TUTTOSCIENZE 20 agosto 97


SCIENZE DELLA VITA. I PARCHI Scrigni della natura Qualche meta per turisti ecologi
Autore: E_AC

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TURISMO, PARCHI NATURALI
LUOGHI: ITALIA

I parchi nazionali sono stati ideati e realizzati per la prima volta nell'America del Nord, e precisamente negli Stati Uniti: Yellowstone nel 1872, Banff nel 1885, Glacier e Yoho nel 1886. Da allora gli Usa hanno mantenuto un ruolo guida e complessivamente hanno destinato ai parchi nazionali e alle aree protette una superficie più ampia rispetto a qualsiasi altro Paese. Il parco più vasto che esista al mondo è quello della Groenlandia, istituito dalla Danimarca nel 1974, mentre il Parco nazionale Redwood in California protegge il più alto organismo vegetale vivente, la Sequoia sempervirens, che può superare i 110 metri di altezza; il Parco nazionale Yosemite (California) tutela l'enorme Sequoia dendron giganteum, il cui tronco ha un diametro superiore a 10 metri; il Parco Nazionale Mammoth Cave (Kentucky) contiene il più lungo complesso di grotte che si conosca: oltre 400 chilometri; il Parco nazionale Grassland (Saskatchewan) protegge le ultime vestigia di praterie un tempo sconfinate. In Italia il primo parco fu istituito nel 1922 (Parco Nazionale del Gran Paradiso). Attualmente esistono 18 parchi nazionali: oltre al Gran Paradiso, assai noti sono quello, pressoché contemporaneo, d'Abruzzo; il Circeo; i parchi della Calabria, dello Stelvio. L'ultimo in ordine di tempo è il Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano. L'estate è la stagione più idonea per scoprire ed esplorare i parchi, in quanto si presentano nella loro veste più rigogliosa: accostiamoci ad essi con rispetto e curiosità, per poter cogliere tutte le meraviglie che hanno in serbo per noi; viviamoli come luoghi «sacri» della natura. Qui il tempo avrebbe dovuto fermarsi, mentre purtroppo non è così: anche i parchi, in fondo, sono calati nel resto mondo e spesso le sollecitazioni della cosiddetta «civiltà» ne varcano i confini. Il traffico, i bracconieri, gli allevatori e tanti altri fattori li rendono assai vulnerabili. A dispetto di tutto ciò i parchi costituiscono un arricchimento, risparmiando risorse preziose che altrimenti andrebbero perdute. Conservano infatti una incredibile varietà di piante e di animali, molti dei quali ancora poco noti alla scienza. Inoltre fungono da laboratori per la ricerca scientifica e da «risorsa educativa» consentendo una outdoor recrea tion (ricreazione all'aperto) da cui si ricavano suggestioni profonde. Gli inglesi, per esempio, sostengono che forse la finalità primaria del parco naturale è pedagogica, un concetto, questo, sempre più condiviso in vari Paesi. Sicuramente uno dei problemi di cui gli studiosi dei parchi si stanno maggiormente occupando in questi anni riguarda la tutela e la gestione con lo scopo - anche se le visioni non sono sempre concordi - di gestire le risorse naturali all'interno dei parchi in modo da controllare alcune ricorrenti tendenze al loro possibile esaurimento, al loro degrado per inquinamento, alla perdita di utilità dovuta a congestione nell'uso. Ci si domanda spesso quali siano le attività che in un parco naturale non esauriscono progressivamente le risorse e non producono inquinamento: per ottenere una autentica tutela occorre definire le attività compatibili con l'ambiente del parco. E' vero che esiste una legge del 1991 che si riferisce ai piani di attività all'interno dei parchi e fornisce un quadro delle azioni economiche compatibili con l'ambiente. Tuttavia la griglia, pensano in molti, è assai larga, in quanto lascia al pianificatore il compito di scegliere. Non si tratta soltanto di stabilire quali attività possono essere intraprese, ma come debbono essere condotte. Sarebbe dunque auspicabile una educazione ambientale per il parco e attraverso il parco. (e. ac.)


SCIENZE DELLA VITA. CONVENZIONE INTERNAZIONALE Non esportate semi di piante protette Multe fino a 18 milioni ai turisti che violano le norme Cites
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

LE distanze sono state annullate dalla rapidità e facilità degli spostamenti: andare in vacanza ai Caraibi è quasi comune come stare sulle spiagge della Riviera ligure. Facciamo però attenzione ai souvenir che portiamo dall'estero: dal 1o giugno l'importazione di una delle 37 mila specie di piante e di animali in via di estinzione potrà costare carissimo; sono previste multe fino a 18 milioni di lire. Lo ha stabilito la Convenzione sul Commercio Internazionale delle specie selvatiche (Cites). Lasciamo perciò nei loro paesi di origine orchidee esotiche e bromeliacee particolari, accontentandoci di ammirarle. La vegetazione che si incontra lungo le strade, nei giardini o negli orti botanici può sicuramente essere motivo di stupore e di meraviglia e valere un viaggio. Enorme è la ricchezza della vegetazione tropicale: piante rampicanti e tappezzanti, arbusti e alberi da fiore, specie con brattee dai colori fiammeggianti e dalle foglie modellate con incredibile complessità costituiscono un assortimento assai vasto grazie alla grande varietà di climi e di terreni presenti, di gran lunga superiore a quanto si possa immaginare. E' possibile vedere il Ficus religio sa, conosciuto come «albero di Buddha», con le sue spettacolari radici aeree che spesso formano disegni contorti e grotte misteriose; i rami degli esemplari più vecchi sono a volte sostenuti da pali per evitare che si spezzino. Nello Sri Lanka ci sarebbe il Ficus religiosa più vecchio al mondo, essendo stato importato nel 288 avanti Cristo: la sua esistenza da allora è sempre stata documentata. Altrettanto affascinante è il loto, Nelumbo nucifera, che ha assunto molte connotazioni simboliche tra cui la fertilità, la prosperità e il carattere transitorio dell'esistenza umana ed è presente nei laghi, nei fossati, nelle vasche ornamentali e nei grandi vasi oltre che venire riprodotto nei dipinti murali, nelle incisioni su legno e su pietra, nei disegni delle ceramiche. Un albero molto decorativo è la Plumeria, comunemente chiamata «frangipani» o anche «albero del tempio»: viene piantata nei cimiteri musulmani e nei giardini dei monasteri buddhisti. Molti sono gli alberi e gli arbusti con i fiori profumati come la Saracca indica, apprezzata per le bellissime infiorescenze gialle, arancio o rosse e per l'ombra che riesce a creare, la Michelia alba fonte continua di fiori fragranti con cui si formano corone per le offerte ai templi. Nei giardini thailandesi, ad esempio, gli arbusti profumati sono potati in forme geometriche e stanno accanto a maestose palme reali (Roystonea). Molti alberi sono anche interessanti perché usati nella medicina orientale; assai diffuse sono specie come il mango, l'anona, il tamarindo e l'artrocarpo, che riflettono la filosofia comune in oriente secondo cui il giardino deve essere esteticamente attraente, ma anche utile. Inizialmente creati come centri di ricerca scientifica, i grandi orti botanici tropicali hanno avuto anche un ruolo preminente nella diffusione in tutto il mondo delle piante ornamentali e, in alcuni casi, hanno prodotto ibridi divenuti comuni nelle aziende vivaistiche. Tuttavia questi orti botanici sono stati concepiti per offrire un piacere estetico: quindi è sempre molto curato l'inserimento paesaggistico delle piante che formano scenari fantasiosi e suggestivi. Nell'isola di Mauritius c'è il primo orto botanico sorto ai tropici, risalente al 1735, esso ha contribuito allo sviluppo della canna da zucchero, mentre all'Orto botanico di Singapore si deve l'introduzione della gomma in Malaysia, in quello di Giava prosperano felci arboree, le Cyathee, che ricoprono anche le nebbiose valli del Cibodas e gli Asplenium nidus. In molti laghi come a Kebun Raya (Indonesia) sono coltivate le superbe Victoria amazonica, ninfee dalle foglie così grandi da reggere anche un bambino. La presenza delle piante epitite sorprende il visitatore ai tropici: infatti ci sono tronchi coperti a volte di Philodendron o di spettacolari orchidee come il Grammatophylium gigante che forma fino a tremila infiorescenze in una sola fioritura. Singapore offre al visitatore i «mandai gardens» con laghetti, corsi d'acqua e sentieri lungo i quali si possono ammirare piante ornamentali provenienti da tutto il mondo e soprattutto vedere riunite tutte insieme quelle piante presenti di solito nei nostri appartamenti con alterne fortune dalla Calathea con le sue grandi foglie che alla sera si dispongono verticalmente, alle Cordiline, che nelle Hawaii sono chiamate «Piante ti», dai papiri alle dracene, mentre lungo le strade, quasi dimenticati, formano siepi rigogliose Dieffenbachie e Croton che nelle nostre case a causa dell'ambiente caldo e asciutto si spogliano invece a partire dal basso assumendo un aspetto misero e sofferente nonostante le nostre amorevoli cure. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. DC-10 TRASFORMATO IN CLINICA Ospedale volante contro la cecità
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: ORBIS INTERNATIONAL
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NEW YORK

UN ospedale volante, con sala operatoria, locali per le visite e un minireparto di degenza. E' il DC 10 di Orbis International un'organizzazione umanitaria che lotta contro la cecità portando le tecniche più avanzate della chirurgia oftalmica nei Paesi del Terzo mondo. Nel mondo sono circa 50 milioni le persone che hanno perso la vista per cause facilmente evitabili e il loro numero continua a crerscere. Eppure due pazienti su tre potrebbero essere curati con successo, se solo avessero a disposizione ospedali dotati degli strumenti adatti e di personale con le competenze necessarie: il novanta per cento dei non vedenti, infatti, vive nelle regioni più povere del pianeta, dove sono più diffuse infezioni, malnutrizione e carenze sanitarie. La cataratta è al primo posto tra le cause di cecità, seguita dal tracoma, dal glaucoma e dalla penuria di vitamina A. L'attività di Orbis International, associazione che ha sede a New York ed è interamente finanziata da contributi privati, è iniziata nel 1982 con la trasformazione in clinica specializzata di una vecchio DC 8, dono dalla United Airlines. L'aereo, secondo i promotori dell'iniziativa, era il mezzo più idoneo per portare ovunque nel mondo le più moderne terapie e le tecniche operatorie, al duplice scopo di curare i pazienti e di trasmettere le conoscenze agli oculisti degli ospedali locali. I fatti hanno confermato la validità del progetto. Orbis International ha già svolto oltre 250 campagne, che hanno toccato settanta Paesi in Africa, in Asia e nell'America Latina. L'equipe di 350 specialisti, tutti volontari, ha ridato la vista a 18 mila persone altrimenti condannate alla cecità, addestrando contemporaneamente 28 mila operatori sanitari tra medici e infermieri. Nel luglio del 1993, dopo aver volato per 33 anni, il DC 8 è andato in pensione. Lo ha sostituito il DC 10, acquistato grazie ai contributi volontari e alle donazioni di un imprenditore americano e due uomini d'affari di Hong Kong. Molto più grande del predecessore, il nuovo aereo è equipaggiato con tutte le apparecchiature per la chirurgia e i trattamenti laser, utili per la cura del glaucoma e dei distacchi di retina. Oltre ad avere più spazio per la sala operatoria, il reparto di degenza e i locali per le visite, il trireattore dispone di un'area dedicata all'insegnamento. Vi si trova la biblioteca e un'aula da 52 posti dotata di mezzi audiovisivi. Un collegamento tv a circuito chiuso permette di seguire in diretta le fasi degli interventi che si svolgono nella vicina camera operatoria. Orbis International non ha, ovviamente, fini di lucro ed è indipendente da governi, movimenti politici o religiosi. Queste caratteristiche consentono all'organizzazione umanitaria di intervenire ovunque. In genere, una missione dell'ospedale volante dura alcune settimane ed è preceduta da una visita di un team di medici, allo scopo di definire il programma sulla base delle necessità locali. Giancarlo Riolfo


SCIENZE DELLA VITA. IL GENE DELL'OBESITA' Davanti al piatto non si è tutti uguali
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: GENETICA, ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

PERCHE' si ingrassi rimane ancora per molti versi un mistero. E' convinzione comune che ciò accada perché si introducono più calorie di quante non se ne consumino. Ed è vero, ma la cosa non è così semplice. Sarà capitato a molti di vedere persone che ingurgitano enormi quantità di cibo rimanendo magre, mentre altre continuano a ingrassare pur mangiando le classiche «due foglie di insalata». E' la prova che si può parlare di «ineguaglianza» degli individui rispetto al cibo. E anche di «obesità come mistero», perché è per lo meno strano pensare che alcune persone (contraddicendo una legge della termodinamica, secondo cui nulla si crea e nulla si distrugge) riescano a creare sostanza quasi dal nulla. Il mistero va tuttavia diradandosi. E per alcuni grandi obesi, spesso colpevolizzati, è giunto il momento del riscatto morale: non è a causa della loro fragile volontà e della loro inconfessata ingordigia se proprio non riescono a dimagrire. E' stato di recente individuato (Zhang e coll., Nature, 372: 425-432, 1994) quello che è ritenuto il «gene dell'obesità», battezzato «ob». La scoperta è avvenuta nei topi, ma vi sono prove concrete che un simile gene esista anche nell'uomo. Esso è preposto alla produzione da parte delle cellule adipose (in quantità proporzionale al numero e alle dimensioni delle cellule adipose stesse) di una proteina denominata «leptina» (dal greco «leptos», che significa «magro»), che ha il compito specifico di informare un centro nervoso ipotalamico sullo «stato» della massa adiposa. Sulla base di queste informazioni, dall'ipotalamo partono comandi atti a controllare l'equilibrio energetico, influenzando il comportamento alimentare (attraverso il bilanciamento di fattori che inibiscono l'assunzione di cibo, come il peptide simile al glucagone o Glp-I, e i fattori che la stimolano, come il neuropeptide Y o Npy), la termoregolazione e la propensione verso l'attività fisica. Ciò al fine di non allontanarsi molto da quella che per quel dato individuo è l'entità ideale della massa adiposa. Un «peso ideale» stabilito non dalle tabelle ma dai propri geni. E' la conferma della «teoria lipostatica», già avanzata qualche decennio fa, che ipotizzava un controllo diretto da parte del sistema nervoso centrale delle riserve lipidiche dell'organismo. Questo sofisticato e complesso sistema «omeostatico» può tuttavia qualche volta andare in «tilt» a causa di mutazioni genetiche che si manifestano a vari livelli. Diversamente da quello che capita nei topi Ob/Ob, abnormemente grassi, in cui si ha una difettosa sintesi di leptina, nell'uomo il difetto genetico più frequente riguarda la formazione dei recettori ipotalamici della leptina (Ob-R). Nelle persone abnormemente obese, infatti, vi è un alto livello di leptina circolante, che tuttavia non può interagire col proprio recettore e non può esplicare le sue fisiologiche azioni di indurre il senso di sazietà e di aumentare il dispendio energetico, per cui continuano ad essere attivati i meccanismi di accumulo della massa grassa. Ciò sembra limitare molto l'uso farmacologico di questo ormone per l'obesità umana. Oltre a «ob» sono stati individuati altri geni coinvolti nell'accumulo di grasso. Come il gene che codifica il «recettore beta-3-adrenergico» (presente nella cellula adiposa bruna, che regola la termogenesi attraverso la dispersione di energia senza coinvolgere il muscolo, «termogenesi non da brividi» ), di cui sono state dimostrate mutazioni negli indiani Pima e in una popolazione di obesi finlandesi. Le «mongolfiere della Quinta Strada» (i grandi obesi che si incontrano per le strade di New York), così come quelle che incontriamo per le nostre strade, non andrebbero quindi colpevolizzate con troppa leggerezza perché la spiegazione della loro condizione potrebbe risiedere non nella loro golosità, ma nel loro Dna. Antonio Tripodina


SCAFFALE Musatti Cesare: «Chi ha paura del lupo cattivo?», Editori Riuniti
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Fondatore della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti (1897- 1989) ritorna a noi con l'edizione economica di un libro che pubblicò due anni prima della morte: una divertente serie di episodi, di incontri e di riflessioni (tra cui quelle sul «caso Moro») tra autobiografia, humour e analisi scientifica dei meccanismi mentali, consapevoli e inconsci. Piero Bianucci


SCAFFALE Gould Stephen J.: «Gli alberi non crescono fino in cielo», Mondadori; Dawkins Richard: «Alla conquista del monte Improbabile», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Due libri sull'evoluzione scritti da biologi illustri. Quello di Stephen Jay Gould presenta tesi originali, ma con un meccanismo divulgativo poco adatto al lettore italiano, essendo tutto basato sulla metafora del baseball. Grandi qualità, anche letterarie, ha invece il saggio di Richard Dawkins, notissimo autore de «Il gene egoista».


SCAFFALE Diario Agenda Zanichelli 1997/1998
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

E' un diario ma è anche una miniera di informazioni: i dati essenziali su 193 Paesi, l'elenco dei Premi Nobel, le nuove voci del dizionario e dell'enciclopedia Zanichelli 1998, aggiornamenti legislativi, unità di misura, tavole scientifiche. E ogni giorno, dal settembre '97 al 1o gennaio 1999, un personaggio, un fatto, un evento culturale.


SCAFFALE Melchionda Nazario: «Le diete fanno ingrassare», Ed. Pendragon, Bologna
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA

Esiste, floridissima, una industria delle diete: ci campano autori di manuali che insegnano a dimagrire, alimentaristi e dietologi dagli atteggiamenti oracolari, multinazionali che producono alimenti a basso contenuto di grassi, case farmaceutiche che distribuiscono dolcificanti, «pasti sostitutivi» e i più vari prodotti per dimagrire. Il cittadino, quasi sempre, viene plagiato e spennato. E' una situazione che, a ben guardare, dovrebbe essere combattuta per via legale, con l'intervento della magistratura e delle associazioni per la difesa del consumatore. Nazario Melchionda, docente di malattie del metabolismo all'Università di Bologna, con questo libro denuncia la «diet industry» e sostiene che soltanto il «controllo cognitivo» del comportamento può risolvere il problema del sovrappeso: l'obesità non si combatte imponendo diete, ma con una informazione chiara e onesta che conduca a una crescita culturale del paziente.


SCAFFALE Candy Paolo: «Le meraviglie del cielo», Il Castello, Milano
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL cielo è l'altra metà del paesaggio, e spesso gli spettacoli che offre sono ancora più affascinanti di quelli che ci presenta la metà inferiore: arcobaleni, aloni, nuvole, stelle, eclissi di Luna e di Sole, fenomeni rari e straordinariamente suggestivi come il «raggio verde». Paolo Candy ha colmato una lacuna editoriale scrivendo il primo libro italiano dedicato in modo organico a questi aspetti del cielo, aspetti che ha anche documentato tramite un vero e proprio atlante fotografico frutto della sua paziente fatica. Il testo è asciutto e rigoroso, un manuale di estrema efficacia, senza concessioni letterarie se non in qualche «epigrafe» posta a fine capitolo. Tra i temi affrontati spicca quello del leggendario «raggio verde», un flash che in condizioni meteorologiche eccezionali si può osservare subito dopo la completa scomparsa del Sole sotto l'orizzonte. Poiché ho avuto la fortuna di vedere il raggio verde dalle isole Canarie, posso comprendere sia l'emozione dell'autore davanti a questo eccezionale fenomeno sia la straordinaria abilità che è necessaria per riuscire a scattare, in quel fugace istante, una fotografia che catturi il flash verde. Altri due capitoli di grande interesse riguardano l'inquinamento luminoso e l'osservazione delle nubi, con tutto ciò che possono insegnarci sulle condizioni fisiche dell'atmosfera.


SCIENZE DELLA VITA. UN MAMMIFERO PRIMITIVO Vita al rallentatore Al bradipo il record di pigrizia
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LO avrete visto chissà quante volte nei documentari televisivi, il buffissimo bradipo. Gli zoologi lo collocano, insieme con gli armadilli e i formichieri, al gradino infimo della scala dei mammiferi, nel primitivo ordine degli Sdentati. Primitivo finché si vuole, ma è fuori dubbio che il bradipo ci sta a pennello nel suo habitat naturale, l'umida afosa foresta tropicale del Sudamerica. Sembra che evoluzione e selezione naturale le abbiano studiate tutte per farlo adattare così bene a quel difficile ambiente, col risultato che ne è uscito fuori l'essere più stravagante e paradossale della Terra. Tanto per cominciare, la sua posizione abituale è quella rovesciata, con la pancia all'insù, la testa e il dorso all'ingiù, aggrappato ai rami degli alberi con lunghi unghioni. Per effetto del ribaltamento, anche gli organi interni risultano spostati. Il fegato è ruotato di 145 gradi verso il dorso, la milza è migrata da sinistra a destra e il pancreas ha subito la stessa sorte. Altra stranezza: il colore della pelliccia. Che è verde, di un bel verde brillante, caso più unico che raro nel mondo dei mammiferi. Ma il colore è preso a prestito da alghe microscopiche che si insediano tra le cellule dei peli e vivono in simbiosi con il bradipo. E c'è anche un altro ospite che in quella pelliccia ci si trova a meraviglia. E' una farfallina che depone persino le uova tra i folti peli lunghi 5-6 centimetri. Non potrebbe esservi luogo più protetto e tranquillo, perché il bradipo ha poca dimestichezza con l'igiene e si guarda bene dal pulirsi regolarmente la pelliccia, come fanno gli altri mammiferi. Pulirsi la pelliccia sarebbe uno spreco di energia e tutta la vita del bradipo si svolge all'insegna del risparmio energetico. Si muove il meno possibile. Una volta che si è impossessato di un ramo, ci si avvinghia con gli unghioni ad uncino e non lo molla più. Gli indigeni che gli danno la caccia (con la sua pelliccia costruiscono comode selle e gustano molto la sua carne) sanno benissimo che non si riesce a farlo cadere dall'albero nè vivo nè morto. L'unico mezzo per catturarlo è segare il ramo a cui è attaccato. Dalla sua postazione il bradipo si limita ad allungare una zampa per acchiappare il cibo e portarlo alla bocca. Lo morde con le labbra ispessite - non ha incisivi - e lo mastica con i l8 dentini laterali privi di smalto e a crescita continua (è uno Sdentato per modo di dire). A volte ruota la testa, girevole come se fosse montata su cuscinetti a sfere. Solo quando ha fatto piazza pulita di foglie, fiori, germogli, frutti a portata di zampa, si decide a spostarsi su un altro ramo o su un'altra pianta. Il bradipo è costretto a spostarsi anche quando sente l'odore del suo peggior nemico, il giaguaro. Allora fa il furbo. Si trasferisce su rami via via più sottili, in grado di sorreggere il suo peso ma non quello ben più considerevole del suo aggressore. La pigrizia arriva al punto che indugia anche una settimana prima di decidersi a evacuare l'intestino. Una faccenda che lo costringe a scendere dall'albero per recarsi in una sorta di toilette comunitaria. A terra si sposta con fatica, cercando disperatamente un appiglio a cui agganciarsi con i suoi unghioni lunghi sette o più centimetri. Neanche l'amore riesce a vincere l'indolenza del bradipo. E nemmeno la maternità. Maschio e femmina convivono assieme solo durante un fugace accoppiamento frontale. Poi ciascuno riprende posizione a testa in giù sul suo ramo abituale, come se niente fosse accaduto. Qualcosa è successo però. Perché dopo meno di sei mesi nasce il piccolo. E' un affarino peloso lungo una ventina di centimetri. Per sua fortuna, nasce con gli occhi aperti e con le unghiette già sviluppate. Deve fare tutto da solo. Deve aggrapparsi alla pelliccia materna e arrampicarsi fino ai due capezzoli pettorali per succhiare il latte. La madre è del tutto indifferente. Sembra non si accorga nemmeno della sua esistenza. Quando si sposta sui rami con il suo involtino aggrappato al petto, capita che il piccolo si trovi in difficoltà per un ramo che gli si para davanti. In quel caso il bradipino, con sbalorditiva tempestività, si stacca dal corpo materno, aggira l'ostacolo e poi, svelto come un fulmine, riprende il posto sulla pelliccia. Non per nulla i brasiliani lo chiamano «Perico legeiro», cioè «l'agile Pierino». Tra le cinque specie di bradipo che popolano le foreste del Sudamerica, le più note sono il bradipo didattilo o Unau (Choloepus didactylus) che ha due dita nelle zampe anteriori e il bradipo tridattilo o Ai-ai, che ha tre dita in ogni zampa. A qualunque specie appartengano, i bradipi sono degli inguaribili dormiglioni. Dormono diciassette ore su ventiquattro, sempre per consumare meno energia. E, secondo le ricerche di due studiosi dell'Università di Pernambuco, Alberto Filho e Salustiano Lines, sognano anche abbondantemente. L'Unau sogna più di noi. L'uomo sogna da un'ora e mezzo a due ore per notte, sia pure in episodi distanziati. L'Unau invece sogna per due ore e mezzo complessive, in episodi di otto minuti ciascuno. L'hanno constatato i due ricercatori studiando l'encefalogramma degli animali addormentati. Se in un primo tempo il ritmo respiratorio e l'immobilità assoluta denunciano un sonno tranquillo senza sogni, in capo a dieci o venti minuti incomincia un sonno agitato, indice di attività onirica. I globi oculari si muovono allora sotto le palpebre come se l'animale stesse seguendo una scena immaginaria. E' il movimento rapido dell'occhio (Rapid Eye Movement abbreviato in Rem) che anche nell'uomo accompagna i sogni. Secondo Francis Crick e Graeme Michison, il sogno avrebbe un effetto «purgativo». Cioè durante il sonno Rem il cervello si libererebbe di tutte le memorie spurie. Ma, se l'ipotesi dei due studiosi trovasse conferma, perché mai i bradipi avrebbero bisogno di purgarsi il cervello più degli uomini? Che cosa avranno mai da dimenticare? Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE FISICHE. MOSTRA SCIENTIFICA A TORINO Un tuffo nel futuro a «Experimenta 97» Conversazioni con i computer, cinema dinamico, piante transgeniche
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: EXPERIMENTA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

POTRETE diventare il personaggio protagonista di un fumetto («Regione stellare», della serie Zona X, editore Sergio Bonelli) che vi porterete a casa appena stampato (l'immagine del visitatore, ripresa da tre telecamere, è rielaborata dal computer e inserita nel fumetto), oppure partecipare a una spedizione spaziale, esplorare Marte o abitare una «casa del futuro» in cui gli elettrodomestici e le tapparelle obbediscono alla vostra voce, rimanere coinvolti dalle immagini tridimensionali e dai rudi «effetti speciali» del cinema interattivo (una novità assoluta per l'Italia) o partecipare, rivestiti da speciali giubbotti, a una battaglia tra alieni armati di fucili laser. E ancora: navigare in Internet al chiosco multimediale (dove è anche consultabile il cd rom di Tuttoscienze); esplorare il «cervello» di un computer, guidare un'auto con l'aiuto di un satellite, vedere la turbopompa a ossigeno liquido che Fiat Avio ha costruito per il razzo europeo «Ariane 5», seguire la fasi del riciclaggio di plastica e alluminio, valutare la più recenti conquiste della bioingegneria, rilevare la vostra attività cerebrale in un'installazione ideata dall'artista Mario Canali. Experimentà 97, aperta fino al 26 ottobre nel parco di Villa Gualino, sulla collina torinese, continua in questa dodicesima edizione ad avvicinare migliaia di persone a fenomeni complessi non come spettatori passivi ma come attori; con una buona dose di divertimento. Tema di quest'anno è il rapporto tra scienza e fantascienza. Se gli scrittori e i registi di questo genere si avviano al 2000 con l'orgoglio di avere «sognato» in anticipo molte conquiste dei nostri giorni (i viaggi spaziali, la robotica), gli scienziati dal canto loro non hanno difficoltà ad ammettere che alcune intuizioni della fantasia hanno anticipato i risultati dei laboratori. Experimenta 97 ne è una prova: qui un radiotelescopio capta e traduce sul monitor di un computer le radioonde provenienti da pulsar, quasar e galassie ma anche, se mai ve ne dovessero essere, le emissioni lanciate nello spazio da possibili esseri intelligenti; intanto in un'apposita sala viene proiettato un film tridimensionale in computer grafica intitolato «Krakken: Adventure of Futur Ocean» in cui sono presentate le creature dei mari così come, secondo il paleontologo Dixon, potrebbero mutarle i prossimi 5 milioni di anni. «Experimenta 97» presenta numerosi aspetti della scienza che sono, almeno per il profano, sulla soglia della fantascienza; è il caso della bioingegneria con i suoi animali e vegetali tansgenici o della crescente possibilità di sostituire parti malate del corpo, che in questo modo sempre più si avvicina ad una creatura bionica. Ma dietro questi effetti spettacolari ci sono decenni di ricerche; come quelle che sta conducendo a Torino il Laboratorio di ingegneria del sistema neuromuscolare e della riabilitazione motoria (Lisin), che si occupa di studiare il funzionamento elettrico dei muscoli. Vale la pena fermarsi alla sua postazione e partecipare direttamente agli esperimenti perché questo significa entrare in prima persona nelle problematiche che potrebbero portare in un tempo relativamente breve a risultati spettacolari. I muscoli durante la contrazione emettono segnali elettrici (Emg) analoghi a quelli emessi dal cuore e dal cervello e misurati rispettivamente mediante i ben noti elettrocardiogrammi ed elettroencefalogrammi. Se vi farete applicare due elettrodi sulla pelle questi registreranno l'attività elettrica dei muscoli superficiali; grazie a un circuito di amplificazione il segnale sarà visualizzato sullo schermo di un oscillografo e sarà inviato a delle casse musicali o direttamente a un auricolare; insomma, potrete vedere e udire funzionare i vostri muscoli. Fin qui siamo all'aspetto divertente. Ma ecco un risvolto più sostanziale: lo stimolatore elettrico neuromuscolare, un dispositivo alimentato da batterie che fornisce impulsi elettrici a nervi e muscoli incapaci di «lavorare» in conseguenza di lesioni del midollo spinale che interrompono il collegamento tra cervello e muscoli. Oggi con una scarica elettrica è possibile mettere in funzione alcuni muscoli; in questo modo persone emiplegiche possono tornare a usare le mani che la malattia consente loro di chiudere ma non di aprire; con uno stimolatore elettrico, persone colpite da emiparesi, cioè con un lato del corpo paralizzato, possono tornare a camminare relativamente bene: in questi pazienti il piede del lato colpito pende inerte verso il basso e verso l'interno; lo stimolatore è sincronizzato con il passo per mezzo di un minuscolo interruttore posto sotto il tallone e nell'istante opportuno invia un impulso elettrico ai muscoli che flettono il piede verso l'alto e verso l'esterno facendogli assumere una posizione prossima a quella naturale. Fin qui le conquiste acquisite; è fantascienza pensare che un giorno queste ricerche faranno alzare dalla carrozzina l'attore Christopher Reeve? Vittorio Ravizza


SCIENZE FISICHE. ASTROFISICA Decifrati i lampi gamma Un successo del satellite italiano «Beppo-Sax»
Autore: MAIANI LUCIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
NOMI: COSTA ENRICO, FRONTERA FILIPPO, HEISE JOHN, PIRO LUIGI, OCCHIALINI GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA

SOSTENEVA Gianni Brera, giornalista sportivo tra i più amati dalla mia generazione, che la nazionale di calcio è obbligata al catenaccio in quanto, dopo secoli di malnutrizione, l'Italia non sarebbe in grado di esprimere attaccanti con le capacità di sfondamento necessarie. Mi è sempre sembrata solo una leggenda suggestiva, in ogni caso molto più innocua di quella che vuole gli italiani versati nell'effimero ma poco dotati nella ricerca scientifica, per natura e per capacità organizzativa. Sono quindi molto contento di illustrare un «caso di successo» della nostra ricerca, convinto che un esempio valga ben più di dieci falsi teoremi. Si tratta dei risultati ottenuti nella prima metà dell'anno dal satellite italo-olandese «Sax» (Satellite per Astronomia X) in orbita dal 1996, ribattezzato Beppo-Sax in onore di Giuseppe Occhialini, un protagonista della fisica di questo secolo. I risultati del team guidato da Enrico Costa, dell'Istituto di fisica spaziale del Cnr (con Filippo Frontera di Ferrara, John Heise di Utrecht, Luigi Piro del Cnr di Frascati e altri quattordici ricercatori in prevalenza italiani) sono rimbalzati su autorevoli riviste scientifiche, da «Nature» a «Physics Today» a «Scientific American», e hanno segnato una vera e propria rivoluzione nel campo dell'astronomia fatta osservando il cielo nei raggi X. Per capire di che si tratta dobbiamo fare un passo indietro di 25 anni, quando il Dipartimento della Difesa degli Usa, preoccupato di possibili test nucleari sovietici nello spazio, lanciava una serie di satelliti capaci di rivelare flash di raggi gamma provenienti da orbite terrestri (i raggi gamma sono radiazione elettromagnetica di altissima frequenza emessa nelle reazioni nucleari; per confronto, ricordo che i raggi X sono emessi dagli elettroni più interni degli atomi, la luce visibile dagli elettroni esterni). Quei satelliti rivelarono, in effetti, segnali gamma di breve durata, da un millesimo a qualche decina di secondi, che tuttavia non sembravano provenire dai dintorni della Terra ma dallo spazio esterno al sistema solare. Nel 1973 gli scienziati concludevano che si trattava di un fenomeno del tutto nuovo e iniziava un'indagine in grande stile: cosa produce i flash di raggi gamma (Grb: Gamma Ray Bursts) e dove sono le loro sorgenti? Lanciato nel 1991, il satellite «Compton» osservava numerosi Grb, circa mille in un anno, con una distribuzione uniforme in tutte le direzioni. Per le sorgenti, restavano aperte due possibilità. Una localizzazione nei dintorni della Galassia, in un alone molto esteso, oppure una distribuzione uniforme nel cosmo, con distanze superiori al miliardo di anni luce. Il dibattito tra le due scuole di pensiero è stato lungo e accanito. Nel primo caso la causa dei Grb poteva essere un sommovimento all'interno di oggetti stellari invisibili, ad esempio stelle di neutroni. Ma nel secondo caso, data la distanza molto superiore, si doveva trattare di un'emissione di energia di dimensioni veramente cosmiche, dell'ordine di energia emessa dal Sole in miliardi di anni ma concentrata in un lampo della durata tipica di un secondo. Per decidere, occorreva individuare fisicamente la sorgente dei Grb, cosa impossibile per la scarsa direzionalità degli strumenti a bordo di «Compton», che non permettevano di orientare efficacemente i telescopi ottici verso il Grb e di cogliere il colpevole sul fatto, con la pistola fumante, come dicono gli americani. E' quanto è stato possibile fare, invece, con la strumentazione sofisticata di Beppo-Sax e con una organizzazione perfetta. Il segnale più completo si è avuto l'8 maggio scorso. La camera di bordo segnalava un Grb e registrava i dati, che venivano trasmessi a terra al passaggio su Malindi; di qui venivano inviati a Nuova Telespazio (Roma) via Intelsat. Il team, in allerta 24 ore su 24, decideva di orientare il satellite in modo da inquadrare la regione del Grb con le camere a raggi X di alta precisione. Le camere registravano una sorgente X variabile e ne individuavano la regione di provenienza con la precisione di 3 primi d'arco. Tutte queste operazioni si sono svolte in sole 8 ore e hanno permesso a diversi telescopi ottici (a Monte Palomar, alle Canarie, alle Hawaii) e al radiotelescopio Vla del Nuovo Messico di individuare una sorgente di luminosità variabile, che raggiungeva un massimo dopo due giorni per poi decadere lentamente. E' stato anche possibile, con il telescopio delle Hawaii, ottenere uno spettro ottico della sorgente e mostrare che aldilà di ogni dubbio, la sorgente dista almeno un miliardo di anni luce. Per dirla con «Physics Today»: «All'improvviso la lunga discussione è finita. Le sorgenti dei Grb vivono effettivamente a metà strada tra noi e le frontiere del cosmo. Adesso sappiamo che, per un istante, sono gli oggetti più luminosi dell'universo». Che cosa può produrre una catastrofe cosmica di queste dimensioni? L'ipotesi più plausibile al momento è quella di due stelle di neutroni che cadono una dentro l'altra e di una stella di neutroni che viene inghiottita, in un sol colpo, da un buco nero. La strada, comunque, è aperta per uno studio di precisione. In un anno, con molti eventi in più (a Sax dovrebbe affiancarsi un nuovo satellite Nasa, Xte, intitolato a un altro grande scienziato italiano, Bruno Rossi) sarà possibile farsi un'idea più precisa. Due commenti per finire. Costruire Beppo-Sax non è stato facile, tra i tagli di bilancio e l'opposizione di alcuni ambienti accademici. La fortuna ha giocato un ruolo importante (altri due satelliti, uno americano e uno russo, destinati allo studio dei raggi X, non sono arrivati in orbita). Alla fine la lungimiranza del progetto, il livello tecnologico e la solidità della scuola italiana hanno permesso di cogliere un successo che resterà nei manuali di astronomia. Per il futuro sono in costruzione due grandi rivelatori di onde gravitazionali, perturbazioni dello spazio-tempo, che dovrebbero prodursi in gran copia nelle catastrofi cosmiche di cui abbiamo parlato. Si tratta degli interferometri «Virgo», costruiti a Cascine (Pisa) da una collaborazione tra Infn e Cnrs francese, e «Ligo», costruito negli Usa dalla National Science Foundation. A partire dal 2000 questi strumenti potrebbero osservare diversi eventi l'anno associati ai Grb prodotti entro qualche centinaio di milioni di anni luce. Le osservazioni di Beppo-Sax non sono solo il punto di arrivo di 25 anni di ricerca: potrebbero segnare l'avvio di una esplorazione del cosmo con un metodo rivoluzionario e con prospettive che solo adesso cominciano a delinearsi in tutta la loro portata. Luciano Maiani Università di Roma «La Sapienza» Presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare


SCIENZE DELLA VITA CINQUE ANGOLI D'ITALIA MESSI IN SALVO
LUOGHI: ITALIA

CALABRIA Tre zone separate dalla Sila all'Aspromomte ISTITUITO nel 1968, il parco si estende su di una superficie di 13.500 ettari nelle provincie di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria. E' costituito da tre zone differenti e tra loro separate: la Sila Grande (Cosenza), la Sila Piccola (Catanzaro) e l'Aspromonte (Reggio Calabria). La Sila e l'Aspromonte costituiscono un'oasi di estremo interesse per la fauna selvatica: purtroppo numerose specie rare sono in via di estinzione. Molto ber rappresentato è il cinghiale e comuni sono la volpe, la martora, la lepre e la lontra. Tra gli uccelli troviamo il falco pellegrino, lo sparviero, la poiana e nella Sila l'aquila reale. Il territorio del parco ricade nella zona fitoclimatica del faggio; soltanto qualche fascia marginale esposta a mezzogiorno rientra in quella del castagno. La vegetazione è quindi quella tipica del piano montano appenninico con prevalenza del pino laricio e dell'abete bianco tra le conifere e del faggio, dell'ontano, dell'acero di monte, del cerro e della farnia tra le latifoglie. E' facilmente raggiungibile sia da Cosenza sia da Reggio Calabria. -------------------------------------------------------------------- CIRCEO Tanti tipi di vegetazione in pochi ettari E' il primo parco italiano sorto lungo i litorali, nel 1934. Le sue dimensioni sono limitate, 8300 ettari, tuttavia si tratta di un'area di straordinario interesse naturale e storico, che merita una visita in ogni stagione dell'anno. Cinque i suoi ambienti naturali. La Selva è formata in gran parte da cerro e punteggiata da piccole aree umide, note come «piscine». I laghi costieri di Fogliano, dei Monaci, di Caprolace e di Paola, meta obbligata per gli appassionati di birdwatching, ospitano i fenicotteri. La duna litoranea, la più spettacolare del Mediterraneo, su cui spicca il ginepro coccolone. Il promontorio del Circeo, con vegetazione completamente diversa tra i due versanti, quello caldo (palma nana e ginepro fenicio) e quello freddo (fitta foresta di lecci). L'isola di Zanone ha una lecceta secolare; nella fauna è presente il muflone. Il Parco è anche ricco di testimonianze storiche e archeologiche. Nella Grotta dei Guttari fu trovato nel 1939 un cranio di uomo di Neandertal risalente a 65.000 anni fa. Raggiungibile da Sabaudia e da San Felice Circeo. -------------------------------------------------------------------- STELVIO Le sue rocce raccontano le storia delle Alpi ISTITUITO nel 1935, si estende per oltre 135.000 ettari nelle province di Brescia, Trento, Bolzano e Sondrio. I tre quarti della superficie sono al di sopra dei 2000 metri. Racchiude il massiccio dell'Ortles-Cevedale. Interessante dal punto di vista geologico per i due tipi di rocce cristalline di origine metamorfica e calcareo dolomitiche di origine sedimentaria il cui studio ha permesso di elaborare approfondite teorie sull'origine delle Alpi. Possiede una notevole ricchezza di fauna (cervi, caprioli, camosci, stambecchi) e tra la fauna minore marmotte, ermellini, martore, donnole e tassi e nell'ambito dell'avifauna la pernice bianca, il falco, lo sparviero, i gufi, le civette. Affascinante per la vasta superficie di foreste in cui predominano il larice, l'abete rosso, il pino cembro e, in alcune valli anche l'abete bianco. Il pino mugo è particolarmente diffuso nel complesso roccioso calcareo dolomitico, mentre le latifoglie hanno scarsa diffusione se si esclude in alcuni punti la betulla. Notevole la singolare vegetazione presente lungo i corsi d'acqua. E' raggiungibile da Bormio. -------------------------------------------------------------------- ABRUZZO Il regno dell'orso, del lupo e del falco pellegrino CONSIDERATO il patriarca dei parchi italiani, fu voluto da una grande personalità della nostra cultura: Benedetto Croce. Si estende su di una superficie di 40.000 ettari a cui vanno aggiunti 60.000 ettari di preparco (zona di protezione assai preziosa). Le montagne del parco sono tra le più interessanti dell'Appennino, costituite da rocce sedimentarie di origine marina depositate negli ultimi 300-400 mila anni su di un basamento di rocce ancora più antiche. Della ricca fauna sono tipici l'orso e il lupo, il camoscio d'Abruzzo, i cervi e le lontre. Tra i volatili spiccano i rapaci: l'aquila, la poiana e il velocissimo falco pellegrino. La vegetazione è molto ricca e diversificata comprendente oltre 1200 piante superiori. Dominano le latifoglie con larghissima prevalenza del faggio; nella faggeta si riconoscono anche l'acero di monte, il pioppo tremulo. Alla faggeta si alternano tratti di pineta costituita a media quota dal raro pino nero e più in alto dal mugo. E' raggiungibile da Pescasseroli, il paese natale di Benedetto Croce.

-------------------------------------------------------------------- GRAN PARADISO Una eccezionale varietà di ambienti botanici E' il primo parco nazionale sorto in Italia. Ha una superficie di 200 mila ettari. Si estende sull'intero massiccio del Gran Paradiso e vanta una grande varietà di ambienti in quanto si sviluppa da 800 a oltre 4000 metri. E' interessante anche dal punto di vista geologico: le fasce più significative sono quella gneissica formatasi nell'era primaria, e quella dei calcescisti. Sono censiti oltre 60 ghiacciai tra grandi e piccoli. Oltre alla ricchezza della fauna (camosci, stambecchi, marmotte) e dell'avifauna (gallo forcello, beccafico, regolo), il clima, il terreno e l'altitudine permettono di distinguere quanto a vegetazione vari ambienti: i boschi (abete bianco, risso, pino cembro), la zona di transizione tra i boschi e i pascoli alpini (con arbusteti); i pascoli rasi alpini con associazioni vegetali composte da festuche, carici e nardo; i detriti e i macereti con specie rare come il semprevivo ragnateloso, i genepì, le sassifraghe; la vegetazione tipica dei terreni calcarei con campanule, draba, e la Linaria. Raggiungibile da Noasca, Locana, Ronco, Ceresole, Introd, Cogne.


LA FORMULA DI DRAKE
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: DRAKE FRANK
LUOGHI: ITALIA

FRANK Drake, pioniere delle ricerche di vita intelligente extraterrestre e attuale presidente del Seti Institute, ha elaborato fin dal 1961 una formula che porta il suo nome per stimare il numero di civiltà intelligenti con cui potremmo comunicare nella nostra galassia: N=R* x fp x neò x fl x fi x fc x L N Numero di civiltà nella galassia di cui possiamo ricevere le emissioni radio. R* Tasso di formazione delle stelle di tipo solare nella galassia. fp Frazione di stelle che hanno un sistema planetario. neò Numero di pianeti per ogni stella sui quali si può sviluppare la vita. fl Frazione di pianeti sui quali la vita appare effettivamente. fi Frazione di pianeti sui quali emerge l'intelligenza. fc Frazione di civiltà con una tecnologia sufficiente a manifestare la propria esistenza. L Durata del periodo durante il quale una civiltà comunica con l'esterno. Purtroppo rimangono grandi incertezze su ognuno dei fattori della formula di Drake. Nella loro valutazione sono coinvolte molte discipline scientifiche, dall'astrofisica alla biologia, fino alla psicologia. Le stime più ottimistiche prevedono milioni di civiltà solo nella Via Lattea, mentre le più prudenti conducono al valore N=1. Siamo dunque soli nella galassia? Forse. Ma non dimentichiamo che esistono molti miliardi di galassie nell'universo.


Un indizio in meno L'ozono non è la «firma» della vita
Autore: M_C

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Un radiotelescopio simile a quelli usati per stabilire un contatto con civiltà extraterrestri
NOTE: Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence)

SI era sempre pensato che tracce di ozono dimostrassero l'esistenza di vita extraterrestre. Ora si scopre che se ne trova anche là dove la vita di sicuro non esiste, e di colpo la scienza smette di considerarlo una prova della presenza di attività biologica. Come si può sapere se sui pianeti che orbitano intorno a una stella lontana c'è vita intelligente? Si puntano i radiotelescopi e si vede se arrivano segnali di chiara origine artificiale. Proprio a questo mirano le ricerche Seti (Search for Extra - Terrestrial Intelligence). Ben altro problema è individuare la vita se la civiltà non ha ancora avuto tempo o modo per svilupparsi. Finora si è ritenuto che l'identificazione nello spettro di un corpo celeste della riga dell'ozono (ossigeno le cui molecole sono composte da tre atomi) alla lunghezza d'onda di 9,8 micrometri fosse un segno inequivocabile e caratteristico dell'esistenza di vita. E invece no: senza andare troppo lontano, lo studio di alcuni corpi minori del sistema solare ha recentemente rimesso in discussione questa convinzione. E' noto da tempo che nella tenue atmosfera di Ganimede, satellite di Giove, si trova ossigeno. Infatti le molecole del ghiaccio che ricopre la superficie vengono dissociate in idrogeno e ossigeno dall'intenso bombardamento delle particelle cariche e fortemente energetiche provenienti dal Sole, che spiraleggiano nel campo magnetico di Giove. Mentre l'idrogeno, di piccola massa e grande velocità molecolare, si disperde nello spazio, l'ossigeno rimane sul satellite, in parte sotto forma di gas nell'atmosfera e in parte intrappolato nella struttura cristallina del ghiaccio. Ma il numero del 3 luglio di Nature riporta un'interessante scoperta: un gruppo di ricercatori dell'Ames Research Center della Nasa suggerisce che, in base ad alcune osservazioni del Telescopio Spaziale, sui satelliti dei pianeti giganti del sistema solare è ragionevole aspettarsi anche la presenza di ozono. Fra l'ottobre del 1994 e il dicembre del 1996 «Hubble» è stato puntato in direzione di Dione, Rhea e Giapeto, che orbitano intorno a Saturno. Inaspettatamente, le misure spettroscopiche hanno evidenziato come nella crosta ghiacciata vi sia ozono, nella misura di una molecola ogni cinquecento di ossigeno biatomico. Esso si è formato a causa delle radiazioni ultraviolette che colpiscono il ghiaccio nel quale l'ossigeno è bloccato. L'ipotesi è ragionevole: infatti entrambi scarseggiano su Giapeto, che è più distante da Saturno e dunque risente meno del bombardamento delle particelle intrappolate nella sua magnetosfera, mentre è lecito prevedere una notevole abbondanza di ossigeno e ozono su Teti e Encelado, che sono più vicini al pianeta di Rhea e Dione. E' convinzione diffusa fra gli astrofisici che l'ossigeno sia il segno inequivocabile della presenza di un'attività biologica analoga a quella terrestre. L'ozono presente nell'atmosfera del nostro pianeta è prodotto da reazioni fotochimiche sull'ossigeno, e dunque rivelarlo nello spettro di un corpo celeste dovrebbe bastare per affermare che su quel corpo c'è vita. Ma i ricercatori americani suggeriscono che l'ossigeno in un'atmosfera planetaria potrebbe essere stato originato da processi che nulla hanno a che vedere con l'attività biologica. Comete di ghiaccio, per esempio, potrebbero avere arricchito un pianeta di ossigeno, trasformatosi poi in ozono per meccanismi simili a quelli avvenuti sui satelliti di Giove e di Saturno. La loro conclusione è chiara: «L'identificazione di atmosfere contenenti ossigeno su pianeti extrasolari per mezzo della rilevazione di ozono non può più essere considerata un mezzo sicuro per scoprire pianeti che ospitano un'attività biologica analoga a quella terrestre». Un criterio in meno a disposizione degli scienziati.(m. c.)


SCIENZE FISICHE. STRANEZZE GEOFISICHE Sono colline o capezzoli?
Autore: BIANCOTTI AUGUSTO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA

CHE questa vecchia Terra abbia la pelle rugosa sta sotto gli occhi di tutti. Catene montuose, vulcani, fratture profonde solcano e incidono la litosfera sia sui continenti sia sui fondali oceanici. Sono meno note altre eruzioni cutanee: gobbe, dossi, rilievi isolati che spuntano ovunque, quasi fossero foruncoli o verruche. Nel grande Nord del Canada, sul delta del fiume Mackenzie, crescono centinaia di collinette emisferiche, elevate di una cinquantina di metri sul terreno circostante. Gli Eschimesi le chiamano Pingo, nome che è rimasto anche nella letteratura scientifica. Nascono al fondo delle vallate o, in generale, in aree depresse dove si accumula l'acqua di falda. Le basse temperature la trasformano in ghiaccio; il quale, aumentando di volume, provoca l'inarcamento a cupola della coltre di suolo di copertura. Questa, in genere già poco spessa, viene stirata e ancora più assottigliata dal movimento. Sovente accade che si laceri alla sommità, e allora si forma una depressione al fondo della quale occhieggia il ghiaccio. Attraverso lo «strappo» il freddo se ne va: il cuore gelato del monticello in parte fonde in un laghetto. In Siberia, in Alaska, in Groenlandia i vulcanelli di ghiaccio si contano a legioni. Altre forme da queste derivate modellano la pianura belga, olandese e tedesca. Erano probabilmente Pingo dell'era glaciale, quando il versante europeo volto al Mare del Nord aveva il clima che oggi domina nelle estreme terre boreali. Compiamo un lungo balzo, verso i tropici piovosi: sulle formazioni di rocce calcaree una delle forme ricorrenti è data dal Cockpit, un insieme di collinette mammellonari radunate a gruppi di quattro attorno ad una depressione centrale, ove la roccia è perforata da un pozzo naturale, un inghiottitoio carsico che drena le acque reflue dalle alture circostanti. Forse è proprio l'aspetto di quella scultura naturale a suggerire il nome, che sta per «arena per il combattimento dei galli». L'insieme in effetti ricorda da vicino gli spalti di un piccolo stadio chiusi attorno alla platea centrale. Per altri più prosaicamente c'entra la Cockpit Country della Giamaica, ricca di tali morfologie. Altrove se ne parla come di «coni carsici». A Puerto Rico i coni, a quanto pare, piacciono freddi, e diventano «Pepino hills»: possiamo tradurre con «colline di gelato» dall'artigiano napoletano, mago dell'ice- cream, che ha fatto fortuna nel mondo? Ai Filippini, da quei sensuali latino-asiatici che sono, ricordano parti anatomiche di un certo fascino, al punto da diventare «Tit hills», colline- capezzolo. I Cockpit, la cui altezza varia da dieci a cento metri, con un diametro equivalente, nascono dalla corrosione chimica del calcare da parte di un reticolato di corsi d'acqua disposti a maglie rettangolari. Tale processo in ambiente caldo-umido procede con rapidità. Dapprima incide i fiumi in solchi profondi dai quali si elevano via via le cupolette regolari; in un secondo tempo la corrosione trapana la roccia là dove è più ricca di fratture, e crea l'inghiottitoio centrale, l'ultimo tocco di quel curioso paesaggio. Nelle steppe predesertiche dell'Algeria, del Marocco, del Sud-Ovest degli Stati Uniti troviamo infine le Inselberg, le montagne-isola, alture solitarie di roccia dura che si ergono anche loro di qualche decina di metri su un piano di campagna brullo, uniforme, leggermente inclinato a figurare un versante in lievissima pendenza. Sono il frutto dell'erosione differenziale in un ambiente rude, dove precipitazioni brevi e intensissime si alternano a lunghi periodi secchi. Durante le fasi aride i bruschi sbalzi termici fra il giorno e la notte favoriscono l'alternarsi di contrazioni e dilatazioni delle rocce esposte che per lo stress si fratturano in modo disomogeneo. A causa della loro composizione e struttura, alcune si sfaldano più a fondo, altre di meno. Durante le piogge battenti la coltre del materiale alterato è trascinata via dalle acque che scorrono vorticose in una massa compatta, come una lama liquida che pialla letteralmente la superficie esposta. I nuclei di roccia più stabile subiscono di meno l'insulto delle precipitazioni: a poco a poco è come se emergessero dal mare del terreno circostante in erosione. Nel tempo assumono l'aspetto di isole alte sull'intorno circostante. E' nata così, ad esempio, la rossa Ayer Rock, e tanti altri rilievi residuali in arenaria della regione di Alice Springs nella parte centrale dell'Australia. Molte di queste forme esotiche esistono anche da noi, a testimoniare altri periodi geologici, nei quali i climi erano ben diversi dall'oggi, più caldi e secchi, o magari più umidi. Possiamo incontrare bei Cockpit, un po' rimodellati sotto il cielo mediterraneo, sull'altopiano delle Manie alle spalle di Finale Ligure in Riviera di Ponente. La campagna ondulata, a meglio osservarla, consta a tratti di crocchi di alture a cupola disposte a croce attorno al pozzo carsico centrale, come dire un pezzo di Caraibi alle porte di casa. Di Inselberg più o meno maestose è costellata tutta la fascia dell'alta Pianura Padana contigua al bordo alpino. La più evidente è la Rocca di Cavour, a un passo da Torino, che si erge isolata sulla pianura pinerolese. Un ricordo d'altri tempi, quando il verde Piemonte era una landa desolata di roccia e sabbia, esposta al vento e spazzata a tratti da diluvi torrenziali. Augusto Biancotti Università di Torino


NUOVI PROGETTI SETI E.T. dimmi qualcosa Caccia ad alieni intelligenti tra mille difficoltà
Autore: CAGNOTTI MARCO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: DRAKE FRANK, COCCONI GIUSEPPE, MORRISON PHIL
ORGANIZZAZIONI: SETI INSTITUTE, NASA
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA
NOTE: Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence)

TUTTO cominciò nel 1959 con la pubblicazione su «Nature» di un articolo di Giuseppe Cocconi e Phil Morrison: da allora fantasie letterarie e speculazioni metafisiche sull'esistenza di esseri alieni dotati di intelligenza si trasformarono in un'ipotesi di lavoro scientifica. Nel 1960 Frank Drake puntò il radiotelescopio di Green Bank verso Tau Ceti ed Epsilon Eridani, due stelle a una decina di anni-luce, e per alcune settimane le seguì costantemente per rivelare un segnale che fosse indizio della volontà di un'intelligenza aliena di comunicare. Fu il primo tentativo Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence). Da allora le ricerche di segnali intelligenti dal cosmo hanno acquisito dignità scientifica e decine di altri studi sono stati intrapresi in molti Paesi. Nel 1992 la Nasa inaugurò il suo programma Seti, diviso in due parti: la ricerca di segnali provenienti da un migliaio di stelle entro cento anni-luce dal Sole e di tipo spettrale analogo, gestita dall'Ames Research Center sfruttando parte del tempo di osservazione di grandi radiotelescopi, e una survey dell'intera volta celeste, organizzata dal Jet Propulsion Laboratory servendosi delle antenne da 34 metri dell'agenzia spaziale. Anni di lavoro e decine di milioni di dollari di investimenti preliminari per arrivare, nell'ottobre del 1993, alla cancellazione dell'intero progetto: il Congresso aveva tagliato i fondi. Ma un gruppo di ricercatori non si è dato per vinto: dalle ceneri del programma governativo poteva rinascere un progetto sponsorizzato da privati e industrie. Si è fondato così il Seti Institute, che ora gestisce il programma Phoenix. Pur non possedendo un radiotelescopio proprio, riceve finanziamenti dalle più importanti aziende high-tech statunitensi (da Hp a Intel a Microsoft), dalla Planetary Society e, curiosamente, anche dalla Nasa. Nel 1995 Phoenix ha affittato per sei mesi il radiotelescopio di Parkes, in Australia, al quale ha applicato il Multichannel Spectrum Analyzer (Mcsa), ottenuto dalla Nasa, seguendo 200 stelle. Ma Phoenix non è solo: anche le università dell'Ohio, di Harvard (progetto Beta) e di Berkeley (Progetto Serendip) hanno programmi autonomi. Non ha senso mettersi a cercare qualcosa se non si ha un'idea di quello che si spera di trovare. Segni distintivi dell'origine artificiale di un segnale, continuo o pulsato, sarebbero la banda molto stretta della portante radio e la periodicità dell'effetto Doppler (variazione di frequenza dovuta al moto relativo della sorgente e del ricevitore), dovuta alla rotazione su se stesso del pianeta d'origine. Purtroppo è come cercare il classico ago nel pagliaio: bisogna avere la fortuna di osservare la stella giusta nel momento giusto, a una soglia di sensibilità adeguata, e con la giusta polarizzazione. Ma soprattutto bisogna indovinare la frequenza esatta con la quale il segnale è stato inviato. Tutto l'intervallo compreso fra 1 GHz e 3 GHz, in cui il fondo naturale è minimo, è di potenziale interesse. Il suggerimento originario di Cocconi e Morrison è tuttora ritenuto valido: la riga a 1,42 GHz (corrispondente a 21 centimetri di lunghezza d'onda) emessa dall'idrogeno neutro. Nota come frequenza «magica», per il suo carattere di universalità, dovrebbe essere la scelta più spontanea anche per una civiltà aliena. Purtroppo il segnale ci arriverebbe spostato per effetto Doppler, e quindi non basta sintonizzarsi su 1,42 GHz: è necessario seguire molti canali contemporaneamente, non più larghi di 1 Hz. I problemi tecnologici per realizzare l'elettronica e il software di elaborazione dei dati sono notevoli, ma gli ultimi anni hanno visto lo sviluppo di soluzioni innovative: Drake aveva osservato due stelle su un unico canale: l'Mcsa di Phoenix segue quasi 30 milioni di canali simultaneamente. Se si escludono molti falsi allarmi e alcuni eventi sospetti ma non più riosservati, quasi quarant'anni di Seti non hanno portato al risultato sperato. Che fare, se e quando arriverà il segnale? Gli scienziati sono stretti fra due opposte esigenze: da un lato il bisogno di rigore e cautela per confermarne l'artificialità ed evitare errori e disillusioni, e dall'altro l'esigenza della massima rapidità e trasparenza nell'informare il grande pubblico, perché un segnale alieno sarebbe rivolto a tutta l'umanità e non solo a coloro che per primi lo hanno rilevato. Il rischio è che sull'onda del sensazionalismo la notizia possa avere conseguenze imprevedibili: confusione, incredulità, paura, allarmismo. Se invece non riuscissimo a rivelare nulla, non per questo dovremmo rassegnarci a un'ineluttabile solitudine cosmica: l'assenza dell'evidenza non è l'evidenza dell'assenza. Forse non ci sono civiltà aliene nei paraggi del Sole. O forse non sono abbastanza evolute. Oppure non vogliono mostrarsi: Seti può scoprire solo chi vuole farsi scoprire emettendo un ben preciso segnale. Cosa che, se si esclude un messaggio lanciato dal radiotelescopio di Arecibo nel 1974 verso l'ammasso globulare M13, noi stessi non abbiamo mai fatto. E comunque vada ne sarà valsa la pena, se non altro per il progresso tecnologico che Seti ha indotto in campi che nulla hanno a che fare con gli extraterrestri: diagnostica medica, sfruttamento del sottosuolo, radiosorveglianza, rapida analisi di dati. Marco Cagnotti




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