TUTTOSCIENZE 6 agosto 97


SUL GOLFO DI POZZUOLI La Città della Scienza A Napoli in un'antica fabbrica
Autore: FERRANTE ANNALINA

ARGOMENTI: DIDATTICA, TECNOLOGIA
NOMI: SILVESTRINI VITTORIO
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE IDIS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, NAPOLI (NA)

NAPOLI, città laboratorio del terzo millennio, ha realizzato un sogno che si affaccia sul golfo di Pozzuoli. Un'antica fabbrica di fertilizzanti che copre un'area di sessantacinquemila metri quadrati tra Bagnoli e Caroglio, un vero e proprio esemplare di archeologia industriale che ospita edifici industriali della metà dell'800 di alto valore artistico e storico, è stata trasformata nella prima Città della Scienza italiana. Si deve alla Fondazione Idis, che da anni organizza incontri e mostre scientifiche con l'inconfondibile sigla di «Futuro Remoto», l'impegno e il lavoro concreto di creare un vero e proprio Science Center, un grande complesso interamente dedicato alla cultura scientifica e tecnologica che non solo rappresenta un primo esempio di rilancio culturale, turistico ed economico dell'area di Bagnoli, ma lancia il nostro Paese al passo con quanto già accade in altri Paesi europei. La filosofia è la stessa che da sempre caratterizza l'attività della Fondazione Idis: oltrepassare le barriere che ancora separano i campi - scientifico e umanistico - della conoscenza umana; rendere consapevoli che lo sviluppo del sapere scientifico, della scienza e della tecnologia insieme, concorre al benessere dell'umanità; che questo patrimonio culturale è un patrimonio collettivo e che la partecipazione sociale a questo bene comune è necessaria alla sua evoluzione. In questa area sono attualmente operativi 5500 metri quadrati coperti e 7500 metri quadrati all'aperto. Entrando, si percepisce immediatamente la differenza con il museo scientifico tradizionale: non più esposizione e catalogazione, ma «Museo Vivo della Scienza», percorsi interattivi dove, in un'alchimia di curiosità, sorpresa e divertimento, il visitatore, protagonista e sperimentatore al tempo stesso, è sollecitato a un primo contatto con le tematiche e i fenomeni scientifici. Una serie di aree permanenti permettono di effettuare un percorso conoscitivo su alcuni dei principi basilari di svariate discipline scientifiche e di realizzare, con alcuni semplici esperimenti, la conoscenza di un fenomeno, come nella Palestra della Scienza. Oppure di fare quattro passi nell'Universo tra plastici, modelli e strumentazioni, nella sezione dedicata all'Astronomia. Una visita alla parte dedicata ai vulcani è quasi d'obbligo, visto il contesto in cui ci troviamo, e dà l'opportunità di approfondire le fenomenologie vulcaniche, la loro pericolosità e il loro effetto sull'ambiente mentre l'area dedicata al corpo umano fa riflettere su alcuni aspetti della medicina proponendo un itinerario in cui la conoscenza biologica si intreccia con i significati culturali e sociali di concetti come «salute», «benessere», «malattia». Questi alcuni esempi, ma il «Museo vivo della Scienza» non esaurisce qui le sue sorprese: il visitatore può continuare il suo viaggio attraverso il Museo Virtuale, la Mediateca, luogo privilegiato di consultazione, sperimentazione e intrattenimento e il Laboratorio per l'educazione della Scienza, uno spazio dedicato alla sperimentazione e all'educazione permanente. Non poteva mancare naturalmente l'Officina dei Piccoli, un'area dedicata esclusivamente ai bambini in età prescolare ed elementare, come nella tradizione dei più grandi science centers internazionali, per esaltare, attraverso il gioco, le capacità esplorative e conoscitive dei bambini e dare loro l'opportunità di entrare a pieno titolo nel mondo della scienza. «Questa iniziativa - ci racconta il prof. Vittorio Silvestrini, fisico dell'Università di Napoli, cordiale e appassionato ospite oltre che deus ex machina della Fondazione Idis - non vuole riproporre un concetto statico e monumentale della scienza ma, al contrario, qualcosa di vivo e di coinvolgente. Non luoghi di semplice «divulgazione», ma laboratori aperti dove la scienza si confronti con il sociale e metta continuamente in discussione con la gente i propri risultati e le proprie scelte». «Il sapere scientifico» - continua il Prof. Silvestrini - «non può essere strumento di profitto per pochi, ma, diventando patrimonio collettivo, si deve tradurre in benessere per tutti. Questo progetto è strettamente legato al territorio in cui opera e il nostro obiettivo è quello di partecipare con esso alla crescita culturale, economica e produttiva del Mezzogiorno». Infatti, per rafforzare il rapporto tra scienza e qualità della vita, la Fondazione Idis ha deciso di intervenire in modo efficace nella promozione dello sviluppo locale e una parte del complesso della Città della Scienza è dedicato alla nascita e alla crescita di piccole imprese che operano nel campo della cultura e dei servizi, fornendo infrastrutture e servizi. Il futuro, dunque, è appena agli esordi: man mano che la città della Scienza crescerà, si arricchirà di cinema, sale per concerti e congressi, mostre e iniziative di ogni genere. E ogni volta sarà, come promesso, sorpresa, emozione e curiosità: la gente passa, guarda, tocca, partecipando così alla storia delle idee e all'evoluzione del sapere scientifico. Annalina Ferrante


STORIA DEL CALENDARIO I giorni del «libro delle calende» L'attuale gregoriano è in vigore dal 1582
Autore: BARONI SANDRO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, CALENDARIO
LUOGHI: ITALIA

IN molti testi di storia dell'astronomia si afferma che Newton nacque nell'anno della morte di Galileo Galilei. Il nostro grande Galileo morì l'8 gennaio 1642, secondo il calendario gregoriano entrato in vigore nel 1582 in Italia. In Inghilterra a quella data era ancora in vigore il calendario giuliano, quindi si dice che Newton nacque il 25 dicembre 1642, ovviamente secondo quest'ultimo calendario. Apparentemente è giusta l'affermazione di tanti testi di storia dell'astronomia, ma è necessario essere più esatti. Per la precisione bisognerebbe dire che Galileo morì l'8 gennaio 1642 nuovo stile, mentre Newton nacque il 25 dicembre 1642 vecchio stile. Nuovo stile si riferisce al calendario gregoriano, mentre vecchio stile si riferisce al vecchio calendario giuliano, i due stili sono sfasati di alcuni giorni. Possiamo definire un calendario (dal latino «calendarium», libro delle calende e cioè delle scadenze del primo giorno dei mesi) la ripartizione sistematica del tempo, per usi civili e religiosi, in giorni, mesi e anni, stabilita in base a fenomeni di natura astronomica. Per non fare la storia del calendario parleremo solo dei due che ci interessano per puntualizzare la data di nascita di Newton. L'imperatore romano Giulio Cesare, nell'anno 46 a.C., decise di rimediare ai gravi difetti dell'allora vigente calendario su consiglio dell'astronomo di Alessandria d'Egitto, Sosigene. Quest'ultimo riteneva che l'anno durasse esattamente 365,25 giorni. Siccome il calendario doveva avere un numero intero di giorni, si decretò di contare sempre, dopo tre anni di 365 giorni, uno di 366; così la piccola omissione di 1/4 di giorno, fatta per tre anni, combinata col rimanente resto del quarto, faceva un giorno intero e l'armonia col corso del Sole sembrava in questo modo conservata per sempre. Il giorno in più fu stabilito nel doppio 24 febbraio (]). Il 24 febbraio era detto dai romani «Sexto Calendas (Martii)». Quindi raddoppiando il 24 ne usciva il bis-sexto: da qui il nostro bisestile. Così come stanno le cose sembra che questo calendario giuliano, appunto da Giulio Cesare, sia il nostro attuale calendario, ma non è così. L'anno non è composto di 365,25 giorni giusti, ma di 365,24219 (anno tropico). Nella differenza tra questi due numeri sta la riforma del calendario, e vediamo perché: 365,25- 365,24219=0,00781. Ogni anno il giuliano avanzava 0,00781 giorni che portava a un giorno ogni 128 anni. Può sembrare una piccola cosa, ma bisogna considerare che un piccolo errore introdotto nel 46 a.C. era diventato un grosso errore alla fine del secolo XVI. Per questioni religiose, connesse alla data della Pasqua, che doveva avvenire la prima domenica dopo il plenilunio di primavera, il Papa Gregorio XII fece la riforma del calendario, onde fosse sempre, o quasi, fisso l'equinozio di primavera al 21 marzo. A quei tempi l'errore del calendario giuliano era divenuto insostenibile in quanto l'errore astronomico dell'equinozio di primavera ammontava a ben 10 giorni: dal Concilio di Nicea del 325, che stabiliva la data della Pasqua, al 1582 (anno della riforma) ci sono 1257 anni che moltiplicati per 0,00781 (errore annuo) portano a un errore di giorni 9,8 circa. Fu quindi stabilito che al 4 ottobre 1582, giovedì, succedesse venerdì 15 ottobre 1582, e le cose andarono a posto. Ma resta ancora da verificare qual era la differenza tra i due calendari, quello giuliano e quello riformato, gregoriano. Semplice. Il calendario giuliano introduceva il bisestile in tutti gli anni divisibili per 4, anni secolari compresi, mentre quello gregoriano introduce il bisestile in tutti gli anni divisibili per 4 ma diversifica i secolari, che sono bisestili solo se divisibili per 400. Per esempio, il 1900 non fu bisestile, lo sarà il 2000, sarà normale il 2100 e così via. Abbiamo ancora in sospeso la data della nascita di Newton. In Italia la riforma gregoriana entrò in vigore subito mentre in Inghilterra solamente nel settembre 1752. Quindi la data italiana della morte di Galilei è l'8 gennaio 1642, nuovo stile, mentre la nascita di Newton era una data inglese, ossia ancora vecchio stile, ed era il Natale del 1642. Secondo il calendario gregoriano, che è poi l'attuale calendario, Newton è nato il 5 gennaio 1643. Data quindi, con la correzione di 10 giorni, omogenea con la data di morte di Galilei. Certo l'Inghilterra preferì essere in disaccordo con il Sole piuttosto che d'accordo con il Papa. Sandro Baroni Planetario di Milano


FISICA Energia cinetica del pallone
Autore: MOGNONI PIERO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

UN calcio al pallone: gesto professionale o di puro divertimento effettuato quotidianamente da milioni di persone in tutto il mondo. Ma giocatori, tecnici ed appassionati del gioco del calcio conoscono assai poco i fenomeni fisici che sono alla base del loro sport preferito. Recentemente, in Penn sylvania, una equipe di fisici e biomeccanici, dopo approfondite ricerche, ha scoperto che, quando si calcia, tra piede e pallone avvengono fenomeni complessi che possono contribuire a spiegare i differenti effetti impressi alla sfera di cuoio. I ricercatori sapevano che ogni volta che un segmento corporeo di massa relativamente grande colpisce una palla di massa relativamente piccola (segmento dell'arto superiore più racchetta e pallina nel caso del tennis), la velocità iniziale dell'oggetto è necessariamente più grande della velocità del segmento all'istante dell'urto. Quando invece si lancia un oggetto (la palla nel caso del baseball o la sfera nel caso del lancio del peso), la velocità iniziale dell'oggetto è esattamente uguale alla velocità dell'estremità del segmento corporeo nell'istante di rilancio. Misurando invece la velocità della punta del piede, immediatamente prima e immediatamente dopo un calcio sferrato con la maggior forza possibile su un pallone fermo sul terreno, si è visto che andava scartata l'ipotesi di un urto puramente elastico. Utilizzando una costosa telecamera adatta allo studio dei «crash» automobilistici e capace di registrare quattromila immagini al secondo, si è osservato che l'impatto tra piede e pallone non durava frazioni di millesimi di secondo (ms), come quando la testa della mazza si avventa sulla pallina del golf, ma un tempo incredibilmente più lungo, si fa per dire, di 17 millesimi di secondo. Nei primi 3 ms il pallone è immobile mentre la punta del piede «penetra» per circa 3 centimetri. Si verifica quindi un puro urto elastico con trasformazione di energia cinetica in energia elastica, simile a quella che accumula una molla quando viene compressa. La durata di questa fase è tipica per l'urto di due corpi con una distensibilità relativamente elevata. Nei seguenti 4 ms il pallone perde il contatto con il terreno e percorre uno spazio di circa tre centimetri mentre la penetrazione totale raggiunge il suo massimo che è di 7 centimetri, circa il 30% del diametro. Alla fine di questo periodo la velocità del piede passa dai 76 km/h iniziali a circa 47 km/h ed è esattamente uguale alla velocità acquisita dal pallone. In tutto questo periodo l'accumulo di energia elastica continua ma, contemporaneamente, la contrazione muscolare fornisce energia cinetica al centro di massa del pallone con un meccanismo identico a quello che si verifica durante il lancio di un oggetto. Nei 10 ms finali il pallone riassume gradatamente la forma originaria e l'energia elastica accumulata viene restituita con ulteriore aumento dell'energia cinetica e, quindi, della velocità della sfera. Al termine del contatto il pallone ha percorso circa 25 centimetri e la sua velocità è di circa 90 km/h, essendo superiore di circa il 30% rispetto alla velocità del piede immediatamente prima del contatto e di circa l'80% rispetto alla velocità del piede alla fine del contatto. Le forze in gioco nel momento di massima deformazione del pallone sono dell'ordine di 1100 newton ovvero un centinaio di kg, mentre la velocità massima del pallone, calciato da giocatori professionisti e misurabile con un'apparecchiatura radar, è superiore ai 100 km/h. Si spiega così come le pallonate siano tanto dolorose e come un cambiamento anche minimo della direzione d'urto possa causare traiettorie imprevedibili, per la disperazione di portieri e difese. E della folla dei tifosi. Piero Mognoni Istituto di Tecnologie Biomediche Avanzate del Cnr - Milano


SUL GOLFO DI POZZUOLI La Città della Scienza A Napoli in un'antica fabbrica
Autore: FERRANTE ANNALINA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: SILVESTRINI VITTORIO
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE IDIS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, NAPOLI (NA)

NAPOLI, città laboratorio del terzo millennio, ha realizzato un sogno che si affaccia sul golfo di Pozzuoli. Un'antica fabbrica di fertilizzanti che copre un'area di sessantacinquemila metri quadrati tra Bagnoli e Caroglio, un vero e proprio esemplare di archeologia industriale che ospita edifici industriali della metà dell'800 di alto valore artistico e storico, è stata trasformata nella prima Città della Scienza italiana. Si deve alla Fondazione Idis, che da anni organizza incontri e mostre scientifiche con l'inconfondibile sigla di «Futuro Remoto», l'impegno e il lavoro concreto di creare un vero e proprio Science Center, un grande complesso interamente dedicato alla cultura scientifica e tecnologica che non solo rappresenta un primo esempio di rilancio culturale, turistico ed economico dell'area di Bagnoli, ma lancia il nostro Paese al passo con quanto già accade in altri Paesi europei. La filosofia è la stessa che da sempre caratterizza l'attività della Fondazione Idis: oltrepassare le barriere che ancora separano i campi - scientifico e umanistico - della conoscenza umana; rendere consapevoli che lo sviluppo del sapere scientifico, della scienza e della tecnologia insieme, concorre al benessere dell'umanità; che questo patrimonio culturale è un patrimonio collettivo e che la partecipazione sociale a questo bene comune è necessaria alla sua evoluzione. In questa area sono attualmente operativi 5500 metri quadrati coperti e 7500 metri quadrati all'aperto. Entrando, si percepisce immediatamente la differenza con il museo scientifico tradizionale: non più esposizione e catalogazione, ma «Museo Vivo della Scienza», percorsi interattivi dove, in un'alchimia di curiosità, sorpresa e divertimento, il visitatore, protagonista e sperimentatore al tempo stesso, è sollecitato a un primo contatto con le tematiche e i fenomeni scientifici. Una serie di aree permanenti permettono di effettuare un percorso conoscitivo su alcuni dei principi basilari di svariate discipline scientifiche e di realizzare, con alcuni semplici esperimenti, la conoscenza di un fenomeno, come nella Palestra della Scienza. Oppure di fare quattro passi nell'Universo tra plastici, modelli e strumentazioni, nella sezione dedicata all'Astronomia. Una visita alla parte dedicata ai vulcani è quasi d'obbligo, visto il contesto in cui ci troviamo, e dà l'opportunità di approfondire le fenomenologie vulcaniche, la loro pericolosità e il loro effetto sull'ambiente mentre l'area dedicata al corpo umano fa riflettere su alcuni aspetti della medicina proponendo un itinerario in cui la conoscenza biologica si intreccia con i significati culturali e sociali di concetti come «salute», «benessere», «malattia». Questi alcuni esempi, ma il «Museo vivo della Scienza» non esaurisce qui le sue sorprese: il visitatore può continuare il suo viaggio attraverso il Museo Virtuale, la Mediateca, luogo privilegiato di consultazione, sperimentazione e intrattenimento e il Laboratorio per l'educazione della Scienza, uno spazio dedicato alla sperimentazione e all'educazione permanente. Non poteva mancare naturalmente l'Officina dei Piccoli, un'area dedicata esclusivamente ai bambini in età prescolare ed elementare, come nella tradizione dei più grandi science centers internazionali, per esaltare, attraverso il gioco, le capacità esplorative e conoscitive dei bambini e dare loro l'opportunità di entrare a pieno titolo nel mondo della scienza. «Questa iniziativa - ci racconta il prof. Vittorio Silvestrini, fisico dell'Università di Napoli, cordiale e appassionato ospite oltre che deus ex machina della Fondazione Idis - non vuole riproporre un concetto statico e monumentale della scienza ma, al contrario, qualcosa di vivo e di coinvolgente. Non luoghi di semplice «divulgazione», ma laboratori aperti dove la scienza si confronti con il sociale e metta continuamente in discussione con la gente i propri risultati e le proprie scelte». «Il sapere scientifico» - continua il Prof. Silvestrini - «non può essere strumento di profitto per pochi, ma, diventando patrimonio collettivo, si deve tradurre in benessere per tutti. Questo progetto è strettamente legato al territorio in cui opera e il nostro obiettivo è quello di partecipare con esso alla crescita culturale, economica e produttiva del Mezzogiorno». Infatti, per rafforzare il rapporto tra scienza e qualità della vita, la Fondazione Idis ha deciso di intervenire in modo efficace nella promozione dello sviluppo locale e una parte del complesso della Città della Scienza è dedicato alla nascita e alla crescita di piccole imprese che operano nel campo della cultura e dei servizi, fornendo infrastrutture e servizi. Il futuro, dunque, è appena agli esordi: man mano che la città della Scienza crescerà, si arricchirà di cinema, sale per concerti e congressi, mostre e iniziative di ogni genere. E ogni volta sarà, come promesso, sorpresa, emozione e curiosità: la gente passa, guarda, tocca, partecipando così alla storia delle idee e all'evoluzione del sapere scientifico. Annalina Ferrante


SCIENZE DELLA VITA. LIFTING ALLE CORDE VOCALI Chirurgia per una bella voce Il paziente può scegliere il timbro preferito
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: PERFUMO GIULIANO
LUOGHI: ITALIA

QUANTE persone vorrebbero avere una voce più autorevole oppure più melodiosa? Una voce flebile o sgradevole ora non è più un dramma in quanto è possibile correggerla con il lifting alle corde vocali. «La fonochirurgia è un vero e proprio intervento restaurativo della voce che viene in aiuto soprattutto ai pazienti che hanno avuto paralisi, tumori, traumi, cisti, polipi di grandi dimensioni, cicatrici da precedenti interventi e che hanno compromesso le corde vocali» spiega Giuliano Perfumo, primario otorinolaringoiatra dell'Ospedale Regionale di Aosta. «Si fanno già interventi di chirurgia estetica alle corde vocali per avere una bella voce come si fanno per le altre parti del corpo per migliorarne l'estetica». L'intervento, in anestesia totale, è stato concepito per far tendere nuovamente le corde vocali patologicamente allentate e quindi riaccordare la voce. Nella corda vocale compromessa viene iniettata in profondità, nel centro del muscolo vocale, una sospensione di polvere di teflon in glicerina che fa irrigidire la corda allentata senza compromettere le strutture vibranti. Solitamente sono necessarie due, tre iniezioni e la misura della quantità del prodotto da immettere si ha facendo pronunciare la lettera «e» mentre l'intervento è in corso. Il paziente sceglie la voce che desidera avere qualche giorno prima dell'intervento definitivo, in quanto il chirurgo può fare un'infiltrazione orientativa di prova con materiale facilmente riassorbibile (gelatina). E' comunque compito del logopedista decidere la fattibilità dell'intervento in quanto, spesso, alcune voci flebili o rauche sono frutto di una cattiva impostazione di pronuncia magari fin dall'infanzia e quindi il difetto può essere risolto con una semplice riabilitazione. In un recente congresso di otorinolaringologia oltre di microchirurgia vocale, sono state illustrate le nuove tecniche di rieducazione dell'orecchio per i sofferenti di vertigine parossistica posizionale benigna, una comunissima malattia della quale spesse volte - dice il prof. Perfumo - viene assegnata la responsabilità alla artrosi cervicale. La vertigine invece è provocata dalle stimolazioni di impercettibili frammenti staccatisi dagli otoliti, «le pietruzze dell'orecchio». Questo contatto inusuale con le pareti sensibili del labirinto dell'orecchio, organo dell'equilibrio, dà al cervello delle ministimolazioni che lo spiazzano sugli ordini che deve inviare al corpo di come mantenere la posizione eretta. Da qui i capogiri dai quali si guarisce con le nuove terapie riabilitative e non con i farmaci.Pia Bassi


SCIENZE DELLA VITA. MEGLIO LA DIETA MEDITERRANEA? Attenti agli oli vegetali tropicali In arrivo in Italia anche burro di «dika», «Karité» e «illipe»
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
NOMI: DJALMA VITALI EMANUELE
ORGANIZZAZIONI: CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE
LUOGHI: ITALIA

OGGI si tende a demonizzare il consumo di grassi alimentari di origine animale a favore di quelli di origine vegetale. Infatti un esagerato consumo di grassi di origine animale è correlato con un aumento del rischio di malattie cardiovascolari (infarto, ictus), per la presenza di acidi grassi a lunga catena ad attività aterogena. Non bisogna però credere che i grassi di origine vegetale facciano sempre bene. Bisogna fare una distinzione, perché i pericolosi acidi grassi a lunga catena ad attività aterogena, sono presenti anche nel mondo vegetale (esempio: acido palmitico, presente nell'olio di cocco e di palma) e sono utilizzati nella preparazione di margarine e di prodotti alimentari a lunga conservazione (hanno il pregio di irrancidire difficilmente). Purtroppo l'attuale normativa non prevede di indicare in etichetta il tipo di grasso vegetale impiegato. Di conseguenza, la semplice dizione «contiene grassi di origine vegetale» può trarre in inganno il consumatore. In realtà, i più insidiosi grassi esistenti in natura sono di provenienza tropicale: l'olio di palma, di cocco, di palmisti (estratto dal nocciolo del frutto di una palma), contengono elevate percentuali di acidi grassi saturi aterogeni (acido laurico, miristico, palmitico, rispettivamente di 12-14-16 atomi di carbonio). Sono invece privi di effetto ipercolesterolemizzante e aterogeno gli acidi grassi saturi a breve o media catena carboniosa (da C 4 a C 10), nonché l'acido stearico (C 18), estremamente diffuso sia nel mondo vegetale che animale. Secondo Emanuele Djalma Vitali (Università La Sapienza - Roma), l'Italia ha importato nel 1995: 443.500 quintali di olio di cocco, 180.000 quintali di olio di palmisti, 2.072.256 quintali di olio di palma. Le importazioni complessive sono più alte perché comprendono anche gli usi extradomestici di tali grassi. Nel 1995 abbiamo anche importato 6408 quintali di olio di babasso. Oltre ai suddetti 4 oli tropicali, stanno arrivando altri oli provenienti dai Paesi Apc (Africa, Caraibi, Area del Pacifico) legati da accordi di cooperazione con l'Unione Europea. Di conseguenza potranno essere impiegati il burro di «dika», estratto dai semi di Irvingia gabonensis (albero africano), con aroma di cacao, il burro di Karité (o burro di shea-galam) ricavato dai semi di un altro albero africano, il burro di «illipe» (o di bassia e di mahwa). Sono prodotti che, ovviamente, non hanno niente da spartire con il classico burro ottenuto dalla crema di latte vaccino. All'International Consensus Conference tenutasi a Roma (Consiglio Nazionale delle Ricerche), 17 opinion leader europei nel settore della salute pubblica hanno concordato che la dieta mediterranea, con l'olio d'oliva quale principale fonte di grassi, gioca un ruolo chiave nella prevenzione dei fattori di rischio cardiovascolare. Inoltre, ci sono evidenze che suggeriscono un possibile ruolo preventivo della dieta mediterranea rispetto a diverse forme tumorali, ed in particolare a quella della mammella, anche se sono necessarie ulteriori ricerche. In ogni caso, però, non bisogna esagerare nell'apporto di grassi totali (condimenti, più quelli normalmente presenti nei cibi), e non superare il 30% delle calorie complessive della dieta giornaliera. Renzo Pellati


SCIENZE DELLA VITA. VACANZE Attenti al troppo sport
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: SPORT
LUOGHI: ITALIA

SECONDO l'etimologia le vacanze (dal latino «vacuum») dovrebbero essere un periodo di vuoto, di riposo quasi assoluto, destinato al recupero fisico e psichico, dopo un anno di lavoro. Questo dovrebbero essere, in teoria. In realtà, molto spesso, le vacanze rappresentano l'«isola» temporale in cui durante tutto l'anno lavorativo l'immaginario di molti trasferisce le tante cose che non è stato possibile fare per la mancanza di tempo libero. Avviene così che quel periodo viene riempito di tante, troppe «buone intenzioni», alcune delle quali potenzialmente pericolose. Una di queste per molti che durante tutto l'anno conducono vita sedentaria, passando dall'automobile all'ascensore e da questo alla scrivania (e viceversa), è quella di fare finalmente un bel po' di attività fisica. Intenzione certamente buona, perché è scientificamente provato che una vita «seduta» è uno dei fattori più dannosi per la salute, determinando una precoce involuzione da «disuso» di organi e apparati, e favorendo l'insorgenza di numerose malattie metaboliche. Tuttavia attenzione, perché l'attività fisica è un'arma a doppio taglio, se non praticata in modo corretto. Ed è potenzialmente pericoloso tuffarsi di colpo, dopo un lungo periodo di sedentarietà quasi assoluta, in attività sportive impegnative senza un attento controllo medico: eventi cardiologici maggiori (leggi infarto) sono dietro l'angolo. Nella maggior parte dei casi il meccanismo che innesca questi eventi è la fissurazione di una placca aterosclerotica preesistente che, scoprendo lo strato sotto-endoteliale di una coronaria, provoca la formazione di un trombo, che, pur avendo finalità riparativa della lesione, finirà per occludere completamente la coronaria, determinando l'infarto. La causa della rottura della placca è solitamente lo «stress» sulla parete della coronaria provocato dall'improvviso aumento della pressione arteriosa che si determina in chi effettua sforzi acuti senza allenamento. La formazione del trombo è a sua volta facilitata dall'alterazione dell'equilibrio fra fattori pro-trombotici (facilitanti l'aggregazione piastrinica) e fattori anti-trombotici (inibenti l'aggregazione piastrinica). La sedentarietà rende le piastrine iper-attive, maggiormente propense all'aggregazione. Quindi attenzione, da parte di chi ha superato i fatidici «anta» e soprattutto da parte di chi oltre alla sedentarietà aggiunge altri fattori di rischio per l'aterosclerosi (fumo, ipertensione, dislipidemia, diabete), alle tiratissime partite di tennis e di calcetto, alle arrampicate in «mountain-bike», alle cavalcate sulle onde appesi al boma di un «windsurf». Antonio Tripodina


SCIENZE DELLA VITA. PINGUINI AUSTRALI I «reali» della Georgia del Sud Per cercare cibo percorrono fino a 900 miglia
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: OLSSON OLOF
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, GEORGIA

PER conoscere da vicino i pinguini reali (Aptenodytes patagonica), Olof Olsson e la sua equipe hanno trascorso quattro estati australi consecutive nella Georgia del Sud, un'isola sperduta nell'Atlantico, mille miglia a Est dell'estrema punta meridionale del Sudamerica. Alti dai 75 ai 95 centimetri, pesanti dai 10 ai 20 chili, questi pinguini, secondi per grandezza solo ai pinguini imperatore, sono forse la specie meno conosciuta fra le 18 della famiglia. Per chiarire molti punti oscuri del loro comportamento era quindi necessario questo studio a lungo termine, dal quale sono emerse le caratteristiche che contraddistinguono la specie e la differenziano dalle altre. Mentre i pinguini imperatore vanno a riprodursi sulle distese ghiacciate dell'estremo Sud, i reali preferiscono le isole subantartiche dove le acque sono libere dai ghiacci tutto l'anno. Covano un solo uovo per 54 giorni e quando ne sguscia fuori il pulcino, pensa a nutrirlo uno dei genitori, somministrandogli una pappetta, una sorta di omogeneizzato, formata dai minuscoli pesci-lanterna che madre e padre hanno ingoiato e predigerito. Per i giovani pinguini, riconoscibili facilmente dal folto piumino scuro, mangiare molto e accumulare grasso è d'importanza fondamentale. Perché, mentre i piccoli delle altre specie diventano autonomi e vanno in mare sul finire della stessa stagione in cui sono venuti al mondo, quelli dei pinguini reali trascorrono nella colonia in cui sono nati tutto il primo inverno della loro vita e vanno in mare solo nell'estate successiva. Stretti l'uno all'altro per scaldarsi e proteggersi a vicenda, debbono affrontare spaventose bufere di vento e temperature proibitive. E' chiaro che riescono a sopravvivere soltanto se posseggono una buona riserva di grasso. Ma naturalmente ci sono anche quelli che non ce la fanno a superare l'inverno. Se il loro piccolo muore, i genitori, che arrivano in Georgia in ottobre, non si perdono d'animo. A tempo di record si fidanzano, si corteggiano, si accoppiano, in modo che ai primi di dicembre sono in grado di deporre un uovo supplementare. E prima di accoppiarsi devono mutare il piumaggio. Anche in questo i pinguini reali si differenziano dai loro colleghi, i quali invece fanno la muta dopo l'accoppiamento. I piccoli che sopravvivono all'inverno hanno bisogno di essere supernutriti per un paio di mesi, in modo da rifabbricarsi lo strato adiposo, prima di subire la muta e di affrontare il mare come individui indipendenti. I genitori hanno perciò il loro daffare per procurare tanto cibo a figli così esigenti. Non si sapeva finora dove andassero ad approvvigionarsi. Olsson e la sua equipe, usando l'elettronica, i computer e la tecnica del satellite, hanno scoperto che i pinguini reali vanno molto lontano a cercare cibo per sè e per i figli. In un solo viaggio, che dura due o tre settimane, possono percorrere anche 900 miglia. Raggiungono a nuoto un'area 240 miglia a Nord della Georgia australe, una zona dove le fredde acque dell'Antartico si mescolano con acque più calde provenienti dal Nord, provocando una forte circolazione verticale delle sostanze nutritive. Di conseguenza in questa zona si trova grande abbondanza di cibo. Usando speciali dispositivi, gli studiosi sono anche riusciti a stabilire la profondità raggiunta dai pinguini reali nelle loro immersioni. In quelle diurne gli uccelli raggiungono dai l80 ai 270 metri di profondità, talvolta toccano i 300 metri, una quota veramente sorprendente per tuffatori delle loro dimensioni. Di notte le immersioni sono assai meno profonde, forse perché le prede tendono ad avvicinarsi alla superficie. Quando scendono in profondità i pinguini si trattengono sott'acqua dai cinque ai sette minuti, ma tra un'immersione e l'altra emergono per un minuto circa. In quell'anno di assidue cure che dedicano ai piccoli, i genitori debbono trovare il tempo di corteggiarsi, di accoppiarsi e di mettere al mondo un altro piccolo. E anche loro debbono subire una muta e rimpolparsi ben bene prima di accoppiarsi nuovamente. I pinguini reali decisamente non conoscono la fedeltà coniugale. Olsson ha constatato che nell'ottanta per cento dei casi le coppie si separano dopo la stagione riproduttiva. Se uno dei partner arriva nell'isola un poco in ritardo, il divorzio è inevitabile. Il pinguino non ha la pazienza di aspettare che il partner della stagione precedente si ripresenti. O per lo meno le femmine aspettano tutt'al più un paio di giorni, i maschi quattro. Dopo di che, buonanotte suonatori. Si accoppiano con il primo individuo dell'altro sesso che giunge dal mare. Ma bisogna dire che il ritardo non è l'unico motivo dei divorzi. Se un pinguino, maschio o femmina che sia, è rimasto insoddisfatto del suo primo partner, magari troppo giovane e inesperto, non fa tanti complimenti e nella stagione seguente si cerca un partner che risponda meglio ai suoi gusti. Il partner rifiutato spesso non si rassegna. Quasi sempre se la prende con il rivale e i due se le suonano a colpi di pinne. La loro è più che altro una dimostrazione di forza. Vogliono mostrare alla femmina chi di loro è il più valido. E se sono passati solo pochi giorni dall'arrivo della coppia originaria, può anche darsi che questa si riformi. Una volta che si sono accoppiati, i partner rimangono assieme per una o due settimane fino a che la femmina non depone l'uovo. Dopodiché lei se ne va in mare a rifocillarsi e a rimpolparsi di grasso. Dopo lo stress del parto ha ormai esaurito tutte le sue riserve adipose. Tre settimane dopo, eccola di ritorno. Per fortuna, perché il povero maschio, che si è sobbarcato le fatiche del primo turno di incubazione, è ridotto pelle e ossa, pesa un terzo di quanto pesava durante il corteggiamento. E quindi va di corsa in mare a riempire lo stomaco. Il soggiorno terrestre del pinguino reale è dunque tutto un affannoso succedersi di mute, di corteggiamenti, di accoppiamenti, di cove, ma la maggior parte della sua vita si svolge in mare aperto, dove l'occhio dell'uomo difficilmente lo può seguire. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE FISICHE. SCALZATA BETELGEUSE R Doradus, la più grande stella in cielo Una gigante rossa, invisibile alle nostre latitudini
Autore: CAGNOTTI MARCO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: MICHELSON ALBERT
LUOGHI: ITALIA

MOLTI pensano che un telescopio serva solo a ingrandire ciò che si vede, e che le stelle vi appaiano più grandi. Non è così: se è vero che l'ingrandimento è essenziale per ammirare i corpi del nostro sistema solare, le stelle sono puntiformi e tali rimangono anche al telescopio. Però se ne vedono molte di più, tanto più numerose quanto maggiore è il diametro dell'obiettivo. L'aspetto puntiforme delle stelle è dovuto al loro minuscolo diametro apparente: se il Sole fosse osservato da Alpha Centauri, a circa 4 anni-luce, sottenderebbe un angolo pari a un centesimo di secondo d'arco, corrispondente a quello di una monetina da 50 lire vista da 500 chilometri di distanza. Il potere risolutivo dei grandi telescopi è prossimo a questo limite, ma anche con questi strumenti non c'è speranza di riuscire a vedere un dischetto stellare: la turbolenza dell'atmosfera fa tremolare la luce e brillare le stelle, con grande soddisfazione per poeti e innamorati e delusione per gli astronomi. Eppure una misura precisa del diametro stellare sarebbe di grande importanza per verificare i modelli che descrivono l'evoluzione degli astri. Il primo a ottenere la misura di un diametro stellare fu Albert Michelson nei primi Anni 20. Egli raccolse in due fasci la luce proveniente da una stella unendoli poi in un unico punto. Analizzando con un complicato procedimento matematico le figure di interferenza formatesi, riuscì a risalire alle dimensioni della sorgente. Dopo molte decine di misure, il titolo di «più grande stella del cielo» fu attribuito ad Orionis, la brillante Betelgeuse, una gigante rossa che spicca nel cielo invernale con un diametro apparente pari a 0,044 secondi d'arco. Dopo più di 70 anni Betelgeuse è stata scalzata dal podio e il suo posto è stato preso da R Doradus, una stella di luminosità variabile e invisibile dalle nostre latitudini, il cui diametro apparente risulta essere pari a 0,057 secondi d'arco. Le prime misure risalgono al 1993, presso il New Technology Telescope dell'Eso, in Cile. Davanti all'obiettivo di 3,5 metri dello strumento è stata posta una maschera con sette fori di 25 centimetri di diametro ognuno. I fasci di luce sono poi stati riuniti nel fuoco del telescopio e fatti interferire fra loro. Confrontando le macchie ottenute con quelle ricavate da una stella di confronto, Gamma Reticuli, si è potuto determinare il diametro apparente di R Doradus. Le osservazioni sono state compiute nell'infrarosso, sia per la maggiore luminosità della stella a queste lunghezze d'onda che per la migliore stima delle dimensioni fotosferiche che in questo modo è possibile ricavare. L'effetto della turbolenza atmosferica è stato evitato eseguendo molte centinaia di esposizioni, ognuna della durata di un decimo di secondo. Ma una serie di misure non basta per arrivare a un risultato definitivo, così nel 1995 sia l'Ntt che il telescopio anglo-australiano di Siding Spring hanno ripetuto le osservazioni, ottenendo risultati compatibili con quelli precedenti. R Doradus dista 200 anni-luce dal Sole. Avendone misurato il diametro apparente, è possibile risalire alle sue dimensioni reali. La stella non è effettivamente grande come Betelgeuse, che è più distante da noi, ma con un raggio pari a 260 milioni di chilometri è una gigante rossa di tutto rispetto: se fosse posta al centro del sistema solare, la sua superficie si troverebbe ben oltre l'orbita di Marte. Avendo però la stessa massa del Sole, è molto meno densa. L'attribuzione a R Doradus del titolo di «stella più grande dei cielo» non era avvenuta prima perché i più importanti interferometri si trovavano nell'emisfero boreale, da cui la gigante rossa è invisibile. L'applicazione di un'ottima camera infrarossa a uno dei migliori telescopi dell'emisfero australe, unita a uno dei cieli più limpidi e calmi del mondo, ha permesso di raggiungere questo risultato. Ma la storia di R Doradus non finisce qui. Infatti sarebbe molto importante riuscire a osservare anche eventuali strutture superficiali, di cui pare vi sia traccia nelle osservazioni raccolte a Siding Spring. E questo sarà uno dei compiti del Very Large Telescope, che l'Eso sta costruendo in Cile. Con i suoi quattro telescopi di 8.2 metri di diametro ognuno, sarà l'ideale per compiere questo tipo di ricerche, facendo interferire la luce proveniente da ogni strumento. Marco Cagnotti


SCIENZE FISICHE. METEO E MACCHIE SOLARI Previsioni più precise L'influenza del vento solare sul clima
Autore: MINETTI GIORGIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, FISICA, ASTRONOMIA
NOMI: CORBYN PIERS
ORGANIZZAZIONI: SOUTH BANK UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.T. I numeri del Sole

NEL campo delle previsioni meteorologiche, anche se ancora mancano conferme definitive, forse si sta affermando una nuova teoria che fa riferimento al vento solare. Il merito spetta al fisico e matematico britannico Piers Corbyn (docente alla South Bank University di Londra) che basa le sue previsioni giorno per giorno, con anticipo anche di mesi, sull'influenza climatologica delle particelle cariche (elettroni e protoni) emesse dal Sole, che interagiscono con il campo magnetico terrestre. Il Sole, una tra i miliardi di stelle che formano la nostra galassia, la Via Lattea, è un'immensa fornace atomica. Le temperature nel suo interno superano i 15 milioni di gradi, per scendere all'esterno a 6000 oC. Ogni secondo il Sole per vivere brucia 4,5 milioni di tonnellate di idrogeno, che trasforma in energia. Sulla sua superficie, la fotosfera, compaiono le «macchie solari», regioni «più fredde», a 4500 oC. La vita media delle macchie varia da pochi giorni a qualche decina; le macchie, comparendo a gruppi alle latitudini più elevate, diventano sempre più piccole e rade verso l'equatore, fino a scomparire. Il loro ciclo magnetico completo ha una durata di circa 22 anni. Infatti le macchie hanno un ciclico aumento e calo con un periodo medio di 11 anni, seguito da un periodo analogo ma con polarità magnetica invertita. Tra i fenomeni che accompagnano l'attività solare abbiamo anche le protuberanze: enormi getti di materia brillante, composta per lo più da idrogeno lanciato verso lo spazio anche a un milione di chilometri di altezza. Si può assistere anche a improvvisi brillamenti sulla superficie solare, in particolare nelle zone di forte attività. Questi flash si chiamano flares o facole o eruzioni cromosferiche che si formano per opposta polarità tra macchie solari. La loro luminosità è superiore a quella del Sole ma dura pochi minuti, con temperature di circa 10 milioni di gradi. Le eruzioni cromosferiche emettono radiazioni che oltre ad essere luminose sono costituite da raggi X e radioonde. Si viene a creare una corrente di ioni ed elettroni. Questi ioni raggiungono un tale potenziale di energia cinetica da sfuggire all'attrazione solare raggiungendo la Terra in un tempo compreso tra i 30 minuti e le 27 ore. Questa energia, costituita da radiazioni elettromagnetiche, crea disturbi nelle trasmissioni e agli strumenti di bordo di navi ed aerei e viene chiamata vento solare. Il vento solare esercita la sua forza tra l'altro sulle comete, che vediamo con la coda composta principalmente di polvere rivolta in senso opposto alla direzione del Sole. Fortunatamente l'impatto energetico del vento solare non raggiunge la Terra: le sue folate vengono deviate dallo scudo protettivo delle Fasce di Van Allen, generate dal campo magnetico terrestre, costituito da un insieme di invisibili linee di forze che descrivono una curva da un polo magnetico all'altro del nostro pianeta. Negli spazi più lontani queste linee vengono deformate dalla forza del vento solare assumendo una forma di goccia allungata. La Terra si muove dunque entro una cavità magnetica allungata e scavata nel vento solare. Può accadere che oltre i margini delle zone di Van Allen, le linee di forza del vento solare riescano a penetrare attraverso lo stretto corridoio polare nella ionosfera, dando luogo alle aurore boreali. Questi fenomeni sono dovuti a correnti di elettroni che muovendosi lungo traiettorie elicoidali, subiscono collisioni ad alta energia con la ionosfera, per cui vengono ionizzati atomi e dissociate molecole. Le radiazioni elettromagnetiche che ne scaturiscono danno luogo a quegli spettacolari fenomeni luminescenti di grandi proporzioni che sopra le regioni artiche vanno sotto il nome di aurore boreali. A questo punto è indubbio che, anche se la scienza non si è espressa definitivamente circa la modificazione momentanea di particolari regimi climatici, le aurore boreali sono la dimostrazione dell'influsso che esercitano le emissioni solari sul magnetismo terrestre. Le indagini statistiche avviate all'inizio del secolo hanno fatto notare anomalie meteorologiche in concomitanza con la massima attività solare, quindi in presenza di macchie solari. Si è riscontrato che lo spessore degli anelli di accrescimento delle piante subisce un incremento durante il periodo di massima attività solare, mentre gli stessi anelli risultano più stretti negli anni di scarse precipitazioni. Negli Stati Uniti i climatologi hanno osservato una successione di periodi di siccità ogni 22 anni circa che corrispondono al ciclo magnetico delle macchie solari. Infine la grande energia solare che riesce a giungere sulla Terra attraverso i corridoi polari, serve a smuovere le grandi masse d'aria. Si provoca così uno scambio tra quelle più fredde dei poli e quelle più calde dell'equatore favorendo lo sviluppo dei venti, delle alte e basse pressioni, dei fronti caldi e freddi e delle perturbazioni. A questo punto nel futuro i meteorologi dovranno tener conto anche dello stato del Sole prima di avviare analisi sui fenomeni atmosferici che avvengono sulla Terra. Il supporto di un archivio storico di analoghe situazioni dell'effetto Sole sul tempo oltre ad una quotidiana informazione sulla sua attività, sarà utile nel formulare previsioni a lunga scadenza. E' certo comunque che Corbyn, che a Londra gestisce l'agenzia meteorologica Weather Action, ha realizzato bollettini meteo a breve e a lunga scadenza che si sono rivelati più precisi di quelli dei maggiori esperti meteorologi britannici. Giorgio Minetti


Volare in Europa è sicuro Statisticamente meno incidenti che in Usa
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: TRASPORTI, AEREI, STATISTICHE, INCIDENTI, SICUREZZA
LUOGHI: ESTERO, EUROPA

VENGONO periodicamente pubblicati da parte delle varie autorità che si occupano del trasporto aereo, dalle industrie produttrici dei velivoli e dalle compagnie che li utilizzano, moltissimi dati relativi all'utilizzo degli aerei, ai nuovi che vengono messi in servizio, ed anche agli incidenti che, purtroppo, pur diminuendo continuano ad avvenire. Scorrendo questa enorme massa di numeri si scoprono cose interessanti. Per esempio che volare in Europa oggi è più sicuro che in Usa. Questa affermazione sarebbe apparsa incredibile 25 o 30 anni fa, quando le assicurazioni a parità di premio pagato garantivano coperture maggiori se il volo si svolgeva in America. Con la sola eccezione del 1993, negli ultimi sette anni il numero degli incidenti mortali è sempre stato inferiore in Europa, anche se le dichiarazioni inglesi in proposito, un rapporto di oltre uno a due, devono essere un po' ridimensionate. E' vero infatti che l'Europa è responsabile del 4 per cento di tutti gli incidenti mentre gli Usa lo sono dell'8,5%, ma in Europa si svolge il 30 per cento del traffico aereo mondiale contro il 40% degli Usa. Il rapporto del doppio si trova invece se si utilizzano altre cifre, come ad esempio gli incidenti mortali rapportati al traffico, cioè al numero di passeggeri trasportati moltiplicato per i chilometri volati. In Europa vi sono stati negli ultimi sette anni 3,9 incidenti ogni mille miliardi di passeggeri per km mentre negli Usa ben 7,8. Le cause possono essere parecchie, dalla deregulation al gran numero di piccoli aerei utilizzati in America sulle tratte regionali. Questi aerei hanno finora avuto un numero di incidenti superiore a quello dei grandi reattori, ora però le norme e gli strumenti relativi alla sicurezza sono stati resi obbligatori per tutti e la situazione dovrebbe migliorare. Oggi il numero di catastrofi è di circa 23 all'anno e, anche se in continua diminuzione come percentuale dei voli, il loro numero assoluto cresce a causa del forte aumento del traffico aereo e, se non si riuscirà a migliorare di molto la situazione, nel 2010 avremo quasi una sciagura aerea ogni settimana con un forte impatto sull'opinione pubblica. Molte azioni sono in corso per ridurle. Si auspica ad esempio la creazione di un'unica autorità europea che chiarisca le cause degli incidenti in luogo delle varie commissioni di indagine che possono subire condizionamenti. Molti studi sono in corso in Usa sui rapporti del pilota con la macchina e più in generale con tutto l'ambiente che lo circonda, sulle informazioni che riceve e fornisce, sui rapporti con il resto dell'equipaggio. Poiché la maggioranza - il 75 per cento almeno - delle indagini sulle sciagure aeree si conclude con l'imputazione ad un errore umano, un errore cioè del pilota, è necessario un cambiamento radicale nell'approccio al problema. Anziché chiudere l'indagine quando si scopre l'errore umano, considerare questo il punto di partenza della vera indagine che si apre solo adesso: perché il pilota ha commesso l'errore, chi o che cosa lo ha indotto alla manovra sbagliata? Per meglio comprendere i problemi dovuti all'aumento dell'automazione dei comandi di volo sono stati compiuti studi di comparazione tra un Boeing 737, aereo dotato di una cabina di pilotaggio classica, ed un Airbus 320, il più avanzato tecnologicamente, e si è scoperto che quest'ultimo, pur alleggerendo il carico di lavoro, può creare nuovi tipi di problemi al pilota. Ad esempio gli fornisce un numero di dati elevatissimo, ma non lo informa su cosa è più importante e urgente guardare quando sorge improvviso un problema. Ed anche l'autorità di decisione che è stata delegata alla sofisticata tecnologia può creare conflitti con la decisione che l'uomo deve prendere. Altre cause sono state individuate in situazioni di stress dovute ad esempio a conflitti sindacali, o a fusioni di aviolinee con aerei di tipo diversi, con sistemi diversi di training e di manutenzione. Un esempio di come possa incidere una diversa cultura sui rapporti tra il pilota ed il controllo aeroportuale è fornito dalle indagini sulla sciagura del volo Avianca (Colombia) precipitato presso New York nel gennaio 1990 dopo che i 4 motori si erano spenti, finito il combustibile. Quando il pilota si rese conto del problema chiese con calma alla torre una priorità all'atterraggio per uscire dal circuito di attesa dove era in volo da tempo a causa del traffico. Nessuno nella torre comprese il gravissimo rischio perché, anche quando aveva già due motori spenti, il pilota continuò a pronunciare la parola «priority» anziché «emergency», dichiarazione che avrebbe permesso ancora, come si è scoperto dopo, un atterraggio di emergenza salvando molte vite. Le deposizioni di altri comandanti durante l'indagine hanno messo in luce come fosse da loro considerata molto seria, con un sottinteso quasi di tragicità, una richiesta di far spostare altri aerei per avere una precedenza all'atterraggio mentre per gli addetti alla torre era un fatto appena fuori dal normale. Gian Carlo Boffetta


A3XX In progetto un nuovo stabilimento
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: TRASPORTI, AEREI, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: A3XX, AIRBUS
LUOGHI: ITALIA

AIRBUS punta ad offrire alle compagnie la possibilità di scegliere tra varie motorizzazioni, secondo una prassi che si è affermata in questi ultimi anni presso tutti i costruttori di aerei civili; per il momento, tuttavia, esiste un solo motore adatto all'A3XX ed è il nuovissimo «900» della famiglia dei Trent costruito dalla britannica Rolls-Royce; sono però in corso contatti con i costruttori americani Pratt and Whitney e General Electric i quali potrebbero scegliere di adattare loro motori già esistenti oppure decidere di procedere a tappe forzate con la costruzione in comune di un motore tutto nuovo denominato GP7200. L'altra questione su cui si deve ancora decidere riguarda il luogo in cui il mega-aereo sarà assemblato. Attualmente gli Airbus sono assemblati a Tolosa (A-300, A-310, A-320, A-330, A-340) e ad Amburgo (A-319 e A-321) ma per l'A3XX questi due siti non sono adatti. A mano a mano che gli aerei sono diventati sempre più grandi la loro costruzione assomiglia sempre meno a quella di un'auto (che si muove lungo la catena di montaggio incontrando via via i suoi componenti) e sempre di più a quella di una nave (che viene impostata sul suo scalo e non si muove più fino a quando non è stata completata). I componenti degli Airbus vengono prodotti in numerosi stabilimenti in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, e anche Italia per alcuni modelli, e fatti confluire a Tolosa o ad Amburgo via terra o mediante quattro enormi aerei cargo costruiti appositamente da Airbus, gli A-300-600T. Ma i componenti dell'A3XX saranno troppo grandi e sarà necessario farli viaggiare via mare; occorre quindi trovare per il nuovo stabilimento un sito che sia contemporaneamente su un aeroporto e sul mare.(v. rav.)


PROGETTO TUTTO EUROPEO Maxiaereo per il 2000 Potrà portare da 550 a 700 passeggeri
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: TRASPORTI, AEREI, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: A3XX, DEUTSCHE AEROSPACE, AIRBUS, AEROSPATIALE, BRITISH AEROSPACE, ALENIA, DASA, BOEING
LUOGHI: ESTERO, EUROPA
TABELLE: D. Il progetto dell'A3XX

ERA la fine di maggio dell'89 quando al Salone aeronautico di Parigi-Le Bourget, nello stand della Deutsche Aerospace, partner tedesca di Airbus, comparve l'anonimo modellino di uno strano aereo; strano perché aveva due file sovrapposte di finestrini, cioè due piani. Quel modellino era poco più di una provocazione, un sasso in piccionaia per saggiare gli umori delle compagnie aeree, possibili acquirenti di un ipotetico futuro nuovo veicolo passeggeri più capiente di qualsiasi velivolo mai costruito. A distanza di otto anni il maxi aereo del 2000 sta prendendo forma negli studi tecnici dei quattro partner storici del consorzio aeronautico europeo (appunto Deutsche Aerospace, Aerospatiale, British Aerospace e la spagnola Dasa) e dei numerosi nuovi soci e collaboratori, tra cui l'italiana Alenia, invitati a partecipare alla colossale avventura industriale. L'entrata in servizio del «condominio dei cieli» è prevista nella seconda metà del 2003. Per ora il progetto ha una denominazione provvisoria: A3XX. Perché un maxi-aereo? L'idea di base su cui si sta lavorando è quella di un velivolo capace di portare, nel modello base, 550 passeggeri ripartiti in tre classi (e quindi almeno 700 in classe unica) ma in grado di arrivare a 1000 con successivi allungamenti. Ma c'è proprio bisogno di un velivolo così grande? Assolutamente sì, sostiene Airbus, per una serie di motivi, il principale dei quali è il crescente intasamento dei cieli e delle piste che consiglia di utilizzare aerei più capienti piuttosto che moltiplicare i voli per affrontare l'aumento costante dei passeggeri. Ma una macchina così grande non rischia di creare una quantità di problemi nuovi negli aeroporti? Le attuali attrezzature, dalle piste agli hangar, dalle sale d'imbarco fino alle scalette di rampa, sono adattabili al bestione che tra meno di sei anni irromperà nei grandi scali di tutto il mondo? «La formula che abbiamo scelto - dice ancora Airbus - appunto quella di un velivolo a due piani più la stiva riservata alle merci, consente di contenere le dimensioni della nuova macchina, che risulterà non molto più ingombrante dei più grandi aerei attuali; alcune attrezzature dovranno essere adattate ma in generale l'A3XX sarà perfettamente compatibile con gli attuali grandi scali internazionali». In effetti quello che emerge dai disegni diffusi da Airbus è un velivolo compatto, un po' tozzo, con una velatura (ali e piani di coda) molto estesa, necessaria per sollevare un peso enorme, 540 tonnellate al decollo, e destinato ad aumentare ancora per le versioni allungate e a lungo raggio operativo. Subito dopo la provocazione di Airbus sulla strada del maxi- aereo si era messa anche l'americana Boeing; la quale, però, in un secondo momento vi aveva rinunciato giudicandola troppo rischiosa sotto l'aspetto finanziario e preferendo lavorare sul progetto di due versioni maggiorate del suo popolare B-747; qualche mese fa, tuttavia, con grande sorpresa degli addetti ai lavori, ha rinunciato anche a queste. Il consorzio europeo resta quindi solo ad affrontare un'impresa eccezionale per le prospettive economiche ma anche per le incognite. Tecnici e uomini di marketing di Airbus lavorano attualmente intorno a un progetto base, quello dell'A3XX- 100: sarà lungo 70,8 metri, con un'apertura alare di 79 metri, altezza alla sommità della deriva 24,3 metri (pari a quella di un palazzo di otto piani) e porterà 550 passeggeri tra prima classe, business ed economica. Il raggio operativo, l'altra caratteristica più innovativa accanto alle dimensioni, sarà eccezionalmente ampio, 14. 168 chilometri. Da questa cellula saranno derivate numerose altre versioni: l'A3XX-100R "extended range" avrà un raggio operativo maggiorato a oltre 16 mila chilometri grazie a una serie di modifiche e irrobustimenti che ne accrescesceranno il peso massimo al decollo per imbarcare più carburante. Da questa versione super in seguito sarà derivato l'A3XX-200, allungato a 77,4 metri, capace di 650 passeggeri su tre classi. Altre varianti ipotizzate: un A3XX- 100 per il breve raggio (le compagnie giapponesi lo sollecitano per usarlo sulle affollate linee interne come già fanno con i Boeing 747 jumbo), una versione a capacità ridotta a 480 posti, un modello «combi» (passeggeri e merci) e un altro tutto merci. L'obiettivo dichiarato è quello di creare non semplicemente un nuovo aereo ma una famiglia di aerei identici nelle caratteristiche generali ma capace di evolversi nei venti o più anni dopo l'entrata in servizio secondo le indicazioni degli utilizzatori e la trasformazione del mercato. Fin dal primo momento alla progettazione dell'A3XX hanno partecipato compagnie aeree (19, tra cui tutte le maggiori europee ma non Alitalia) e aeroporti (30, tra i quali quello di Fiumicino, e con una netta prevalenza di quelli della regione Asia-Pacifico che saranno i principali approdi del gigante dei cieli). Su suggerimento delle compagnie è stata posta molta attenzione agli aspetti funzionali e gestionali, come la flessibilità degli interni (è possibile allestire in versione passeggeri ambedue o uno solo dei due piani superiori, così come utilizzare tutte e tre le sezioni per trasportare merci in container) o la rapidità delle operazioni di sbarco-imbarco (uscite diverse per i passeggeri dei due ponti e percorsi interni separati per i diversi corridoi per evitare ingorghi); il risultato è un tempo di sosta contenuto, appena 70-90 minuti per 550 passeggeri, pari a quello di un B-747. I rappresentanti degli aeroporti, invece, sono stati molto attenti alle dimensioni e alle compatibilità; così hanno posto limiti precisi alla crescita dell'A3XX (che dovrà restare entro un quadrato di 80 metri per 80), alla ripartizione del peso sulle ruote del carrello per renderlo compatibile con le attuali piste, e anche alla manovrabilità sulle bretelle di raccordo e sui piazzali; secondo i costruttori il gigante avrà un raggio di sterzata di 53,8 metri, più largo del Boeing B-747 ma più stretto del B-777, il più grande dei nuovi bireattori a lungo raggio. Vittorio Ravizza


SCIENZE FISICHE. AL BRITISH MUSEUM DI LONDRA Una Tac per analizzare le mummie Il sistema permette la perfetta ricostruzione del corpo imbalsamato
Autore: BETTI LEDA

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: BRITISH MUSEUM
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, REGNO UNITO, GRAN BRETAGNA, LONDRA

PER la civiltà egizia la mummificazione non era tanto una tecnica, quanto un modo di vivere l'atto di separazione del defunto dalla società e dai propri cari in modo emblematico. Conservare un corpo significava tramandarne l'identita e l'importanza ai posteri, trascendere, con quell'atto solenne, le leggi legate al trascorrere ineluttabile del tempo. La scienza contemporanea ha scoperto di recente che, oltre a fermare gli anni, è possibile mandare indietro le lancette dell'orologio: dall'analisi di una mummia è ora possibile risalire all'immagine del viso della persona imbalsamata. La nuova metodologia, messa a punto nel Dipartimento di antichità egizie del British Museum di Londra, utilizza uno strumento della diagnostica medica, la tomografia assiale computerizzata, a cui affianca un'analisi a computer dei dati ottenuti. La mummia viene introdotta nella macchina per la Tac, per un esame dell'area cranica. Il movimento rotatorio, a 360 gradi, dello strumento, fa sì che la massa di tessuti venga irradiata da diversi punti di questa circonferenza, permettendo di ottenere una panoramica del cranio attraverso le differenti sezioni. Un computer passa in rassegna queste «fette», ne analizza i dati, e traduce le misurazioni della struttura ossea in un'immagine tridimensionale (3D), della testa della mummia. Il modello grafico può venire sostituito da un modello meccanico: il computer viene collegato ad una bara metallica che, ruotando su se stessa, plasma miracolosamente il capo di un manichino da una certa quantità di materiale tipo polistirene. Le sue sembianze corrispondono, con scarso margine d'errore, a quelle che la persona deve aver posseduto all'epoca del decesso. La tecnica apre prospettive enormi nel campo dell'indagine sui reperti umani dell'antico Egitto. «Fino ad oggi voler osservare l'interno di una mummia significava demolirla - dice la responsabile del team di ricerca, Joyce Filer - perché le bende in cui veniva avvolto il corpo sono generalmente impregnate di una resina che rende solida, e quindi impenetrabile, l'intera struttura. Con lo scanning, invece, riusciamo a sapere quello che c'è sotto le bende, lasciando intatta la mummia». Si ottengono così informazioni determinanti circa l'età del defunto e la sua eziologia, la presenza di monili e gioielli, il sesso. La casistica è significativa, un caso per tutti quello di una mummia, proveniente dagli scavi di Pretoria, portata alla luce insieme al ritratto di un giovane uomo, nonostante all'interno ci fosse un corpo femminile. «Ciò che non riusciamo a ricavare sono i dati sul colore degli occhi e dei capelli, perché per questi ci vuole uno studio del corredo genetico, ed il Dna si può ottenere solo da un prelievo di tessuto osseo». La visualizzazione dei volti a computer ha il suo antesignano nella tecnica ricostruttiva classica, basata sull'esame di crani scoperti, e isolati dal resto della mummia. Dopo aver fatto un calco del cranio, lo si utilizza a mò di struttura portante sulla quale inserire il resto dei tessuti, fino ad ottenere il viso cercato. Per ricavare dati quali quello dello spessore dei muscoli facciali, ci si rifà a misurazioni statistiche attuali che fungono da metro di paragone, dopodiché si ricostruisce il viso, muscolo per muscolo, con l'aiuto di cavicchi di legno. Anche se più rudimentale, la metodica tradizionale sopravvive a quella nuova, sia nei laboratori di archeologia, che in medicina legale, un po' per via dei costi contenuti, e un po' grazie all'atavica passione per l'empirismo degli anglosassoni, ma soprattutto perché sfrutta un principio non analogo, bensì complementare a quello che regge la metodica digitale. Va d'altro canto sottolineato come l'impiego della tomografia computerizzata in archeologia rappresenti anche il veicolo ottimale per interventi in campo medico. «E' fondamentale che si comprenda la natura umanitaria dei nostri sforzi - puntualizza la Filer - e che ci si renda conto che stiamo mettendo a punto una metodologia che sarà di grande aiuto in medicina». All'«University College Hospital» di Londra, dove viene condotta una parte delle ricerche, si lavora anche per l'implementazione di questa tecnica a sostegno di interventi ricostruttivi, ad esempio in traumatologia. «Lo scanning può essere adoperato per analizzare, e quindi ricostruire, ogni regione del corpo umano. A tutto ciò si aggiungono i benefici legati alla riduzione della quantità di radiazioni a cui viene esposto il paziente, un fattore di rischio da non sottovalutare in radiologia». La mummificazione, che già comincia a perdere importanza durante l'ultima parte della dominazione romana, scompare definitivamente con la fine della civiltà egizia; con la cristianità nasce la convinzione che conservare i defunti sia contro natura, e quindi contrario all'idea divina. I faraoni invece volevano essere conservati per sconfiggere l'idea della morte, ed avvicinarsi al divino. Leda Betti




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