TUTTOSCIENZE 26 febbraio 97


SCIENZE A SCUOLA. VITA AL MICROSCOPIO Uno zoo dentro una goccia d'acqua
Autore: BENEDETTI GIUSTO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, OTTICA E FOTOGRAFIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Alcuni microrganismi contenuti in una goccia d'acqua visibili al microscopio

Prendete un quarto di litro d'acqua (va bene anche quella del rubinetto), aggiungete un po' di fieno, un po' di erba e 15-20 chicchi di grano. Fate bollire il tutto per 2-3 minuti e lasciate riposare per qualche giorno, fino a che non si formerà una leggera patina di muffa sulla superficie. Aggiungete a questo punto un cucchiaio di terra, un paio di foglie marce e un bicchiere di acqua di stagno (meglio se viene raccolta raschiando il fondo e se contiene anche qualche pianta acquatica). Lasciate riposare l'infuso per 5-6 giorni. Non si tratta, come si potrebbe pensare a prima vista, di un intruglio stregonesco, ma del modo migliore per ottenere una ricca coltura di microrganismi di acqua dolce; una goccia di quest'infuso, posta sotto il microscopio a un centinaio di ingrandimenti, vi svelerà uno straordinario mondo animale e vegetale. Il microscopio non è altro che un tubo che contiene un sistema di lenti: la lente sotto la quale si trova l'oggetto da osservare è detta obiettivo, quella a cui si avvicina l'occhio è detta oculare. Alcuni microscopi (i cosiddetti binoculari) sono muniti di due oculari, per poter osservare con entrambi gli occhi contemporaneamente. Alcuni hanno anche più obiettivi, installati su un disco detto revolver: girando il revolver si può cambiare obiettivo e variare l'ingrandimento dell'immagine. Il tubo è sostenuto da uno stativo, piuttosto robusto e pesante per impedire eventuali vibrazioni che renderebbero difficoltosa l'osservazione. Allo stativo sono fissate le viti di messa a fuoco: si tratta di rotelline che, girando, alzano e abbassano il tubo per portare l'obiettivo alla giusta distanza dal preparato. Nei microscopi più semplici esiste una sola vite di messa a fuoco, che fa compiere al tubo movimenti piuttosto grossolani; in quelli più raffinati, esiste una seconda vite, la vite micrometrica, che fa compiere al tubo movimenti minimi per una messa a fuoco perfetta. Il preparato da osservare si appoggia sul piatto, una piccola superficie piana con un foro al centro. Attraverso il foro (e attraverso il preparato microscopico) deve difatti passare della luce. E la luce viene fornita da uno specchio mobile, posto sotto il piatto. In molti microscopi, lo specchio è sostituito da un illuminatore elettrico. E vediamo ora cosa si deve fare. Innanzi tutto il microscopio deve essere posato su di un tavolo robusto e privo di vibrazioni; il tavolo può trovarsi in qualsiasi punto della stanza se il microscopio è provvisto di illuminatore, mentre deve essere di fronte a una finestra se l'illuminazione è a specchio. In quest'ultimo caso, si deve muovere lo specchio guardando nell'oculare, fino a che si ottiene la migliore illuminazione del campo di visione. Si allestisce poi il preparato, posandolo su un vetrino portaoggetti. L'oggetto che si vuole osservare deve essere molto piccolo, e soprattutto deve essere trasparente, in modo che la luce possa attraversarlo. E' quindi inutile, ad esempio, cercare di osservare un pezzo di carta, un insetto intero e cose simili: vedreste soltanto una macchia scura e poco più. Qualunque sia l'oggetto che volete osservare, è comunque utile, per migliorare la visione, coprirlo con una goccia d'acqua e coprire il tutto con un vetrino coprioggetti. A questo punto, si posa il vetrino sul piatto in modo tale che il preparato si trovi esattamente sopra il foro e... non si guarda] Non è uno scherzo: prima di avvicinare l'occhio all'oculare, girate la vite di messa a fuoco e fate scendere il tubo fino a toccare il vetrino. Poi, finalmente, potrete avvicinare l'occhio all'oculare e, facendo risalire lentamente il tubo, cercare la giusta messa a fuoco dell'immagine. Questa operazione vi eviterà di rompere inavvertitamente il vetrino (o, nei casi più sfortunati, la lente dell'obiettivo) muovendo il tubo nella direzione sbagliata. Giusto Benedetti


UN REBUS DELLA MEDICINA Quei prigionieri di se stessi Autismo: è legato alla carenza di un enzima?
AUTORE: COHEN ESTER
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: KANNER LEO
ORGANIZZAZIONI: ASSOCIAZIONE NAZIONALE GENITORI SOGGETTI AUTISTICI
LUOGHI: ITALIA

A quasi dieci anni dal successo di «Rain Man» che è valso l'Oscar a Dustin Hoffman nel ruolo di un autistico, Hollywood sta per fare il bis con «The Newports». Diretto da Steven Spielberg e interpretato da Robin Williams, il nuovo film racconterà la storia vera di un amore fra due persone affette da autismo. Il cinema ha provato spesso a descrivere il misterioso mondo di questa malattia, fino al recente «Nell» con Jodie Foster. Così pure la letteratura, da William Faulkner a Pearl S. Buck, da Philip K. Dick a Stephen King, ha presentato personaggi dai tratti autistici anche prima che il medico Leo Kanner, nel 1943, tentasse una prima descrizione scientifica della sindrome. L'autismo è tuttora una sfida per i ricercatori, un «puzzle» di cui sono noti solo alcuni tasselli. Se ne conoscono soprattutto le manifestazioni esteriori, un po' come se, per fare un esempio, volendo descrivere la cecità si potesse soltanto dire che chi ne è colpito urta frequentemente gli oggetti sul suo percorso oppure che non dirige lo sguardo verso chi gli si para davanti. Persino il nome «autismo» è in qualche modo improprio perché mutuato dal gergo della psicologia, dove è impiegato per descrivere, negli adulti, comportamenti di fuga dalla realtà. Cinquant'anni di studi dimostrano che è vero piuttosto il contrario: l'autistico è prigioniero dentro se stesso e, pare, per cause che nulla hanno a che fare con il desiderio inconscio di evitare il mondo esterno. Secondo il Dsm-IV (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders) dell'Organizzazione mondiale della sanità l'autismo è un disturbo dello sviluppo che compare entro i primi tre anni di vita, colpisce prevalentemente il sesso maschile e ha un'incidenza maggiore della sindrome di Down, 15 casi ogni 10 mila. Non è mai stato dimostrato alcun nesso fra autismo e etnie di provenienza, ceti sociali, culture e neppure comportamenti negativi dei genitori, sebbene su quest'ultimo punto sia basata la teoria della cosiddetta «mamma frigorifero». Il bambino autistico comincia a mostrare i primi sintomi intorno ai 24-30 mesi: il linguaggio si sviluppa lentamente, le parole sono spesso slegate dal loro significato, la comunicazione è prevalentemente gestuale, scarsa la capacità di attenzione. Spesso preferisce trascorrere la maggior parte del tempo da solo, non fa amicizia con i coetanei, evita lo sguardo altrui e non sorride; risponde in modo anormale agli stimoli sensoriali di vista, udito, tatto, dolore. A una scarsa attività immaginativa e di astrazione, si accompagna un comportamento talvolta di iperattività e talvolta di passività totale. Un bambino autistico può essere molto aggressivo e violento, anche verso se stesso, e ha una notevole tendenza a ripetere gesti e parole. La descrizione è necessariamente generica: c'è infatti una grande varietà di combinazioni fra queste manifestazioni e due bambini autistici possono comportarsi in modo del tutto differente. I disturbi autistici vengono tuttavia suddivisi in quattro principali categorie sotto la sigla Pdd, Pervasive developmental disorder (ce ne sono in realtà molte altre e soprattutto una diagnosi differenziale deve poter escludere le forme franche di ritardo mentale a sua volta non di rado associato a autismo): l'autismo vero e proprio, il Pdd-nos (not otherwise specified che si manifesta più tardi), la Sindrome di Asperger, che a differenza dell'autismo, presenta un linguaggio ben sviluppato, e la Sindrome di Rett che colpisce soltanto le femmine. Non esiste una teoria universalmente accettata sulle cause dell'autismo anche se, almeno su un fatto, gli esperti sembrano concordare: l'autismo non è una malattia mentale. La ricerca ha preso molte strade, dalla genetica all'immunologia, dalla neurologia alla biochimica e ciascuna ha ottenuto finora risultati significativi. Indagini con la tomografia a emissione di positroni (Pet) e con la risonanza magnetica (Rnm) hanno talvolta evidenziato differenze nella struttura del cervello degli autistici. Una ipotesi che gode oggi di buon credito, anche grazie al riscontro pratico nella terapia, è quella dell'intolleranza alimentare, che avrebbe all'origine una carenza enzimatica, in particolare al glutine, sostanza proteica contenuta nei cereali, e alla caseina del latte e dei latticini. Osservando diete rigorosissime molti autistici prima violenti e non comunicativi hanno avuto straordinari miglioramenti. La microbiologia ha poi dimostrato un legame tra le infezioni da candida, un fungo che vive normalmente sulle mucose dell'organismo, e autismo: anche in questo caso si sono registrati successi terapeutici somministrando un buon antimicotico. Per curare l'autismo, oltre alla sorveglianza alimentare e pochi farmaci, la scienza ha sviluppato metodi di «rieducazione» comportamentale (fra i più noti il Lovaas e il Teacch) che perlopiù tentano di rendere autosufficiente il soggetto almeno nelle funzioni essenziali sebbene si conoscano molti casi di persone autistiche meno gravi che sono in grado di condurre una vita quasi normale. A questi si aggiunge l'integrazione sensoriale, esercizi per facilitare la visione (anche per mezzo di occhiali speciali) e l'udito. Uno dei sistemi oggi al centro dell'attenzione e delle polemiche è quello della «comunicazione facilitata». Molte celebrità, da Richard Burton a Sylvester Stallone, hanno avuto figli autistici e si sono impegnati per la causa: «Sly» ha addirittura creato una fondazione per lo studio e la cura dell'autismo, scoprendo di essere in compagnia di milioni di persone. In tutto il mondo migliaia sono i centri di ricerca e trattamento e le associazioni di famigliari e volontari. Basta lanciare su Internet la parola «Autism» per vedersi a disposizione oltre 10 mila pagine. In Italia l'Associazione nazionale genitori soggetti autistici (Angsa, via Casal Bruciato 15, Roma, tel. 06-43.58.75.55), sorta nel 1985 e con 14 sedi regionali, ne inaugurerà una nuova, quella piemontese, l'8 marzo a Torino. L'autismo è una tragica condizione che inspiegabilmente affascina chi l'avvicina. Chi volesse saperne di più può leggere di A. Lurija «Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla» (Armando Editore) e del celebre Oliver Sacks (quello di «Risvegli»), «Un antropologo su Marte» (Adelphi). Ester Cohen


ESPERIMENTI Quando l'autistico comunica
Autore: E_CO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, COMUNICAZIONI, MALATI
ORGANIZZAZIONI: LINK, INTERNATIONAL AUTISM ASSOCIATION
LUOGHI: ITALIA

LA «comunicazione facilitata» è un metodo importato dall'Australia da Douglas Biklen dell'Università di Syracuse, Stati Uniti, e recentemente introdotto anche in Italia da Patrizia Cadei. Cerchiamo di far capire in che cosa consiste. Un tecnico specializzato e autorizzato sorregge (a seconda della gravità della malattia, che comporta a volte gravi difficoltà di coordinazione motoria) la mano o il braccio dell'autistico per consentirgli di usare una tastiera di macchina per scrivere o computer. Grazie a quello che può apparire soltanto un aiuto molto modesto, si è ottenuto che molti autistici scrivessero, e quindi comunicassero, raccontando la loro condizione «dall'interno», spesso esprimendo una situazione di drammatica solitudine e di grande desiderio di espressione fino a quel momento imbrigliato. Sulla rivista «Link», dell'International autism association - Europa, è recentemente apparsa la testimonianza, scritta con il metodo Biklen, di un autistico lieve, J.G.T. Van Dalen: «Ho scoperto nel corso degli anni - dice - che il mio modo di percepire le cose è molto diverso da quello di tutte le altre persone. Per esempio, quando io sono davanti a un martello, inizialmente per me è unicamente un insieme di pezzi senza alcun rapporto: noto un pezzo di ferro di forma cubica e, vicino, per pura coincidenza, una barra di legno (...). La parola martello non è immediatamente a portata di mano, ma emerge quando la configurazione è stata sufficientemente stabilizzata (...). Per me la percezione di qualche cosa equivale a "costruire" un oggetto». Nell'articolo racconta poi come da queste difficoltà che riguardano anche la percezione uditiva, dello spazio e del tempo, derivi la tipica resistenza degli autistici ai cambiamenti e la loro costante paura di tutto. La persistente osservazione di un oggetto «per ricostruirlo» nella mente e dargli un senso è alla base di particolari abilità degli autistici: chi non ricorda Dustin Hoffman in «Rain Man» davanti alla scatola di fiammiferi rovesciati che, sbalordendo il fratello Tom Cruise, ne sapeva dire il numero preciso? «Normalmente io vivo lo sguardo altrui come "doloroso" - prosegue Van Dalen - nel senso che è troppo penetrante. Mi piace paragonare gli occhi di un autistico agli occhi sfaccettati di un insetto: ci sono numerosi dettagli ma essi non sono integrati».(e. co.)


SCOPERTA AD AMBURGO C'è qualcosa oltre i quark Si annuncia una svolta per la fisica
Autore: MAIANI LUCIANO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, GERMANIA, AMBURGO

LA direzione del laboratorio Desy di Amburgo mercoledì scorso ha annunciato che i due esperimenti (denominati «Zeus» e «H1») che studiano le collisioni tra positroni e protoni all'anello di accumulazione «Hera» hanno messo in evidenza un numero di urti superiore a quanto prevede l'attuale teoria delle forze subnucleari, in una regione di energia finora inesplorata. La probabilità che i fenomeni osservati siano una fluttuazione statistica è inferiore all'uno per cento. Che cosa si nasconde dietro questo comunicato fatto con il linguaggio iniziatico dei fisici delle particelle subnucleari? Proviamo a spiegarlo. «Hera» è un complesso di macchine in cui vengono accelerate e fatte scontrare particelle di due tipi diversi: protoni (nuclei dell'atomo di idrogeno) con una energia di 800 gigaelettroni Volt (pari a 800 volte l'energia racchiusa nella massa del protone) ed elettroni o positroni (antiparticelle dell'elettrone, con identiche proprietà meccaniche e carica elettrica positiva), con una energia di 25 gigaelettroni Volt. Hera è in sostanza un potente microscopio, capace di sondare la struttura interna del protone ad una risoluzione di circa un millesimo del raggio del protone stesso, almeno un ordine di grandezza inferiore a quanto mai ottenuto in precedenza. Fin dagli Anni 70 sappiamo che il protone, a queste risoluzioni, appare composto da costituenti elementari: i quark, identificati già negli Anni 60 come costituenti del protone, e i gluoni, particelle associate alle intense forze che legano i quark stessi dentro il protone. Elettroni e positroni rimbalzano sui quark per effetto delle forze elettrodeboli, alle quali sono soggetti i quark ma non i gluoni. Questo effetto, accuratamente calcolabile nel quadro della teoria attuale - il cosiddetto «modello standard» delle particelle elementari -, diminuisce all'aumentare dell'angolo di deflessione dell'elettrone e diventa molto improbabile per urti che corrispondono a un rimbalzo «all'indietro» nel sistema del centro di massa quark-elettrone (o positrone). Proprio in questa regione, mai esplorata prima, si è osservato l'eccesso di eventi rispetto al previsto. E' un effetto relativamente piccolo (una decina di eventi in tre anni) ma molto sorprendente, vista l'accuratezza con cui la teoria attuale descrive i fenomeni finora osservati. «E' come sparare dei proiettili e vederseli ritornare indietro dritti sul naso», ha detto uno dei responsabili dell'esperimento. Proprio come nello storico esperimento di Rutheford che portò a identificare il nucleo atomico e le forze nucleari. Se verrà confermato, l'effetto osservato ad Amburgo potrebbe avere diverse interpretazioni, tutte di grande portata concettuale: l'esistenza di nuove forze tra quark e positroni a piccolissima distanza, la creazione di particelle mai osservate prima o, infine, un primo indizio di una struttura interna dei quark (si parla di particelle chiamate preoni). E' molto interessante, a questo proposito, ricordare che deviazioni analoghe sono state osservate qualche tempo fa al Fermilab di Chicago (Usa) nell'urto tra protoni e antiprotoni. L'interpretazione del risultato del Fermilab è resa più confusa dagli urti tra gluoni, la cui distribuzione nel protone non è conosciuta così bene come quella dei quark. Ma potrebbe essere significativo che entrambi i risultati, se dovuti a una nuova forza, indichino per quest'ultima una energia caratteristica dell'ordine del teraelettrone- Volt (mille volte la massa del protone), energia alla quale diverse teorie prevedono un cambiamento di regime delle forze. I dati del prossimo anno permetteranno di trarre conclusioni più precise. L'industria italiana ha contribuito in modo significativo alla costruzione di Hera, per iniziativa di Antonino Zichichi, allora presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e tuttora uno dei principali responsabili dell'esperimento Zeus, con la costruzione di circa metà dei grandi magneti superconduttori che formano il cuore dell'anello che accelera i protoni. Ciò ha permesso di formare in Italia una competenza industriale nei campi ad alta tecnologia della superconduttività e della criogenia, con importanti ricadute anche in altri settori. La nostra industria ha inoltre realizzato il grande magnete superconduttore di Zeus che serve a identificare la carica delle particelle. Fisici dell'Infn e delle università italiane (più di 60 ricercatori provenienti da università e da sezioni dell'Infn di Bologna, Cosenza, Firenze, Padova, Roma e Torino) partecipano ai due esperimenti, con una presenza particolarmente massiccia nell'esperimento Zeus. Luciano Maiani Presidente dell'Infn Istituto nazionale di fisica nucleare


SCIENZE FISICHE. ECOLOGIA L'aria, laboratorio chimico Come interagiscono gli inquinanti nelle città
Autore: NATALE PAOLO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, CHIMICA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ITALIA

LA constatazione che nell'aria delle grandi città industriali, dove maggiore è la sensibilità ambientale, da anni diminuiscono i principali inquinanti tenuti sotto controllo, maschera il dato che al di fuori dei «punti caldi» la tendenza è di verso opposto. Anche se sfugge alla normale percezione, le quantità di inquinanti gassosi originati dall'attività umana, sono, per un Paese a consumo energetico medio-alto come l'Italia, maggiori di quelle dei rifiuti solidi: circa 3-4 kg al giorno per abitante. Cioè scarichiamo nell'aria una quantità di rifiuti gassosi quasi doppia di quella che allo stato solido gettiamo nei cassonetti della spazzatura. Su scala planetaria i quantitativi emessi sono ormai da molti anni dell'ordine di 20 miliardi di tonnellate/anno. Poiché l'atmosfera ha un peso di circa 5,1 milioni di miliardi di tonnellate, è come se ogni anno aggiungessimo in ogni kg di aria 5 milligrammi di inquinanti. Poiché fenomeni di accumulo sono noti solo per poche sostanze (biossido di carbonio, metano), esistono evidentemente meccanismi con i quali le sostanze immesse vengono modificate e/o rimosse. Perlopiù le molecole immesse nell'aria non sono ossidate o lo sono parzialmente. Che l'ossidazione ulteriore si verifichi in atmosfera potrebbe apparire scontato dato che questa è costituita per oltre il 20 per cento dall'ossigeno, la presenza del quale è ovviamente necessaria ma non sufficiente. Perché si verifichi rapidamente l'ossidazione di un composto stabile, ad esempio di un idrocarburo, è necessario fornire alle molecole una iniziale energia di attivazione (la fiamma in un bruciatore a gas o gasolio, la scintilla in un motore a benzina). E' quindi in apparenza incomprensibile che l'atmosfera riesca a ossidare molecole anche molto stabili che di solito sono sottoprodotti di reazioni di combustione, quindi sopravvissute a condizioni termodinamiche molto più dure di quelle che si incontrano nell'aria. Ciò è dovuto alla presenza in essa di una serie di reattivi in tracce: ozono, acqua ossigenata, frammenti radicalici, particelle metalliche o carboniose oltre a radiazione ultravioletta ad alta energia, il tutto rimescolato senza posa dalla gran macchina eolica e solare. Infine esiste in natura una disponibilità illimitata della variabile tempo invece minimizzata nelle reazioni di combustione. La natura, al contrario dell'uomo, non ha fretta. Questo insieme di fattori chimici e fisici rende l'atmosfera un gigantesco reattore chimico e un efficace impianto di abbattimento per la maggior parte delle sostanze. Il problema dell'energia da fornire inizialmente alle molecole stabili per portarle allo stato attivato nel quale soltanto sono in grado di reagire, è aggirato con due meccanismi complementari. 1) La prima via si basa sulla disponibilità di radiazione ultravioletta in grado di scindere alcune molecole (ozono, biossido di azoto, aldeide formica) in frammenti di particolare reattività chimica chiamati radicali (OH, O, HO2, NO3). Il fatto che questi frammenti e i composti potenzialmente degradabili siano presenti in tracce rende improbabile l'incontro e la reazione, ma la probabilità aumenta con il tempo, che replica senza posa gli incontri tra molecole. I frammenti instabili citati sono in grado di promuovere reazioni con prodotti anche molto stabili: paraffine, monossido di carbonio, idrocarburi aromatici. Per ogni molecola esistono spesso diversi meccanismi concorrenti di degradazione della struttura chimica e geometrica spaziale e dei vari radicali con i quali essa interagisce. La difficoltà di prevedere l'evoluzione anche di una singola specie è comprensibile quando si consideri che la velocità delle varie reazioni in concorrenza, quindi dei prodotti che si formano, determinata oltre che dalle concentrazioni iniziali dei componenti, anche da radiazione e temperatura (variabili con clima, quota, latitudine, stagione, ora del giorno). Inoltre i prodotti di degradazione derivanti dalle molecole di partenza possono reagire a loro volta con reazioni e prodotti a cascata. Poiché i soli idrocarburi sono centinaia i derivati potrebbero essere migliaia. 2) Il secondo grande gruppo di reazioni invece di avvenire col supporto della luce solare e dei radicali avviene in soluzione acquosa all'interno delle gocce che costituiscono i corpi nuvolosi. Molti inquinanti si sciolgono con facilità nelle gocce in fase di crescita; nella soluzione sono sempre presenti anche ioni metallici o materiali carboniosi, che rappresentano i nuclei attorno a cui si è verificata la condensazione della goccia; essi fungono da catalizzatori naturali, facilitando le reazioni di ossidazione (ad esempio il biossido di zolfo viene convertito in triossido di zolfo e quindi in acido solforico, il biossido d'azoto in acido nitroso e nitrico). Successive reazioni di neutralizzazione conducono alla formazione di sali neutri o parzialmente acidi (solfati e nitrati di calcio, di ammonio). Quando le gocce aggregandosi raggiungono dimensioni sufficienti, precipitano trasferendo gli inquinanti contenuti nella nube al suolo. Questo meccanismo, noto come deposizione umida, è il più efficiente con cui l'atmosfera si depura degli inquinanti. Ironizzando su di un noto spot si potrebbe dire «più ne mandi su (di inquinanti), più ne vengon giù». Insomma, esiste una chimica atmosferica dei cieli sereni e una delle nuvole, una chimica diurna e una notturna, una chimica dei bassi strati atmosferici dove abbondano le molecole da degradare ed è scarsa la radiazione ultravioletta e una dell'alta troposfera con caratteristiche opposte. Come scrisse Shakespeare: «Vi sono più cose in cielo, Polonio, di quante tu ne possa immaginare»; anche se certo non si riferiva agli inquinanti. In definitiva da questo complesso insieme di fenomeni emerge che gli inquinanti immessi in atmosfera sono soggetti a una serie di reazioni che modificandoli possono renderli talora significativamente più aggressivi e quindi più pericolosi sia per l'uomo, sia, più spesso, per ecosistemi vulnerabili (foreste e laghi su suoli acidi, coltivazioni di particolare sensibilità). L'atmosfera rischia di apparirci come un vaso di Pandora nel quale conosciamo poco e male cosa viene introdotto e ancora meno cosa può uscire. In linea generale, tuttavia, la reattività dei composti degradati sinora identificati indica che queste molecole sono caratterizzate da una vita breve, il che impedisce un accumulo nell'ambiente aereo proporzionale alle quantità dei precursori emesse negli anni. I meccanismi di rimozione dall'atmosfera delle molecole inquinanti trasferiscono tuttavia il problema dall'ambiente aereo all'interfaccia suolo-atmosfera, dotata di maggiori, ma pur sempre limitate, capacità di assorbimento. Paolo Natale


SCIENZE FISICHE. INCENDIO IN ORBITA Americani ospiti della Mir Malconcia la «casa» spaziale russa
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, INCIDENTI, INCENDI
NOMI: BLAHA JOHN, KORZUN VALERI, KALERI ALEXANDER
ORGANIZZAZIONI: MIR, SPACE SHUTTLE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. La stazione Nir

UN piccolo incendio ha creato allarme l'altro ieri sulla stazione spaziale russa Mir. Il problema è stato prontamente risolto. Ma rimane il fatto che le condizioni di Mir sono ormai molto degradate. Le operazioni tuttavia continuano con regolarità. Alcune settimane fa John Blaha è tornato a casa secondo il programma previsto, ma la presenza americana su Mir continua con Jerry Linenger, che si è stabilito in quella che sarà la sua nuova casa fino a maggio. Blaha ha rimesso piede sul nostro pianeta dopo 128 giorni passati in orbita e un viaggio di oltre 7 milioni di chilometri attorno alla Terra. Il momento più emozionante della missione è stato senz'altro quello dell'apertura del boccaporto che mette in comunicazione la cabina dello Space Shuttle con la Mir. Lo scambio del rappresentante americano a bordo della stazione russa è stato solo uno degli obiettivi della missione dello Shuttle Atlantis. La navetta spaziale ha trasportato infatti un carico di tre tonnellate fra equipaggiamento, materiale logistico e campioni che verranno usati da Linenger e dai suoi colleghi russi per portare a termine gli esperimenti previsti nei prossimi mesi. Utilizzando speciali contenitori, l'equipaggio è stato anche in grado di trasportare una tonnellata di acqua dallo Space Shuttle ai serbatoi della stazione spaziale. L'acqua è un elemento preziosissimo a bordo e l'unica fonte di approvvigionamento è rappresentata dai razzi Proton che periodicamente visitano la Mir per assicurare il supporto logistico. Per varie ragioni, l'acqua è sempre stata piuttosto scarsa e soltanto con le visite dello Shuttle si è avuto un rifornimento idrico più che adeguato. La navetta spaziale usa «celle a combustibile» per produrre l'elettricità necessaria a bordo. Sono dispositivi che utilizzano il combustibile dei motori - idrogeno e ossigeno allo stato liquido - per generare energia elettrica attraverso una reazione catalitica che fornisce, come sottoprodotti, calore ed acqua. Normalmente entrambi vengono dispersi nello spazio ma, nel caso delle missioni destinate alla Mir, l'acqua viene raccolta per essere trasportata a bordo della stazione. Certamente la microgravità viene in aiuto di questi «facchini dello spazio» ed anche una ragazza minuta come Marsha Ivins può consegnare a domicilio, senza troppa fatica, i contenitori con oltre cento litri d'acqua. Mentre lo Shuttle era attraccato alla Mir, i due equipaggi si sono scambiati visite di cortesia e hanno avuto una discreta vita sociale. Uno degli aspetti più interessanti di questo programma russo-americano è proprio nella possibilità di lavorare insieme e di mettere a confronto le proprie esperienze di vita di tutti i giorni. Nei quattro mesi passati a bordo, Blaha ha avuto modo di approfondire la sua amicizia con i due cosmonauti russi: Valeri Korzun e Alexander Kaleri, che hanno condiviso con lui il periodo di training di oltre un anno in Russia. «Durante i mesi di addestramento a Star City abbiamo imparato a conoscerci» ha detto Blaha, «e una delle cose più importanti che porto con me sulla Terra, dopo questa esperienza a bordo della Mir, è l'amicizia che si è consolidata con i due compagni di viaggio». Non sorprende quindi lo scambio di abbracci che c'è stato quando l'equipaggio americano è tornato sull'Atlantis dopo sei giorni sulla Mir. Prima di abbandonare definitivamente l'orbita, la navetta ha compiuto due rivoluzioni attorno alla stazione a una distanza di circa 150 metri per effettuare una survey fotografica delle superfici esterne. La Mir è ormai alla fine della sua vita operativa e la manutenzione che gli astronauti devono effettuare in orbita è un elemento di primaria importanza per la sicurezza dell'equipaggio. Blaha ha viaggiato in un sedile speciale, quasi una culla, collocata nel compartimento inferiore dello Shuttle. Disegnato per facilitare il riadattamento alla gravità terrestre dopo un prolungato periodo di microgravità, questo sedile è stato usato per la prima volta da Shannon Lucid, al suo rientro dalla missione che ha stabilito il record di durata per un astronauta americano. La reazione dell'organismo è sempre un'incognita. Anche se in orbita si osserva uno stretto protocollo - con esercizi fisici quotidiani per mantenere il tono muscolare e ridurre la decalcificazione ossea - con un monitoraggio costante, da parte dei medici del centro di controllo di Mosca, c'è sempre un margine di incertezza su quali saranno le reazioni, una volta rimesso piede sulla Terra. Gli organi di equilibrio sono saturati dalla gravità terrestre e mantenersi in piedi può essere a volte molto difficile, almeno nelle prime ore dopo l'atterraggio. Ma nel caso di Blaha, come d'altra parte per Lucid, non ci sono state grosse sorprese e la loro esperienza sarà utilissima per gli altri astronauti in lista di attesa per la Mir. L'Atlantis ritornerà presto a visitare la stazione russa: a maggio partirà la missione STS- 84, nel corso della quale l'astronauta Mike Foale darà il cambio al connazionale Linenger. Umberto Guidoni Astronauta


SCIENZE FISICHE. CEMENTO IN ASSENZA DI PESO Una betoniera sullo Shuttle
Autore: RUSSO SALVATORE

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: MASTER BUILDER TECHNOLOGIES
LUOGHI: ITALIA

LE ultime novità sul calcestruzzo e sui materiali cementizi non arrivano da un convegno di accademici, ma da una recente missione dello Shuttle. Al termine di un esperimento eseguito a bordo della navetta spaziale si è infatti avuta la conferma sulla possibilità di produrre cemento nello spazio. Non si tratta di un progetto bizzarro, come forse si potrebbe immaginare ad un primo sguardo superficiale, ma di un programma di ricerca molto ambizioso, iniziato già ai tempi di «Apollo 16», quando il suolo lunare venne utilizzato come aggregato da calcestruzzo. Le ricadute scientifiche, ma anche commerciali, sono evidenti. In primo luogo la possibilità di confezionare un buon cemento in assenza di gravità rilancia i numerosi progetti di costruzione di basi fisse di ricerca sui pianeti, e sollecita un approfondimento delle tecnologie costruttive. D'altro canto, l'ambiente spaziale può essere ora immaginato come un cantiere di lavoro autosufficiente, con il recupero sul posto di aggregati e l'inizio delle procedure di miscelazione del cemento. Qualche dato sull'esperimento. Lo studio è stato eseguito su malta di cemento di tipo Portland, mentre un analogo campione veniva confezionato sulla Terra, seguendo le stesse procedure di impasto. Tra gli obiettivi principali, la rilevazione per confronto della resistenza a compressione e la valutazione mediante microscopio elettronico dell'idratazione del cemento e degli eventuali effetti della microgravità sulla struttura della malta. L'impasto della malta a bordo dello Shuttle si è rivelato tutt'altro che semplice. Per questo, la «Master Builder Technologies», che peraltro ha seguito l'intero progetto, ha predisposto una camera di miscelazione robotizzata, con un programma di lavoro già memorizzato: inizio della fase di miscelazione due ore dopo il lancio, con un periodo di 8 minuti, 12 giorni di esposizione in ambiente con microgravità e temperatura costante pari a 20oC. Dopo 12 giorni di viaggio e 27 di maturazione, il provino di malta di cemento Portland è stato sottoposto a prove meccaniche. La resistenza a compressione è risultata sensibilmente superiore nel campione confezionato a bordo della navicella, con un valore pari a 52 Mpa (Megapascal) rispetto al valore di 39 Mpa rilevato nel campione confezionato sulla Terra. Secondo i ricercatori, ciò probabilmente è dovuto a un processo di idratazione più adeguato. Tra gli altri risultati, un buon livello di indurimento, l'assenza di bolle d'aria e una perfetta riconoscibilità dello «scheletro» della microstruttura della malta. Quest'ultimo dato è particolarmente interessante: a differenza del campione confezionato a Terra, quello miscelato in assenza di gravità sembra conservare la memoria completa del processo formativo. Salvatore Russo


SCIENZE DELLA VITA. VITA DA GALLINE Dal pollaio alla galera La tortura degli allevamenti intensivi
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ZOOTECNIA
NOMI: STAMP DAWKINS MARIAN
LUOGHI: ITALIA

C'ERA una volta la gallina, il più felice degli animali domestici. Qualche compagna, un gallo e un nido per le uova nell'aia polverosa di un contadino era il meglio che potesse avere al mondo. Poi, dagli Anni '60, è salite la domanda di carni alternative e di uova. Stipata in una batteria, o ammassata con altre 2000 galline in un allevamento, la nostra è precipitata in uno stato di assoluta infelicità. Ma in questi lager di sofferenza ha trovato un avvocato difensore di grande prestigio: Marian Stamp Dawkins, l'etologa dell'Università di Oxford che ha fatto del benessere degli animali un principio etico da perseguire con approccio scientifico. Secondo Marian Dawkins, un animale non prova soltanto sofferenza fisica per una ferita o una malattia. Non diversamente da noi, prova dolore per l'impossibilità di soddisfare un bisogno, e ugualmente prova paura, noia, frustrazione, fame: stati emotivi sgradevoli frutto della selezione naturale che gli consentono di riprodursi e di sfuggire ai predatori. Caso emblematico, l'infelice gallina è diventata il suo oggetto di studio, come Marian stessa ci racconta. «E' l'ultimo nella scala dei valori degli animali domestici. Perdere un maiale, una mucca o un cavallo per una allevatore non ha la stessa importanza che perdere una gallina. Perciò il suo benessere conta veramente poco. Poi, come ho iniziato a studiarla, ho scoperto che è un animale intrigante: ha una buona memoria, è molto curioso, impara in fretta. Riconosce chi lo accudisce e gli dà da mangiare. E ha una ricchissima vita sociale». Ne dà un'idea il gallo della giungla delle regioni asiatiche, considerato il progenitore di tutti i polli domestici. Immaginate un galletto amburghese con qualche tocco di rosso in più, mettetelo a capo di un harem di 5 o 6 galline della sua stazza e inquadrate il gruppetto in una foresta, dove vaga compatto raspando nella lettiera alla ricerca di germogli di bambù. Di tanto in tanto gli animali si scavano una buca concedendosi un bagno di polvere, che ha la funzione di liberare le penne dai parassiti. Nel gruppo tutti si conoscono fra loro e ognuno sa qual è il suo rango e quello degli altri. Fra le galline esiste infatti un ordine gerarchico, che viene stabilito e mantenuto a suon di beccate. Trasportata nell'aia di un contadino, in migliaia di anni di vita domestica una gallina non ha cambiato le abitudini più di tanto. Ha continuato a far parte di un harem, dove ognuno si comporta secondo le regole della gerarchia sociale. Solo se un animale nuovo entra nel gruppo o se le galline vengono trasferite in un posto non famigliare, si ristabiliscono i ranghi a suon di beccate. Ha continuato a raspare per terra, a fare i bagni di polvere e a deporre le uova in un nido: comportamenti naturali della sua specie che, come ha dimostrato Marian Dawkins, equivalgono a bisogni. Come si conciliano queste necessità con le condizioni di un allevamento moderno? Nell'allevamento in batteria ci sono 4 o 5 animali per gabbia. Quindi la situazione sociale è vicina a quella del gruppo naturale. Qui le galline non possono raspare, nè fare un bagno di sabbia, non hanno un posatoio, nè un contenitore dove deporre le uova. Però si conoscono fra loro e non si azzuffano in continuazione. Invece negli allevamenti di grandi dimensioni, compresi quelli all'aperto dove sono libere di razzolare, si ha una situazione innaturale di migliaia di galline costrette a vivere insieme. Per accedere al cibo, all'acqua e ai nidi, una gallina deve muoversi da un posto all'altro e incontrare in continuazione «facce» sconosciute. Risultato: continue zuffe a suon di beccate. Una incomincia, e subito le vicine la seguono accanendosi sulla vittima. Se una pollastra al primo uovo perde sangue, viene assalita da una compagna, che è attirata dal colore rosso della ferita. Si ha il 10% di mortalità per queste aggressioni. Allora paradossalmente l'allevamento in batteria è migliore. In realtà nessuno dei due è l'optimum. Certo le continue beccate hanno conseguenze più gravi. In batteria si possono controllare le malattie, però una gallina ha a sua disposizione soltanto 450 cmq, la superficie di una pagina di una guida telefonica, sufficiente per consentirle di stare accovacciata. Non può allargare le ali, nè correre, o starnazzare. Di conseguenza le ossa sono molto fragili e le zampe spesso si rompono, quando una gallina viene trasferita in una stia per il viaggio al macello. Con 2000 polli da maneggiare, un allevatore non può che andare per le spicce, senza tanti riguardi. E non c'è modo di ridurre l'aggressività nei grandi allevamenti? In alcuni si ricorre all'espediente di abbassare la luce. Dopo un periodo di oscurità completa, il «giorno» è una grigia atmosfera dove gli animali mostrano scarsa vitalità. Neanche questa è una buona soluzione. Non sappiamo, perché non è stato studiato finora, se negli allevamenti di massa si potrebbero diminuire gli svantaggi distribuendo i punti di ristoro e i nidi in modo che si possano formare gruppi di animali famigliari fra loro. A questo punto è chiaro che la felicità di una gallina è strangolata dalle regole di mercato. Potrà mai avere condizioni più «umane», come le spetterebbe di diritto? Maria Luisa Bozzi


SCIENZE DELLA VITA. OBESITA' Si ricerca il «gene candidato»
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, GENETICA
LUOGHI: ITALIA

LE cause dell'obesità, cioè dell'eccessivo e diffuso accumulo di trigliceridi nell'interno delle cellule adipose con il conseguente aumento della loro massa, sono molte. Oggi si studia in particolare la genetica dell'obesità. La definizione di obesità fa riferimento a un limite convenzionale, peraltro difficile da stabilire. Apposite tabelle indicano i pesi «desiderabili» per le varie età in rapporto all'altezza. In genere si considera obeso colui nel quale l'accumulo di trigliceridi supera del 20 per cento il peso «desiderabile». L'obesità non è soltanto un inconveniente estetico; accresce anche i rischi per la salute: cardiopatia coronarica, ipertensione, diabete, calcoli biliari, artrosi. Le cause sovente si intrecciano fra loro: mangiare troppo, sedentarietà, difetti del metabolismo, fattori genetici. A proposito di questi ultimi, in una popolazione omogenea socio- economicamente i fattori genetici devono essere importanti nel determinare l'obesità. Si calcola che il 20% degli europei e dei bianchi degli Usa fra i 20 e i 60 anni siano obesi, ma si arriva al 40% se si considerano le donne dell'Europa dell'Est e del Mediterraneo e le donne di colore degli Usa. In certi Paesi dell'Asia e dell'Africa l'obesità è meno frequente, 10-15%, in Cina il 7%, in India addirittura il 3%, nell'America del Sud e nei Caraibi invece è prossima a quella degli europei. Vi sono poi casi particolari come gli abitanti della Melanesia, della Micronesia e della Polinesia: il 70% delle donne e il 65% degli uomini dell'isola di Nauru, in Micronesia, sono obesi. Certamente qui i fattori genetici prevalgono. Negli ultimi tempi i genetisti hanno fatto indagini sui gemelli, gli adottati, e vari membri di famiglie con casi di obesità. Sembra che l'ereditarietà dell'indice della massa corporea (Body mass index, Bmi = peso-statura) sia compresa fra il 25 ed il 40%. In una ricerca svolta da Bouchard a Quebec dodici coppie di gemelli ricevettero per 100 giorni mille calorie in più delle loro necessità abituali: vi fu un aumento significativo del peso e del tessuto adiposo, ma con importanti differenze, non casuali bensì caratteristiche dei due membri di ciascuna coppia. Nel genotipo vi sarebbe dunque la spiegazione dei mutamenti del peso e della massa adiposa in seguito ad una prolungata modificazione del bilancio energetico. L'obiettivo è identificare i geni dell'obesità. Il metodo più comune è quello del «gene candidato», ossia un gene il cui prodotto possa essere implicato nei processi fisiopatologici che determinano l'obesità. Le tecniche di biologia molecolare permettono di individuare numerosi geni coinvolti nello sviluppo d'un eccesso di massa grassa: geni corresponsabili della termogenesi, del metabolismo del tessuto adiposo. Parecchie associazioni sono state descritte ma l'interpretazione è delicata. Ricerche sono in corso attualmente in molti laboratori. E' importante lo studio di animali aventi nella loro patologia, a somiglianza dell'uomo, l'obesità. Vi sono topi che possono manifestare precocemente una obesità accentuata, associata a iperfagia e riduzione dei consumi energetici. E' stato identificato con la sigla ob un gene (Y. Zhang e altri su Nature, 1994) nel cromosoma 6, da ritenere per molte ragioni responsabile in quanto, se alterato, non codificherebbe una proteina importante per la regolazione del peso (J. Halaas su Scien ce, 1995). La somministrazione di questa proteina al topo produce in due settimane una perdita di peso del 30%, associata a una riduzione del consumo di cibo e a un aumento dei consumi energetici, probabilmente per un'azione a livello dell'ipotalamo. J. Friedman ha proposto di chiamarla «leptina» (ormone dell'esilità). Sono ricerche all'inizio ma in pieno sviluppo. Certamente, ripetiamo, il numero dei geni in rapporto con l'obesità è elevato. Per il momento non si può parlare di identificazione dei predisposti, tuttavia la genetica dovrebbe condurre a una migliore comprensione, cellulare e molecolare, dell'obesità, da cui potrebbero derivare nuovi indirizzi terapeutici fondati su precisi meccanismi fisiopatologici. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE DELLA VITA. ALBERI E ACQUE Dai suoni della natura alla musica nei parchi
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL giardino - come disse Ionesco - è un viaggio attraverso paesaggi reali o immaginari visitati o sognati. E' bello entrare in un giardino o in un parco semplicemente per vederlo, per scoprirlo. Da quell'incanto dovremmo lasciarci aiutare a svolgere la nostra storia interiore, la nostra avventura, leggendo i messaggi del mondo naturale. Uno di questi messaggi ci viene dal suono prodotto dal vento che stormisce tra le fronde degli alberi o soffia impetuoso, dagli uccelli, dall'acqua che saltella da un sasso all'altro, zampilla dalle fontane, scorre in percorsi più o meno serpeggianti, si infrange in cascate spumeggianti. La storia del giardino è profondamente legata all'acqua, interpretata nelle varie nazioni e lungo i secoli in modi diversi: nei climi caldi del Medio ed Estremo Oriente con le grandi vasche coltivate a ninfee; come simbolo di tranquillità e perfezione nel giardino cinese e giapponese. Nell'Europa medioevale la sorgente e il pozzo diventano il punto focale del giardino claustrale: l'acqua è elemento purificatore, mentre la vasca con le carpe è fonte di cibo e lo stagno in cui il martin pescatore si tuffa a caccia delle sue prede è luogo di divertimento. In Spagna le fontane e i cortili dell'Alhambra con le loro acque aggiungono vitalità e suono a un superbo complesso che altrimenti avrebbe un aspetto rigido e severo. Con il Rinascimento e poi il periodo barocco l'acqua raggiunge il suo apice di impiego in Italia e in Francia grazie all'abilità di scenografi e di ingegneri idraulici che seppero creare giochi d'acqua, teatri d'acqua, scherzi d'acqua insuperabili. Basti pensare a Villa d'Este a Tivoli, modello imitato in tutta l'Europa per le affascinanti melodie del Viale delle Cento Fontane, della Fontana del Drago, dell'Ovato, della Natura e di Nettuno. Qui si trova il celebre organo idraulico, un automa costruito con grande arte che per mezzo dell'aria spostata dal precipitare di cascate d'acqua faceva risuonare delle canne d'organo e metteva in movimento delle figure. A Villa Lante a Bagnaia, nel Lazio, in una villa di campagna realizzata per il Cardinal Gambara, l'acqua scorre lungo una catena di pietra dalla forma di gambero. All'Isola Bella, sul Lago Maggiore, in dieci terrazze a forma di piramide tronca, abbellito da vasche e fontane si snoda il giardino barocco più importante d'Italia; qui il Verbano, il Toce, il Ticino e due Ninfe acquatiche zampillano da una costruzione a forma di conchiglia. A Pegli, a Villa Durazzo Pallavicini, il Canzio aveva realizzato i famosi giochi d'acqua nascosti tra la vegetazione: manovrando alcuni congegni, i visitatori ignari venivano investiti da spruzzi di acqua creando meraviglia e trambusto. L'uso dell'acqua a Versailles ha raggiunto l'aspetto più spettacolare: pompe e mulini portavano l'acqua dalla Senna per fare funzionare ben 1400 fontane] Con l'avvento del giardino inglese, l'acqua ha assunto aspetti più naturali: furono scavati grandi laghi, creati canali, valli furono chiuse da dighe, il paesaggio veniva ridisegnato. Oggi l'acqua rimane il sogno di molti progettisti: con essa si ottiene una maggiore vitalità e flessibilità nel disegno del giardino e del parco, consentendo anche l'inserimento di specie interessanti, come la Brunnera, una pianta rustica con foglie a forma di cuore e minuscoli fiori di colore blu, o la Gunnera manicata, celebre per la dimensione delle sue foglie (è infatti la specie a foglie più grandi che si possa fare crescere nel giardino), o la Hosta fortunei, dalle foglie grigio verdi, o la Caltha palustris dalle foglie a forma di cuore con fiori simili a piccoli ranuncoli. Sul tema del suono nei parchi, per iniziativa dell'associazione La Nuova Arca, il 21 e 22 marzo si terrà negli studi televisivi della Rai di Torino, in collegamento con la Columbia University (New York) e l'Istituto italiano di cultura a Los Angeles, il convegno «Accordi incidentali». Parallelamente al convegno viene rivolto l'invito a compositori europei di realizzare opere musicali ispirandosi ai parchi della Regione Piemonte. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. PSICHE E CUORE Stress artificiale in laboratorio
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, PSICOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE MAUGERI
LUOGHI: ITALIA

STRESS e patologie cardiovascolari, stress e infarto. In un laboratorio sulle colline del Novarese si riproducono emozioni e sensazioni sgradevoli per verificare quanto un soggetto è a rischio e sino a che punto ci sia una correlazione tra psiche e cuore. Alla Clinica di Veruno Fondazione Maugeri, l'unico centro in Piemonte specializzato in medicina riabilitativa qualificata, il laboratorio per lo studio dello stress e del sistema nervoso autonomo si avvale di medici e psicologi e di una strumentazione preparata da bioingegneri in grado di captare anche le minime reazioni cardiache. Una camera ovattata e insonorizzata, il paziente disteso sul lettino con i sensori applicati a torace-braccia-mani-dita-caviglie e collegati a monitor, sfigmomanometro, elettrocardiografo. Muti i telefoni, luci soffuse e sottofondo musicale dolce. Insomma, tutte le condizioni di relax che trasmettono a uno dei monitor il segnale prevalente del sistema vago rispetto a quello simpatico: la dimostrazione che il paziente è in condizioni di riposo. A questo punto il test assume una svolta imprevista, e a sorpresa, con l'intervento di una psicologa che riproduce per il soggetto una condizione disagevole e opprimente. S'inizia con un calcolo aritmetico: «Che cosa fa 1013 meno 17, risponda veloce, non ci pensi. .. ha sbagliato, ricominciamo daccapo... più veloce, impiega troppo tempo». E via di seguito in rapida successione. Uno stress mentale che dura una decina di minuti e che coinvolge emotivamente il paziente, il quale non riesce ad arrivare sotto la soglia dei 960, ma quasi sempre sbagliando e ricominciando. La psicologa è riuscita a riprodurre in laboratorio una condizione abbastanza comune di vita quotidiana, quando dobbiamo confrontarci con un superiore o non siamo in grado di rispondere con calma e in modo adeguato a una situazione, appunto, di stress. Ed ecco la reazione dell'organismo, che i medici definiscono «distress»: mentre la frequenza cardiaca oscillava fra i 64 e i 74 battiti, la pressione arteriosa è passata - in quei dieci minuti che sembravano opprimenti e interminabili - da 115 a 140. E anche la curva del sistema simpatico ha avuto un'impennata, annullando quello vago. Seconda fase. L'«intervista strutturata», che comprende altri coinvolgimenti emotivi, riguardanti la vita privata (situazione finanziaria, rapporti di lavoro, relazioni affettive, sfera sessuale): ma sempre sotto l'incalzare ferreo della psicologa. Gli effetti dell'attivazione psico-emotiva sono essenziali quando, di fronte a soggetti affetti da cardiopatia ischemica, diventano essenziali per analizzare le risposte normali o patologiche. Il test comprende anche lo «Stroop color word», che richiede il riconoscimento del colore di una parola, in contrasto con la tendenza (più forte) di denunciare il significato della parola stessa. Gianfranco Quaglia


SCIENZE A SCUOLA. In cucina Il legno batte la plastica
Autore: CAMPANA STEFANELLA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ALIMENTAZIONE
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA', FEDERLEGNO, JOURNAL OF FOOD PROTECTION
LUOGHI: ITALIA

MEGLIO il buon vecchio tagliere di legno o quello di plastica ormai sempre più diffuso? Quale materiale offre maggiori garanzie contro il rischio di contaminazioni da parte di microorganismi? Questo umile ma utile strumento di lavoro che troviamo nelle nostre cucine, nei ristoranti, nelle macellerie e nei grandi mattatoi è stato al centro di un'accesa diatriba che ora, finalmente, dovrebbe essere superata da una direttiva europea in procinto di essere accolta dalla legislazione italiana. Una direttiva - spiegano alla Federlegno, l'associazione investita del problema - che non si schiera a favore di uno dei due materiali, ma semplicemente precisa come i taglieri, non importa se in legno o in plastica, devono essere accuratamente puliti dopo il loro uso. Anche l'Istituto Superiore di Sanità, che si era avvalso della consulenza del professor Caserio dell'Università di Bologna, nel rispondere al quesito della Federlegno era arrivato alla stessa conclusione della Direttiva europea. L'Istituto, dopo aver ricordato che la legislazione italiana vieta l'utilizzo del legno negli stabilimenti di sezionamento e disosso e nei macelli riconosciuti (decreto legislativo n. 286 del 18 aprile '94), ma al contrario consente l'uso di ceppi, taglieri e superfici di legno nelle macellerie, spacci di salumerie e gastronomia, cucine e ristoranti - riferiva una lettera del ministero della Sanità indirizzata alla Federlegno. In questa si precisava che «l'utilizzo dei taglieri in legno come di quelli costituiti da altri materiali è comunque subordinato ad una loro accurata sanificazione dopo l'uso, attraverso idonee operazioni di pulizia». Come dire che la contaminazione di germi patogeni dagli alimenti alle superfici, e viceversa, è sempre in agguato se non ci si attiene alle debite attenzioni di pulizia e igiene nonché alle operazioni di ordinaria manutenzione, ovvero raschiamento con coltello e con spazzola, disinfezione, raschiamento finale con spazzola. Comunque, stando al verdetto dell'Istituto Superiore della Sanità, non c'è differenza di rischio microbiologico tra un tagliere in plastica e uno in legno. Ma c'è chi, invece, spezza una lancia a favore di quelli in legno. Uno studio pubblicato nel 1994 sul «Journal of Food Protection» si schierava a favore dei taglieri di legno in quanto prove sperimentali di contaminazione avrebbero messo in evidenza una minore carica batterica rispetto a quelli in plastica. Non solo. Sempre secondo la stessa pubblicazione, i batteri presenti sul grasso residuo sarebbero eliminati più facilmente pulendo i taglieri in legno con acqua bollente, a differenza - sempre secondo la stessa rivista - delle superfici in plastica, che rimarrebbero più profondamente incise dalle lame dei coltelli. Anche una ricerca effettuata in due giorni (31 maggio e 3 giugno '96) sui taglieri in uso presso la cucina centrale dell'ospedale regionale di Bolzano (in legno di faggio e in teflon) ha portato un contributo di chiarezza. E ha confermato le conclusioni dello studio riportate dal «Journal of Food Protection». A 18 ore dalla pulizia con strigliatura e bruciatura con alcol dei taglieri non erano emerse sostanziali differenze di rischio microbiologico. Eppure il tagliere di legno si aggiudicava una piccola vittoria nei confronti del più «moderno» tagliere di plastica: risultava infatti, al termine della fase di lavorazione delle carni, meno colonizzato da microorganismi. Stefanella Campana


SCIENZE A SCUOLA. MULTIMEDIA Enciclopedie e atlanti ormai tutto in cd-rom
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, COMUNICAZIONI, DIDATTICA
ORGANIZZAZIONI: RIZZOLI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Grande Atlante del corpo umano»

L'ULTIMA generazione dell'era di Gutenberg, cioè quella cresciuta esclusivamente sulla carta stampata, ha ben presente il problema delle enciclopedie: invecchiano. La lotta contro le rughe enciclopediche è frustrante. Quando l'opera esce, alcuni personaggi registrati come viventi sono già morti. Nuove scoperte sono avvenute in ogni settore scientifico. Personalità emergenti non esistono ancora tra le voci registrate. Confini geografici sono cambiati. Regimi politici sono caduti. Le redazioni provvedono agli aggiornamenti, è vero. Ma è sempre difficile mettere insieme i vari pezzetti che periodicamente vanno a formare i volumi di aggiornamento. Oggi accanto alle enciclopedie su carta, che peraltro rimangono indispensabili, incominciano ad affermarsi quelle su cd-rom. E qui il problema dell'invecchiamento può trovare la sua cura radicale. E' il caso dell'«Enciclopedia Rizzoli 97»: ogni mese può essere aggiornata accedendo a un archivio su Internet. Le voci possono così seguire l'evoluzione dell'attualità in tempo quasi reale. L'opera, che costa 199 mila lire e richiede un personal computer di prestazioni modeste (8 MB di Ram, lettore di cd-rom a doppia velocità), ha una base informativa di 70 mila lemmi, di cui il 60 per cento enciclopedici e il 40 per cento lessicali. Ben 15 mila immagini, un'ora di documenti audio, 30 minuti di documenti video, una cronologia e 250 cartine geografiche interattive integrano i testi. E poiché l'opera si rivolge ai giovani, contiene anche vari giochi di apprendimento. La Rizzoli affianca la sua enciclopedia multimediale a molti altri cd-rom progettati con specifiche finalità didattiche: un «Atlante del mondo» con 4 ore di audio e duemila animazioni e illustrazioni; un «Grande Atlante del corpo umano» con 90 mila termini e 100 animazioni; un «Grande Atlante della scienza» con 80 mila parole e due ore di audio; una storia delle 200 più comuni invenzioni, intitolata «Funziona così»; un «Grande Atlante della natura»; una «Enciclopedia dei minerali» che si avvale di 60 modellini animati. Insomma: quella che va delineandosi è una vera e propria biblioteca scolastica multimediale. Le distanze tra i videogiochi e i cd-rom didattici si accorciano sempre più. La grafica e le varie interfacce sono quasi sempre molto accattivanti e ben progettate per favorire la «navigazione» attraverso gli ipertesti. La possibilità di stampare le pagine che interessano consente agli studenti di riorganizzare le informazioni in «ricerche» personalizzate. Non si pensi però che questi preziosi strumenti didattici rendano inutili i libri e le lezioni: anzi, presentando un sapere fortemente destrutturato, esigono più che mai una guida alla visione critica e d'insieme delle informazioni presentate. Senza questo inquadramento, c'è il rischio che lo studente apprenda molte nozioni, ma in modo appiattito, senza la capacità di valutarle e di disporle in un ordine gerarchico. Un insieme di nozioni, ricordiamocelo, non è di per sè una garanzia di cultura. Piero Bianucci


SCIENZE A SCUOLA LE PAROLE DELL'INFORMATICA - A
AUTORE: MEO ANGELO RAFFAELE, PEIRETTI FEDERICO
ARGOMENTI: INFORMATICA
LUOGHI: ITALIA

Analogico. E' analogico un apparato di elaborazione o comunicazione che opera su segnali i quali riproducono la forma del fenomeno fisico che si vuole rappresentare. Per esempio, la tradizionale telefonia è analogica perché il segnale elettrico che viene trasmesso sul filo riproduce con continuità la forma dell'onda di pressione che l'apparato vocale di chi parla - polmoni, corde vocali, cavo orale e nasale, lingua, labbra - produce nell'aria. Il concetto di analogico è generalmente contrapposto a quello di digitale o numerico caratterizzato dalla trasmissione di soli numeri che rappresentano generalmente i valori dei segnali a intervalli regolari di tempo. Ad esempio, nella telefonia digitale della rete ISDN, Integrated Services Digital Network, ormai diffusa sull'intero territorio nazionale, la voce viene trasmessa come successione di 8000 numeri al secondo. Questi numeri rappresentano i valori del segnale a intervalli regolari di tempo. Un orologio a lancette può essere considerato analogico, perché le lancette si spostano con continuità, mentre un orologio a indicazione numerica dell'ora è evidentemente uno strumento digitale. La tecnologia digitale consente una qualità più elevata di quella analogica, per cui in prospettiva le tecnologie analogiche oggi ancora dominanti - telefono, radio, televisione - verranno progressivamente sostituite dalle corrispondenti tecnologie digitali. Un calcolatore analogico è uno strumento usato per modellare la realtà e le sue leggi con tecniche analogiche, ossia che utilizza componenti generalmente elettronici per trattare segnali variabili con continuità. Ad esempio, un sommatore analogico è un circuito elettronico a due ingressi e un'uscita, il cui valore di tensione è, istante per istante, uguale alla somma dei valori dei segnali di tensione applicati agli ingressi. La maggior flessibilità e facilità di programmazione dei calcolatori numerici (o digitali che dir si voglia) ha praticamente determinato la scomparsa dei calcolatori analogici dalla scena dell'informatica.




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