TUTTOSCIENZE 28 maggio 97


TEGOLE FOTOVOLTAICHE Una centrale solare sul tetto di casa tua
Autore: LIBERO LEONARDO

ARGOMENTI: ENERGIA
NOMI: TESTA CHICCO
ORGANIZZAZIONI: ENEL
LUOGHI: ITALIA

IL presidente dell'Enel, Chicco Testa, ha il merito di aver rotto il silenzio che in Italia circondava i «tetti fotovoltaici», cioè i generatori solari installati sulle case come se fossero tegole e collegati alla rete elettrica. In genere i tetti fotovoltaici hanno potenze fra 0,5 e 5 kWp (1 «kiloWatt di picco» è la potenza di un generatore fotovoltaico che eroghi 1 kW se esposto a una radiazione solare da 1 kW per metro quadro, a 25 oC). I proprietari di tetti fotovoltaici sono sia clienti sia fornitori della società erogatrice. Rispetto alle grandi, e troppo ingombranti, centrali fotovoltaiche, i tetti a celle solari hanno il pregio di generare energia senza sottrarre superficie al verde perché sfruttano superfici già occupate. Ma non solo. Una loro fitta disseminazione sul territorio compenserebbe le perdite derivanti dal trasporto dell'elettricità sulle lunghe distanze e ottimizzerebbe la distribuzione in quanto producono energia quando è più richiesta, cioè di giorno. E' chiaro che in Italia di superfici utilizzabili per tetti solari c'è sovrabbondanza. E' difficile però dare cifre precise: non si sa, infatti, quanta superficie occupino da noi le costruzioni. Si sa, viceversa, che in Svizzera occupano 2.700.000. 000 di metri quadri. Là i tetti fotovoltaici versano in rete 900 kWh all'anno per ogni kWp installato (con il soleggiamento medio svizzero; quello italiano è superiore almeno del 20 per cento). Oggi i moduli solari arrivano a «rendimenti» del 14 per cento, o più; ma si faccia pure conto solo su un 10 per cento: un generatore da 1 kWp che renda il 10 per cento occupa 10 metri quadri; quindi i 2.700.000.000 di metri quadri occupati dalle costruzioni potrebbero ospitare moduli per 270.000.000 di kWp; che produrrebbero 270.000. 000 x 900 = 243.000.000.000 di kWh all'anno: che sarebbero pari a 5 volte i 47.882.000.000 di kWh consumati in tutta la Confederazione, industrie comprese, durante il 1995. Per molti anni la Svizzera ha promosso la diffusione di quel tipo di impianti, quasi solo facendo leva sul senso civico ed ecologico dei suoi cittadini. A fine '96 ne aveva 820 in esercizio, in gran parte di proprietà privata e tutti realizzati da privati. Da quest'anno per ogni nuovo kW di picco installato c'è un premio di 3000 franchi; che copre il 20-25 per cento del costo. In Germania, una campagna simile rivolta alle famiglie - anche per educarle ad un uso razionale dell'energia - offre finanziamenti fino al 70 per cento dei costi; contro l'impegno a riferire ogni mese su rendimenti, avarie e consumi a una banca dati, costituita in vista di futuri sviluppi. Gli impianti tedeschi sono oggi circa 2500, di proprietà privata e realizzati tutti da aziende private. Il Giappone intende sovvenzionare, fra aprile 1997 e marzo 1998, 9400 tetti fotovoltaici da 4 kWp ciascuno, cioè sei volte i 1600 messi in funzione nei dodici mesi precedenti. Ciò richiederà il doppio dei moduli fotovoltaici prodotti annualmente in quel Paese; che quindi dovrà importarne, pur essendo uno dei maggiori produttori, oppure dovrà aumentare ancora la produzione (il che potrebbe determinare una certa diminuzione dei prezzi). La diffusione di questi impianti stimola la ricerca e crea nuove attività: come la produzione non solo di moduli ma anche di componenti vari e perfino di tegole fotovoltaiche che fanno apparire un tetto «solare» come un tetto normale. Tutto ciò accade in Paesi autosufficienti per l'elettricità (noi lo siamo solamente al 20 per cento), meno soleggiati del nostro e che non hanno rinunciato al nucleare. Sarebbe quindi logico che, su quella strada, l'Italia fosse in testa. Invece i tetti fotovoltaici italiani sono forse una decina in tutto; alcuni realizzati dall'Enel e di sua proprietà; altri realizzati da privati, ma collegati solo a reti di aziende municipalizzate. Un ennesimo nostro ritardo causato dalla tardiva soluzione di un problema normativo-tecnico legato al fatto che quegli impianti versano energia in rete. Se infatti la società distributrice deve intervenire sulla rete, e perciò staccarvi la corrente, deve essere certa che i generatori solari collegati a essa si disconnettano in automatico e nello stesso istante. Quindi l'apparato elettronico che collega il generatore alla rete, l'«inverter», deve sia trasformare in corrente alternata, sincrona a quella di rete, la corrente continua erogata dal generatore, sia isolarsi dalla rete quando vi venga a mancare la corrente. Un problema del resto banale, e risolto infatti nelle migliaia di inverter operativi in altri Paesi, dove la scelta fra le (poche) possibili soluzioni tecniche era stata fatta senza difficoltà. Anche in Svizzera, dove le società erogatrici sono più di 2000. In Italia, la stragrande maggioranza degli utenti è servita da una società sola, ma non per questo se ne è avuto un vantaggio. Dapprima infatti l'intera questione fu snobbata. Dopo alcuni anni, forse considerando che se Paesi tanto avanzati continuavano a crederci meritava occuparsene, si è cominciato a parlare di generatori solari collegati alla rete e a discutere delle soluzioni tecniche per la sconnessione automatica dei relativi inverter (in italiano «convertitori statici»). Nel persistente disinteresse dei politici responsabili per ambiente ed energia, passarono tuttavia altri anni. Soltanto nello scorso aprile il Comitato Elettrotecnico Italiano ha finalmente scelto la soluzione da prescrivere. Mentre c'era, ha prescritto anche 5 kilovolt-Ampere di potenza massima per ogni inverter. Un limite di cui non si capisce il motivo ma, a occhio e croce, non dovrebbe fare troppi danni. Ora, comunque, sarebbe possibile anche in Italia una iniziativa promozionale per i tetti fotovoltaici. Dopo aver riconosciuto a Chicco Testa il merito di aver rotto il silenzio su questa materia c'è però da rammaricarsi che l'Enel, per la parte elettronica dei propri tetti fotovoltaici, abbia voluto rivolgersi ai tedeschi: con la fame di occasioni e posti di lavoro che abbiamo, e come se non avessimo persone e aziende esperte in elettronica di potenza. Sarebbe stato doveroso, invece, offrire ai nostri «enertronici» un'opportunità così importante per rimontare il decennale gap che, certo non per colpa loro, l'Italia ha accumulato in quel settore. Leonardo Libero


ESTREMOFILI Quei batteri ingaggiati dall'industria
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: BIOLOGIA, CHIMICA
NOMI: KOKI HORIKOSHI
ORGANIZZAZIONI: GENECOR INTERNATIONAL
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA

MACCHIE di vino sulla tovaglia? Ingaggiate un batterio. Forse il nuovo slogan della compagnia newyorchese Genecor International non suonerà proprio così, ma certamente non siamo troppo lontani dalla realtà. L'industria statunitense ha recentemente lanciato sul mercato un additivo per detersivi che smacchia il cotone grazie all'azione di una proteina ricavata da un batterio tutto particolare, rinvenuto in laghetti le cui acque alcaline non possono ospitare nessun'altra forma di vita. La loro esatta collocazione sulla carta geografica è coperta da segreto industriale. Il microrganismo in questione è un estremofilo; cioè uno di quei batteri in grado di sopportare condizioni ambientali estreme, intollerabili per qualunque altro essere vivente. Per farsi un'idea della loro versatilità, basti pensare che specie di batteri estremofili vivono nelle profondità della crosta terrestre a circa tre chilometri dalla superficie, mentre altre hanno colonizzato i getti dei geyser islandesi, oppure le dorsali oceaniche fino a 3600 metri di profondità con temperature che superano i cento gradi centigradi e pressioni di centinaia di atmosfere. Per sopravvivere in quelle condizioni i batteri estremofili hanno dovuto mettere a punto un metabolismo speciale, e l'evoluzione li ha dotati di proteine in grado di favorire le particolari reazioni biochimiche necessarie al loro sostentamento. E queste reazioni biochimiche talvolta sono analoghe ai procedimenti che le compagnie chimiche ottengono con metodi dispendiosi, spesso fonte di inquinamento. Ed è proprio per motivi economici che la caccia al batterio per l'impiego industriale è aperta ormai da qualche anno. La Genecor ha appena tagliato il traguardo col suo additivo per lavatrice a base di cellulasi- 103, una proteina estratta da un estremofilo che sbroglia i piccoli gomitoli che si formano dall'usura del cotone permettendo al detersivo di penetrare in profondità nel tessuto senza danneggiarlo, sia in acqua calda sia in acqua fredda. Ma le varietà di batteri estremofili scoperte negli ultimi anni sono così numerose che per le centinaia di proteine da essi isolate bisogna solo trovare un'applicazione. Ad esempio, nell'ambito di un programma di ricerche il cui nome in italiano suona più o meno come «stelle delle profondità», il giapponese Koki Horikoshi ha scoperto circa 2500 nuove specie di estremofili nella Fossa delle Marianne, e altre 1000 esplorando col suo batiscafo i fondali oceanici di mezzo mondo. Alcuni dei microrganismi di Horikoshi vivono in ambienti in cui le concentrazioni di cherosene, benzene e altri pericolosi componenti organici superano il 50 per cento. Questi batteri possono degradare delle grandi quantità di sostanze altamente inquinanti e molto concentrate, e la loro utilità per bonificare acque ad alto tasso di inquinamento è evidente. E non è tutto, perché le possibili applicazioni delle proteine estratte dagli estremofili sono vastissime, e presto anche la vostra agenda potrebbe essere prodotta con l'ausilio di un batterio, che possiede un enzima in grado di sostituire l'impiego dei composti chimici inquinanti che oggi vengono utilizzati per sbiancare la carta. Inoltre, nel campo della biologia molecolare già da diversi anni una proteina estratta da un estremofilo, la Taq polimerasi, viene adoperata per ottenere grandi quantità di Dna a partire da frammenti disponibili in numero limitato. Ma nel generale entusiasmo che circonda la scoperta di ogni nuova forma batterica estrema, numerosi ricercatori invitano ad essere prudenti. Non sempre infatti le industrie sono disponibili a riconvertire i loro processi produttivi ormai collaudati, e molte delle proteine scoperte non hanno, almeno per il momento, nessuna utilità. E' un avvertimento ragionevole, anche se probabilmente non sono le possibili applicazioni nella produzione di agende e di detersivi a spingere i cacciatori di batteri, chiusi nei loro batiscafi, alla scoperta di forme di vita estreme in un mondo sommerso, misterioso e lontano. Margherita Fronte


RICERCHE NELLO STRETTO DI MESSINA Energia tra Scilla e Cariddi Una corrente marina (ed elettrica)
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA, TECNOLOGIA, MARE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
TABELLE: C. Stretto di Messina

POCHI sanno che dal punto di vista oceanografico lo Stretto di Messina è uno dei luoghi più interessanti del pianeta. E' possibile, infatti, osservarvi correnti marine tra le più veloci al mondo, in particolare quelle determinate dalla marea semidiurna. Il Mar Ionio a Sud e il Mar Tirreno a Nord hanno un regime di maree sfasato quasi esattamente di 90o: questa speciale condizione, combinata con la struttura topografica dello Stretto (la cui profondità è molto variabile, con punte di 1000 metri nella parte meridionale) produce una corrente che può raggiungere velocità superiori a 3,5 metri al secondo. Si stima che l'energia totale della corrente che fluisce nello Stretto sia intorno a 2900 GWh/anno. Nell'ambito del programma europeo Joule II, si è recentemente concluso un progetto di ricerca denominato Cenex (acronimo di Current ENergy EXploitation) dedicato alla valutazione del potenziale di questa fonte di energia rinnovabile ed allo sviluppo di un piano preliminare di sfruttamento. Il progetto, coordinato dalla Tecnomare di Venezia, ha visto la partecipazione di varie aziende e istituzioni europee: Enel e Ponte di Archimede (Italia), It Power (Inghilterra), Università di Patrasso (Grecia) e Voith (Germania). La ricerca si è focalizzata inizialmente sull'individuazione e catalogazione in Data Base di 106 siti europei con correnti marine abbastanza veloci da poter essere sfruttate a scopo energetico mediante turbine sottomarine. Queste località, situate in Gran Bretagna, Irlanda, Grecia, Francia e Italia, potrebbero fornire una produzione di energia elettrica pari a 48 TWh annui. La seconda fase del progetto Cenex si è concentrata in particolare sullo Stretto di Messina dove, al fine di individuare le zone più interessanti per l'installazione dell'impianto, sono stati sviluppati modelli matematici a due e a tre dimensioni tarati sui dati di corrente e di marea rilevati in vari punti dello Stretto. Due fasce parallele alle coste di Calabria e Sicilia, a profondità d'acqua compresa fra i 50 e i 100 metri, sembrerebbero essere le più idonee al posizionamento dell'impianto, tenuto conto anche della rotta delle navi che giornalmente transitano per lo Stretto. Il progetto preliminare prevede l'installazione di 100 turbine spaziate lateralmente di 30-50 metri e longitudinalmente di 200-300 metri in modo da non creare problemi di interferenza idrodinamica o operativa. Ogni turbina è costituita da un rotore a 4 pale fisse con asse di rotazione verticale. Ciascuna pala, lunga 10 metri, è supportata da 3 bracci. La girante ruota a 17,6 giri/minuto con una potenza di progetto di 250 kW. Il rotore è collegato a un generatore a 6 poli, che produce energia elettrica a 3-6000 V e la invia a una stazione di trasformazione a terra mediante cavi sottomarini. Il gruppo turbina-generatore è installato su di una struttura di supporto (monopalo) con un connettore meccanico. Il monopalo, lungo 30 metri, derivato dalla tecnologia petrolifera offshore, viene infisso sul fondo del mare per circa 20 metri con un battipalo sottomarino. Il regime di funzionamento è intermittente: ogni turbina si arresta quando la velocità della corrente scende sotto una certa soglia, resta ferma durante il periodo di stanca della corrente e viene riavviata quando la corrente, in direzione opposta, supera la stessa velocità-soglia. L'energia elettrica producibile annualmente dal complesso di 100 turbine è di circa 20 GWh, a fronte di un investimento di circa 120 miliardi di lire per la realizzazione dell'impianto. Il costo dell'energia prodotta è atteso sotto le 400 lire/kWh, perfettamente in linea con quello dell'energia prodotta da altre fonti rinnovabili. Il contenuto energetico della corrente è il fattore dominante del progetto. Poiché l'energia della corrente è funzione del cubo della velocità, sono essenziali ulteriori misure di velocità per migliorare i risultati del modelling 3-D ed individuare con certezza le località più adatte all'installazione delle turbine. Ulteriori test sperimentali saranno fatti su modellini a scala ridotta per verificare gli assunti fatti in sede progettuale. E' prevedibile che le prestazioni del sistema possano essere migliorate con programmi di ricerca nel campo dei materiali per le pale del rotore e nel campo dei generatori elettrici a bassissimo numero di giri. Davide Pavan


SCIENZE FISICHE. HIPPARCOS, MISSIONE COMPIUTA Ha datato l'universo Un catalogo di centomila stelle
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: BRAHE TYCHO
ORGANIZZAZIONI: CATALOGO TYCHO, CATALOGO HIPPARCOS
LUOGHI: ITALIA

SE sul bordo della Luna ci fosse un bambino di dieci anni e voi poteste guardarlo dalla Terra, vi apparirebbe sotto l'angolo di un millesimo di secondo d'arco. E' con questa fantastica precisione, cento volte maggiore di quella ottenibile con telescopi al suolo, che il satellite «Hipparcos» dell'Agenzia spaziale europea (Esa) ha misurato la posizione di 118.000 stelle. Il lavoro di osservazione si è concluso il 15 agosto 1993. E' seguito il complesso trattamento dei dati. Il loro insieme costituisce il «Catalogo Hipparcos». Questo patrimonio, che è stato presentato due settimane fa durante un convegno a Venezia, è ora a disposizione di tutta la comunità scientifica, dopo una prima scrematura fatta dai ricercatori responsabili della missione. Lo stesso satellite ha misurato la posizione di un altro milione di stelle con una precisione un po' meno buona, ma sempre superiore a quella consentita dai vecchi sistemi: è il «Catalogo Tycho». Nomi simbolici. I due cataloghi sono una grande eredità che il nostro secolo lascia al nuovo millennio: qualcosa di analogo al catalogo di mille stelle che per primo Ipparco di Nicea compilò nel secondo secolo avanti Cristo e alle misure di posizione di pianeti e stelle che Tycho Brahe, astronomo danese, eseguì con estrema cura nella seconda metà del 1500, fornendo a Keplero la materia prima per dedurre le sue famose tre leggi del moto planetario, anticamera della legge di gravitazione universale poi enunciata da Newton. L'arte di misurare la posizione dei corpi celesti fino al secolo scorso quasi coincideva con l'astronomia tout court. Poi questa «astronomia di posizione», o astrometria, è stata oscurata dall'astrofisica. Così, mentre non si contano le missioni spaziali di tipo astrofisico, nell'era dei razzi e dei satelliti l'astrometria è stata praticamente ignorata. Con l'unica eccezione di «Hipparcos». Eppure senza astrometria l'astrofisica non può avere solide basi. La massa delle stelle, per fare un esempio, è un parametro astrofisico essenziale per capire l'evoluzione stellare. Le masse delle stelle si valutano molto comodamente nei sistemi doppi, formati da due stelle che orbitano intorno al comune baricentro: ma occorrono misure di posizione molto precise delle due componenti. Altro esempio: il moto delle stelle nella nostra galassia fornisce informazioni preziose sulla quantità di materia esistente, visibile e invisibile, ma per conoscere i minimi spostamenti propri delle stelle occorrono misure di posizione accuratissime. C'è poi un terzo aspetto, ancora più importante: si può stabilire la distanza delle stelle più vicine con il metodo diretto della triangolazione, il più affidabile, ma solo a patto di poter fare misure di posizione rigorosissime. E dato che la distanza di queste stelle diventa il metro per dedurre indirettamente la distanza di stelle più lontane, e poi delle galassie, degli ammassi e superammassi di galassie, e così via fino agli oggetti più remoti dell'universo, è chiaro che un minimo errore iniziale può trasformarsi in un grande errore su distanze molto maggiori, nella cui stima è necessario introdurre numerosi parametri non ben conosciuti e non misurati direttamente. Un bell'esempio dell'importanza dell'astrometria e dei dati di «Hipparcos» per l'astrofisica e per la cosmologia viene da un gruppo di ricercatori italiani e riguarda l'origine stessa dell'universo. Secondo le ultime osservazioni fatte con il telescopio spaziale «Hubble», l'universo è più giovane di quanto pensavamo: avrebbe solo 12 miliardi e mezzo di anni e non 15-20 come facevano supporre le stime precedenti. Anche la versione della teoria del Big Bang che prevede un periodo di rapida crescita inziale chiamato «inflazione», comporta un'età dell'universo sui 12 miliardi di anni. L'universo è quindi ringiovanito da 15-20 a 12 miliardi di anni. In proporzione è come se Brigitte Bardot, che ha 62 anni, tornasse ad averne 40. Beata lei, si dirà. Ma il ringiovanimento del cosmo agli scienziati crea un problema spinoso. Ovviamente l'universo non può essere più giovane delle stelle che contiene: e invece gli ammassi globulari - raggruppamenti di centinaia di migliaia di stelle che orbitano come satelliti intorno alle galassie - finora sembravano avere 15 miliardi di anni. Come mettere d'accordo l'età dell'universo e l'età degli ammassi globulari? E' un enigma che negli ultimi anni ha tormentato gli astronomi. Bene: grazie ai dati di Hipparcos si è potuto stabilire che gli ammassi globulari hanno in realtà solo 12 miliardi di anni. Cioè una età compatibile con quella dell'universo: e quindi la teoria del Big Bang è salva. Ma come si è arrivati a ringiovanire gli ammassi globulari? La risposta è semplice: misurandone meglio la distanza. In base ai dati di Hipparcos, un gruppo di astronomi degli Osservatori di Bologna, Padova, Torino e Roma ha valutato con maggior precisione la distanza di alcune stelle vicine a noi ma vecchie come quelle degli ammassi globulari, e quindi dello stesso tipo. Confrontando la luminosità apparente di queste antichissime stelle con la loro luminosità reale, si è poi risaliti alla distanza degli ammassi, e quindi anche alla loro età: l'errore di misura, che prima toccava il 50 per cento, è sceso al 5 per cento. In altre parole, Hipparcos ci ha dato un metro cosmico dieci volte più preciso. Qualche spiegazione su come ha lavorato Hipparcos. Il metodo applicato dal satellite per misurare la distanza delle stelle è quello della parallasse. Per capire che cos'è la parallasse, provate a tenere in mano una matita a braccio teso. Se chiudete alternatamente prima un occhio e poi l'altro, vedrete che la matita si proietta su punti diversi dello sfondo. L'angolo formato dalle linee che congiungono i vostri occhi alla matita è la parallasse e da esso si può ricavare la distanza della matita con un facile calcolo trigonometrico. Hipparcos ha fatto la stessa cosa con le stelle: le più vicine, rispetto allo sfondo delle stelle più lontane, cambiano posizione osservandole prima da una estremità dell'orbita della Terra e poi dall'altra, cioè da posizioni distanti 300 milioni di chilometri. Con questo metodo però al massimo giungiamo a un migliaio di anni luce. Per misurare la distanza delle galassie si ricorre a stelle che variano regolarmente la loro luminosità, chiamate Cefeidi. Ma le Cefeidi, per funzionare come buoni indicatori di distanza, devono essere «tarate». Anche questo ha fatto Hipparcos, approfittando del fatto che alcune Cefeidi sono abbastanza vicine da poterne misurare la distanza con il metodo della parallasse. Il margine di errore si è così abbassato, in alcuni casi, ad appena l'uno per cento. La taratura della luminosità assoluta e quindi della distanza delle Cefeidi è solo uno dei tanti risultati estraibili dai dati di Hipparcos: il satellite ha scoperto 10.000 nuove stelle doppie o multiple, ha studiato 12.000 stelle variabili conosciute scoprendone altre 8000, ha individuato il moto proprio di moltissime stelle, ha permesso di individuare almeno una stella nana bruna e probabili sistemi planetari simili al nostro. Tutto ciò pur partendo con un grosso handicap: perché il satellite, lanciato il 6 agosto 1989 con un razzo «Ariane» dalla base europea di Kourou (Guiana Francese) non riuscì a raggiungere la prevista orbita geostazionaria, a 36 mila chilometri dalla Terra, a causa della mancata accensione del motore di apogeo, il piccolo razzo a combustibile solido che avrebbe dovuto sollevarlo dall'orbita bassa fino alla sua sede definitiva. Così Hipparcos è stato costretto a seguire un'orbita molto ellittica, con il perigeo (punto più vicino alla Terra) a 540 chilometri e l'apogeo (il punto più lontano) a 36.000. E il tempo che impiegava a percorre questa orbita non era di 24 ore esatte, come si voleva, ma di 10 ore e mezzo. Ciò nonostante, riorganizzando tutta la missione e il software per acquisire i dati, il successo è stato pieno. Anzi, la precisione delle misure è stata ancora migliore di quella prevista: la mappa del cielo disegnata da Hipparcos rimarrà un punto di riferimento fondamentale per molte generazioni di astronomi del futuro. Piero Bianucci


SCAFFALE Lambertini Marco: «Safari in Africa», Franco Muzzio Editore
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

UNA guida pratica al safari (fotografico), con note su habitat degli animali, dieta, socialità, riproduzione, tracce, i pericoli per l'uomo, le cose da fare e da non fare, i problemi della conservazione delle specie. Il tutto corredato da tavole a colori, mappe della distribuzione geografica e disegni delle impronte. E' un volume istruttivo anche per il semplice turista, che sarà così in grado di distinguere non soltanto i diversi animali ma interpretare atteggiamenti, posture, versi. L'autore, giornalista free lance, già direttore della Lipu Italia, dirige ora il programma BirdLife International.


SCAFFALE De Waal Frans: «Naturalmente buoni. Il bene e il male nell'uomo e negli altri animali», Garzanti
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

Biologi ed evoluzionisti sostengono che deve esistere una continuità tra il comportamento dell'uomo e quello di altri animali, soprattutto primati. Ma questa continuità vale anche per il concetto di etica? Moltissime osservazioni hanno dimostrato che l'altruismo e la collaborazione non sono esclusiva prerogativa della nostra specie. Basta pensare al gorilla che si sacrifica per un compagno ferito, allo sguardo colpevole del cane che ha commesso una marachella, al branco di elefanti che collabora per salvare un cucciolo. L'olandese De Waal, docente all'Università di Atlanta, Texas, uno dei massimi studiosi del comportamento animale, indaga sulle ragioni profonde del nostro comportamento e sulle origini della morale.


SCAFFALE Dinucci Manlio: «Geografia dello sviluppo umano», Zanichelli
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: DIDATTICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

Un volume dedicato agli studenti delle superiori, con una prefazione di Rita Levi Montalcini e contenente dati aggiornati al '95 su fonti principalmente delle Nazioni Unite. Diviso in sette sezioni, ciascuna a sua volta formata da tre capitoli. Con ipertesti, tabelle, grafici, una complessa analisi interdisciplinare del mondo attuale. Questi i grandi temi: Il rapporto fra popolazione, ambiente e risorse, Il problema alimentare, Il problema energetico, Gli squilibri socioeconomici, La mondializzazione dell'economia, Urbanizzazione e società urbana, Il rapporto fra scienza e sviluppo, disarmo e sviluppo, democrazia e sviluppo.


SCAFFALE Bettini Virginio, Canceli Claudio, Galantini Roberto, Rabitti Paolo, Tartaglia Angelo, Zambrini Mario: «Alta velocità. Valutazione economica, tecnologica e ambientale del progetto», Editrice Cuen, Napoli,
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: TRASPORTI, LIBRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

Molti in Italia pensano che i treni ad alta velocità non siano così urgenti e necessari, e che sarebbe meglio far funzionare bene quelli normali. Sul tema hanno scritto alcuni specialisti, esperti di questioni ambientali, tecnici ed economici. E il responso alla fine è che bisogna fermare tutto e ripensare il problema. I vari coordinamenti di cittadini toccati da vicino dai progetti hanno bocciato tutte le premesse, sostenendo che l'alta velocità «è sbagliata nei presupposti politici ed economici, inaccettabile nel percorso metodologico e infine dannosa alle comunità locali».


SCAFFALE Brown Lester R., Flavin Christopher, French Hilary: «State of the World», Isedi Utet
AUTORE: R_SC
ARGOMENTI: DEMOGRAFIA E STATISTICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

E' in libreria l'edizione italiana '97 sullo «Stato del Mondo», a cura di Gianfranco Bologna, tradizionale rapporto annuale (il primo uscì nel 1984) del Worldwatch Institute (sede a Washington, DC, Usa), con notizie per niente rassicuranti: la popolazione è cresciuta di mezzo miliardo di persone in pochi anni, le scorte alimentari sono in calo, le malattie infettive in aumento. Ma insieme sembra che stiano diminuendo i gas responsabili dell'effetto serra e che cresca il tenore di vita di alcune aree del pianeta. Mentre si acuiscono i collegamenti tra i diversi fattori di sviluppo, politica, economia, sfruttamento. (r. sc.)


SCIENZE FISICHE. LO SCHERMO DEL FUTURO Vado al cinema. Cioè mi collego a Internet Un enorme ipertesto con molti finali e protagonisti intercambiabili
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
NOMI: GATES BILL, NEGROPONTE NICHOLAS
ORGANIZZAZIONI: INSTITUTE FOR ADVANCED TECHNOLOGIES IN THE HUMANITIES
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA

STIAMO per passare da un mondo fatto di atomi a uno fatto di bit, sentenziano i guru della rivoluzione digitale, a cominciare da Nicholas Negroponte. Non c'è quindi da stupirsi se anche il vecchio cinema, che da poco ha festeggiato il primo secolo di vita, affronterà questo passaggio. Dopo la televisione e l'home video, i film si diffonderanno attraverso Internet, grazie alle straordinarie potenzialità della fibra ottica. Lo affermano gli esperti di telecomunicazioni, convinti che il passaggio dalla linea telefonica ai cavi ottici aumenterà di 400 volte la capacità di trasferire informazioni. Ci crede Bill Gates, che ha cominciato la scalata ai mass media. Un embrione del cinema che verrà sembra essere il sito di WAXWeb (http://bug.village. virginia.edu). Il contenuto è difficile da definire. E' ancora un film? O un gigantesco ipertesto? O solo un gioco per cinefili con la mania della scrittura? WAXWeb è qualcosa di più, e di diverso, tanto che è diventato quasi un «cult movie» per il popolo di Internet. Il progetto, sostenuto dall'Institute for Advanced Technologies in the Humanities dell'Università della Virginia, è nato da un video di David Blair («WAX or the Discovery of Television among the Bees»), girato nell'ormai lontano 1991 e composto di duemila inquadrature, tutte rielaborate al computer. In rete è approdato solo un paio di anni fa, quando il visionario Blair (aiutato dal programmatore Tom Meyer e dalla grafica Suzanne Hader) ha proposto a 25 sceneggiatori di integrare la storia originaria con i loro sviluppi personali, creando il primo ipertesto di WAXWeb disponibile in rete. Ora tutti gli utenti di Internet possono partecipare alla realizzazione, cambiando i finali dei film, inserendo varianti, inventando nuovi protagonisti. In qualsiasi punto dell'ipertesto è possibile creare nuovi «link» (punti attivi, vere e proprie biforcazioni del racconto) e aggiungere frammenti di testo o immagini. In un paio di anni, sono stati 20 mila gli «scrittori» che hanno contribuito a WAXWeb. Le scene, i dialoghi, i personaggi si sono moltiplicati in continuazione, fino a dar vita a un enorme film «mutante», assai diverso dalla già bizzarra storia originale. Sul sito si sono accumulati 2000 pagine, 500 vidoclip e quasi 5000 immagini fisse, all'insegna della massima contaminazione tra i media, per un totale di un gigabite e mezzo di materiale disponibile (quasi un triplo Cd-rom on line). Un magma difficile da decifrare, anche per chi vuole vedere WAXWeb da semplice spettatore. Il sito può essere visitato anche passivamente, senza manipolare la storia. Si può accedere a tre livelli: «superstory» (un riassunto della trama a grandi linee), «short film» (con audio e video) e «shot by shot», in pratica una dettagliata sceneggiatura. Per chi non ha un modem veloce, i tempi di attesa sono lunghi ed è facile perdersi nel mare narrativo dell'ipertesto. Ora ci sono anche centinaia di stanze di realtà virtuale dove è possibile incontrare i personaggi dei film, realizzate con Vrml (Virtual Reality Modeling Language), il linguaggio di programmazione che sta diffondendo la terza dimensione sulla rete. Con WAXWeb crolla il mito dell'«autore». A differenza della televisione (che pure ha cambiato il modo di vedere il cinema), nella rete tutti gli spettatori possono diventare registi (o sceneggiatori): chiunque può aprire una pagina e aggiungere ciò che vuole. In balia della mediocrità dei molti, il singolare film di Blair è diventato una matassa inestricabile di storie da seguire, tante quante il caso. E in uno di questi embrioni del cinema futuro, è bello immaginare Humphrey Bogart e Ingrid Bergman che fuggono insieme, felici, dall'aeroporto di Casablanca. Giovanni Valerio


SCIENZE DELLA VITA. IL VARANO DI KOMODO Un drago violento e vorace Una specie al limite della sopravvivenza
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

ANDIAMO in estasi di fronte alla ricostruzione dei dinosauri, scomparsi 65 milioni di anni fa. E non ci accorgiamo di avere sotto gli occhi un rettile vivente non meno impressionante. E' il varano di Komodo. Sembra impossibile che un rettile così gigantesco sia rimasto ufficialmente sconosciuto alla scienza fino a questo secolo. Per la verità gli indigeni raccontavano storie mirabolanti sugli spaventosi draghi che si aggiravano nelle isole della Sonda, seminando morte e terrore. Ma gli scienziati davano poco credito a queste voci. Finché, nel l9l2 il direttore del giardino botanico di Buitenzorg (Giava) decise di organizzare una spedizione in una delle isole abitate dal misterioso bestione. Si scoprì allora che si trattava effettivamente di un varano eccezionale. Fra le 31 specie e le 58 sottospecie di varani che vivono nelle regioni tropicali del Vecchio Mondo, quello di Komodo è certamente il più grande. Questi rettili d'eccezione si trovano oggi solo in un angolino limitato del mondo. Il loro habitat comprende l'isola di Komodo (600 chilometri quadrati), le isolette di Padar e di Rintja e la parte occidentale dell'isola di Flores, tutte appartenenti all'arcipelago della Sonda. In un'area totale di l500 chilometri quadrati si valuta che la popolazione dei varani non superi le 700-l000 unità. Siamo ai limiti della sopravvivenza. Ecco perché il drago di Komodo è protetto dal governo indonesiano, le isolette di Padar e di Rintja sono considerate riserve naturali e si spera così di salvare una specie che in cattività si riproduce assai raramente. Del suo modo di vivere in natura sappiamo in sostanza assai poco. Dalle ricerche più recenti sembra che non tema l'acqua. Il che avvalora l'ipotesi che abbia potuto raggiungere a nuoto le isolette che occupa attualmente. Nuota però in maniera tutta diversa da quella dei suoi cugini coccodrilli. La testa la tiene fuor d'acqua e fa ondulare sinuosamente il corpo massiccio e la lunga coda. Nei confronti delle prede abituali, cerbiatti e maiali selvatici, la sua aggressività si manifesta in modo assai cruento. Le insegue con un'agilità insospettabile in un bestione lungo due o tre metri e pesante 60-70 chili (in cattività diventa obeso e supera facilmente il quintale). Le raggiunge, le ferisce conficcando gli unghioni poderosi nella carne e le azzanna con la formidabile chiostra di denti aguzzi. Poi il più delle volte non si cura affatto di sminuzzarle in bocconcini. Gli basta abbassare il pavimento boccale per aumentare enormemente la capacità della faringe - come fanno del resto anche i serpenti - e in tal modo può ingoiare un quarto di maiale selvatico o un cerbiatto tutto intero. Per quanto gli animali vivi siano il suo pasto preferito, non disdegna le carogne, di cui sente l'odore a distanza incredibile. E talvolta può ricorrere a uno strano sistema per divorarle. Incomincia dalla regione anale, si scava una sorta di tunnel nell'interno della bestia e dal di dentro si mangia i visceri per poi passare agli strati più esterni del corpo. Alla fine resta soltanto lo scheletro spolpato di sana pianta. L'accoppiamento è piuttosto violento. Il maschio sale in groppa alla femmina e la morde alla nuca. La stringe con tanta passione che finisce per affondarle gli unghioni nella carne, provocandole serie ferite. E' il prezzo che si paga all'amore. Le uova che la femmina depone hanno dimensioni ragguardevoli, circa dodici centimetri di lunghezza e duecento grammi di peso. Nonostante per sagoma e dimensioni, il varano di Komodo si avvicini ai coccodrilli, c'è in lui più di una caratteristica che lo accomuna ai serpenti. Non solo la particolare dilatabilità della bocca e della faringe che gli consente di ingoiare prede enormi, non solo una robusta scatola cranica che protegge il cervello dalla pressione che i bocconi troppo voluminosi potrebbero esercitare sul palato, ma anche il peculiare sistema con cui va in cerca della preda. Ha anche lui la lingua bifida, una lunga lingua giallastra biforcuta che saetta all'esterno in perenne esplorazione. E' il suo modo di «assaggiare» l'ambiente, perché raccoglie così le molecole odorose e le trasporta in due fossette che si trovano nel palato e immettono in uno speciale organo, l'organo di Jacobson, ricco di cellule sensorie atte a ricevere gli stimoli chimici. Con questo straordinario strumento di sondaggio, il varano sente la presenza della preda. Non è raro vedere due o più individui che insieme danno la caccia a una grossa preda. Ma c'è sempre una precisa scala gerarchica, per cui l'individuo più forte si accaparra i bocconi migliori. Anche il maschio ha un ruolo dominante sulla femmina. Di fronte al bottino di caccia, il marito si serve per primo senza nessuna galanteria nei confronti della moglie che aspetta umilmente in disparte il suo turno. Poiché vive in una zona caldissima, dove si raggiungono nella stagione secca punte di 75oC, diventa vitale per lui cercare riparo nelle ore più calde del giorno. E il bestione conosce metro per metro tutto il suo territorio. Sa bene dove trovare le zone d'ombra, le grotte naturali, i rifugi da sfruttare. La degradazione dell'ambiente naturale ad opera dell'uomo è perciò una delle minacce più gravi alla sua sopravvivenza. Purtroppo, nonostante le rigide misure protezionistiche, i bracconieri continuano a dargli la caccia non solo per la carne e le uova, ma anche perché diverse parti del corpo, come il grasso della coda, vengono usate nella medicina cinese. Strano a dirsi, ma in cattività, nei pochi zoo del mondo che li ospitano, i draghi di Komodo perdono l'innata aggressività, diventano docili e mansueti e danno prove molteplici delle loro elevate capacità psichiche. Grazie all'olfatto ultrasensibile riconoscono l'odore del guardiano, reagiscono al suo richiamo, imparano l'ora del pasto. E ciò testimonia che, oltre a tutto, hanno un'ottima memoria. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE DELLA VITA. UNA BANCA PER IL SANGUE CORDONALE L'ombelico congelato Per curare leucemie e talassemie
Autore: FAGIOLI FRANCA, MADON ENRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: GAVOSTO FELICE, GHIROTTI GIGI
ORGANIZZAZIONI: GRACE GRUPPO DI RACCOLTA E AMPLIFICAZIONE DELLE CELLULE EMOPIOETICHE, ADISCO, OSPADALE MOLINETTE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Descrizione del programma

NEGLI Anni 60 per curare le malattie del sangue si tentò per la prima volta il trapianto di midollo osseo da donatore sano (trapianto allogenico). Con il tempo si è imparato a ridurre il rischio di rigetto e a utilizzare per il trapianto non solo le cellule midollari ma anche quelle circolanti nel sangue periferico, anch'esse ricche di progenitori staminali, le cellule che garantiscono l'attecchimento. Il trapianto allogenico è quindi diventato una terapia consolidata per leucemie, aplasie, talassemie e altre gravi malattie. Tra il donatore e il ricevente deve però esistere una istocompatibilità, che viene accertata con un test. Purtroppo le barriere di istocompatibilità sono tali che un ammalato che necessiti di trapianto da un donatore sano ha solo il 25 per cento di probabilità di avere un familiare identico. Per offrire al maggior numero di malati la possibilità del trapianto ci si muove in due direzioni. La prima è quella di creare grandi «banche dati» di potenziali donatori di midollo osseo. Su questa base è stato istituito un Registro Mondiale dei Donatori (più di tre milioni di volontari iscritti). Nonostante le dimensioni del Registro, meno del 35 per cento dei pazienti può trovare un midollo identico e in caso di minoranze etniche la probabilità è ancora minore. La ricerca richiede tempi lunghi, non inferiori ai sei mesi, e i costi sono alti. La seconda via consiste nel trapiantare anche soggetti che presentano una istocompatibilità solo parziale. Alla fine degli Anni 80 si è intravista una nuova possibilità per offrire il trapianto a un maggior numero di pazienti pediatrici: utilizzare il sangue del cordone ombelicale. In un articolo pubblicato proprio su «Tuttoscienze» poche settimane fa, Felice Gavosto ha raccontato la storia scientifica che, partendo dagli Anni 70, ha permesso di giungere, negli Anni 90, ad utilizzare il sangue del cordone ombelicale per il trapianto sfruttando l'elevato numero di cellule staminali che esso contiene. Altre caratteristiche peculiari del sangue cordonale sono il ridotto rischio di contaminazione virale e soprattutto l'immaturità immunologica, per cui è possibile eseguire trapianti anche in caso di istocompatibilità solo parziale. Un limite del sangue cordonale è tuttavia legato al suo basso volume complessivo, per cui, pur avendo una maggiore potenzialità emopoietica rispetto al midollo, è stato finora utilizzato principalmente nel trapianto di bambini di peso inferiore ai 30 chilogrammi. Queste caratteristiche, unite al fatto che può essere prelevato dopo il parto senza alcun rischio nè per la madre nè per il neonato e che quando è congelato è rapidamente disponibile in caso di necessità, rendono il sangue del cordone ombelicale adattissimo per costituire «banche di cellule staminali» per trapianto. Nel novembre 1990 a Torino è stato congelato il primo sangue cordonale. Negli anni successivi si è giunti a una vera e propria banca di sangue cordonale e in parallelo ne sono sorte altre in diverse città (Roma, Milano, Firenze, Padova, Bologna). Su questa base dal 1994 si è costituito il Grace (Gruppo di Raccolta e Amplificazione delle Cellule Emopoietiche), che si è coordinato con altri centri in una banca europea. Torino, fin dall'inizio, ha fatto parte di questa iniziativa. Attualmente sono conservati presso la Banca di Sangue Cordonale di Torino oltre 300 campioni. La maggior parte dei cordoni, oltre 250, sono a disposizione di chiunque nel mondo ne abbia necessità; i rimanenti sono riservati a un nucleo familiare definito. Essi infatti sono di consanguinei di soggetti con gravi malattie per i quali è probabile il trapianto. Non si ritiene opportuno, invece, conservare indistintamente ed esclusivamente per uso personale le cellule di cordone ombelicale in quanto le probabilità di dover utilizzare il proprio sangue cordonale sono una su 60.000. Ma quello che è un discorso non logico, sia in termini organizzativi sia di costi, a livello del singolo individuo, è utile a livello di sanità pubblica. In questo quadro si inserisce l'attività dell'Adisco (Associazione Donatrici Italiane Sangue Cordone Ombelicale), una associazione nazionale con una sezione piemontese che ha lo scopo di potenziare le banche per renderle di dimensioni tali da garantire il trapianto a qualunque bambino ne abbia bisogno. L'Adisco promuove anche la ricerca scientifica, volta soprattutto a superare il limite principale del trapianto di cordone: il ridotto volume. La tecnica di espansione in vitro, in cui il gruppo torinese è all'avanguardia, potrebbe portare nel corso degli anni alla possibilità di trapianto del sangue cordonale anche nei pazienti adulti. Delle opportunità terapeutiche derivanti dal sangue del cordone ombelicale si parlerà venerdì 30 maggio a Torino, Molinette Incontra, in occasione di un convegno promosso dal Comitato Gigi Ghirotti (informazioni: 011-65.68.336). Franca Fagioli Enrico Madon


SCIENZE DELLA VITA. CELLULE BETA La difficile guerra ai linfociti killer
Autore: PONZETTO ANTONIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: STOECKERT CHRISTIAN, LAU HENRY
LUOGHI: ITALIA

IL fatto era accaduto vicino ad una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora à birri» (Alessandro Manzoni, «I promessi sposi», capitolo 4). Anche nel nostro corpo esistono siti privilegiati, dove i linfociti killer non possono entrare: i testicoli, l'utero, la cornea e il cervello. Come tutti gli eventi biologici, anche questo ha una spiegazione recentemente identificata: alcune cellule di questi organi producono una sostanza (nome in codice: Cd 95), che, quando lo incontra, costringe il linfocita killer a fare «harakiri», il suicidio programmato, che nel linguaggio dei medici si chiama apoptosi. I linfociti killer sono gli armigeri del nostro sistema immunitario, e uccidono le cellule da loro riconosciute come non normali, o «diverse». Il loro giudizio, però, a volte, è sommario: così, nel diabete giovanile (detto Tipo I) attaccano fino alla totale distruzione le cellule produttrici di insulina, quelle cellule beta che si trovano solo nelle isole di Langerhans del pancreas. Il diabete giovanile, malattia autoimmune purtroppo abbastanza frequente, è dunque il risultato di un «errore giudiziario» commesso dal nostro sistema immunitario. I chirurghi trapiantatori, forti dei successi nel trapianto di rene, di cuore, di fegato, hanno provato a sostituire anche le isole di Langerhans di questi pazienti con altre, di donatori sani, ma senza alcun successo: i killer uccidono anche le nuove cellule. Perché non portare dunque le cellule beta in un luogo privilegiato? Allora sì che sarebbero al sicuro dai «birri». Il nostro organismo, per eliminare il killer impazzito che uccide le cellule sane, gli ha fornito un meccanismo di autodistruzione, e una «radio» per ricevere il segnale che lo attiva. La radio ricevente è una proteina, ha nome Fas e sta sulla superficie esterna dei linfociti killer. Anche il segnale, cioè il Cd 95, è una proteina, e quando vede Fas la avvinghia, innescando così il meccanismo che porta a morte il killer. Christian Stoeckert ed Henry Lau hanno nascosto alcune centinaia di cellule beta delle isole di Langerhans all'interno di una struttura fatta da cellule di muscolo, al cui esterno sono esposte le proteine Cd 95. Ovviamente le cellule muscolari normali non hanno queste proteine sulla superficie; il «miracolo» è stato ottenuto con l'ingegneria molecolare, inserendo il gene specifico per Cd 95 in tali cellule. Il convento sicuro per le cellule beta è pronto, il chirurgo trapianta la nuova isola di Langerhans biotecnologica sotto la capsula renale, dove le cellule beta possono produrre insulina secondo le necessità dell'organismo. Quando arriva il killer pronto a uccidere, le cellule muscolari gli inviano il segnale di «autodistruzione». C'è un solo problema: tutto ciò è stato già fatto nel topo («Science», 5 luglio 1996). Avrà successo anche nell'uomo? Antonio Ponzetto




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