TUTTOSCIENZE 9 aprile 97


ESPERIMENTI A TORINO I numeri magici della natura Verifiche di estrema precisione sulle «costanti»
Autore: NOVERO CARLO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA
NOMI: DIARC PAUL ADRIEN MAURICE
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO ELETTROTECNICO NAZIONALE GALILEO FERRARIS
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: D. Evoluzione cosmica di una stella

PAUL Adrien Maurice Dirac aveva da poco ricevuto il premio Nobel per la fisica per il suo contributo alla nascita dell'elettrodinamica quantistica quando, nel 1937, enunciò quella che sarebbe poi divenuta universalmente nota come l'ipotesi dei grandi numeri. Probabilmente non pensava, allora, che la sua speculazione puramente teorica avrebbe aperto una branca di indagine nella fisica sperimentale. Alla base dell'ipotesi di Dirac c'era la constatazione che l'età dell'universo e un opportuno rapporto di costanti fondamentali (legato al rapporto di intensità delle forze gravitazionale ed elettromagnetica) sono all'incirca uguali in numero: questo suggerì a Dirac che tale numero fosse a sua volta una costante, in un certo senso più fondamentale delle altre. Se così è, tuttavia, bisogna essere pronti ad accettare che le costanti che noi supponiamo da sempre fondamentali cambino di valore nel tempo, poiché il tempo di vita dell'universo è una quantità in continuo aumento e, secondo alcune ipotesi, cambiano anche le sue dimensioni. Quanto sia inquietante questa ipotesi è comprensibile: le costanti fondamentali della fisica sono come i mattoni costitutivi della natura e la loro inalterabilità nel tempo è da sempre garanzia che le leggi della natura siano universali e inalterabili. Si pensi, per esempio, all'importanza che ha la velocità della luce nel mondo fisico. L'ipotesi di Dirac fin dal suo nascere fu sottoposta a verifiche sperimentali stringenti. Una delle ultime in ordine di tempo è stata fatta a Torino, all'Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris, usando un orologio atomico prototipo di nuova concezione. Non è un caso che alla base di tutto questo ci sia uno strumento misuratore del tempo: di tutte le grandezze fisiche, il tempo è quella misurata con la maggior accuratezza. Gli orologi atomici di ultima generazione, che danno il tempo a tutto il mondo, «sbagliano» di un secondo in alcuni milioni di anni e quelli in progetto e che potrebbero entrare presto in funzione porteranno questo limite ad alcune decine di milioni. E' l'atomo di un elemento poco noto, il cesio, a dare agli orologi atomici tanta precisione accuratezza. In realtà non è poi così vero che il cesio sia poco noto: uno dei suoi isotopi, il 135, è fortemente radioattivo ed è uno dei protagonisti più temuti degli incidenti nucleari. Quello che si trova dentro gli orologi, però, è l'isotopo 133, che è completamente inerte. Non c'è macchina più tranquilla di un orologio atomico: è pericoloso solo se cade su un piede, perché è un'apparecchio piuttosto pesante. Il nuovo orologio atomico in via di realizzazione all'Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris è un prototipo del tutto diverso dagli altri orologi: è l'atomo di magnesio a garantirgli accuratezza, e proprio questa caratteristica ha consentito di misurare l'eventuale variazione nel tempo del valore di alcune costanti fondamentali. Nella ricerca di incertezze sempre più ridotte ci si accorse, vent'anni fa, che gli atomi degli elementi della seconda colonna del sistema periodico, i metalli alcalino-terrosi, hanno alcune transizioni di livello energetico che da una parte piacciono particolarmente agli «orologiai», perché hanno le caratteristiche necessarie per conferire a un orologio stabilità e accuratezza, ma dall'altra sono basate su combinazioni di costanti fondamentali diverse da quelle che reggono le transizioni degli elementi della prima colonna, dove sta il cesio. La meccanica quantistica permette di scrivere le espressioni teoriche delle transizioni del cesio e del magnesio e ne risultano due formule matematiche piuttosto complesse, in cui compaiono molte costanti fondamentali, come la velocità della luce, la massa dell'elettrone, la massa del protone. Le singole espressioni sono molto complicate, ma il loro rapporto è un'espressione molto più semplice: restano soltanto la massa del protone, la massa dell'elettrone e una quantità caratteristica del nucleo dell'atomo di cesio che si chiama rapporto giromagnetico. Quindi, se queste costanti variassero nel tempo, i due diversi orologi dovrebbero discostarsi. Per oltre un anno nei laboratori torinesi si sono confrontate le frequenze delle transizioni del cesio e del magnesio e se ne è misurato il rapporto, per vedere se esso si manteneva stabile o no. Dopo 400 giorni di misurazione è risultato che, se c'è una variazione nel rapporto delle due frequenze e quindi una variazione nel tempo di queste costanti fondamentali, questa dev'essere più piccola di una parte su diecimila miliardi. E' come dire che dovremmo attendere almeno cento miliardi di anni per vedere variare dell'uno per cento la combinazione. Ma i risultati non si fermano qui. Dalle misure di frequenza, dai dati ottenuti in altri esperimenti,e da misurazioni di astrofisica si può fissare un nuovo limite per la variazione nel tempo di un'altra costante fondamentale, la costante di struttura fine. E', questa, una costante quasi ignota al grande pubblico ma di fondamentale importanza: essa è legata alla struttura delle transizioni atomiche e ha una importanza fondamentale nel determinare parecchie cose del mondo fisico, a cominciare, per esempio, dalle dimensioni degli atomi. Anche per la costante di struttura fine si è trovato a Torino che la variazione massima possibile, compatibile con i dati osservativi delle frequenze del cesio e del magnesio, all'incirca è quella delle costanti precedenti. In conclusione, o queste costanti fondamentali non variano con il tempo, almeno nei limiti sopra indicati, o si dovrà lavorare ancora molto per «misurare» il sospetto di Dirac. Carlo Novero Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris, Torino


«G» COME GRAVITA' L'arcana colla dell'Universo
Autore: DE MARCHI ANDREA, LESCHIUTTA SIGFRIDO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA
NOMI: NEWTON ISAAC
LUOGHI: ITALIA

LE costanti fondamentali possono essere viste come intermediari tra fisica e ingegneria, cioè tra le equazioni che esprimono i modelli fisici del mondo che ci circonda e la trasformazione di quelle relazioni in oggetti che usiamo, siano essi treni o televisori. Abbiamo tre categorie di costanti fondamentali. Nella prima si trovano codificate certe caratteristiche della Natura, come la carica di un elettrone e la velocità della luce. Nella seconda ci sono le costanti che governano i passaggi tra le proprietà atomiche, microscopiche della materia e quelle macroscopiche. Tra queste c'è per esempio la costante dei gas, R, che in funzione di temperatura, numero di molecole e volume della gomma di un auto, fornisce la pressione del pneumatico. Nella terza ci sono quelle che legano «capitoli» diversi della fisica, come la costante di Planck, che collega l'energia con il tempo, la costante di Boltzmann, che collega l'energia con la temperatura o la costante di gravitazione universale G, che lega la massa di due oggetti alla forza che si scambiano. Quest'ultima costante è quella che tiene assieme l'Universo, regola l'evoluzione e i moti delle stelle e più prosaicamente si manifesta, nei dintorni del nostro pianeta, tramite l'accelerazione di gravità che fa cadere al suolo ogni oggetto lasciato libero. Il valore di G solleva sottili problemi conoscitivi (chi ci garantisce che G, non cambi con il tempo se l'universo si espande?) ed è indispensabile nella navigazione spaziale. Tutti i calcoli di orbite attorno alla Terra o nello spazio profondo richiedono la conoscenza di questa elusiva costante, che fu introdotta da Newton attorno alla metà del '700, stimata da Maskeline usando come forza l'attrazione di una montagna e misurata da Cavendish alla fine del '700. Questa costante è tra noi da due secoli, ma in 200 anni la sua misura è migliorata meno di un fattore 100. La misura di G richiede la valutazione degli effetti gravitazionali di un corpo ben conosciuto (in forma e costituzione), e quindi necessariamente piccolo, con la conseguenza che produce effetti molto lievi. Per avere un'idea di quanto minuscoli possano essere questi effetti si consideri che l'accelerazione di gravità sulla superficie di una sfera di tungsteno di 10 centimetri di diametro è un terzo di micron (0,001 mm) al secondo per secondo, cioè una trentina di miliardesimi dei 9,8 m/s che sono l'accelerazione di gravità sulla Terra («g»). Esistono molti fenomeni di natura varia (meccanici, elettrici, magnetici, elettromagnetici) che possono falsare una misura così delicata. Il maggior disturbo è costituito dalla gravità terrestre. Si potrebbe rimediare facendo l'esperimento nello spazio ma, anche se oggi la realizzazione sarebbe tecnicamente possibile, spese così elevate non giustificherebbero per tutti l'obiettivo. Inoltre il problema non è solo quello di discriminare una accelerazione piccola da una grande. Infatti g, non è costante e le sue variazioni sono maggiori degli effetti producibili in modo controllato in un esperimento. La soluzione tradizionale al problema è stata quella di confinare l'esperimento in un piano orizzontale che è perpendicolare al vettore g, utilizzando la bilancia di torsione di Cavendish. In questi apparati l'equipaggio mobile è costituito da due masse (passive) uguali distanziate da una bacchetta appesa in centro al filo di torsione, il quale fornisce la forza di richiamo. Le due masse attive vengono avvicinate dall'esterno e causano una variazione misurabile del periodo di oscillazione. In questo secolo vari gruppi di ricerca hanno affermato di aver misurato le prime 4 cifre di G con esperimenti basati su questa idea. Ma purtroppo i risultati ottenuti si rivelano discordanti già alla terza cifra. L'ipotesi più ragionevole, per tentare di capire le incongruenze, sembra essere rappresentata dall'instabilità della costante di torsione del filo. Nasce allora l'idea di usare un pendolo, così la forza di richiamo è la gravità terrestre, esterna all'esperimento, e misurabile parallelamente da un gravimetro. L'esperimento proposto consiste nell'avvicinare lateralmente due masse (note) al pendolo in oscillazione, misurando la variazione di periodo. Quest'ultima è molto piccola, circa un decimilionesimo del periodo stesso. Per misurarla con esattezza alla quarta cifra è necessario determinare il periodo esattamente fino all'undicesima cifra (per la quinta cifra occorre la dodicesima, e così via). Il pendolo deve essere sufficientemente stabile e l'orologio di riferimento molto accurato. Nell'esperimento che si sta preparando al Politecnico di Torino l'orologio di riferimento sarà al cesio, per soddisfare la seconda esigenza, mentre per la prima occorre lavorare sotto vuoto, isolando il pendolo dalle vibrazioni a bassa frequenza dell'ambiente. Andrea De Marchi Sigfrido Leschiutta Politecnico di Torino


Atomi come lancette I nuovi super-orologi, ancora più precisi
Autore: A_D_M

ARGOMENTI: FISICA, METROLOGIA
NOMI: HARRISON JOHN
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO ELETTROTECNICO NAZIONALE GALILEO FERRARIS, POLITECNICO DI TORINO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

LASER, trappole magneto- ottiche, atomi visibili singolarmente fermi nello spazio (cioè molto freddi), gli stessi atomi lanciati delicatamente verso l'alto a mò di fontanella, ancora laser... E' passato il tempo degli orologi fatti di ingranaggi: il futuro è affidato ai «super-orologi» atomici. Il Politecnico di Torino da alcuni anni coordina i progetti europei per lo sviluppo di nuovi orologi al cesio, i cosiddetti «super-orologi», impegnandosi nella realizzazione di un nuovo orologio esatto a 10-14 (un milionesimo di secondo di scarto in tre anni). Inoltre un recente accordo con il Nist americano e il «Galileo Ferraris» di Torino per lo sviluppo di tre orologi «a fontana» punta a raggiungere una accuratezza di 10-15, cioè ancora dieci volte migliore. L'esistenza di questi orologi, due vicini e uno lontano, tra l'altro, permetterà anche la messa a punto di tecniche di comunicazione superveloci. Il Politecnico di Torino non è solo nella scelta di non limitarsi a ricerca applicativa, ma di condurre anche una ricerca di base. Lo affiancano i migliori istituti di istruzione superiore del mondo, dall'Ecole Normale Superieure di Parigi alle univer-sità di Oxford e Cambridge, dalla Moscow University ad Harvard e al Mit di Boston. Ed è proprio in questi ultimi due istituti che gli orologi al cesio nacquero. La storia ci racconta che nel 1700 un artigiano di nome John Harrison dedicava la sua esistenza allo studio dei cronometri di navigazione, totalmente meccanici, in grado di «tenere» il minuto per due mesi, il tempo necessario per affrontare le lunghe traversate. A quell'epoca l'esattezza richiesta, perché gli orologi diventassero un riferimento migliore della Luna, era di 10-5, tanto serviva ad essere sicuri di arrivare a tiro di avvistamento della meta. Conoscere l'ora serviva per determinare la longitudine. Poi, all'inizio di questo secolo arrivarono gli orologi al quarzo, oggi diffusissimi, che possono essere esatti a 10-8 10-9 e negli Anni 50 quelli atomici, nei quali l'oscillatore al quarzo, che comanda l'orologio, è continuamente confrontato in frequenza alla differenza di energia tra due livelli di un atomo. L'atomo più usato è il cesio, che dal 1967 è alla base della definizione internazionale del secondo. Da anni sono diffusi orologi al cesio, prodotti dalle industrie, in grado di garantire un'esattezza di 10-13. Utilizzandoli si possono creare sistemi di navigazione di grande precisione. D'Alema va in barca vela usando il Gps (Global Positioning System), i conducenti dei Tir utilizzano lo stesso sistema sulle autostrade, presto i proprietari di auto di lusso sapranno esattamente dove sono situati con le loro vetture, le piattaforme di trivellazione possono navigare senza rompere il tubo del greggio. Il merito va tutto agli orologi al cesio. Ma gli orologi atomici hanno un'importanza strategica anche nella tecnologia delle moderne comunicazioni numeriche superveloci. L'esattezza degli orologi che scandiscono il tempo ormai a milionesimi di milionesimi di secondo nei nodi della rete serve a evitare che essi debbano essere continuamente risincronizzati. Negli ultimi anni continui studi dei ricercatori delle nazioni più evolute, ma ormai anche di quelle emergenti come la Corea, la Cina ed il Messico, hanno permesso di identificare nuove soluzioni per orologi al cesio che possono arrivare ad esattezze di 10-14 o addirittura di 10-15. Questi permetterebbero misure di importanza scientifica oggi impossibili. Ma qual è il segreto che rende possibile misurare la durata di un anno con un'incertezza minore del milionesimo di secondo? In gran parte il trucco sta nell'allungare la durata del confronto tra la frequenza dell'oscillatore al quarzo e quella della risonanza atomica. Infatti, per il principio di Heisenberg, più breve è questo confronto più è difficile capire se le due frequenze sono diverse. Negli orologi finora realizzati il cesio era «caldo» e quindi si volava a 200 m/s attraverso l'apparato, limitando la durata del confronto a pochi millesimi di secondo. Oggi, con i laser, è invece possibile «raffreddare» gli atomi finché sono fermi nello spazio, e poi palleggiarli come fanno i giocolieri. In questo modo il confronto può durare anche un secondo. I super-orologi al cesio renderanno possibili studi ambiziosi: misure geofisiche e astrofisiche, la rivelazione delle onde gravitazionali e una migliore conoscenza delle costanti fondamentali. (a. d. m.)


SCIENZE FISICHE. INFORMATICA Le insidie nell'oceano di Internet
Autore: BERGADANO FRANCESCO, CRISPO BRUNO

ARGOMENTI: INFORMATICA
LUOGHI: ITALIA

PER navigare tranquilli, è ovvio, ci vuole una nave sicura. E mare calmo. In Internet, il mare non è certo calmo, anche se le navi (i «browser», come Netscape Navigator o Microsoft Internet Explorer) sono ormai sperimentate da milioni di utenti e difetti gravi non dovrebbero più averne. Eppure, qualche settimana fa, uno studente di una piccola Università del Massachusetts ha trovato una falla nel browser della Microsoft: lo raccontava il divertente articolo di Angelo Raffaele Meo su «Tuttoscienze» del 19 marzo. La falla consiste nella possibilità di far eseguire automaticamente al browser un programma proveniente da un sito remoto. Ora, l'esecuzione di programmi è l'iceberg telematico più pericoloso, in quanto può creare nell'ambiente locale virus, contraffazioni e teste di ponte per attacchi ad altri sistemi. Il virus potrà essere trasmesso a parenti e amici vicini e lontani, insediarsi nei loro sistemi e nei loro browser, mantenersi aggiornato e trasformarsi nel tempo. La falla è stata riparata, assicura la Microsoft. Ma il mare è ancora agitato. Vi sono molti modi per provocare l'esecuzione di un programma potenzialmente insidioso nell'ambiente locale. Ne esamineremo uno semplice ma efficace, basato sul concetto di «Web spoofing». L'attacco si svolge in due fasi. Come sirene attireremo dapprima il navigante con il canto, poi lo spingeremo contro le rocce. Iniziamo con il canto. Prendiamo la «home page» di una grande azienda, o un sito WWW ben noto al pubblico, per esempio quello della Cnn http://www.cnn.com E' possibile copiare sul nostro calcolatore questa pagina con tutte le sue immagini e i suoi riferimenti, e mantenerla aggiornata. Lo abbiamo fatto, e potete consultarla su http://maga.di.unito.it La pagina è identica a quella della Cnn, e l'utente che vi si collega la trova accogliente e credibile quanto l'originale. L'unica differenza sta nell'indirizzo, che viene visualizzato dal browser, ma che l'utente frettoloso o inesperto può facilmente ignorare. Il problema ora è far cadere un utente nella nostra trappola, portare il nostro canto alle sue orecchie. Occorrerà cioè fare in modo che il suo browser carichi la nostra copia della home page della Cnn. Ciò si può fare in modo sistematico. Qui per semplicità possiamo immaginare che l'utente venga attirato nella trappola attraverso riferimenti ipertestuali falsi. Per esempio inseriremo nella nostra home page personale una frase del tipo «visitate la pagina della Cnn». Però assoceremo a questa frase non il vero indirizzo della Cnn, ma l'indirizzo della nostra copia. Una volta selezionato questo riferimento, il navigatore riceverà così una pagina che sembra realmente provenire dalla prestigiosa compagnia televisiva, che è però stata modificata al suo interno. E ora, il naufragio. La Cnn offre al pubblico, attraverso la propria home page, un pacchetto solfware chiamato «Point cast». Questo software permette di ricevere le ultime notizie con un'interfaccia utente elegante e personalizzata. Sono molte le aziende che offrono software gratuito attraverso il WWW. Una pagina Web descrive e pubblicizza il software. L'utente, selezionando il riferimento all'interno di questa pagina, potrà ottenere il prodotto via rete e salvarlo sul proprio PC. In un secondo momento sarà poi possibile usare il soft ware così ottenuto. Anche il browser di Netscape viene essenzialmente distribuito in questo modo. Per il nostro esempio della Cnn, la procedura non è diversa. L'utente, con un semplice «click», può prendere il pacchetto «Pointcast», che verrà salvato nell'ambiente locale. L'utente avrà fiducia nel software ottenuto in quanto proveniente da un sito noto, in cui compare un perfetto logo della Cnn. Provate a farlo dalla nostra copia. Ora sul vostro Pc ci sarà un programma di nome «Pointcast.exe». Un'irresistibile curiosità vi indurrà a provarlo ed eseguirlo. Che programma è? Sicuro, è un virus. Francesco Bergadano Università di Torino Bruno Crispo University of Cambridge


SCIENZE FISICHE. FISICA & DIDATTICA Un laboratorio virtuale Con il libro, oltre il libro
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA, DIDATTICA
NOMI: TIBONE FEDERICO, AMALDI UGO
ORGANIZZAZIONI: ZANICHELLI
LUOGHI: ITALIA

MOLTI licei e istituti tecnici hanno aule di fisica. Ma spesso le attrezzature sono vecchie e malconce. E in molti casi i professori non trovano il tempo per accompagnare gli studenti nell'aula di fisica. Ma anche quando tutto va per il meglio - la scuola ha un'aula di fisica ben attrezzata e il professore riesce a portarvi la propria classe - sono pochi gli studenti che possono partecipare personalmente agli esperimenti. Ben che vada, si può assistere allo «show» del tecnico di laboratorio. Forse, però, il tempo in cui tutti gli studenti avranno un proprio laboratorio è vicino. Sarà, naturalmente, un laboratorio virtuale, ma con risorse che non si trovano neppure nei laboratori veri. Ci stanno pensando, per conto della casa editrice Zanichelli, Federico Tibone, un fisico del plasma che ha lavorato in Inghilterra al programma Jet per la fusione nucleare controllata, e Ugo Amaldi, del Cern di Ginevra. Da mezzo secolo la Zanichelli mette a disposizione degli studenti un testo di fisica prestigioso. Nato da un manuale di Enrico Fermi, è stato scritto da Edoardo e Ginestra Amaldi, e ora circola nella versione aggiornata da Ugo, figlio di Edoardo. Per capire quanto successo ha avuto quest'opera insolitamente longeva, basta una cifra: sulle sue pagine hanno studiato la fisica due milioni di studenti. La longevità si spiega anche con l'evoluzione: il manuale si è continuamente adeguato alle nuove esigenze e ha accolto nelle proprie pagine tutte le conquiste che via via la fisica andava facendo. Con l'arrivo degli strumenti multimediali, eccoci all'ultimo aggiornamento: un Cd-Rom che, appunto, affianca il libro in modo interattivo, presentandosi come un laboratorio virtuale. La fisica, a volte, si capisce solo vedendola. Può darsi che il lampadario oscillante osservato da Galileo appartenga alla mitologia scientifica, ma certo per afferrare le leggi del pendolo non c'è niente di meglio che farsene uno e stare a guardare come oscilla variando la lunghezza. Il Cd-Rom «Fisica interattiva» che la Zanichelli sta preparando va in questa direzione. Ugo Amaldi e Carlo Bernardini ne presenteranno domani (ore 17) una prima versione, ancora da completare, al Liceo Mamiani di Roma. Lo scopo dell'anteprima è di stimolare osservazioni e consigli da parte di docenti e studenti, per rispondere nel modo migliore alle esigenze dell'insegnamento. Insomma: è diventato interattivo anche il processo di preparazione del Cd-Rom. Multimedialità e interattività, unite alla libertà di percorso tipica degli ipertesti, si dimostrano particolarmente utili nel ripasso e nella verifica dell'apprendimento, mentre per lo studio di base rimane certo più adeguato il «vecchio» testo sequenziale tipico del libro, dove la sequenzialità corrisponde a una gerarchia di argomenti, a una logica didattica, a un passaggio delle nozioni dal semplice al complesso. L'integrarsi di testo e ipertesto apre effettivamente nuove prospettive all'apprendimento. Le spiegazioni contenute nel Dc-Rom sono basate quasi sempre su semplici animazioni grafiche (si veda ad esempio quella del «moto armonico») commentate verbalmente. Gli esercizi utilizzano animazioni e filmati per introdurre lo studente a veri e propri esperimenti virtuali o per sottoporgli quesiti a risposta multipla (con imbarazzati colpetti di tosse quando la soluzione è sbagliata). Se è lecito dare un consiglio, visto che si tratta di «work in progress», suggerirei di potenziare al massimo il numero gli esperimenti virtuali. Si impara davvero soltanto ciò che si fa. Lo diceva già il buon Giambattista Vico. Quanto agli altri strumenti multimediali della Zanichelli, va segnalato che l'«Enciclopedia 1977» è dotata di un Cd- Rom che, come il volume da cui è tratto, contiene 96 mila voci e diecimila illustrazioni; ma in più offre venti minuti di brani audio, animazioni scientifiche, un atlante, una cronologia interattiva e l'aggiornamento on-line. La struttura è ancora, in sostanza, quella dell'opera carta, ma il motore di ricerca permette di estrarre dal Cd-Rom parole e combinazioni di parole a tutto testo, una facoltà in più rispetto alla tradizionale consultazione secondo l'ordine alfabetico. Piero Bianucci


SCIENZE FISICHE. EMERGENZA Un cimitero per i rifiuti radioattivi
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: ECOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: ANDIN ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI INGEGNERIA NUCLEARE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA

IN Italia abbiamo 30.000 metri cubi di rifiuti radioattivi che attendono una sistemazione definitiva. Un convegno organizzato a Roma dall'Andin (Associazione nazionale di ingegneria nucleare) ha lanciato l'allarme sull'assenza di una strategia per la gestione di questi rifiuti. Il nostro è uno dei pochi Paesi europei che non hanno ancora previsto uno specifico ente nazionale di riferimento, dotato di finanziamenti adeguati e compiti definiti. Anzi, dopo il referendum del 1987 che aveva fatto naufragare l'opzione del nucleare in campo energetico, il problema è stato gradualmente accantonato e rimosso dalla memoria collettiva. Dieci anni dopo si è ancora al punto di partenza e i rifiuti radioattivi continuano a crescere al ritmo di 1200 metri cubi l'anno, per effetto della produzione legata agli impieghi ospedalieri e all'attività di ricerca. L'ultimo censimento dei rifiuti radioattivi è stato curato dall'Anpa, l'Agenzia nazionale per la protezione ambientale, la quale, dopo aver assorbito il personale dell'Enea-Disp, è ormai divenuta la memoria storica del nucleare in Italia. Circa 23.000 metri cubi di rifiuti continuano ad essere accumulati presso i rispettivi siti di produzione e in maggior parte sono ancora da sottoporre alle operazioni di trattamento (riduzione del volume) e di condizionamento (immobilizzazione in matrici inerti). Di questi, solo 5000 metri cubi appartengono alla I categoria (a bassa attività radiologica e tempi di decadimento di pochi anni), mentre 16.000 metri cubi sono di II categoria (tempi di decadimento di alcuni secoli) e 2000 di III categoria (tempi di migliaia di anni). A tutto ciò vanno aggiunte circa 330 tonnellate di combustibile irraggiato, cioè esaurito, stoccato quasi tutto nei centri Enea, e 7000 metri cubi di combustibile irraggiato inviati all'impianto di Sellafield (Inghilterra) per subire il riprocessamento, ma destinati a tornare in Italia. Il riprocessamento è una tecnologia sviluppatasi in Francia e nel Regno Unito che consente, attraverso una serie di trattamenti meccanici e chimici, di recuperare dal combustibile esaurito uranio e plutonio e contemporaneamente di solidificare il resto delle scorie in una matrice inerte (cemento o vetro). La Bnfl inglese, titolare del contratto con l'Enel, ha proposto di rispedire in Italia, al posto dei rifiuti a bassa e media attività cementati, volumi decisamente inferiori di rifiuti vetrificati ad alta attività. L'Enel, d'accordo con il governo, pare intenzionata ad accettare questa soluzione, una volta definiti i criteri di equivalenza. A questo proposito rimane ancora da decidere il destino del combustibile che si trova ancora in Italia: riprocessarlo oppure, visto l'alto costo dell'operazione, trattarlo direttamente come rifiuto di III categoria? Osservando più da vicino il fosco quadro dei molteplici depositi temporanei di rifiuti radioattivi, alcune situazioni (come i rifiuti di II categoria del Centro Euratom di Ispra o i rifiuti liquidi di II e III categoria del Centro Enea di Saluggia) presentano aspetti poco rassicuranti, tenendo presente che gran parte delle strutture ospitanti erano state progettate negli Anni 60 e con una previsione di durata di esercizio di circa 20-30 anni e non come depositi di lungo periodo. Sarebbe quindi necessario realizzare al più presto un deposito nazionale centralizzato per lo stoccaggio definitivo dei rifiuti a bassa e media attività e un deposito per lo stoccaggio a medio termine dei rifiuti ad alta attività. Inoltre si dovrebbero riprendere gli studi sullo smaltimento definitivo dei rifiuti di III categoria in formazioni geologiche profonde, ormai considerato dalla comunità scientifica internazionale la soluzione più valida e sicura. La speranza è che anche l'Italia possa allinearsi presto ai Paesi dove la gestione dei rifiuti radioattivi è a livello molto avanzato (Francia, Belgio, Germania, Giappone, Spagna, Svizzera, Usa), superando le attuali indecisioni e i fattori di rischio che ne derivano. Davide Pavan


SCIENZE FISICHE. ECOLOGIA Un cocktail di idrocarburi Genova, analisi sugli inquinanti marini
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: FOCARDI SILVANO
ORGANIZZAZIONI: ACQUARIO DI GENOVA
LUOGHI: ITALIA

UNA volta la settimana una bettolina lascia il porto di Genova e si dirige al largo; ritorna poco dopo carica di... acqua. E' così che viene rifornito l'Acquario genovese, il più grande d'Europa: 48 vasche da quattro milioni e mezzo di litri in cui vivono 5 mila tra pesci, rettili, anfibi, mammiferi, uccelli e insetti, più altre 100 vasche nei sotterranei (4 milioni di litri) per l'ambientamento e la cura degli animali. La nave-cisterna attinge l'acqua a una profondità minima di 4-5 metri per evitare di imbarcare le impurità che galleggiano alla superficie. Ma questo non basta a dare la sicurezza. «Prima di essere immessa nelle vasche l'acqua viene sottoposta ad accurate analisi», dice Matteo Perelli, responsabile del laboratorio chimico dell'Acquario. E che cosa contiene l'acqua del nostro mare? Gli inquinanti più comuni sono gli idrocarburi policiclici aromatici (antracene, benzopirene, fenantrene, residui del petrolio e sicuramente cancerogeni), gli idrocarburi lineari (nonano, decano, dodecano...), e i composti organici clorurati (esaclorobenzene, pentaclorobifenile, esaclorobifenile, prodotti di sintesi usati come solventi, nelle materia plastiche, nel trattamento del legno, come isolanti e antiparassitari). «Le concentrazioni riscontrate sono quasi sempre inferiori ai limiti di accettabilità delle acque potabili per uso umano, che noi abbiamo preso come termine di riferimento; se tali limiti sono oltrepassati ributtiamo l'acqua in mare», dice Perelli. La necessità di affrontare giorno dopo giorno questi problemi per mantenere sani i preziosi esemplari loro affidati ha portato i tecnici dell'acquario ad allargare il campo delle ricerche più in generale agli effetti dell'inquinamento marino sugli esseri che vi abitano. «Ormai - dice Perelli - un po' tutti i mari del pianeta sono inquinati dai residui della civiltà, com miriadi di molecole inorganiche e organiche fluttuanti liberamente nell'acqua; alcuni di questi residui, come il Ddt, i policlorobifenili, l'esaclorobenzene si concentrano all'interno degli organismi marini e sono probabilmente la causa di varie patologie». I più esposti sono i mammiferi marini, sia perché si trovano al vertice della catena alimentare sia perché hanno una minore capacità di metabolizzare gli agenti inquinanti rispetto agli uccelli e ai mammiferi terrestri. «Questo perché non hanno nè traspirazione nè ghiandole sebacee e nemmeno meccanismi di scambio sangue-acqua come le branchie dei pesci; sono, in sostanza, dei sistemi chiusi. Non esiste la certezza che i composti inquinanti siano la causa diretta della morte di molti mammiferi marini, ma gli idrocarburi clorurati sono noti per provocare immunodepressione e problemi agli organi riproduttivi». E' certo che negli animali di laboratorio causano atrofia degli organi linfatici e quindi abbassano la resistenza alle infezioni. L'Acquario di Genova è in contatto con Silvano Focardi, del dipartimento di biologia ambientale dell'Università di Siena, che da anni studia i cetacei venuti ad arenarsi sulle spiagge italiane; altri cetacei vengono studiati in mare prelevando loro piccoli frammenti di pelle mediante dardi da biopsia scagliati con una balestra. Gli studi di Focardi indicano che idrocarburi alogenati sono stati rinvenuti in diverse specie; Ddt e policlorodifenile, ad esempio, sono stati rintracciati in stenelle e tursiopi. La concentrazione di idrocarburi clorurati risulta particolarmente alta nel melone, la struttura di tessuto adiposo che si trova sotto la fronte di delfini, focene e narvali, e nel «blubber», lo strato di grasso tipico di tutti i cetacei. Ciò si spiega con il fatto che questi inquinanti sono lipofili e quindi si concentrano negli organi in cui è maggiore la presenza di grasso; pare inoltre che tra i grassi preferiscano i trigliceridi, che rappresentano il 99 per cento del melone e del blubber, piuttosto che i fosfolipidi, contenuti per oltre il 55 per cento nel cervello. Questi inquinanti sono presenti in quantità maggiore nei maschi che nelle femmine e questo, sembra, perché le femmine ne smaltiscono il 90 per cento nella gravidanza e nell'allattamento. Purtroppo ciò va a danno della prole: uno studio sui beluga canadesi che vivono nel fiume San Lorenzo ha mostrato che nel grasso dei piccoli la concentrazione dei policlorobifenili è doppia di quella delle madri. Nei mammiferi del Mediterraneo gli inquinanti, secondo i ricercatori che fanno capo a Focardi, sono presenti in quantità maggiori che nelle popolazioni che vivono negli oceani, evidentemente perché è un bacino quasi chiuso con un'alta pressione antropica; particolarmente critica la situazione presso le coste dove sono diffuse le coltivazioni industriali sotto serra. Sono risultati allarmanti; per la salute dei mari, dei suoi abitanti in genere, dei mammiferi in particolare; ma sono allarmanti anche per l'uomo, così simile biologicamente ai mammiferi marini ed esposto, a terra, agli stessi pericoli. Vittorio Ravizza


SCIENZE DELLA VITA. IL GIPETO RITORNA SULLE ALPI Un volatore solitario Buone speranze per la reintroduzione
Autore: FRAMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: SOCIETA' ZOOLOGICA DI FRANKFURT, WWF
LUOGHI: ITALIA

QUESTO dovrebbe essere un anno importante per i gipeti (avvoltoi barbuti) reintrodotti nelle Alpi. Se tutto va bene, infatti, verso metà aprile dovrebbe nascere il primo piccolo della prima coppia di uccelli nati in cattività, liberati, poi cresciuti e viventi in natura. La reintroduzione di questa specie d'avvoltoio - il più grande uccello delle Alpi, qui sterminato all'inizio del secolo, ma per fortuna ancora vivente su montagne dell'Asia e dell'Africa - iniziò nel 1986 con il rilascio in quattro località alpine dei primi individui nati da genitori tenuti negli zoo europei. Il progetto, partito nel lontano 1978 in Austria con l'appoggio della Società Zoologica di Frankfurt e del Wwf, e subito appoggiato da numerosi appassionati nelle altre nazioni alpine e non solo in quelle, è cresciuto più del previsto. Si calcola che sia finora costato un paio di miliardi di lire, senza contare il lavoro volontario. A tutt'oggi ha portato alla nascita di circa 150 gipeti e alla liberazione di 68. Molti di questi ultimi, probabilmente fra metà e due terzi, sono tuttora vivi e autosufficienti. Ciò non era scontato. Gli uccelli liberati, a parte i pericoli di un habitat ristretto e deteriorato rispetto a una volta, non possono contare sull'aiuto dei genitori e devono subito provvedere da soli alla propria alimentazione (la quale, come si sa, è costituita in prevalenza da ossa di animali morti). I gipeti reintrodotti hanno sorvolato praticamente tutti gli angoli delle Alpi, anche se frequentano di preferenza alcune aree (fra le quali vi sono, com'era prevedibile, i grandi parchi nazionali). Per un paio d'anni i singoli esemplari sono riconoscibili da marcature bianche su ali e coda, poi mutano le penne e assumono una colorazione del corpo rossiccia, tipica dell'età adulta. La maturità sessuale è raggiunta a 7 anni e questa è la principale ragione della lunga attesa del lieto evento annunciato: certamente meno della metà dei gipeti alpini sono adulti. Benché tutti si muovano parecchio, la popolazione complessiva è piccola e dispersa, e le possibilità che formino coppie stabili (dureranno tutta la vita) sono evidentemente poche. La coppia di gipeti nidificanti si trova in Francia, non lontano da una delle quattro località di rilascio. La coppia aveva tentato di nidificare anche l'anno scorso, ma senza successo. I tempi di riproduzione della specie sono lunghissimi: di solito in dicembre hanno luogo le parate nuziali e i primi accoppiamenti, in gennaio la deposizione delle uova, in marzo la schiusa, in luglio l'involo dell'unico piccolo (che verrà infine allontanato dai genitori all'inizio del nuovo ciclo). La specie offre un tipico esempio di dinamica riproduttiva «di tipo K», cioè basata non sull'alta produttività di giovani, ma sulla bassa mortalità degli adulti (che sono fra l'altro assai longevi, potendo vivere oltre 40 anni, almeno in cattività). Se altre coppie di gipeti si formeranno sulle Alpi, com'è prevedibile, quando si potrà dire che si è formata una popolazione autosufficiente e si potrà quindi cessare l'immissione artificiale di uccelli? Benché sembri strano, la risposta teorica è mai. Infatti la popolazione di gipeti in grado di saturare le Alpi sembra verosimilmente dell'ordine di una o due centinaia di coppie e per i grandi vertebrati questo numero è teoricamente indicato come insufficiente a rendere trascurabile la probabilità dell'estinzione. Ma c'è un motivo pratico che induce a pensare che il Progetto Gipeto resterà in vita ancora a lungo. Esso ha mostrato che è possibile reintrodurre la specie in altre aree dove anticamente viveva: l'Andalusia, la Sardegna, forse un giorno i Balcani. Con situazioni tranquille e con adeguato interesse locale, progetti simili potrebbero partire in quelle regioni. Senza contare eventuali rafforzamenti di alcune esigue popolazioni residue nel Mediterraneo. Così alla fine si potrebbe riavere una popolazione abbastanza consistente, anche se frammentata. Francesco Framarin


SCIENZE DELLA VITA. RICERCA & BIOETICA Clonazione, no ai decreti Primi esperimenti già negli Anni 20
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, BIOETICA
NOMI: SPEMANN HANS
ORGANIZZAZIONI: DIBIT
LUOGHI: ITALIA

LA pecora clonata di Edimburgo ha prodotto fiumi di parole. Come spesso avviene non è stato tanto l'aspetto scientifico della notizia a fare scalpore quanto le implicazioni etiche dell'esperimento e la sua potenziale applicabilità all'uomo. Che il progresso della biologia rappresenti di per sè un motivo di avanzamento della cultura interessa a pochi. A troppi interessa solo l'aspetto scandalistico della scienza. Puntualmente, tutti i politici, in testa il presidente degli Stati Uniti, si sono sentiti in dovere di proporre blocchi alla sperimentazione genetica sui mammiferi, poco e male valutando i limiti di questi divieti che rischiano di rallentare un progresso con radici profonde nella storia della genetica e dell'embriologia. Il primo scienziato a produrre il clone di un animale e a dimostrare la pluripotenza genetica delle cellule fu John Gurdon nel 1962. Questo esperimento provò che l'informazione genetica è regolabile, cioè che i geni contenuti in una cellula adulta e differenziata sono gli stessi che controllano lo sviluppo iniziale di un individuo. L'esperimento di Gurdon fu un grande passo avanti, ma esperimenti di studio della regolazione dello sviluppo furono fatti fin dagli Anni 20 nel laboratorio di Hans Spemann e gli portarono grande fama, e il Nobel nel 1935. Che da un singolo genoma si possano ottenere individui uguali è ormai patrimonio della cultura biologica e la natura ha fatto, di per sè, lo stesso esperimento con i gemelli monozigoti. Quale paura deve ispirare l'esperimento di Wilmut se non quella che esso possa essere esteso all'uomo? E' una paura irrazionale poiché è noto a tutti che duplicare un embrione è tecnicamente possibile fin dai tempi di Spemann. Bloccare questo per de creto è semplicemente assurdo: già da tempo separare due o quattro blastomeri e farli sviluppare individualmente nell'utero di un'ospite umana rientra nel bagaglio tecnico di qualunque centro di fecondazione assistita. I problemi sono ben diversi, come dimostrano le esperienze di analisi del comportamento dei gemelli omozigoti, che non sono altro che cloni geneticamente identici. Il problema è che l'uomo è un animale complicato e più di altri animali risente delle influenze ambientali e della cultura dove cresce e si sviluppa. Possibilmente niente decreti e niente isterismi collettivi. Porre limiti a questo tipo di sperimentazione è tipico di una mentalità intollerante, di sfiducia nel potere di autoregolamentazione della scienza e, in ultima analisi, di quel modo di vedere la scienza da noi così radicato per motivi storici. Vediamo invece quali potrebbero essere le disastrose conseguenze di un blocco precipitoso della sperimentazione genetica. Innanzitutto, conoscendo l'ottusità dei burocrati, la prima conseguenza naturale sarebbe il nascere di pastoie intollerabili all'intero libero progresso della biologia molecolare. In particolare, la nascita della terapia genica, già difficile per molte ragioni, verrebbe rallentata da leggi, leggine e ordinanze. Poi, verrebbero meno ipotesi terapeutiche legate alla creazione di banche di cellule staminali e di tessuti, tutti originati dallo stesso individuo. Gli esempi negativi potrebbero moltiplicarsi fino a mettere in forse il progresso biologico in atto che è per molti versi simile a quello straordinario della fisica negli Anni 30. Attenzione quindi a politici e moralisti, ma anche ai funamboli della riproduzione] Il comportamento etico corretto è parte del bagaglio culturale dello scienziato, purtroppo non di coloro che si atteggiano tali ma mancano di solide basi. Tutti i veri uomini di scienza sanno darsi regole e ben sanno che non è il caso di scoperchiare senza controlli il vaso di Pandora. Pier Carlo Marchisio Dibit, S. Raffaele, Milano


SCIENZA DELLA VITA. PRO E CONTRO Sulla variabilità genetica Biodiversità: allarme ingiustificato
Autore: PIAZZA ALBERTO

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: VERNA MARINA, MARCHESINI ROBERTO
ORGANIZZAZIONI: TUTTOSCIENZE
LUOGHI: ITALIA

IL 26 marzo su «Tuttoscienze» sono comparsi due articoli intitolati «Le parole della clonazione» e «Frankenstein postmoderni», rispettivamente di Marina Verna e Roberto Marchesini, che mi hanno colpito per la diversità del tono e per la differente qualità del messaggio scientifico: mentre il primo riporta un glossario dei termini che oggi vengono usati, spesso a sproposito, sulla clonazione, il secondo, fin dal titolo, benché motivato dalle migliori intenzioni, rischia di diffondere informazioni inesatte e suscitare allarmi infondati. La tesi di Marchesini è che l'esempio di Dolly, l'ormai famosa pecora clonata, «non rappresenti un pericolo immediato per l'uomo, bensì decreti la fine degli animali domestici». Perché? Perché «la diversità biologica, in un mondo abituato all'uniformità organolettica, viene vissuta come un disvalore e pertanto anche la zootecnia si adegua». Mi sembra una spiegazione sbrigativa, più adatta a uno slogan che fondata su argomentazioni rigorose. La prima osservazione da fare è che la scelta riproduttiva sessuale, diversamente da quanto si dice nell'articolo, non è stata nella storia evolutiva «una scelta vincente» se per storia evolutiva s'intende quella di tutti gli organismi e non esclusivamente quella dei vertebrati. Da un punto di vista teorico è ancora molto discusso se la riproduzione sessuale sia più efficace della riproduzione agamica (quale è il meccanismo della clonazione) per generare più variabilità genetica. Infatti, se è vero che la riproduzione sessuale attraverso il meccanismo della ricombinazione è in grado di moltiplicare rapidamente il numero delle varianti nuove del patrimonio genetico di una specie, è anche vero che la mutazione, soprattutto quando agisce su un numero di individui molto grande che si riproducono in tempi brevi e quando ha un tasso superiore a quello che si riscontra nella specie umana, genera uguale se non maggiore diversità genetica. In altre parole non è scontato che l'effetto della clonazione, in generale, debba ridurre la variabilità genetica quando venga associata a sufficiente mutazione. Se poi dal generale passiamo allo specifico dell'uomo, dobbiamo essere ben coscienti che ogni intervento terapeutico può risultare un attentato alla diversità genetica della nostra specie: sinora non ci siamo posti il problema di questo rischio perché si può facilmente calcolare che il suo effetto sarà lontano nel tempo e abbiamo la fondata speranza che l'evoluzione culturale troverà il modo di neutralizzarlo. Tuttavia, tra gli argomenti di Marchesini quello che meno mi ha convinto è un altro: che la clonazione debba per forza decretare «la fine degli animali domestici» perché verrebbero creati «altri» animali, i «Frankenstein postmoderni, realizzati assemblando pezzi di diversa origine». Mi ribello a questa visione fantascientifica. 1) L'allevamento degli animali domestici, iniziato in modo sistematico con la nascita dell'agricoltura nel Neolitico 10.000 anni fa, è derivato da un'applicazione tecnologica che ha trasformato l'animale selvatico in un essere ad uso e consumo dell'uomo, contribuendo in modo determinante al progresso della nostra specie e non certo a quella degli animali selvatici. Mi sembra inconsistente e un poco ipocrita, dopo più di 10.000 anni di tecnologie sempre più raffinate tese a trarre sempre maggiori vantaggi dagli animali (nell'alimentazione, nel trasporto, nello sport) allarmarsi se oggi essi vengono usati per produrre, in quantità industriale, sostanze utili all'uomo anche dal punto di vista terapeutico. In ogni caso la generazione di animali transgenici cui l'articolo allude, aumenta (per definizione) anziché diminuire la variabilità genetica. 2) Molto concretamente uno degli scopi pratici che Wilmut e i suoi collaboratori si sono proposti con la clonazione della pecora è quello di produrre una quantità industriale di una sostanza utile nella cura dell'enfisema polmonare. Se il metodo si rivelerà economicamente vantaggioso, nei confronti di chi dovrà essere applicato il «principio di responsabilità» citato nell'articolo? Nei confronti della pecora clonata in quanto mette in pericolo la variabilità biologica delle pecore, o nei confronti dei nostri figli? 3) Paradossalmente, la clonazione, che va intesa come una tecnologia da adottarsi con fini ben precisi e regolamentati anche sotto il profilo di una possibile sofferenza degli stessi animali, potrebbe servire, se economicamente proponibile, per ripopolare rapidamente un'area ecologica di specie in via di estinzione. La biodiversità degli animali domestici - su ciò concordo pienamente - è un patrimonio che la nostra specie ha il dovere di salvare: ma la clonazione, se e quando verrà adottata nei loro confronti, soprattutto se verrà controllata nei fini e nei modi, non ne costituisce necessariamente un attentato. Anche sulla biodiversità occorre fare chiarezza. La varietà biologica degli animali domestici dipende principalmente dalla complessità culturale delle società in cui vengono allevati. In Nigeria, per esempio, dove abitano ben 235 gruppi etnici diversi, ma dove la domanda di cultura e di mercato è scarsa, vivono 14 milioni di pecore e capre, ma due sole varietà: una per le pecore e una per le capre. Oggi esistono al mondo più di 3000 varietà di animali domestici, la cui distribuzione geografica dipende sia dall'ecologia, sia, soprattutto, dalla qualità culturale dell'insediamento umano: in questo contesto reale, mi sembra che la clonazione animale, nella misura in cui si dimostrerà utile all'uomo e l'uomo sarà in grado di controllarla, potrà costituire un attentato alla biodiversità degli animali domestici così lontano nel tempo da non dovercene preoccupare oggi. Credo invece che ciò di cui dobbiamo preoccuparci sia l'insufficienza di una comunicazione adeguata tra mondo scientifico e mondo «laico», in questo includendo anche gli organi politici, culturali e di stampa. Non che oggi in Italia non si parli di argomenti scientifici e non vi siano ottimi divulgatori, ma si ha ancora la sensazione che la scienza sia patrimonio di pochi e che essa entri con difficoltà nella cultura dei più: in altre parole, che alla scienza manchi la capacità di incidere sulla vita della nazione e di arricchirla, anche materialmente. Alberto Piazza Università di Torino


SCIENZE A SCUOLA. ENERGIA La memoria del pendolo e il caos
Autore: BEDARITA FEDERICO

ARGOMENTI: ENERGIA
NOMI: DAVIES PAUL, SILARI MARCO
LUOGHI: ITALIA

GLI storici distingueranno tre livelli d'indagine nello studio della materia: il primo è rappresentato dalla meccanica newtoniana, il trionfo della necessità; il secondo è costituito dall'equilibrio termodinamico, il trionfo della probabilità. Ora vi è un terzo livello che emerge dallo studio dei sistemi lontani dall'equilibrio. Così scrive Paul Davies nel suo libro «Il cosmo intelligente» nella traduzione di Marco Silari, editore Mondadori. Prigogine e altri chiamano questi sistemi strutture dissipative. I sistemi dissipativi sono quelli in cui un'energia nobile (meccanica, elettrica, chimica) si trasforma in calore (energia degradata) e che riforniti nel tempo di energia nobile secondo una qualche legge possono a un certo punto assumere comportamenti caotici, a prima vista imprevedibili. Si è cominciato in questi casi a fare uso della parola caotico (caos deterministico) in contrapposizione alla parola aleatorio, che definisce un comportamento disordinato puramente casuale. Nascono in questo modo le sfumature di gergo proprie della fisica, a cui i dizionari non fanno a tempo ad adeguarsi, e che costituiscono il cruccio degli insegnanti di italiano, qualche volta sollecitandone l'ironia. Il pendolo reale può essere un esempio relativamente semplice di struttura dissipativa. Ce ne sono altre estremamente complesse, come il tempo meteorologico, e proprio perché troppo complesse lasciamole perdere. Esistono tanti tipi di pendolo. Nel caso più elementare il pendolo semplice è costituito da un corpo di piccole dimensioni, sospeso all'estremità di un filo, la cui massa deve essere trascurabile per non complicare il sistema dinamico. La lunghezza del filo deve rimanere rigorosamente costante. Questo pendolo ideale, isolato e senza attrito, una volta messo in moto continuerà a oscillare senza fine. Se mentre oscilla gli si dà un impulso, il pendolo si muoverà secondo un nuovo schema di moto, che continuerà a mantenere anche in seguito. Il pendolo conserva per sempre memoria del disturbo subito. Il periodo del pendolo, definito come il tempo necessario a fare un'oscillazione completa, è direttamente proporzionale alla radice quadrata della lunghezza del filo e inversamente proporzionale alla radice quadrata delle gravità del luogo dove l'oscillazione avviene. Questo vuol dire che più lungo è il pendolo, più lungo è il tempo per fare un'oscillazione completa; e vuol anche dire che se l'attrazione di gravità varia, il periodo di oscillazione varia in modo inverso. Su un'astronave, l'attrazione di gravità g diventa piccola, perché in gran parte compensata dalla forza centrifuga. Un astronauta che facesse oscillare il pendolo in quelle condizioni, lo vedrebbe oscillare molto lentamente, con un periodo lunghissimo. Poiché la relazione tra il periodo e g dipende nella formula dall'inverso della radice quadrata, la gravità ridotta a 1/10.000 di g, come nelle normali astronavi, farà aumentare di 100 volte il periodo di oscillazione (100 è l'inverso della radice quadrata di 1/10.000). Di conseguenza, un pendolo che sulla Terra abbia un periodo di un minuto, sullo Shuttle farà un'oscillazione in un'ora e 40. Naturalmente un astronauta che perdesse tempo a fare un esperimento di questo genere rischierebbe di essere licenziato subito: abbiamo soltanto fatto un esempio per definire il pendolo ideale. Ma il pendolo reale è una cosa diversa dal pendolo ideale, perché siamo in presenza dell'attrito, che consuma energia producendo calore (energia degradata). Qualunque sia il suo moto iniziale, se non intervengono forze dall'esterno, il pendolo reale pian piano si ferma. Il pendolo ha perso memoria della sua vita passata. Se invece, dall'esterno, viene sollecitato da forze, per esempio di tipo meccanico (energia nobile), può diventare in certe condizioni un sistema totalmente disordinato, che non ha più niente a che vedere con l'ordine ritmico che di solito gli è proprio. Il pendolo è diventato un sistema caotico. Federico Bedarida Università di Genova


SCIENZE A SCUOLA. MOSTRA A TORINO SUL RICICLAGGIO Le mille vite dei rifiuti: altro che immondizia Indirizzata ai ragazzi ma piena di insegnamenti per gli adulti. Fino al 30 aprile
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: ECOLOGIA, RICICLAGGIO, RIFIUTI, MOSTRE
ORGANIZZAZIONI: AMIAT, REGIONE PIEMONTE, PROVINCIA DI TORINO, ABET LAMINATI, WASTE MANAGEMENT, R.D.F., SACME, REPLASTIC
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: T. CRESCITA DELLA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEI CONTENITORI IN PLASTICA PER LIQUIDI DAL 1994 AL 1997

SIAMO sommersi dai nostri rifiuti] Quasi un astratto luogo comune che, a furia di sentirlo, alla fine non allarma più di tanto. Ma la mostra ospitata nel palazzo del Museo dell'Automobile di Torino, «Conoscere e giocare con i rifiuti», ha, tra gli altri meriti, quello di farcene letteralmente toccare con mano l'inoppugnabile concretezza già prima di entrare, con quei due alberi fatti di cartapesta e di contenitori di plastica, e poi, appena entrati, con quell'ammasso di ferraglia, radiatori, televisori sfondati, molle e rubinetti arrugginiti, spazzatura di officina metalmeccanica, resti di un naufragio tecnologico. Una mostra, «interattiva e multimediale» , realizzata da Radio Torino Popolare insieme con Regione Piemonte, Provincia, Comune di Torino, Amiat, programmaticamente indirizzata ai ragazzi ma piena di insegnamenti per i grandi; fatta non solo di denunce drammatiche, ma soprattutto di gioco e di ironia perché, sembra essere il sottinteso, se questi ragazzini che oggi trafficano con plastiche e metalli per costruire fantasiosi giocattoli sotto la guida di animatori avranno imparato la lezione, il futuro potrebbe essere meno catastrofico del presente. «E' difficile disfarsi dei rifiuti, non basta gettarli via», dice uno slogan della mostra. E allora via attraverso un autentico percorso di guerra, assediati dalla spazzatura, tra labirinti di bottiglie di plastica, balle di carta da recupero, blocchi di metallo, una «500» ridotta a un cubo di lamiere schiacciate, immagini di immensi campi di vecchi pneumatici per uscire infine dall'incubo e incontrare concetti come riciclaggio, raccolta differenziata, materia prima seconda (quella ricavata da materiale di scarto e pronta per essere rilavorata), rifiuto come preziosa risorsa; ecco, perfettamente funzionanti, modellini di impianti per il recupero di contenitori in plastica per liquidi (quello del consorzio Replastic di Novate Milanese), o per lo sfruttamento di vecchi pneumatici, spezzettati, macinati e avviati a una nuova vita, o ancora per il riciclaggio di bottiglie di vetro. Ecco, infine, alcuni prodotti ottenuti con i rifiuti sottratti al seppellimento nelle discariche: le bottiglie e i flaconi di plastica di Pet (polietilentereftalato) lavorato dal consorzio Replastic sono ridotti in scaglie o «flakes» che serviranno per la produzione di fibre, imbottitura e «pile»; la successiva lavorazione dei «flakes» ad opera della Montefibre dà il fiocco di fibra tessile «Terital Eco» di elevata qualità con cui si fabbricano i morbidi e caldi tessuti esposti, capi in «pile», maglioni, pellicce ecologiche (un capo di abbigliamento pesante 400 grammi «contiene» 10 bottiglie ex acqua minerale). Oggetti in plastica mescolati alla rinfusa senza tenere conto delle diverse carat-teristiche possono essere utilizzati ugualmente: la «plastica eterogenea», come viene definita, serve per costruire mobili da giardino, panchine, fioriere. Il Tefor ideato dalla Abet Laminati è il primo laminato plastico ottenuto da scarti di produzione: è utilizzato nel settore automobilistico e in genere dei trasporti, per imballi, come componente degli elettrodomestici. I pneumatici, frantumati fino a ridurli in polvere, si trasformano in suole per scarpe o guarnizioni o possono essere mescolati all'asfalto nelle pavimentazioni stradali che guadagnano in durata e resistenza. Un prodotto chiamato R.D.F. prodotto dal gruppo Waste Management derivato da rifiuti industriali e urbani contiene carta, cartone, plastica, legno, tessuti e costituisce un buon combustibile, usato in particolare nei cementifici. Ed infine ecco il materiale futuribile, che si produce con materia prima rinnovabile e non inquina quando finisce la sua vita attiva: è il MaterBi, prodotto dalla Novamont: è ricato dal mais, è completamente biodegradabile e può trasformarsi in concime. Con questo materiale la Sacme produce sacchetti di plastica, la Lecce Pen una penna, la Ciuffogatto ossi per cani, la Ivalda bastoncini per la toeletta delle orecchie. La mostra «Conoscere e giocare con i rifiuti» sarà aperta fino al 30 aprile, tutti i giorni dalle 10 alle 18 eccetto il lunedì; il biglietto (che dà diritto anche alla visita del Museo dell'Auto) costa 10 mila lire, ridotto 7000, studenti 4000, gratuito per gli insegnanti. Visite scolastiche: preferibile la prenotazione; telefono: 011-677.666.(v. rav.)


SCIENZE A SCUOLA. COME FUNZIONA UN GRANDE AEROPORTO Qui torre di controllo... Le complesse procedure per atterraggio, decollo, parcheggio
Autore: V_R

ARGOMENTI: TRASPORTI, ELETTRONICA, TECNOLOGIA, AEREI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

LA torre di controllo corrisponde agli occhi e al cervello dell'aeroporto. Nei grandi scali è una struttura solitamente divisa in due parti, ciascuna con caratteristiche e funzioni molto diverse: una parte sopraelevata rispetto alle altre costruzioni dello scalo, con grandi vetrate da cui è possibile osservare a occhio nudo o con il binocolo tutto il sedime aeroportuale con le piste, le bretelle, i raccordi, i piazzali di sosta; una seconda parte situata in genere al disotto della prima è invece priva di finestre perché di qui i controllori «vedono» attraverso quegli occhi elettronici che sono i radar. Gli aerei si avvicinano agli aeroporti di destinazione sotto la guida radio dei controllori dei centri regionali di controllo (in Italia sono quattro situati a Milano-Linate, Padova, Roma-Ciampino e Brindisi) che ne seguono tutto il volo sugli schermi dei loro radar a lungo raggio, dove essi compaiono sotto forma di un puntino arancione in movimento accompagnato da una serie di indicazioni utile a identificarli. Giunti a circa 80 chilometri dallo scalo gli aerei compaiono anche sugli schermi radar a corto raggio della torre di controllo. Da qui un primo controllore ne segue sul monitor la fase di avvicinamento (a mezzo radio indica, per esempio, la pista che deve essere usata, autorizza l'atterraggio immediato o «parcheggia» il volo su un circuito di attesa se a terra c'è molto traffico); un secondo controllore, in contatto visivo, impartisce l'istruzione per l'atterraggio vero e proprio (segnala forza e direzione del vento, visibilità, ecc.), e un terzo infine guida l'aereo a terra lungo i raccordi fino alla piazzola di sosta. La sequenza inversa viene seguita in partenza. Spetta alla torre, in particolare, dare via via l'autorizzazione alla messa in moto, al rullaggio e al decollo. Appena l'aereo si è sollevato abbastanza da essere agganciato dai radar a lungo raggio viene affidato ai controllori del centro regionale ed esce dalla competenza della torre. Ogni giorno (dati del '96) a Fiumicino (tre piste) atterrano o decollano in media 650 aerei, a Linate (una sola pista) 430. Va tenuto conto, però, che il traffico non è omogeneo per tutte le 24 ore, ma ha un «picco» tra le 7 e le 9 del mattino e un altro tra le 18 e le 20; in queste ore nella torre il lavoro diventa frenetico ed estremamente delicato per la necessità di mantenere la separazione tra gli aerei sia in volo sia in pista (minimo un minuto tra un movimento e l'altro), di alternare decolli e atterraggio e di guidare i velivoli a terra in un autentico labirinto di vie di rullaggio e piazzole percorse, oltre che dai velivoli, da decine di veicoli sfreccianti in tutte le direzioni. Gli addetti alle torri dei singoli aeroporti non agiscono isolatamente ma in stretto collegamento con i centri regionali di controllo, coordinati a loro volta a livello superiore; per esempio in Europa esistono organismi comunitari, come Eurocontrol, che stanno acquistando autorità crescente. Da alcuni anni, ad esempio, le autorizzazioni alla messa in moto vengono «filtrate» a livello superiore sulla base della conoscenza generale dello stato del traffico per evitare di intasare le aerovie e gli scali di destinazione. Vittorio Ravizza -------------------------------------------------------------------- 1. Tra 80 e 25 chilometri. Un controllore di volo, in una sala situata ai piedi della torre di controllo, prende l'aereo in carico e lo segue sul suo schermo radar. Per radio VHF (Very High Frequence), indica all'equipaggio la rotta da seguire, l'altitudine e la velocità (tra i 550 e i 600 chilomteri orari). 2. Da 25 chilometri all'atterraggio. Il controllore locale, dalla torre, dà il cambio al collega. La velocità dell'aereo scende all'incirca tra i 400 e 500 chilomteri all'ora. Quando l'apparecchio ha toccato terra il controllore locale trasmette al pilota la frequenza radio di controllo al suolo. 3. Al suolo. Il controllore al suolo contatta l'aereo all'uscita dalla pista e lo guida fino al suo arresto definitivo al terminal. Egli segue gli spostamenti di tutti gli aeromobili al suolo sul suo schermo radar sul quale è rappresentata la pianta dell'aeroporto. In genere può prendere in carico e controllare una dozzina di velivoli contemporaneamente. -------------------------------------------------------------------- La sorveglianza radar. La posizione e la velocità di ogni aero in volo sono rilevate dai radar al suolo, e trasmesse alla sala di controllo. Posizione degli aerei al suolo. E' segnalata dal radar situato sul tetto della torre di controllo e trasmessa ai controllori al suolo. -------------------------------------------------------------------- SCHERMO RADAR con copertura di un perimetro di 30 chilometri Contorno della città, zona interdetta al sorvolo Aeroporto, raffigurato semplicemente con tratti simbolizzanti le piste Differenti perimetri intorno all'aerostazione Corridoi aerei d'avvicinamento e di uscita Aereo che si muove a velocità reale Principali informazioni concernenti l'aereo: A (arrivo), P (partenza), Compagnia aerea, Numero del volo Livello del volo o altitudine in centinaia di piedi (un piede 30,5 centimetri circa) Velocità in decine di nodi (un nodo=un miglio-ora, cioè 1,852 chilometri orari).


SCIENZE A SCUOLA. ENERGIA La memoria del pendolo e il caos
Autore: BEDARIDA FEDERICO

ARGOMENTI: ENERGIA
NOMI: DAVIES PAUL, SILARI MARCO
LUOGHI: ITALIA

GLI storici distingueranno tre livelli d'indagine nello studio della materia: il primo è rappresentato dalla meccanica newtoniana, il trionfo della necessità; il secondo è costituito dall'equilibrio termodinamico, il trionfo della probabilità. Ora vi è un terzo livello che emerge dallo studio dei sistemi lontani dall'equilibrio. Così scrive Paul Davies nel suo libro «Il cosmo intelligente» nella traduzione di Marco Silari, editore Mondadori. Prigogine e altri chiamano questi sistemi strutture dissipative. I sistemi dissipativi sono quelli in cui un'energia nobile (meccanica, elettrica, chimica) si trasforma in calore (energia degradata) e che riforniti nel tempo di energia nobile secondo una qualche legge possono a un certo punto assumere comportamenti caotici, a prima vista imprevedibili. Si è cominciato in questi casi a fare uso della parola caotico (caos deterministico) in contrapposizione alla parola aleatorio, che definisce un comportamento disordinato puramente casuale. Nascono in questo modo le sfumature di gergo proprie della fisica, a cui i dizionari non fanno a tempo ad adeguarsi, e che costituiscono il cruccio degli insegnanti di italiano, qualche volta sollecitandone l'ironia. Il pendolo reale può essere un esempio relativamente semplice di struttura dissipativa. Ce ne sono altre estremamente complesse, come il tempo meteorologico, e proprio perché troppo complesse lasciamole perdere. Esistono tanti tipi di pendolo. Nel caso più elementare il pendolo semplice è costituito da un corpo di piccole dimensioni, sospeso all'estremità di un filo, la cui massa deve essere trascurabile per non complicare il sistema dinamico. La lunghezza del filo deve rimanere rigorosamente costante. Questo pendolo ideale, isolato e senza attrito, una volta messo in moto continuerà a oscillare senza fine. Se mentre oscilla gli si dà un impulso, il pendolo si muoverà secondo un nuovo schema di moto, che continuerà a mantenere anche in seguito. Il pendolo conserva per sempre memoria del disturbo subito. Il periodo del pendolo, definito come il tempo necessario a fare un'oscillazione completa, è direttamente proporzionale alla radice quadrata della lunghezza del filo e inversamente proporzionale alla radice quadrata delle gravità del luogo dove l'oscillazione avviene. Questo vuol dire che più lungo è il pendolo, più lungo è il tempo per fare un'oscillazione completa; e vuol anche dire che se l'attrazione di gravità varia, il periodo di oscillazione varia in modo inverso. Su un'astronave, l'attrazione di gravità g diventa piccola, perché in gran parte compensata dalla forza centrifuga. Un astronauta che facesse oscillare il pendolo in quelle condizioni, lo vedrebbe oscillare molto lentamente, con un periodo lunghissimo. Poiché la relazione tra il periodo e g dipende nella formula dall'inverso della radice quadrata, la gravità ridotta a 1/10.000 di g, come nelle normali astronavi, farà aumentare di 100 volte il periodo di oscillazione (100 è l'inverso della radice quadrata di 1/10.000). Di conseguenza, un pendolo che sulla Terra abbia un periodo di un minuto, sullo Shuttle farà un'oscillazione in un'ora e 40. Naturalmente un astronauta che perdesse tempo a fare un esperimento di questo genere rischierebbe di essere licenziato subito: abbiamo soltanto fatto un esempio per definire il pendolo ideale. Ma il pendolo reale è una cosa diversa dal pendolo ideale, perché siamo in presenza dell'attrito, che consuma energia producendo calore (energia degradata). Qualunque sia il suo moto iniziale, se non intervengono forze dall'esterno, il pendolo reale pian piano si ferma. Il pendolo ha perso memoria della sua vita passata. Se invece, dall'esterno, viene sollecitato da forze, per esempio di tipo meccanico (energia nobile), può diventare in certe condizioni un sistema totalmente disordinato, che non ha più niente a che vedere con l'ordine ritmico che di solito gli è proprio. Il pendolo è diventato un sistema caotico. Federico Bedarida Università di Genova




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