranici) di intraprendere questo sport. La presenza o meno di tali geni è facilmente determinabile dalla nascita (o addirittura prenatalmente) con un esame relativamente semplice. Tenendo conto delle recenti osservazioni di casi sempre più frequenti di Parkinson e demenza tra i pugili americani ed europei un gruppo di ricercatori della Cornell University di New York dei Dipartimenti di Neurologia e Neuroscienze hanno intrapreso uno studio di 30 pugili professionisti di diversa origine e razza pubblicato recentemente sulla rivista «Jama». La maggior parte era costituita da pugili professionisti appartenenti ad associazioni locali sia aderenti volontariamente allo studio sia scelti dalla New York State Athletic Commission per un controllo neurologico obbligatorio. L'età media era di 49 anni (il gruppo comprendeva diversi pugili non più attivi) e il criterio di scelta era basato su un numero di almeno 12 episodi singoli di traumi cranici sul ring. Il criterio si basava su statistiche compiute su 338 pugili professionisti. Dei 30 solo 11 venivano ritenuti normali secondo una scala di 10 punti determinata mediante test neuropsicologici. Tra coloro ritenuti sofferenti di deficit mentali 3 venivano considerati affetti da un alto grado di demenza. Tra questi si notava la presenza costante del genotipo APOE 4 (almeno un allele). Si poteva pure dimostrare una diretta correlazione tra presenza di almeno un allele E4 e grado di deficit mentali. Tali risultati suggeriscono due importanti conclusioni, la prima che la presenza di un fattore di rischio come l'APOE 4 sia importante nel determinare l'insorgenza della demenza pugilistica e la seconda che esista una relazione tra questa forma di demenza e le forme più comuni di Alzheimer. Se tali dati verranno confermati da studi con casi più numerosi si arriverebbe forse a consigliare i portatori di fattori genetici di rischio quali l'APOE 4 di astenersi dal praticare professionalmente sport quali pugilato, calcio, football americano e hockey su ghiaccio che potrebbero esporli al rischio di sviluppare precocemente gravi forme di demenza di tipo Alzheimer. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. INQUINAMENTO AMBIENTALE Piombo e cadmio nell'insalata Sono 63 mila gli agenti chimici in circolazione
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA vicenda «mucca pazza» e l'uso di anabolizzanti e beta-agonisti per favorire la crescita negli allevamenti bovini (oltre all'uso indiscriminato di antibiotici) hanno messo in luce il problema dell'inquinamento ambientale. Ma questo non è esclusivo del mondo animale: riguarda anche i prodotti di origine vegetale. Basta pensare alle sostanze che si accumulano nella frutta e nella verdura, come i pesticidi, ormai insostituibili (diserbanti, insetticidi, fungicidi, fumiganti) e sempre più numerosi, tenuto conto dei fenomeni di resistenza che si sono creati da parte degli insetti. Attualmente si calcola che si è esposti, durante l'arco della vita, a circa 63.000 agenti chimici, di cui solo 15.000 sono oggetto di indagini tossicologiche. Ciò che attiva la tossicità dei pesticidi è, da un lato, l'impiego fraudolento di composti non ammessi in certe coltivazioni, e, dall'altro, l'uso di quantità eccessive di principi attivi autorizzati. L'inquinamento ambientale consente la penetrazione nelle derrate agricole dei metalli pesanti come arsenico, piombo e cadmio, responsabili di numerosi guai al fegato e ai reni. Nel mondo vegetale ci sono anche i contaminanti naturali, come le micotossine, sostanze tossiche che derivano dai funghi parassiti delle piante in particolari condizioni di umidità, temperatura, cattivo stoccaggio. Basta ricordare la patulina (caratteristica delle mele e delle pere), la vomitossina (mais) e l'aflatossina (arachidi, noci e mandorle) ad attività cancerogena. Altri contaminanti naturali tipici del mondo vegetale sono i nitrati, derivati dell'azoto che le piante traggono dal terreno. Oggi la loro presenza può essere eccessiva per l'uso di fertilizzanti azotati non opportunamente dosati. I nitrati, a loro volta, possono trasformarsi in nitriti, per cattive condizioni di stoccaggio o per azione della flora batterica nel tratto gastro-intestinale umano. I nitriti possono dar luogo a sostanze pericolose come le nitrosammine, ad attività cancerogena. I nitriti sono anche in grado di agire sull'emoglobina trasformandola in metemoglobina: da quel momento i globuli rossi perdono la capacità di fissare e cedere l'ossigeno ai tessuti. Gli organismi più esposti alle contaminazioni ambientali sono quelli dei bambini per l'immaturità dei meccanismi di disintossicazione enzimatica, per l'incompleta funzionalità di organi escretori come il rene, per i bassi livelli di proteine capaci di legare prodotti tossici, per l'incompleto sviluppo delle barriere fisiologiche (ad esempio, nel circolo cerebrale). Per garantire sicurezza sui prodotti per l'infanzia (omogeneizzati), le aziende qualificate devono produrre le materie prime in ambienti protetti da rischi di contaminazione. In questi ambienti si praticano i sistemi di coltivazione più adatti alle caratteristiche del terreno, riducendo l'impiego di sostanze chimiche potenzialmente dannose, adottando una serie di misure per evitare i contaminanti naturali e controllando le modalità di trasporto, stoccaggio e lavorazione: tutti provvedimenti necessari per rientrare nei limiti più restrittivi raccomandati da organismi nazionali e internazionali come Oms, Fao, Cctn (Commissione consuntiva tecnologica nazionale) e Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro). Renzo Pellati


SCIENZE DELLA VITA I veleni a tavola Infezioni alimentari
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

LE ultime indagini epidemiologiche eseguite su scala mondiale indicano che la frequenza di alcune infezioni trasmesse dagli alimenti è aumentata. Per esempio si segnalano numerose epidemie di salmonellosi, così chiamate perché causate dai microrganismi del genere Sal monella (dal nome del batteriologo americano Salmon): la febbre tifoide, i paratifi, gastroenteriti acute, setticemie, sono appunto salmonellosi. Qualche anno fa un'epidemia negli Stati Uniti, dovuta a latticini contaminati da Salmonel la enteritidis, colpì circa 225 mila persone. Altri agenti patogeni trasmessi dagli alimenti emergono dalle attuali ricerche, nuovi, o già noti ma a proposito dei quali si ignorava la propagazione per via alimentare. Tali per esempio le infezioni da sierotipo 0157:H7 del batterio Escherichia coli, con enteriti emorragiche e insufficienza renale acuta, talora mortali specialmente nei bambini. Fiammate epidemiche, in genere associate alla carne bovina, sono state segnalate in Australia, Canada, Giappone, Stati Uniti, in diversi Paesi europei compresa l'Italia, in Africa. L'anno scorso una vampata di E. coli colpì 6300 scolari giapponesi, la più importante epidemia di questi microrganismi finora registrata. Soltanto da poco tempo si è accertata la trasmissione alimentare del batterio Listeria monocytogenes, soprattutto per consumo di formaggi a pasta molle o di carne. Numerosi Paesi hanno segnalato fiammate di listeriosi, specialmente l'Australia, gli Stati Uniti, la Svizzera. Queste più o meno nuove malattie trasmesse dagli alimenti rappresentano pesanti minacce in parecchie circostanze, fra le quali i viaggi internazionali. E' evidente che i viaggiatori (proprio l'estate è l'epoca dei viaggi) sono esposti a rischi alimentari per essi non abituali, ad infezioni da microrganismi patogeni rari nei loro Paesi. Questi microrganismi si evolvono, formano nuovi ceppi virulenti e resistenti agli antibiotici, la malattia diventa difficilmente curabile. Frattanto si accresce nel mondo intero il numero dei soggetti molto sensibili a tali infezioni: gli anziani, i malnutriti, gli infetti dal virus Hiv dell'Aids, con riduzione dell'immunità. Le malattie trasmesse dagli alimenti rappresentano una grave minaccia per la salute e per l'economia degli individui, delle famiglie e delle nazioni. Nel quadro della sua campagna di educazione per la salubrità degli alimenti l'Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato le famose «10 regole d'oro» per la preparazione di alimenti sani. Alcune di queste regole riguardano i viaggiatori: per esempio consumare alimenti cotti, bere liquidi contenuti in bottiglie sigillate, bollire l'acqua dei rubinetti e via dicendo. Nei Paesi caldi e in quelli nei quali l'igiene lascia a desiderare, ogni pasto è un rischio per il turista, anche in un albergo a quattro stelle. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE DELLA VITA. EMBRIOLOGIA E' nato Cerberus, girino a due teste Ricerche utili per capire i meccanismi della malformazione dei feti
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: SPEMANN HANS
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DELLA CALIFORNIA
LUOGHI: ITALIA

A volte nei laboratori di embriologia la realtà non è molto lontana dalle vicende che ci narra la mitologia. Nel corso degli anni, la manipolazione degli embrioni, al fine di comprendere i meccanismi responsabili della formazione degli organi che compongono un essere vivente, ha prodotto creature strane, che troppo spesso hanno messo in cattiva luce gli embriologi e il loro lavoro, considerato al limite del lecito, se non addirittura immorale. E tuttavia il mistero nascosto nei complessi mutamenti che dall'uovo fecondato danno origine a un organismo completo è uno degli enigmi più affascinanti della biologia. L'ultima strana creatura arriva dai laboratori dell'Università della California di Los Angeles, dove la «costruzione» di un girino a due teste ha permesso di chiarire la funzione di una proteina che, non a caso, gli scopritori hanno battezzato cerberus, proprio come il mitico cane a tre teste guardiano degli inferi. La molecola è stata isolata da una zona dell'embrione chiamata «organizzatore di Spemann», dal nome del ricercatore, premio Nobel nel 1935, che la identificò per la prima volta in embrioni di tritone. Nello sviluppo embrionale precoce, l'organizzatore di Spemann svolge la funzione di direttore d'orchestra, perché le sue cellule sono in grado di determinare il destino di tutte le altre componenti attraverso un processo che i biologi chiamano induzione primaria. Ma come ci riescono? Da quando Spemann con la sua scoperta rivoluzionò l'embriologia moderna, molti suoi colleghi e allievi hanno tentato di svelare i meccanismi molecolari che stanno alla base del fenomeno. Si ritiene che le cellule dell'organizzatore secernano delle proteine che vengono captate dalle cellule vicine, e che sono in grado di dirigerne lo sviluppo. Una ventina di molecole proteiche responsabili di varie tappe del differenziamento embrionale sono già state identificate, e cerberus è una di queste. Per saggiarne la funzione il gruppo di ricerca di Los Angeles ha utilizzato un procedimento del tutto analogo a quello che permise a Hans Spemann di identificare l'organizzatore: l'hanno spostata dall'altra parte. Infatti, se è vero che cerberus è in grado di convincere le cellule vicine a organizzarsi per formare una testa (con tanto di occhio, cervello, e un piccolo cuore e un fegato appena al di sotto), iniettandola in un embrione in cui gli organi non sono ancora formati si dovrebbe ottenere un essere con due teste. La prima, quella naturale, indotta dalla proteina normalmente presente nelle cellule dell'organizzatore di Spemann; la seconda, invece, indotta dalla proteina iniettata artificialmente dalla parte opposta rispetto alla posizione dell'organizzatore. L'esperimento è stato condotto su una specie di rana molto cara agli embriologi, lo Xenopus, e il girino bicefalo che ne è risultato, che non ha raggiunto l'età adulta, è la prova vivente che l'ipotesi era corretta. Il prossimo passo sarà cercare di capire il meccanismo biochimico che regola questo processo, che certamente coinvolge molte altre molecole. Nel frattempo però è partita la caccia alla proteina che, nei mammiferi, potrebbe esercitare un'azione analoga a quella svolta da cerberus negli anfibi. L'identificazione di questa molecola potrebbe aiutarci a capire, ad esempio, come agiscono certe sostanze chimiche che, come l'alcol o alcuni agenti inquinanti, provocano gravi malformazioni nei feti. Margherita Fronte




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