TUTTOSCIENZE 4 giugno 97


SCIENZE A SCUOLA. METEOROLOGIA VIOLENTA Tifoni, cicloni, trombe d'aria Le cause: pesanti sbaldi pressione atmosferica
Autore: VARALDO ANTONIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Formazione e caratteristiche di cicloni e tornado

NELLA troposfera, la parte più bassa dell'atmosfera terrestre (fino a circa 10 chilometri dal suolo), la distribuzione dell'aria non è uniforme ma varia da zone di bassa pressione, dove l'aria è dilatata e spinta verso l'alto, a zone di alta pressione, dove è compressa verso la superficie terrestre; queste disomogeneità determinano spostamenti d'aria in senso orizzontale dalle aree anticicloniche (alta pressione) a quelle cicloniche (bassa pressione). I venti e le precipitazioni traggono sempre origine da questi spostamenti, ma con sostanziali differenze alle diverse latitudini. (dis.1) (dis.2) In Europa, e così in genere alle medie latitudini, le perturbazioni sono conseguenza della formazione di aree cicloniche in cui aria fredda (più pesante) di origine polare circonda e solleva aria calda tropicale (più leggera) che viene così raffreddata e, cedendo acqua, forma le precipitazioni. (dis.3) Con il passare del tempo il fronte freddo, la linea lungo la quale l'aria fredda si incunea sotto quella calda, si avvicina e quindi raggiunge il fronte caldo isolando così la massa d'aria calda e completando l'evoluzione del ciclone; sfortunatamente i cicloni si presentano quasi sempre a famiglie di 3-5 elementi, (dis.4) ciascuno dei quali, nel suo percorso verso Est, si evolve con leggero ritardo rispetto al precedente. Nella zona intertropicale le aree cicloniche sono caratterizzate da venti scarsi ed abbondanti precipitazioni; possono però evolvere in veri e propri cicloni tropicali. Si tratta in questo caso (dis.5), di fenomeni meteorologici violentissimi (i tifoni dell'Estremo Oriente e gli uragani del Centro America) che si originano sul mare, prevalentemente nei mesi a cavallo tra estate e autunno, quando si possono cioè formare masse d'aria calda e umida; migrano poi, con velocità fino a 80 km/h, su isole e coste per esaurirsi quando penetrano nei continenti o si spostano su acque più fredde. I venti, con velocità di 100-200 km/h, convergono verso il centro dell'area ciclonica dove si innalzano sollevando l'aria umida marittima e determinando la condensazione del vapor d'acqua e, infine, le eccezionali piogge; le parte centrale del ciclone, l'occhio, (dis.6) ha un diametro di qualche decina di km e presenta venti deboli e variabili con nubi scarse tali da consentire ampie schiarite. Nota è la forza distruttiva di questi cicloni, dovuta sia alla violenza dei venti che alle inondazioni provocate dal mare che invade la terraferma. Ma l'evento meteorologico più spettacolare è il tornado, vortice ciclonico di piccolo diametro e grande intensità che si estende verso il basso a partire da una nube temporalesca; la tipica forma ad imbuto, con la parte larga rivolta verso il cumulonembo e il tubo a forma di proboscide proteso verso il suolo, è in realtà una nube di goccioline (dis.7), d'acqua miste a polvere e detriti in cui l'aria circola in senso antiorario con moto ascendente a velocità di oltre 300 km/h. Il tubo, al cui interno la pressione cade a valori bassissimi, presenta diametri che variano da pochi metri a diverse centinaia di metri ed è inizialmente più o meno verticale, ma spostandosi si inclina sempre di più. Queste spettacolari «trombe d'aria» sono tipiche della parte sud-occidentale degli Usa, tra le Montagne Rocciose ed il Messico, dove compiono percorsi piuttosto consueti in direzione Est alla velocità media di 40-50 km orari. Il loro straordinario potere distruttivo è dovuto all'azione combinata dei fortissimi venti e del repentino sbalzo di pressione: l'approssimarsi del vortice crea infatti un «vuoto d'aria» che può provocare persino lo scoppio delle case. Antonio Varaldo


SCIENZE A SCUOLA. VIVE SOLO NELLE COMORE La Latimeria, un fossile sopravvissuto Una specie, vecchia di trecento milioni di anni, scoperta nel 1938
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

NELLE acque di 300 milioni di anni fa vivevano i crossopterigi, pesci i cui resti fossilizzati sono stati rinvenuti negli affioramenti del Triassico in Groelandia, in Sud Africa, in Australia, in Inghilterra, in Sud America e nelle Alpi. Avevano arti simili a moncherini, la pinna caudale allargata a ventaglio e polmoni primitivi, come quelli dei Dipnoi, nei quali l'aria atmosferica penetrava dalle aperture nasali interne senza aprire la bocca. A questi pesci primitivi appartiene la Latimeria chalumnae, il cui nome è legato a una lunga storia. Gli scienziati ritenevano che i crossopterigi si fossero estinti 60-70 milioni di anni fa. Ma il 22 dicembre 1938, alle foci di un fiume dell'Africa meridionale, fu pescato un discendente di questo gruppo: aveva le scaglie blu acciaio, era lungo circa un metro e mezzo e pesava 58 kg. Fu pescato a 70-80 metri di profondità con una rete a strascico. Quando il pesce arrivò davanti agli occhi dello zoologo Smith non ne restavano che la testa e la coda, sufficienti però per identificarlo e classificarlo. Il nome dato al primo esemplare fu Latimeria chalumnae in segno di riconoscenza verso la curatrice del piccolo museo di East London, miss Courtenay Latimer, il cui lavoro aveva fatto sì che il mondo scientifico si interessasse a questo fossile vivente. La Latimeria, nelle forme più antiche, doveva abitare le acque dolci di scarsa profondità; poi questi pesci si sarebbero ritirati nelle profondità marine subendo dei mutamenti soprattutto nelle aperture nasali interne, scomparse. Le Latimerie vivono ora come predatori presso le isole Comore fra i 150 e i 500 metri. Raggiungono i 110-180 centimetri. Franca Fabris


SCIENZE A SCUOLA. LE FELCI Senza fiori nessun frutto niente semi
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

LE felci sono pteridotite, cioè piante prive di fiori, di frutti e di semi, comparse sulla Terra 350 milioni di anni fa, come quelle arboree che hanno lasciato giacimenti di carbon fossile nell'America Centrale e nell'Asia. I tipi di felce attuali sono oltre 9000: erbacee ed arboree, alcune piccole (qualche centimetro), altre grandi ed erette, simili a palme, alte fino a 20 metri. Diffuse in tutto il mondo, la maggior parte si trova nelle regioni tropicali, ma anche nelle zone a clima temperato e nei deserti dove posseggono peli e squame. Ricchissima di felci arboree è la Nuova Zelanda, dove sono reperibili numerose specie di Cyathea, come la C. dealbata dal fogliame grigio argenteo, forse la più elegante, e la Di cksonia. Oltre che nelle foreste tropicali, in Nuova Zelanda le felci sono visibili in appositi giardini botanici, dove sono ricostruiti con grande accuratezza gli ambienti naturali in cui le felci vivono. Ogni specie è accompagnata da pannelli esplicativi relativamente alla origine, al metodo di riproduzione e al sistema di coltivazione. Sono meravigliosi musei viventi preservati e rispettati con la stessa attenzione che si darebbe a un'opera d'arte. Per molto tempo le felci sono state avvolte nel mistero perché non si comprendeva come potessero moltiplicarsi. Plinio per primo aveva notato l'assenza di semi. I naturalisti però non si rassegnavano a questa idea: c'era chi sosteneva, come Turner, famoso botanico inglese, che erano presenti soltanto nella notte del 23 giugno rendendo invisibile chi li vedeva] Nel 1850, un semplice libraio tedesco, miope per di più, era riuscito a svelare il mistero, conquistando la nomina a docente presso l'Università di Heidelberg: aveva infatti visto sulla pagina inferiore le piccole spore, contenute entro sporangi in numero anche di cento] Attualmente i ricercatori stanno molto lavorando sulle felci concentrandosi soprattutto sulla moltiplicazione in vitro utilizzando le spore. Risultati molto interessanti sono stati ottenuti da alcune Università, ad esempio dall'Orto botanico del Natal, che ha messo a punto un metodo di sterilizzazione idoneo delle spore prelevate dalle fronde (per queste piante non si parla di foglie, ma di fronde) di felci protette e rare. Mediante un substrato apposito composto da sali minerali, vitamine, zuccheri e fitoregolatori si può accelerare notevolmente sia lo sviluppo, che nelle felci è differente da qualsiasi altra specie vegetale, sia il numero delle piantine ottenute. Ogni spora cadendo su di un terreno adatto germina dando origine a una minuscola lamina verde e delicata per lo più cuoriforme chiamata protallo. E' di solito sulla faccia inferiore del protallo che si formano gli anteridi e gli archegoni. I primi dei quali producono gli anterozoi pluricigliati che feconderanno l'ovocellula contenuta nell'archegonio: da ciò avrà inizio la nuova piantina con radici, fusto e fronde. Pur non essendo piante sontuose nè variopinte, esistono felci preziose per il giardino, soprattutto per le zone in ombra, altre per l'appartamento, come l'Adiantum capillus veneris, il capelvenere con steli neri esili che ricordano i capelli e pinnule triangolari, alto 30 centimetri (il nome del genere significa che non si bagna, infatti le goccioline di acqua poste sulle foglie rotolano via). Lo si incontra frequentemente spontaneo nelle grotte, nei luoghi umidi. Pavese ne parla sia ne La luna e i falò, sia ne Il diavolo sulle colline. Alcune felci possono essere coltivate nell'acqua, come la marsilia, conosciuta come quadrifoglio d'acqua per la presenza di quattro foglioline uguali, obovato cuneate, glabre intere che ricordano il famoso portafortuna, la salvinia, erba pesce, l'azolla, la più piccola delle tre. Nel caso dell'Azolla caroli niana ogni fogliolina è cava e porta nella minuscola cavità alcune colonie di un'alga azzurra microscopica. Anche se molto rara, l'Osmunda regalis è una bellissima felce della nostra flora: forma grossi cespugli eretti ed è una specie tipica delle torbiere. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA LE PAROLE DELL'INFORMATICA
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE, PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: INFORMATICA
LUOGHI: ITALIA

Bit. E' il «quanto» elementare di informazione, cioè la quantità di informazione contenuta in una risposta del tipo «sì» o «no». Generalmente nell'informatica i due valori sono indicati con i simboli «1» e «0» ai quali talora sono anche associati i valori «vero» e «falso» di una proposizione. Deriva dalla contrazione di «binary digit» o «cifra binaria». Il termine comparve per la prima volta in una relazione del 1949, proposto da uno dei padri della scienza dei calcolatori, John Tukey, il quale ricorda che nacque nel corso di una discussione come alternativa a «bigit» e «binit», in virtù del fatto che in inglese significa anche «piccola parte». L'importanza del concetto di bit nell'informatica deriva dal fatto che, per ragioni di sicurezza di funzionamento, la tecnologia dei calcolatori elettronici è binaria, ossia è basata su segnali di tensione o corrente che possono assumere soltanto uno dei due valori distinti, «alto» o «basso». Poiché il «quantum» elementare dell'informazione di un testo è il carattere, assume particolare interesse il concetto di byte, che è l'insieme ordinato di 8 bit, spesso adottato per rappresentare un carattere. Unità di informazione, costituita generalmente da 8 bit, ovvero da 8 cifre binarie 0 e 1. Un carattere di un testo è generalmente rappresentato da un byte, secondo un codice prefissato come, ad esempio, il codice ASCII. Il byte, come unità di misura dell'informazione costituita da 8 bit, viene generalmente indicato con la lettera B maiuscola, mentre il bit viene indicato con la b minuscola. Sfortunatamente questa convenzione è talora disattesa e si crea un po' di confusione. Nell'informatica, un KB non corrisponde esattamente a 1000 byte, ma a 210, cioè a 1024 byte. In tal modo 1 KB indica 1024 byte e 640 KB indicano 640X1024 byte. Analoghe considerazioni si applicano ai multipli del byte, come il megabyte e il gigabyte.


SCIENZE DELLA VITA. PROTESI CORONARICHE Un filo di tantalio nelle vene Nuove tecniche e nuovi materiali per l'angiografia
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL tedesco Forssmann fu il primo medico a effettuare il cateterismo cardiaco, documentandolo radiologicamente: inserì un tubicino sottile in una vena del proprio braccio spingendolo per 65 centimetri. Siamo nel 1929. Con l'esperimento Forssmann voleva dimostrare che questa indagine strumentale poteva essere utile per portare al cuore farmaci indispensabili e visualizzare l'interno delle arterie e delle vene (angiografia). Fu insignito del Premio Nobel nel 1956. Oggi si parla di «angiografia per sottrazione digitale», per evidenziare i vasi senza l'interferenza dei dettagli delle strutture ossee e dei tessuti molli. In pratica, le immagini vengono registrate prima e dopo che il mezzo di contrasto sia giunto nella sede interessata. La prima immagine (senza mezzo di contrasto) viene «sottratta», cioè invertita (il nero diventa bianco e viceversa) e sovrapposta alla seconda (in cui è presente il mezzo di contrasto). Tutto il processo è assistito da un computer e il termine digitale indica la trasformazione dei valori del fascio di raggi X in valori numerici (che possono essere immagazzinati e manipolati per ottenere una precisa diagnosi). Con l'angiografia a sottrazione di immagine è possibile dimostrare zone di stenosi delle arterie, rilevare placche ateromatose, verificare la riuscita di un intervento di chirurgia vascolare. L'unica grave complicanza è una possibile reazione anafilattica al mezzo di contrasto con sali di iodio. I nuovi mezzi di contrasto, definiti «non ionici», a bassa osmolità, bassa viscosità (in altre parole: minor tossicità) e che in soluzione non si dissociano (iomeprol), presentati a Vienna all'ECR 97 (European Association of Radiology), consentono, unitamente all'utilizzo degli ultrasuoni (ecografia intravascolare), di vedere meglio, analizzare e ridurre il volume dell'ateroma che ostruisce il flusso del sangue (angioplastica). Il cardiologo infatti può introdurre nella coronaria ostruita un catetere, munito di un palloncino gonfiabile, che comprime e appiattisce il materiale della placca ateromatosa (costituita da colesterolo, acidi grassi esterificati, saponi di calcio, cellule muscolari lisce, piastrine e frammenti di fibre collagene). Oggi i cateteri sono realizzati con palloncini di polietilene che resistono a pressioni di gonfiaggio superiori alle 4 atmosfere (in alcuni casi sono necessarie 15-20 atmosfere). Il rischio è legato essenzialmente alla formazione di una successiva occlusione (trombosi, ristenosi), per cui il paziente viene trattato con anticoagulanti (eparina) e antiaggreganti piastrinici. Un ulteriore passo avanti si è fatto con la realizzazione degli «stent coronarici», che sono dei supporti metallici che tengono l'arteria dilatata e vengono lasciati in sede dopo lo sgonfiamento del palloncino. Gli stent coronarici consentono di ridurre il rischio di chiusura immediata dei vasi di tre, quattro volte rispetto alle tecniche precedenti e di evitare in molti casi l'intervento chirurgico di by-pass. Si tratta di protesi a spirale, semielicoidale, di un filo di tantalio, un elemento chimico di colore grigio, duro e molto duttile, resistente agli agenti chimici. Renzo Pellati


SCEINZE DELLA VITA. DINOSAURI Mammiferi o rettili?
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
NOMI: WOODWARD SCOTT
ORGANIZZAZIONI: BRIGHAM YOUNG UNIVERSITY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, UTAH

DOPO la sequenza del genoma appartenente ai microrganismi Hemophilus influenzae, Mycoplasma genitalium e Saccharomyces cervisiae è stata ora completata l'analisi del genoma di un archeobatterio, il Methanococcus jannaschii, che ha riservato non poche sorprese. Il dato forse più importante e più rivoluzionario dell'analisi ha posto un interrogativo sulla tradizionale ripartizione degli organismi viventi in procarioti, la cui cellula è sprovvista di nucleo, ed eucarioti, cui appartengono gli organismi pluricellulari, aventi le cellule nucleate. E' risultato infatti che ben metà dei 1738 geni costituenti il Dna del metanococco non trovano alcun riscontro nel patrimonio genetico di altri esseri viventi e che alcuni degli altri geni presentano somiglianza con quelli degli eucarioti e, in particolare, dell'uomo. Un'altra sorprendente peculiarità del metanococco riguarda il processo di duplicazione del suo Dna, risultato del tutto diverso da quello usuale nei batteri. Le accennate peculiarità genetiche del metanococco hanno dato ai paleontologi motivo per due ipotesi: una propende per l'esistenza di un comune progenitore dei procarioti e degli eucarioti mentre l'altra prospetta un genere di archeobatteri estranei alla Terra portati da meteoriti marziane; ipotesi rafforzata dallo straordinario, recente ritrovamento che tanta eco ha destato nel mondo. Un'altra sensazionale notizia in campo genetico ha recentemente mobilitato i paleontologi: si tratta di molecole di Dna per la prima volta trovate in stato di perfetta conservazione, nonostante risalgano all'era secondaria. Va per inciso osservato che il Dna si degrada appena dopo qualche ora dalla morte dell'organismo cui appartiene e che solo in casi eccezionali, riguardanti organismi mummificati oppure conservati in suolo di particolare genere, quale quello delle torbiere, è possibile una più lunga conservazione che, in ogni caso, non va oltre alcune migliaia di anni. Fanno eccezione i resti vegetali o gli insetti rimasti imprigionati nelle resine e, in particolare, nell'ambra. Ne deriva che tutti i reperti recuperati dai paleontologi sono costituiti da ossa, fatta eccezione per il Dna in questione trovato dai paleontologi della Brighman Young University dell'Utah, diretti da Scott Woodward. Il reperto è stato estratto dalle ossa di un dinosauro vissuto 82 milioni di anni fa e rimasto sepolto in una formazione di carbone bituminoso, nell'Utah. L'eccezionale ritrovamento aiuterà i paleontologi a trovare una prima risposta a un loro basilare interrogativo: i dinosauri erano rettili oppure uccelli o mammiferi? Per rispondervi è stato analizzato il Dna estratto dai mitocondri della cellula ed è stata ottenuta una risposta inattesa: si tratta di un Dna tanto diverso da quello dei rettili quanto da quello degli uccelli e dei mammiferi. Secondo il capo equipe Scott Woodward ciò può spiegarsi con l'esistenza nel Cretaceo di numerose specie di dinosauri, nettamente diverse tra loro; teoria plausibile per la grande capacità evolutiva dei dinosauri. Si sarebbe perciò scoperta una nuova specie di dinosauri. Mario Furesi


SCIENZE DELLA VITA. ARTROPODI OCEANICI I ragni degli abissi Già classificate più di novecento specie
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

ESISTONO creature non solo ignote alla maggior parte della gente comune, ma poco conosciute anche dagli stessi scienziati. Questo succede soprattutto per le specie che vivono nel mare. Solo di recente, per esempio, si è scoperto che su certi fondi abissali ritenuti una volta disabitati esistono oasi termiche di origine vulcanica che favoriscono la fioritura della vita in varie stranissime forme. Ma si tratta sempre di sprazzi fugaci di luce che riusciamo a gettare qua e là nello sconfinato dominio acquatico, la maggior parte del quale è ancora avvolto nel mistero. Fra gli esseri meno noti meritano di essere segnalati i cosiddetti «ragni di mare». Sappiamo che ci sono ragni acquatici, come il ragno palombaro (Argyroneta aquatica), il curioso ragno che trattiene tra le setole addominali una grossa bolla d'aria, si costruisce una campana di seta sott'acqua e se la riempie con l'aria della bolla. Ma questa specie vive nelle acque dolci. Nel caso dei ragni di mare, bisogna precisare che non si tratta di veri e propri ragni, anche se questi singolari animali appartengono pure loro agli artropodi (parola che vuol dire «piedi articolati» e sta a indicare il popolosissimo phylum di invertebrati che comprende gli insetti, i crostacei, i ragni e i miriapodi). I ragni di mare appartengono a una classe ben definita, quella dei Pycnogonida (ah, questi benedetti nomi latini]). Per quanto siano uscite almeno un migliaio di pubblicazioni scientifiche su questi animali marini, le conoscenze che abbiamo sul loro conto sono ancora scarse e frammentarie. Eppure ne sono state classificate finora non tre o quattro specie, ma, pensate un po', addirittura novecento o giù di lì. Cosa sono mai questi strani animaletti marini, che molti lettori sentiranno certo nominare per la prima volta? Intanto va detto che li si trova in tutti gli oceani e a tutte le profondità, dalla linea di marea alle grandi fosse oceaniche. Strisciano sul fondo marino con una lentezza impressionante, benché di zampe ne abbiano parecchie. Generalmente ne hanno otto, come i ragni veri, quelli terrestri, per intenderci. Alcune specie però ne posseggono dieci e ci sono due specie antartiche che ne hanno addirittura dodici. Strisciano in cerca di cibo. Le prede che preferiscono sono i polipi dei coralli, gli anemoni, gli idroidi, le spugne, tutti animali dal corpo molle, di cui i ragni di mare succhiano i liquidi corporei con una tecnica simile a quella che usano i ragni terrestri. Iniettano cioè nelle vittime i loro succhi gastrici che le digeriscono esternamente e quando le prede sono completamente fluidificate e ridotte in un nutriente brodino, se le succhiano golosamente. Occorre però che le prede siano saldamente ancorate a un substrato, perché altrimenti, piccoli come sono generalmente, i minuscoli ragni di mare potrebbero venir facilmente trascinati via. Terreni ideali di caccia sono per loro vecchi rottami, grosse pietre, banchine, rocce e scogliere subacquee. Proprio a causa della scarsezza di questo genere di substrati, non sono molti i ragni di mare che vivono lungo la costa atlantica. Una delle ragioni per cui queste creature si conoscono poco è la piccolezza della maggior parte delle specie. Quelle che abitano nei mari temperati hanno, a zampe distese, dimensioni comprese tra i cinque millimetri e i sette centimetri. Ce ne sono però molte piccolissime che misurano appena due millimetri e specie antartiche di dimensioni comprese tra i quattro e i dieci centimetri. I giganti dei mari antartici, come quelli della specie Colossendes scotti, raggiungono i quindici centimetri. Esiste una regola generale - sia pure con parecchie eccezioni - per cui le specie grandi vivono nei bacini oceanici profondi, mentre le specie piccole vivono nelle acque superficiali, lungo la piattaforma continentale. A Washington, nel Museo Nazionale di Storia Naturale della Smithsonian Institution, si trova conservato l'esemplare dei ragni di mare che batte ogni record di grandezza. Si tratta di un individuo dalle zampe lunghe ben settantacinque centimetri, nel quale corpo e proboscide misurano soltanto sette centimetri e mezzo. La cosa curiosa è che data la piccolezza del corpo, gli organi sono in gran parte migrati nelle zampe, le quali portano una sorta di sacche, lunghi diverticoli del tubo digerente e delle ghiandole sessuali. La riproduzione avviene in maniera più unica che rara nei ragni di mare. La femmina passa le sue uova - che sono state fecondate esternamente - al maschio, il quale le cementa insieme a formare una sorta di collana che ha cura di attorcigliarsi intorno ad alcune zampe più corte delle altre, modificate appositamente per portare le uova (sono le cosiddette «zampe ovigere»). I maschi della maggior parte delle specie portano con sè le uova fino a quando queste non si schiudono. Alcuni si trascinano dietro una grossa palla che contiene dai settantacinque ai cento giovani. Altri invece preferiscono depositare le uova su animali ospiti, che possono essere molluschi bivalvi, stelle di mare oppure altre creature sedentarie o quasi. Qui le uova si schiudono e le larve che ne emergono conducono vita da parassiti oppure vivono in simbiosi con l'ospite. Ci sono ancora molti punti da chiarire nel ciclo vitale dei picnogonidi, bizzarre creature passate per tanto tempo inosservate. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE FISICHE. UNA «LETTERATURA GRIGIA» La nostra lotta quotidiana con le macchine-rebus Tra la tecnologia e l'utente, la mediazione discreta delle «istruzioni per l'uso»
Autore: MARCHIS VITTORIO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

FRIENDLY è ormai l'aggettivo tipico della tecnologia che rifiuta il verbo «leggere» e vorrebbe che le macchine fossero nostre amiche. Ma forse le cose non stanno proprio così. I manuali d'uso diventano ogni giorno più complessi e incomprensibili. Per ritrovare il bandolo della matassa, bisognerebbe forse andare indietro nel tempo, fino a quando i libretti di «istruzioni per l'uso» non esistevano ancora. Oggi non dovrebbero esistere più. O no? Cerco nelle varie enciclopedie delle scoperte e delle invenzioni il termine «manuale di istruzioni», o più semplicemente «istruzioni per l'uso», ma non trovo nulla. Nessuno le ha mai inventate, o almeno nessuno ne ha mai reclamato la paternità. Se la fantasia corre al libro di Georges Perec «La vita, istruzioni per l'uso», non è esattamente quello che cercavo. Navigo nel Cd-Rom della «Letteratura Italiana Zanichelli» e lo interrogo sulle parole («istruzioni» AND «uso»), ma non trovo nulla nelle 362 opere incluse, da Francesco d'Assisi a Italo Svevo. Ripeto l'esperimento sul Cd della «Stampa» dell'annata del 1993 e le sorprese continuano: in tutto sono soltanto 33 ricorrenze ma di libretti di istruzione ben poco si parla. A parte l'espressione stereotipa e la presenza della frase in titoli di trasmissioni radiofoniche e televisive, gli argomenti di riferimento spaziano dalle tasse e relativi modelli 740, alla politica, allo sport, alla scuola, ai preservativi, alla Tv, all'umorismo, alla cucina, ai viaggi. In due soli casi il riferimento, seppur blando, parla dell'oggetto in questione. Il libretto per il montaggio di un mobile venduto da un grande magazzino e quello per un distributore di libri automatico presentato al Salone del Libro (peraltro mai incontrato per le strade della mia città). E allora? Nella società artigianale non c'è bisogno di istruzioni per l'uso perché tutto il processo tecnologico si esaurisce nello stesso soggetto: dalla materia prima, alla fabbricazione della macchina, al suo uso. Con la rivoluzione industriale nasce la figura del tecnico, che non è colui che fabbrica la «cosa», ma chi la progetta. L'utente è altri ancora. Il libretto di istruzioni deve essere nato nel secolo XIX, a margine delle grandi esposizioni industriali, per rendere accessibile anche «ai non addetti» i nuovi feticci. E' difficile, per non dire impossibile, ritrovare documenti di questa letteratura che, per le sue caratteristiche di non ufficialità, la biblioteconomia definisce «grigia». Nessun autore, nessun editore, nè tantomeno una città e un anno di stampa. Meno si forniscono indizi sull'età di un prodotto, maggiore è la speranza di non vederlo presto invecchiare. Cercare i libretti di istruzione nei cataloghi delle biblioteche è un'impresa del tutto inutile. Neppure la manualistica tecnica (che ha molti elementi in comune con la letteratura dei ricettari: di chimica, di culinaria, di farmacia e di economia domestica) può dichiarare la propria piena paternità su questi libretti. I Manuels Roret apparsi nel primo Ottocento in Francia, sino ai famosissimi Manuali Hoepli della fine del secolo, hanno poco in comune con le istruzioni per l'uso. Origini più certe si possono invece ritrovare nelle «Istruzioni» per le «machine» e gli «ordegni» militari. Già nel 1732 il commendator Giovanni Battista D'Embaser venne incaricato dal sovrano sabaudo Carlo Emanuele III di redigere un «Dizzionario istruttivo di tutte le robbe di artiglieria» che, se non si può definire un manuale d'uso, certamente riporta la descrizione e il funzionamento, nonché i disegni complessivi e particolari di molte armi e macchine ad esse pertinenti. Sono gli oggetti tecnici bellici a sollecitare di più una normativa, non solo nelle dimensioni e nelle nomenclature, ma anche nei funzionamenti. La tecnologia militare da sempre anticipa quella civile. Leggo su una targhetta metallica all'interno del coperchio di un telefono da campo «Modello 1916» prodotto dalle Industrie Telefoniche Italiane di Milano: «Norme per l'uso: A) Per chiamare: girare la manovella del generatore, ed aspettare la risposta della suoneria; B) Durante la conversazione, parlando, premere il tasto a bilanciere posto nella parte superiore della scatola del monofono, ascoltando, lasciarlo libero per non esaurire inutilmente le pile; C) Le pile, prima di adoperarle, bisogna eccitarle, introducendo nel foro acqua pura fino a saturazione; D) Quando le pile si dimostrano esaurite è inutile aggiungere nuova acqua, si devono senz'altro cambiare; E) Non devesi toccare mai nè il microfono nè il ricevitore, ma affidare esclusivamente a persone pratiche l'incarico di verificare gli eventuali inconvenienti; F) Tenere sempre l'apparecchio il più che sia possibile al riparo dall'umidità onde evitare alterazioni di buon funzionamento». La struttura di questo testo in sostanza non differisce da quanto ancora oggi si può leggere nei foglietti di corredo dei più comuni elettrodomestici. Oggetti «offerti con il corredo di ricche istruzioni per l'uso» fanno la loro comparsa nei primi cataloghi di vendite per corrispondenza all'inizio del secolo. La distanza dell'utente dal venditore, e quindi anche dai suoi consigli e dalle sue istruzioni, rende indispensabili questi fantomatici foglietti, la cui complessità purtroppo aumenta con lo sviluppo delle tecnologie che devono descrivere. I manuali d'uso dei software sono l'esempio più chiaro della degenerazione funzionale di ciò che invece avrebbe lo scopo di rendere più facile ciò che è difficile. Un caso classico rimangono i libretti di istruzione dei videoregistratori. Oggi l'elettronica, e soprattutto la sua metà informatica, cerca di rendere soft anche le istruzioni per l'uso, ma balbetta ancora. «Help-on- line» più che un libretto virtuale di istruzioni potrebbe invece essere il grido di un utente disperso nei labirinti delle macchine. Vittorio Marchis Politecnico di Torino


SCIENZE FISICHE. CRITTOGRAFIA QUANTISTICA Planck e Bohr contro le spie
Autore: LONGO GIUSEPPE

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, TECNOLOGIA, OTTICA E FOTOGRAFIA, SPIONAGGIO
LUOGHI: ITALIA

L'esplosione dei dati elaborati e trasmessi sulle reti rende sempre più importante il problema della loro salvaguardia. Fra le tecniche di protezione, quelle crittografiche sono le più antiche ed efficaci, e, anche, quelle che negli ultimi decenni hanno compiuto i progressi più rilevanti. L'idea è quella di trasformare il messaggio originale, in chiaro, in un testo cifrato, o crittogramma, mediante una «chiave» conosciuta al mittente, chiamiamolo A, e al destinatario, chiamiamolo B. La spia, C, che può intercettare il crittogramma, non possiede la chiave e ciò dovrebbe impedirle di decifrare il messaggio. Dico dovrebbe perché in realtà la spia può usare a proprio vantaggio alcune informazioni contenute nel testo cifrato, per esempio le frequenze dei diversi simboli. Confrontando queste frequenze con quelle delle lettere della lingua in cui è scritto il testo in chiaro, spesso la spia riesce a forzare il crittogramma. Naturalmente il confronto delle frequenze, come ogni altro tipo di elaborazione sul messaggio cifrato, richiede un certo tempo e i due corrispondenti A e B sperano che questo tempo sia molto lungo. Quindi la sicurezza dei metodi tradizionali si basa sul presupposto che C non abbia strumenti di elaborazione molto potenti. Naturalmente oggi sia il mittente e il destinatario sia gli intercettatori ricorrono a metodi matematici e informatici molto avanzati, i primi per costruire le chiavi e i secondi per impadronirsene. Come si vede, lo scambio delle chiavi tra A e B è uno dei problemi fondamentali della comunicazione cifrata. Un metodo classico, ma non sempre attuabile, consiste nel trasmettere la chiave su un canale sicuro, ad esempio servendosi di un messaggero fidato. Il canale sicuro è molto costoso, quindi va riservato alla sola trasmissione della chiave e in genere non conviene servirsene per inviare anche i messaggi, per i quali si è costretti a usare un canale meno costoso e poco sicuro (è appunto la scarsa sicurezza di questo canale che consiglia l'uso della cifratura). La crittografia classica, basata su metodi matematici, ha due punti deboli: intanto, come si è detto, A e B non possono essere certi che C non abbia nel frattempo inventato a loro insaputa un metodo così efficace (o costruito un calcolatore così potente) da compiere in brevissimo tempo le elaborazioni che consentono di ottenere la chiave. Fondare la segretezza della comunicazione su un'ipotesi, per quanto plausibile, è rischioso. Inoltre, se C s'impadronisce della chiave, A e B non hanno modo di accorgersene e continuano a comunicare tra loro cullandosi nell'illusione della segretezza quando invece i messaggi vengono allegramente decifrati da C. Ciò accadde ad esempio durante la seconda guerra mondiale ai tedeschi, che non si erano accorti che gli alleati avevano forzato il loro codice, basato sulla famosa macchina crittografica «Enigma». Alla luce di tutto ciò, si può capire l'interesse con cui è stato salutato un metodo di distribuzione delle chiavi basato sulle leggi della meccanica quantistica che reggono il comportamento dei fotoni polarizzati. Questo metodo consente ad A e B di scoprire subito se C ha tentato di impadronirsi della chiave e quindi di correre ai ripari, per esempio sospendendo la comunicazione e fabbricandosi un'altra chiave. In questo caso non sono congetture, per quanto motivate, a garantire la distribuzione sicura delle chiavi e quindi la segretezza della comunicazione cifrata, bensì le leggi della meccanica quantistica, che per quanto se ne sa oggi sono assolutamente certe. In altre parole, alla sicurezza del procedimento si può accordare lo stesso grado di fiducia che alle leggi fondamentali della fisica. Fino a poco tempo fa, la distribuzione quantistica delle chiavi era solo una possibilità teorica e poteva avere l'interesse di un esperimento concettuale (ma non si trascuri l'importanza che gli esperimenti concettuali hanno avuto nello sviluppo della fisica moderna, in particolare proprio della meccanica quantistica: si pensi alla famosa contesa tra Einstein e Bohr). Poi sono state fatte prove di laboratorio con fibre ottiche di pochi centimetri. Oggi infine si possono trasmettere i fotoni polarizzati su fibre ottiche di un centinaio di chilometri usando, per la rivelazione, fotodiodi a valanga di arseniuro di indio e gallio o di germanio. I disturbi introducono molti errori e la loro correzione riduce il tasso di trasmissione impedendo di lavorare su distanze maggiori. Ma a questo punto la strada è aperta, e nel prossimo futuro assisteremo certo a molti progressi. Giuseppe O. Longo Università di Trieste


SCIENZE FISICHE. TERMOLUMINESCENZA Il calendario dell'archeologo Economico metodo di datazione radioattiva
Autore: VOLPE PAOLO

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA radioattività, con le sue rigorose leggi di decadimento nel tempo, è uno dei principali supporti alla datazione di reperti storici sia naturali, quali minerali e vegetali, sia tecnologici, come vasellame e oggetti artistici in genere. Universalmente noto è il metodo del carbonio-14, che tuttavia può essere applicato solo a materiali di origine vivente, animale e vegetale, e può risalire soltanto a 40-50 mila anni addietro. Il metodo dell'equilibrio potassio-argon e quello basato sul rapporto uranio piombo, si spingono molto più in là nel tempo (decine o centinaia di milioni d'anni), ma si applicano quasi esclusivamente nella misura dell'età delle rocce. Più utile per gli archeologi è la datazione basata sulle tracce di fissione, con la quale si possono datare manufatti derivanti dall'argilla e dal vetro, caratteristici delle civiltà antiche fino alla preistoria, e il cui excursus temporale si estende in teoria per centinaia di migliaia d'anni. Ma il sostanziale difetto di tutti questo metodi è, oltre alla difficoltà tecnica dell'esecuzione, il loro costo, dovendosi per essi usare apparecchiature molto sofisticate e che solitamente vengono «date in prestito» per queste applicazioni dall'industria o dalla ricerca nucleare, dove esse sono presenti. Di qui l'interesse per una metodologia che è in fase di messa a punto da parte di alcuni ricercatori siciliani. Questi ricercatori hanno trasferito al settore archeologico la dosimetria in uso per la radioprotezione umana, sfruttando il fatto che oggi la tecnologia in questo campo è estremamente affidabile e precisa. Il metodo radiometrico adottato è quello della dosimetria a termoluminescenza (T.L.D.), la cui strumentazione di base è molto diffusa e ha un costo relativamente contenuto. In questo tipo di radioprotezione gli elementi sensibili sono minuscoli cristalli di fluoruro di litio che, sottoposti a dosi anche molto basse di radiazioni, modificano la propria struttura interna; se vengono successivamente riscaldati, questi cristalli ritornano alla struttura originale emettendo una quantità di luce che è proporzionale alla dose di radiazioni ricevuta. Il riscaldamento deve essere rigorosamente controllato e quindi avviene in un «fornetto» a cui è associato un lettore di luminescenza molto preciso. La deformazione della struttura interna conseguente all'esposizione a radiazioni non è solo prerogativa del fluoruro di litio: tutti i cristalli e molte sostanze amorfe, come il quarzo e il vetro, sotto irraggiamento subiscono al loro interno spostamenti di ioni ed elettroni, che con opportuno riscaldamento si riassestano emettendo una luce caratteristica; il quarzo, ad esempio, se riscaldato dopo essere stato irraggiato, emette una bellissima luce azzurra. E' proprio sfruttando questa proprietà del quarzo che si possono datare reperti archeologici come vetri, vasellame e ceramiche, che di quarzo ne contengono sempre un po'. Stando a lungo nel terreno, infatti, questi oggetti hanno subito nei secoli l'irraggiamento dovuto ai radioisotopi naturali (uranio, torio e radio principalmente). Il quarzo in essi contenuto ha quindi accumulato nei secoli deformazioni strutturali che sono proporzionali sia alla radioattività presente nel terreno dove sono stati trovati sia al periodo per il quale in quel terreno sono rimasti. Se questo è il principio del metodo, che in fondo è un uovo di Colombo, la pratica esige un buon numero di operazioni eseguite con estrema accuratezza. La preparazione della ceramica da datare si esegue prelevandone una scheggia che, accuratamente lavata in acidi e solventi, viene poi triturata in un mortaio fino a ridurla in granuli di pochi micrometri, accuratamente setacciati. Tutto questo lavoro viene eseguito sotto luce rossa, che non aggiunge ulteriori cambi strutturali ai granuli di quarzo presenti nel campione, come può fare la luce bianca. Si devono poi valutare sia la dose di radiazioni ricevuta annualmente dal reperto nel terreno sia la sensibilità di quel tipo di quarzo alle radiazioni. Queste valutazioni vengono fatte per confronto: la prima seppellendo per un certo periodo un dosimetro a fluoruro di litio nel terreno dove è stato rinvenuto l'oggetto (si ricava così la dose di radiazioni annuale), la seconda irraggiando con una dose di radiazioni nota un po' del quarzo ricavato. Infine si sottopone a riscaldamento un'altra porzione di quarzo del campione, valutando la dose totale ricevuta durante tutto il periodo di seppellimento. E' chiaro che dividendo tale dose per la dose annuale se ne può valutare l'età. Il pregio di questo metodo, come si è già detto, è il costo relativamente basso della strumentazione necessaria per eseguirlo. Anche le operazioni non esigono, come occorre per altri metodi, profonde conoscenze di fisica nucleare. E' necessario però esser molto accurati in ciascuna operazione perché piccoli errori o mancanza di rigorosità possono influire in modo determinante sul risultato. I test finora eseguiti hanno fornito risultati completamente soddisfacenti. Trattandosi di un metodo messo a punto in collaborazione tra varie istituzioni della Sicilia, terra ricca di reperti archeologici, le prime prove sono state eseguite su cocci trovati vicino a Gela, per i quali il metodo ha fornito una datazione di 800 anni avanti Cristo, proprio come si aspettavano gli archeologi in base a stime di carattere storico. In seguito a questo successo si progetta una ampia e approfondita campagna di studio sui numerosi reperti forniti continuamente dagli scavi nel Sud della Sicilia. Paolo Volpe Università di Torino


CONTRIBUTO EUROPEO Una navicella salva-astronauti Garantirà un eventuale rientro d'emergenza
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA, SICUREZZA
NOMI: MALERBA FRANCO
ORGANIZZAZIONI: ALENIA AEROSPAZIO, NASA, CRV, X-38, FIATAVIO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. La mini-capsula Ard

A prima vista ricorda la gloriosa capsula «Apollo». Le sue caratteristiche, infatti, sono simili a quelle del modulo di comando che servì per inviare tre astronauti americani verso la Luna. Ma questa capsula rientra nell'ambito del progetto della grande stazione spaziale permanente che fino a poco tempo fa si chiamava «Alpha», e che ora viene indicata con la sigla Iss (International Space Station). Anche se il ruolo europeo dell'Esa è diminuito negli ultimi anni nel disegno della stazione, soprattutto con il ridimensionamento delle capacità del modulo-laboratorio «Columbus», l'ente spaziale europeo progetta ormai da tre anni una capsula recuperabile di forma troncoconica tipo Apollo, chiamata CRV (Crew Rescue Vehicle - Veicolo Recupero Equipaggio), i cui studi di fattibilità vengono sviluppati da un consorzio di aziende europee del settore. Il progetto è ancora fermo alla fase iniziale di sviluppo, anche perché non è stato ancora deciso a livello internazionale se sarà davvero il Crv la navicella destinata a riportare con urgenza sulla Terra gli astronauti che abiteranno la stazione spaziale in caso di incidenti. C'è infatti la «minaccia» di un progetto concorrenziale della Nasa chiamato X-38, una sorta di mini-shuttle. Nei 25 anni di vita operativa, sulla stazione orbitante a 300 chilometri dalla Terra, non si possono escludere incidenti, tipo un incendio, o un meteorite che colpisca l'infrastruttura spaziale. In una situazione del genere, Crv può riportare a terra fino a sei astronauti, distaccandosi dal sistema che lo tiene «ancorato» al traliccio principale della stazione. In mezz'ora la capsula può rientrare negli strati atmosferici con uno scudo termico diverso da quello delle vecchie navicelle (Sojuz compresa), realizzato in titanio e acciaio a nido d'ape che sublimano al contatto con il forte calore. Su Crv c'è una base di tegole antitermiche di colore nero simili a quelle dello shuttle, fatte di carbonio e carburo di silicio, in grado di sopportare temperature fino a 1800 gradi. Un ammaraggio con l'ausilio di paracadute concluderebbe felicemente l'eventuale fuga dalla stazione spaziale. Il punto della situazione su Crv è stato fatto nei giorni scorsi a Bordeaux (Francia). «Credo che l'Europa spaziale debba avere a buon diritto la chance di realizzare questo importante progetto - ci dice Franco Malerba, primo astronauta italiano e relatore per la politica spaziale europea -. Abbiamo tutte le capacità tecnologiche per realizzarlo e sarebbe un'altra dimostrazione di autonomia». «Abbiamo già effettuato molti test su veicoli spaziali di rientro - prosegue Malerba - da quelli con palloni aerostatici lanciati dalla base di Trapani-Milo con materiale della FiatAvio, fino alla capsula-dimostratore Ard, che è una Crv di prova ed è grande la metà». «Se tutto andrà bene, Ard verrà lanciata all'inizio del '98 con Ariane 5, e già in quel caso avremo risposte importanti. Oltretutto il progetto europeo è molto più semplice e pratico tecnologicamente». Crv, che può essere lanciato verso la stazione nella stiva di uno shuttle e che misura quattro metri di diametro e quasi altrettanti di altezza, era stato progettato anche per l'invio in orbita di astronauti europei per mezzo di «Ariane 5». Antonio Lo Campo


NUOVI DATI L'universo ridisegnato da «Hubble»
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: SHUTTLE, HUBBLE, NASA
LUOGHI: ITALIA

PARTITO nel 1990 con sette anni di ritardo sui programmi e afflitto da un difetto ottico che lo rendeva miope, il telescopio spaziale «Hubble» all'inizio fu per gli astronomi una terribile delusione. Ma si è riscattato, e dopo due missioni di riparazione e di manutenzione compiute dagli astronauti dello Shuttle - la seconda nel febbraio scorso - «Hubble» diventa sempre più una straordinaria finestra sull'universo che ci rivela panorami sorprendenti. La Nasa ha dato notizia pochi giorni fa delle prime osservazioni di «Hubble» fresco di revisione e dotato di nuovi strumenti: il superocchio spaziale ha scoperto in una galassia un immane buco nero, con una massa pari a 300 milioni di stelle come il nostro Sole. Questo vorace mostro del cielo inghiotte materia incandescente che gli vortica intorno come l'acqua di una vasca a cui si tolga di colpo il tappo, e la materia precipita in quella tomba cosmica a grandissima velocità e sviluppando una altissima temperatura. Altre scoperte delle ultime settimane riguardano stelle che stanno nascendo in una strana nebulosa a forma di uovo e l'anello di gas in espansione intorno alla supernova esplosa nel 1987 nella Grande Nube di Magellano. Insomma: dalla gestazione alla morte, le stelle non riescono a nascondere i segreti della loro esistenza a questo eccezionale strumento in orbita a 610 chilometri dal suolo. «Hubble» è costato più di tremila miliardi di lire. La luce che il suo specchio da 2 metri e mezzo raccoglie costa 500 volte di più della luce messa a fuoco dai telescopi terrestri. Ma è anche vero che la luce raccolta da «Hubble» non è degradata dalla turbolenza atmosferica. E' luce pura, che ci porta informazioni di prima mano sull'origine e sull'evoluzione dell'universo. Non è neppure il caso di entrare nel merito delle singole scoperte che quasi ogni giorno «Hubble» ci offre. Il discorso sarebbe troppo tecnico. Per noi, gente comune, è sufficiente sapere che il telescopio spaziale sta ridisegnando completamente il cosmo, sta attuando giorno dopo giorno una rivoluzione astronomica simile a quella che scatenò Galileo con il suo cannocchiale nel 1610. Al di là del mostruoso buco nero appena individuato, il telescopio spaziale è uno strumento di ineguagliabile portata culturale perché, rivelandoci il panorama del cosmo più profondo, invita l'umanità intera a sentirsi meno provincialmente terrestre e più autenticamente universale. Piero Bianucci


PRIMA MISSIONE NEL 1999 Ecco la mia casa in orbita «Abiterò la stazione spaziale internazionale»
AUTORE: GUIDONI UMBERTO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, ASTRONOMIA, TECNOLOGIA, PROGETTO
NOMI: GOLDWIN DANIEL
ORGANIZZAZIONI: NASA, STAZIONE SPAZIALE INTERNAZIONALE, SERVICE MODULE, RSA, ASI AGENZIA SPAZIALE ITALIANA, MPLM, ISS
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Schema della stazione spaziale

E' ufficiale: la Nasa ha annunciato il rinvio del lancio del primo elemento della Stazione Spaziale Internazionale. Voci di un ritardo circolavano da mesi, con previsioni più o meno pessimistiche sul futuro del programma. Forse per sgomberare il campo da ulteriori illazioni, Daniel Goldwin - amministratore della Nasa - ha voluto assicurare che l'impegno per la realizzazione della Stazione rimane immutato e che si farà il possibile perché il ritardo iniziale possa essere riassorbito nel corso dell'intero progetto che impegnerà gli Stati Uniti e i partner nei prossimi 5 anni. L'assemblaggio della Iss, come viene indicata la Stazione Spaziale, avrebbe dovuto iniziare alla fine di quest'anno, con il lancio del primo elemento, che sarà essenziale per produrre elettricità durante la prima fase di vita della «Space Station». Il modulo - denominato Fgb, dalle iniziali del nome in cirillico - è stato realizzato in Russia, presso il centro di Khrunichev, alle porte di Mosca, ma è stato finanziato dalla Nasa ed è considerato un modulo in comproprietà russo-americana. L'elemento in questione, che sarà posto in orbita in modo automatico con un razzo «Proton», è ormai pronto e, in linea di principio, potrebbe essere lanciato alla data prevista, nel novembre 1997. In una situazione analoga si trova il secondo elemento, Nodo 1, che dovrebbe essere lanciato, circa un mese dopo, a bordo dello «Space Shuttle». Il Nodo è costruito negli Stati Uniti dalla Boeing, responsabile dell'integrazione di tutti gli elementi della Stazione, e fungerà da cerniera fra il «quartiere» americano e quello russo. Il problema si presenta per il terzo elemento, il Modulo di Servizio, che è il primo modulo abitabile della Stazione e che dovrebbe fornire il sistema di propulsione per mantenerla in orbita attorno alla Terra. Generalmente, quando ci si trova a orbitare alla quota di circa 300 chilometri, lo spazio intorno si può considerare in pratica un vuoto assoluto, se confrontato con le densità cui siamo abituati sulla Terra. Ma questo non è rigorosamente vero. Una struttura estesa come la Iss, che quando sarà completata avrà quasi le dimensioni di un campo di calcio, risente di un certo attrito che, su tempi lunghi, produce un abbassamento dell'orbita. E' quindi necessario fornire, di tanto in tanto, una spinta addizionale per mantenerla nell'orbita prevista. Per questo il ritardo nel lancio del «Service Module» ha ripercussioni sull'intera sequenza di lancio della «Space Station». Anche se i due moduli precedenti sono pronti e potrebbero essere lanciati, sarebbero privi di un sistema di propulsione e non potrebbero restare a lungo in orbita: c'è bisogno che il modulo di servizio arrivi entro pochi mesi. E' proprio questo il centro del problema: i russi non sembrano in grado di garantire i tempi previsti. Il Modulo di Servizio, che è anche il primo modulo completamente costruito dalla Agenzia Spaziale Russa (Rsa), è piuttosto indietro nella fase di sviluppo al centro spaziale di Khrunichev. Avrebbe dovuto essere pronto per quest'autunno ma per ora solo la struttura meccanica è stata ultimata. Il ritardo deriva dalla mancanza dei finanziamenti (170 miliardi) da parte del governo russo, che pure si era impegnato sulle date di consegna. In questo stato di incertezza la Nasa ha deciso di rivedere la sequenza di lancio per tenere conto del tempo - stimato in circa otto mesi - che sarà realisticamente necessario per il completamento del «Service Module». Oltre allo spostamento della data di lancio del primo elemento, che potrebbe passare da novembre 1997 a ottobre 1998, si stanno valutando diverse opzioni per ridurre gli effetti di questo ritardo sulla tabella di marcia dell'intera «Space Station». Una delle opzioni prevede la possibilità di modificare il modulo FGB in modo da renderlo in grado di essere rifornito in orbita. In questo modo sarebbe possibile controllare l'assetto della Stazione e fornire la spinta necessaria per mantenere la quota orbitale - il cosiddetto «reboost» - già con il primo elemento, anche in presenza di un ritardo del Modulo di Servizio. L'altra opzione, presa in considerazione dal management della Nasa, prevede la costruzione di un sistema di controllo indipendente - denominato «Interim Control Module» o Icm - che potrebbe essere sviluppato a partire da un prototipo, messo a punto dalla Marina degli Stati Uniti per la sonda «Clementine». Come si ricorderà, si è trattato di una missione di grande successo che recentemente ha fornito una mappa molto accurata della superficie lunare, con indicazioni interessanti sulla presenza di acqua nel Polo Sud della Luna. Si è valutato che, opportunamente modificato, il modulo propulsivo della sonda «Clementine» potrebbe essere adattato alle esigenze di controllo di assetto e di «reboost» della Stazione, fornendo così, in tempi molto ridotti, un sistema di controllo alternativo al modulo russo. L'Icm potrebbe svolgere un ruolo anche nell'ipotesi che il «Service Module» arrivasse nei tempi previsti. In questo caso il modulo americano si affiancherebbe a quello russo, fornendo una certa ridondanza ed una maggiore capacità di immagazzinamento del combustibile in orbita. Si renderebbe, così, più flessibile la pianificazione dei lanci dei razzi «Progress», i voli di servizio, che, di tanto in tanto, dovrebbero «rifare il pieno» alla Stazione. Resterebbe però da risolvere un altro problema. Il Modulo di Servizio funge anche da alloggiamento per l'equipaggio, almeno nella prima fase di costruzione della Stazione; prima dell'arrivo del Modulo Abitativo americano, previsto per il 2000. Se il Modulo di Servizio non arrivasse nei tempi previsti, la Stazione risulterebbe priva di un «Life Support System» - cioè del sistema per garantire la generazione dell'ossigeno, la purificazione dell'aria e lo smaltimento dei rifiuti -, tutte funzioni indispensabili in vista della presenza continua di un equipaggio. Un'incertezza, questa, che sta avendo ripercussioni, anche sull'addestramento degli astronauti selezionati per il primo periodo di permanenza sulla «Space Station». In questa situazione, con una configurazione della Stazione ancora fluida, è difficile condurre a termine le varie fasi dell'addestramento necessarie per rendere un equipaggio perfettamente familiare con le operazioni da eseguire in orbita. Tutti i ritardi e le incertezze di cui abbiamo parlato hanno rallentato, dunque, il «training» dei tre membri dell'equipaggio - due russi ed un americano, che si stanno preparando presso il centro «Yuri Gagarin» - situato nella cosiddetta Città delle Stelle, non lontano da Mosca - dove abitualmente si addestrano i cosmonauti russi. Anche se è ormai assodato un ritardo nella data di lancio del primo elemento, tutti gli sforzi della Nasa sono rivolti ad assicurare che verrà mantenuto il termine previsto per il completamento della «Space Station»: il fatidico 2002. Questa è senz'altro una buona notizia per l'Agenzia Spaziale Italiana (Asi), impegnata, al pari di altre Agenzie, nella costruzione della Iss. Il contributo italiano consiste nella realizzazione di un elemento - il cosiddetto «Modulo Logistico» o Mplm - che verrà utilizzato per il trasferimento di materiale ed esperimenti da e per la «Space Station» . Essendo pressurizzato, il modulo potrà essere agganciato alla Stazione e permetterà un facile accesso per gli astronauti che dovranno effettuare la sostituzione degli esperimenti scientifici in orbita. La prima delle tre unità sta marciando secondo i piani e l'Asi vorrebbe effettuare il volo inaugurale, come previsto, nei primi mesi del 1999. Sarà un evento importante per l'Italia: alla missione del primo Mplm è prevista la partecipazione di un astronauta italiano e chi scrive si sta addestrando al Johnson Space Center di Houston in attesa di questa, speriamo non troppo lontana, opportunità di volo. Umberto Guidoni Astronauta




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