TUTTOSCIENZE 4 dicembre 96


COS' E' LA LITOSFERA Continenti alla deriva Viviamo su una placca di roccia che galleggia
Autore: VARALDO ANTONIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Mantello terrestre

La litosfera, la parte superficiale del nostro pianeta, è una placca di roccia solidificata che "galleggia" sulla parte sottostante parzialmente fusa; ha uno spessore di circa 70 chilometri sotto gli oceani e di 100-150 chilometri sotto i continenti. Per rendere l'idea dell'entità di tale spessore basti ricordare che il raggio della Terra è di 6370 chilometri. La parte più superficiale della litosfera è la crosta, più sottile quella oceanica e più spessa quella continentale. Quest' involucro non è rigido ed immobile bensì frazionato in una ventina di placche che si muovono allontanandosi o urtandosi le une con le altre; ne derivano due tipiche strutture, le dorsali oceaniche e le zone di subduzione. Le dorsali oceaniche sono delle "crepe" originatesi lungo la linea di allontanamento di due placche, caratterizzate da fuoriuscita di materiale caldo dagli strati più profondi del pianeta attraverso vulcani sottomarini: esempio significativo è quello della dorsale medio-atlantica che percorre tutto l'oceano Atlantico da Nord a Sud e che ne ha determinato la nascita circa 180 milioni di anni fa. La solidificazione del materiale fuoriuscito dalla spaccatura vulcanica porta evidentemente ad un aumento del volume della crosta solida; a compensazione di ciò lungo la linea di scontro di due placche si ha subduzione di una placca sotto l'altra: così parte della crosta torna a fondersi nel mantello sottostante. Lungo questo piano di immersione si originano i terremoti profondi. Strettamente collegati con la collisione tra placche sono i fenomeni orogenetici: nelle fasi iniziali di scontro una placca si infila sotto l'altra originando forti attriti e determinando inspessimento ed innalzamento del margine della placca sovrastante. Ma il culmine del processo si raggiunge quando sono i continenti di due placche diverse a scontrarsi: si innesca così il caotico processo di formazione di una catena montuosa con i terreni dei due continenti e dell'oceano scomparso coinvolti in un imponente fenomeno di inspessimento della crosta. Anche le Alpi si sono originate in questo modo: circa 80 milioni di anni fa i due continenti, Europa a Nord e Adria a Sud, erano separati da un oceano, il bacino ligure-piemontese; il riavvicinamento delle placche ha determinato la chiusura dell'oceano e poi lo scontro tra i due continenti: la catena alpina si è così originata per sovrapposizione dei terreni del continente meridionale a quelli dell'oceano e del continente europeo. Questo appilamento, originato da grandissime forze di compressione, è stato accompagnato da pieghe e fratture dei diversi terreni che hanno creato ulteriore disordine. Lo studio delle caratteristiche petrografiche dei diversi tipi di roccia permette agli studiosi di capire quali siano i sedimenti oceanici e quelli dei margini continentali, quali i materiali liberati dai vulcani sottomarini, quali le rocce derivate dalla crosta profonda continentale o oceanica e di costruire, infine, un modello realistico di evoluzione dell'orogenesi. Una curiosità: le dorsali oceaniche non hanno andamento lineare ma sono costituite da tante spaccature, una di seguito all'altra, che originano così zone di forte attrito, le faglie trasformi. La famosa faglia di San Andreas in California è una struttura di questo genere: ecco spiegati i frequenti e violenti, anche se poco profondi, terremoti della zona di San Francisco. Antonio Varaldo


I SEGRETI DEL GHIRO Vivace e dormiglione Per i Romani era una ghiottoneria
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

QUAND'E' che un animale diventa interessante per l'uomo? La risposta purtroppo è semplice. Quando si scopre che è buono da mangiare. Ecco perché il ghiro (Glis glis), il piccolo roditore che vive in tutta Europa e in Asia Minore ed è molto comune anche da noi in Italia, ha interessato gli uomini fin dai tempi dell'antica Roma. Allora era di gran moda possedere un allevamento di ghiri, da cui prelevare gli esemplari più grassi e ben pasciuti per offrirli cucinati in arrosto o al ragout, durante i banchetti. Parente dei topi e dei criceti, il ghiro è anche lui un roditore. Piccino - misura dai sedici ai diciotto centimetri - musetto sottile, occhi neri vivaci, baffi sviluppatissimi, folta coda lunga una decina di centimetri, pelliccia grigia morbida, pancia candida, è senza dubbio un animaletto dall'aspetto assai grazioso. La sua notorietà si deve soprattutto alla sua fama di dormiglione. Non per nulla è entrato nell'uso comune il detto «dormire come un ghiro». Beh, in verità, quando si pensi che entra in letargo ai primi di ottobre o addirittura alla fine di settembre e che rimane addormentato, sia pure con qualche sporadico breve risveglio, fino a maggio inoltrato, non si può negare che a dormire ci prenda gusto. Ma questo non significa che sia un animale pigro. Tutt'altro. Bisogna vedere con quanta vivacità si arrampica lungo il tronco di un albero o salta come un acrobata da un ramo all'altro. Quando sta in equilibrio sui rami più sottili, è la coda che gli fa da contrappeso. Si direbbe che abbia l'argento vivo addosso. Certe volte lo si vede scalare con grande sicurezza perfino un muro o una parete verticale perfettamente liscia. Può fare prodezze del genere grazie alla secrezione vischiosa di speciali ghiandole che si trovano nei cuscinetti di carne rosa posti sotto le dita. Se si cerca di afferrare un ghiro per la coda, la pelle di quest'ultima si distacca e ci si ritrova con quel glorioso trofeo nelle mani. Qualcosa di simile a quello che succede se si vuole acchiappare una lucertola per la coda. Con la differenza che in quest'ultimo caso ci rimane in mano un mozzicone di coda e non la sola pelle. E' il fenomeno abbastanza diffuso in natura dell'autotomia per cui l'animale si difende ricorrendo a una forma di automutilazione incruenta. Non esce infatti da quel mozzicone di coda nemmeno una goccia di sangue. Durante il letargo, il metabolismo del ghiro si riduce notevolmente. L'animale non si nutre. Consuma un po' alla volta la riserva di grasso che ha pensato bene di accumulare nelle abbondanti mangiate preletargiche. Lo consuma in quantità minima, quel tanto di combustibile che occorre per tenere accesa una tenue fiammella vitale. E' ai primi freddi, quando la temperatura si abbassa sotto i sette-otto gradi che il ghiro cerca un rifugio in cui trascorrere il lungo sonno. Gli piacciono le comodità. Ecco perché si sceglie la cavità di un vecchio tronco o magari il nido abbandonato da un picchio e tappezza l'alloggio con erba e fogliame perché risulti più confortevole. Ma non disdegna la compagnia dei suoi simili. Si trovano spesso gruppi di ghiri che dormono stretti l'uno all'altro, con la testa avvolta dalla lunga folta coda. Non è vero però che il loro sia un sonno di piombo. Perché se capita che la temperatura ambiente salga sopra gli otto-dieci gradi, i roditori si svegliano e spilluzzicano un po' delle provviste che hanno accumulato nella tana. Quando poi la temperatura si fa più mite stabilmente, alla fine di aprile o anche a maggio inoltrato, il risveglio è definitivo. I ghiri escono dal letargo magri da far pietà. E immediatamente cercano di riacquistare il peso perduto. Il cibo non manca. Ci sono noci, nocciole, ghiande, fichi, castagne a profusione nei boschi in cui vivono. E la dieta vegetale viene integrata, quando se ne presenti l'occasione, con qualche uovo o qualche tenero nidiaceo sottratto a un nido incustodito. Il ghiro ha supersviluppato il senso del tatto localizzato in speciali cuscinetti tattili, ma soprattutto nei baffi, le vibrisse, che possono raggiungere la lunghezza di sei centimetri, ha anche un udito finissimo. Ed è buffo vedergli muovere velocemente le orecchie al ritmo di due volte al secondo, mentre se ne sta tranquillamente seduto. In questo modo è in grado di cogliere anche il più lieve fruscio e fa in tempo a mettersi in salvo, se c'è un pericolo in vista. Una volta che ha mangiato a sazietà, si risvegliano nel piccolo roditore gli appetiti sessuali. Ad ogni buon conto i maschi marcano i territori personali con speciali secrezioni per avvertire i rivali che in quell'area vi è divieto di transito. Gli incontri galanti avvengono col favore delle tenebre, perché non bisogna dimenticare che il ghiro è un animaletto notturno. Maschi e femmine si chiamano reciprocamente con una serie reiterata di gridolini, finché lei si lascia montare. Dopo alcuni giorni la femmina si mette a costruire di buona lena un nido che dovrà accogliere i piccoli dopo i trenta giorni della gestazione. Ne nasce un numero che può variare da tre a dieci. I neonati sono nudi e ciechi e la madre li allatta amorevolmente per circa tre settimane. Mentre il padre diventa uccel di bosco e preferisce andare in cerca di nuovi amori. Il ghiro si può anche allevare in cattività. Ma, nonostante il suo aspetto esteriore accattivante, non si può dire di buon carattere. Se si cerca di prenderlo in mano, non è difficile che morda con i suoi dentini aguzzi. Sconsigliabile tenerlo in casa se l'appartamento è riscaldato d'inverno. Quando il suo ritmo biologico gli dice che è ora di cadere in letargo, bisogna metterlo in un luogo fresco all'aperto o comunque in un locale non riscaldato. Una cosa è importante. Non bisogna allevare un individuo singolo. Diverrebbe triste, melanconico e forse più aggressivo. Dategli un partner. Solo in coppia il piccolo mammifero sentirà meno il peso della prigionia e forse sarà meno infelice. Isabella Lattes Coifmann


NEL DEVON, CORNOVAGLIA I gentili cavallini di Dartmoor Un parco nazionale pieno di siti preistorici
Autore: KRACHMALNICOFF PATRIZIA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, PARCHI NATURALI
ORGANIZZAZIONI: PARCO NAZIONALE DI DARTMOOR
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, REGNO UNITO, GRAN BRETAGNA, DARTMOOR
TABELLE: C.

QUASI tutti quelli che amano l'Inghilterra e si trovano a visitare la sua parte Sud, tendono a dirigersi verso la Cornovaglia, questa punta di terra protesa nell'oceano, sulle tracce di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Si può quindi facilmente trascurare il Devon e il suo interessantissimo Parco Nazionale di Dartmoor, che invece meritano sicuramente una visita approfondita. Molti appassionati di letteratura poliziesca inglese lo conoscono solamente come sede di una cupa e famigerata prigione di Stato. Ma c'è un'altra immagine del Dartmoor, assai diversa e forse più interessante. Ha un'estensione di 945 Kmq e si trova nel Sud-Ovest del paese, nella regione del Devon. Ha forma arrotondata con a Sud il famoso porto di Plymouth, a Nord la città di Okempton, ad Est Ashburton, ad Ovest Tavistock. Incominciamo dalla formazione geologica. Il parco nazionale di Dartmoor giace essenzialmente su una piattaforma di granito che si prolunga per tutta la Cornovaglia, fino alle isole Scilly. Più precisamente una serie di strati di roccia sbriciolata, depositati 400 milioni di anni fa e poi soggetti a metamorfosi durante il formarsi delle alture nel Sud- Ovest. E poi granito alterato dai vapori bollenti emanati durante il raffreddamento. All'interno degli strati, vene minerali derivate dall'ultima parte liquida del magma di granito in raffreddamento. Da allora, circa 300 milioni di anni di azione combinata di acqua, gelo e vento hanno creato l'attuale fisionomia. La dimostrazione fisica di ciò è data dai tors (guglie di roccia), che emergono dal panorama circostante come risultato dell'azione degli elementi naturali sulla parte più tenera di roccia. Lo sgretolamento della parte più friabile della roccia fa emergere, sulle alture, le cime esposte dello strato granitico sottostante. Questo può spiegare come tutto ciò che di antico ed antichissimo si trova nel parco è costruito con questa pietra, che anche nel lessico comune fa pensare all'eternità. E' la durata del materiale infatti che ci fa trovare nel Dartmoor i meglio conservati insediamenti preistorici dell'Inghilterra Tracce ben visibili di case circolari, focolari, semplici ponti sui piccoli corsi d'acqua formati da una lastra posta ad angolo retto su due montanti. Le vene intrusive che si sono create nel magma per i processi di raffreddamento e purificazione, hanno creato depositi minerali accessibili. I giacimenti di stagno sono stati sfruttati dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Lo stesso si può dire per il caolino, un tempo oggetto di pazienti lavacri da parte dei minatori locali che sfruttavano le abbondanti acque correnti, ed ora estratto con procedimenti più moderni. Brughiere, corsi d'acqua, vita naturale e panorami sono però ormai diventati la principale industria del parco. I visitatori negli ultimi tempi sono stati stimati intorno ad otto milioni l'anno, ed il numero è in crescita. Ciò ha portato a un'ondata di benessere per i circa 29. 000 residenti e anche qualche difficoltà. Infatti il 15% del parco è devoluto a zona di esercitazioni militari. Non è quindi accessibile al pubblico. Il contenzioso tra la «Autorità del Ducato di Cornovaglia» e l'esercito inglese è finito con una vittoria di quest'ultimo. Infatti la concessione per esercitazioni militari è stata prolungata fino al 2012. Ma il parco è talmente grande e bello che può riservare avventure come questa. Partiti alla ricerca dei Dartmoor ponies, cavallini indigeni allo stato brado, abbiamo seguito strade e tratturi fino a trovarne una mandria. Sono specie protetta, come è giusto, per un mini-cavallo di poco più di un metro di altezza, docile e affettuoso e che, fino all'avvento delle macchine, è stato il compagno di lavoro di tutti gli abitanti della regione. Fermi ad osservarli, li abbiamo visti avvicinare. Ed un grazioso sauro si è addirittura affacciato al finestrino della macchina. Abbiamo rischiato una severa multa e, cosa proibitissima, gli abbiamo dato da sgranocchiare un biscotto. Ci è stato molto grato. Patrizia Krachmalnicoff


HANDICAP Per i disabili una libreria e una rivista
Autore: BODINI ENRICO

ARGOMENTI: DIDATTICA, EDITORIA, HANDICAP
NOMI: ZAMBONI MARIO, DELMONTE DONATA
ORGANIZZAZIONI: VENTO SOCIALE
LUOGHI: ITALIA

TRA le iniziative per l'integrazione delle persone handicappate, una ha assunto in questi ultimi tempi una importanza notevole: si tratta del mensile «Vento So ciale», il primo periodico in Italia, e forse in Europa - dedicato alla famiglia, al disabile, all'anziano - interamente realizzato da portatori di handicap. L'idea di realizzare questo strumento di informazione si fa strada sin dal 1987 nella mente del suo fondatore Mario Zamboni (ex imprenditore milanese) e sua moglie Donata Delmonte, ponendosi l'obiettivo primario di garantire un posto di lavoro a disabili, spesso senza alternative o soggetti alle umilianti prospettive delle istituzioni e della società stessa. I coniugi Zamboni si sono resi conto che il lavoro non è un solamente diritto sancito dalla Costituzione ma assume estrema importanza per la dignità dell'essere umano, soprattutto quando vengono meno le sue capacità di autogestirsi più o meno autonomamente; inoltre, l'occupazione è in ogni caso momento di integrazione sociale e in alcuni casi assume anche un ruolo terapeutico, fisico e psicologico. E' così che nel 1994 nasce «Vento Sociale», un mensile a colori di oltre cento pagine, ricco di fotografie e servizi: rubriche, interviste, commenti, inchieste, recensioni, dedicate ai problemi sociali di maggior rilevanza, realizzati da corrispondenti disabili sparsi in tutta Italia. Ma Donata e Mario Zamboni non si fermano e, per estendere la possibilità a più disabili di essere collocati professionalmente, aprono nel centro di Milano (Largo Augusto 8) «Il Giar dino delle idee», la prima libreria in Europa gestita da disabili. Realizzata con le più moderne strutture commerciali e tecnologiche e con interlocutori in grado di consigliare al meglio, si estende su 2500 metri quadrati (privi di barriere architettoniche]), è dotata di oltre 60 mila titoli, servizi di telemarketing e Internet; comprende la redazione della testata giornalistica e una sala-dibattiti a disposizione di chi ne farà richiesta. Sono anche previsti «Corsi di formazione professionale» per l'orientamento e l'inserimento del disabile nel mondo del lavoro. Ernesto Bodini


CURE E PREVENZIONI Contro la malaria un «vaccino altruistico» Efficace anche un estratto di artemisia già usato da erboristi cinesi
Autore: VAGLIO GIAN ANGELO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA

NEGLI Anni 60 la malaria era considerata una malattia debellata grazie ai trattamenti medici e al diclorodifeniltricloroetano, pesticida noto come Ddt, molto efficace contro le zanzare portatrici della malattia. Quando, però, incominciò ad essere evidente che il Ddt aveva effetti tossici sull'ambiente, la sua utilizzazione fu drasticamente ridotta e la popolazione di zanzare infette tornò ad aumentare. Contemporaneamente si svilupparono forme di resistenza ai principi attivi da parte dei parassiti responsabili della malaria. Secondo l'Oms, Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi la malaria è diffusa in aree con una popolazione di 500 milioni di abitanti e uccide 2 milioni di persone all'anno. E' una malattia diffusa solo nei paesi tropicali e subtropicali ed è stata quasi eliminata nelle zone più temperate; tuttavia, come conseguenza del turismo e delle facili comunicazioni con le aree a rischio, si sono verificati recentemente ad esempio in Gran Bretagna duemila casi di malaria in un anno. I parassiti responsabili della malaria sono protozoi appartenenti al genere Plasmo dium e vengono trasmessi dalla puntura di una zanzara femmina infetta del tipo Anopheles. Tra le varie specie di questi protozoi il più pericoloso è quello detto falciparum, che provoca l'aderenza dei globuli rossi alle pareti delle arterie e conseguenti forti anemie, insufficienze renali e collassi. E' anche il responsabile della malaria cerebrale che porta alla morte, poiché i globuli rossi ostruiscono le arterie cerebrali e impediscono un adeguato flusso di sangue al cervello. Il principio attivo usato contro la malaria fu la chinina, tuttora utilizzata dove i parassiti hanno sviluppato forme di resistenza verso i farmaci più moderni. Furono alcune popolazioni del Sud America ad utilizzare, per prime, infusioni di corteccia dell'albero della china contro i sintomi tipici della malaria. Queste infusioni furono poi portate in Europa dai colonizzatori spagnoli e usate per più di due secoli. Soltanto all'inizio del '900 si scoprì, attraverso la determinazione della struttura molecolare, che la chinina è il 4- chinolinmetanolo. La sintesi fu realizzata nel 1944. L'efficacia della chinina spinse alla ricerca di nuovi principi, chimicamente simili, attivi nei confronti della malaria: tra le centinaia di derivati chinolinici sintetizzati la clorochina fu la più soddisfacente. Successivamente fu introdotta sul mercato la meflochina (commercializzata dalla Roche come Lariam) in grado di agire contro le zanzare che hanno sviluppato forme di resistenza verso la clorochina. Il meccanismo con cui agisce il parassita della malaria consiste nella liberazione di amminoacidi, di cui si nutre, attraverso la degradazione dell'emoglobina dei globuli rossi. In questo processo si forma anche un complesso ferro-porfirina, che sarebbe tossico per il parassita plasmodium, se lo stesso parassita non fosse attrezzato a renderlo innocuo trasformandolo in una sostanza cristallina mediante una reazione di polimerizzazione. La chinina e i principi attivi chimicamente simili si concentrano nei vacuoli digestivi dei parassiti ed agiscono inibendo la polimerizzazione del complesso ferro-porfirinico. Con notevole apprensione le autorità sanitarie stanno constatando che le forme di resistenza ai diversi principi attivi da parte dei parassiti della malaria si sono accentuate sia nelle regioni del Sud-Est asiatico che in Africa, dove si verifica il novante per cento di casi letali di malaria. Questa è la ragione dello sviluppo delle ricerche di nuovi farmaci che sostituiranno quelli attualmente usati, quando le forme di resistenza si saranno ulteriormente sviluppate. L'attenzione dei ricercatori è in particolare concentrata sugli estratti dell'arbusto Artemisia annua, che sono stati usati per secoli da erboristi cinesi per combattere la febbre. Le prove di laboratorio sul principio attivo artemisina, presente in questi estratti, hanno dimostrato una sua notevole efficacia contro la malaria. L'artemisina contiene un gruppo triossiano che è trasformato nel parassita, ricco di ferro, in un intermedio radicale molto reattivo, capace di interagire con le sue molecole in un processo a catena. Il plasmodium viene reso in questo modo inoffensivo. Sostanze, ottenute per sintesi, chimicamente analoghe all'artemisina presentano un'efficacia ancora superiore e sono considerate i farmaci da utilizzare contro la malaria, quando la resistenza ai derivati chinolinici li avrà resi inefficaci. Un'alternativa ai farmaci è rappresentata dai vaccini. Quello che è allo stadio più avanzato di sviluppo è un vaccino da considerare «altruistico», nel senso che la persona vaccinata non è quella che necessariamente diventa immune. Il vaccino impedisce, invece, che altri individui possano essere infettati dalla stessa zanzara che ha punto chi è stato vaccinato. Dal punto di vista chimico il vaccino è una proteina che è contenuta nello strato superficiale del parassita e che iniettata in animali da laboratorio genera la produzione di anticorpi capaci di bloccare, all'interno della zanzara, il ciclo di vita del parassita. Quando una zanzara punge una persona vaccinata assorbe insieme al sangue anche gli anticorpi che interrompono il ciclo vitale del plasmodium e rendono la zanzara innocua. L'uso di vaccini per combattere la malaria sembra promettere risultati soddisfacenti anche se a tempi non brevi. Nel frattempo, all'insorgere di malessere generale con febbre e cefalee nelle settimane successive all'arrivo da zone a rischio per la malaria, è consigliabile informare tempestivamente il medico sui Paesi visitati per una eventuale diagnosi immediata e cure appropriate. Gian Angelo Vaglio Università di Torino


CI SI PUO' FIDARE DEGLI SCIENZIATI? Le bugie in laboratorio Storia di una falsa scoperta sul Dna
Autore: FRONTE MARGHERITA

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: COLLINS FRANCIS
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL CENTRE FOR HUMAN GENOMIC RESEARCH
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, DC, WASHINGTON

FALSIFICANO i dati, si intrufolano di notte nei laboratori e manomettono gli esperimenti, modificano i files dei computer, mentono ai colleghi, ai giornali, a se stessi. Spesso non confessano neppure davanti all'evidenza: sono gli scienziati bugiardi, e smascherarli non è facile. La ricerca ne annovera parecchi; stando a certi storici, persino Galileo non avrebbe eseguito il famoso esperimento del piano inclinato. Ma se a Galileo l'esempio del piano inclinato serviva per farsi comprendere dai suoi contemporanei, e la legge da lui dedotta attraverso quegli esperimenti eseguiti solo nella sua mente si è poi dimostrata valida, gli imbrogli in cui è stata recentemente coinvolta la ricerca statunitense hanno moventi molto meno nobili. Il più recente ha per protagonisti Francis Collins, direttore del prestigioso National Centre for Human Genomic Research di Washington, un suo studente rimasto anonimo, e un pezzetto di Dna. Il caso è esploso qualche settimana fa, quando Francis Collins ha annunciato che ben cinque articoli prodotti nel corso degli ultimi due anni dal suo laboratorio, e pubblicati su importanti riviste scientifiche, contengono risultati inattendibili in quanto frutto di una serie di manomissioni dei dati da parte di un suo studente. I lavori incriminati riguardano degli esperimenti condotti al fine di valutare su cellule in vitro gli effetti di un gene, un segmento di Dna, derivato da una mutazione genetica presente nel 15 per cento dei casi di leucemia mieloide acuta, una grave forma tumorale che colpisce i globuli bianchi. Dati alla mano, Collins e colleghi dimostravano che il gene in questione, iniettato in cellule in coltura, ne provocava una crescita di tipo canceroso. Ma che qualcosa in quei risultati fosse poco chiaro è emerso solo grazie alla meticolosa attività di uno dei due ricercatori, rimasto anonimo, incaricato di valutare l'ultimo articolo sottoposto alla rivista inglese Onco gene da parte di Collins e del suo brillante studente. Una prassi d'obbligo, quella del controllo di una commissione editoriale, che tutti gli articoli devono superare prima di apparire su una testata scientifica, e che solitamente si conclude con un assenso alla pubblicazione, con un rifiuto, o con una richiesta di chiarimenti. Questa volta a Collins, che gestisce ben 244 milioni di dollari della ricerca americana fra quelli stanziati per il progetto genoma umano e quelli dedicati ad altre ricerche nei campi della genetica e della bioetica, è arrivata una richiesta di chiarimenti in merito ad un piccolo particolare di una foto. Un particolare apparentemente insignificante, ma che, ad una analisi più attenta, si è rivelato la spia di una grave manomissione, effettuata con una tecnica analoga a quella del fotomontaggio. Ricontrollati gli esperimenti, Collins ha dovuto constatare la falsificazione operata dal suo studente, che ha confessato a patto che il suo nome non venga rivelato. Un duro colpo per il luminare della genetica, anche perché gli articoli incriminati portano tutti la sua firma, e sarebbe stato suo compito sorvegliare il comportamento del suo sottoposto. Che poi la responsabilità di quanto è accaduto ricada interamente su quest'ultimo è tutto da dimostrare. Falsificare i dati in campo scientifico è un atto molto grave, perché compromette le ricerche di coloro che si basano su quei risultati, già pubblicati e quindi in un certo senso «garantiti», per proseguire nei loro studi. Quando la frode viene smascherata, per colui che l'ha architettata le conseguenze possono essere gravi anche sul piano legale. Ma perché allora un ricercatore mente? Anche se non sono rari gli episodi, come quello dell'allievo di Collins, in cui l'imbroglio scaturisce dal desiderio di fare carriera, nella maggioranza dei casi le falsificazioni derivano da motivazioni di tipo economico. La formula «publish or perish» (pubblica o muori), coniata nei laboratori statunitensi, esemplifica la strategia del governo americano di convogliare i finanziamenti solo verso le ricerche effettivamente produttive. Se questo da un lato ha favorito lo sviluppo di laboratori altamente competitivi, d'altro canto ha alimentato un fiorente, e spesso fantasioso, bazar delle frottole scientifiche: inganni spesso plausibili e ben mirati, e rispetto ai quali lo studente di Francis Collins fa la figura del dilettante; affermazioni come quella, recente, della «scoperta» di forme fossili sull'asteroide ALH84001 proveniente (forse) da Marte, considerata quasi fantascienza dagli esperti, ma che ha comunque permesso alla Nasa di vedersi rimpinguare i finanziamenti per le missioni dirette al «pianeta rosso». Margherita Fronte


La beffa di Sokal In Usa un fisico scrive per scherzo un saggio pieno di sapienti sciocchezze Una rivista di sociologia lo pubblica. Esplode uno sconcertante dibattito
Autore: PREDAZZI ENRICO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, FISICA
NOMI: SOKAL ALAN
ORGANIZZAZIONI: NEW YORK UNIVERSITY
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NEW YORK

SE nell'arte e nella letteratura gli esempi di beffe geniali sono innumerevoli e spesso molto noti, dai tempi più antichi a quelli più recenti (che divertente, la storia dei falsi di Modigliani]), nella scienza le beffe sono piuttosto rare. Una beffa recente che sta scatenando una vera e propria passione furiosa nei Paesi legati alla cultura anglossassone e soprattutto negli Stati Uniti, è dovuta a un ricercatore della New York University, un fisico teorico di nome Alan Sokal, che nell'autunno del 1994 inviò un suo lavoro a una rivista di studi sociali, «Social Text». Il titolo stesso: «Transgressing the boundaries: towards a transformative hermeneutics of quantum gravity» (Oltrepassando i confini: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica) nella sua voluta ermeticità genera l'immediato sospetto che l'autore abbia un qualche secondo scopo nascosto. Tuttavia l'articolo è regolarmente comparso nel numero della primavera- estate 1996 della rivista e, subito dopo, l'autore ha rivelato trattarsi di una beffa ordita nei confronti di una certa cultura sociologica da lui considerata meritevole di essere sbeffeggiata in quanto non-scienza che si atteggia a tale. La natura e lo scopo della beffa sono stati ampiamente spiegati dall'autore stesso in «Afterword» (letteralmente: Epilogo) sulla rivista «Lingua Franca». Sokal dice che l'articolo incriminato era stato «di proposito infarcito di non senso» e di ritenere che sia stato pubblicato solo perché «a) suonava interessante e b) blandiva i preconcetti ideologici degli editori». L'autore dichiara che il suo bersaglio era costituito da «quei contemporanei che, ripetutamente e intenzionalmente, si sono appropriati di conclusioni della filosofia della scienza e se ne sono serviti per propugnare una varietà di cause politiche e culturali alle quali tali conclusioni non si applicano. Femministe, apologeti religiosi (fra cui gli scienziati creazionisti) controculturalisti, neoconservatori e una folla di altre curiose creature hanno dichiarato di aver trovato un alimento fondamentale, ad esempio, nell'incommensurabilità e nella sottodeterminazione di teorie scientifiche. Questa idea... che tutto si possa ricondurre a interessi e prospettive soggettive è, subito dopo le campagne politiche americane, la più prominente e perniciosa manifestazione di anti-intellettualismo dei nostri tempi». Occorre ora chiarire alcune cose. L'articolo originale è scritto con diabolica bravura e l'autore deve avere speso una quantità di tempo considerevole a ordirne la trama. Come dice il premio Nobel della fisica Steven Weinsberg in un lungo e interessante commento pubblicato sul New York Review of Books recentemente, la cosa più oscura del lavoro è forse il titolo; per il resto, a parte che spesso si trovano cose volutamente insensate dal punto di vista della fisica contemporanea (ma mai così insensate da poter apparire tali a un profano), è scritto con molta abilità, e non è poi così sorprendente che sia stato preso sul serio, specialmente in una società in cui l'eccessiva specializzazione scientifica fa talora sì che, anche per un addetto ai lavori, un articolo su un argomento di specializzazione un po' diversa dalla propria possa essere difficile da leggere. Sokal è un ricercatore serio (in realtà la sua specializzazione non è la gravità quantistica ma la statistica; la gravità quantistica deve essere stata scelta perché per la sua natura, si presta meglio a sostenere la beffa). L'articolo è corredato di oltre 200 citazioni equamente distribuite fra fisici e sociologi che sono tutte non solo veritiere ma appropriate (almeno per lo scopo che l'autore si prefigge) e di 128 note a piè di pagina. E' principalmente in queste che, qua e là, l'autore ha messo delle chiavi che rivelano trattarsi di una beffa; potrei citarne molti esempi: valga per tutti il caso della teoria dei numeri complessi gabellata come un'acquisizione recente della matematica. Raccontato il fatto, e esposte le motivazioni dell'autore, resta tuttora non del tutto chiaro che cosa possa spingere un ricercatore serio a spendere mesi di lavoro per ordire una beffa così elaborata. Ripeto, tutte le ragioni portate dall'autore sono più che valide; ammettiamo che, al di là di queste, ci sia stato anche il gusto della beffa in sè e per sè così come, magari inconscio, potrà anche esserci stato il gusto di contribuire all'antica, perniciosa e mai risolta diatriba sulle due culture (che, ahimè, continua a imperversare sulle due rive dell'Atlantico e di cui, talora, si trovano anche deplorabili echi casarecci). Al di là di tutto questo, c'è anche, dichiarato dall'autore, un intento politico ben preciso, quello di una battaglia fatta da sinistra (la sinistra di tipo americano, naturalmente) che, malgrado l'apparente assurdità (tipo è vero che il liceo classico è di destra?) è in realtà meno assurda di quanto sembri, ma lo spiegarlo richiederebbe troppo spazio. Da fisico, e quindi facendo parte (in modo del tutto involontario, beninteso) della cultura da cui viene le beffa, non posso negare di essermi molto divertito a leggere sia l'articolo incriminato sia tutta la documentazione relativa fra cui le scuse che gli editori di «Social Text» adducono per giustificare la loro leggerezza nel pubblicare l'articolo. Uno di loro arriva anche a sostenere che Sokal abbia cambiato idea in corso d'opera e che, almeno all'inizio, lui credesse nelle tesi sostenute nell'articolo. Questo, devo dire, è un tentativo di contrattacco del tutto insostenibile: l'articolo è letteralmente disseminato di assurdità ovvie a qualunque addetto ai lavori, dal che se ne trarrebbe l'inquietante conclusione che ogni rivista dovrebbe avere uno staff editoriale in grado di fronteggiare qualunque situazione, cosa auspicabile ma non sempre facile. Da un lato, devo confessare che, entro certi limiti almeno, simpatizzo con il loro imbarazzo e questo non solo per una mia innata tendenza a prendere le parti di chi perde (io parteggiavo per i troiani leggendo l'Iliade) o di chi viene sbeffeggiato (povero Calandrino]) ma proprio perché posso immedesimarmi nel problema. Comunque sia, più la rigiro e più trovo che qualche perplessità mi rimane. Forse quello che mi disturba è il sospetto che ci sia stato anche un po' un approfittarsi di un'aureola di cui una scienza seria come la fisica è circondata, utilizzando per scopi, magari parzialmente condivisibili, ma certo anche personali, il capitale di rispetto che il lavoro impegnato di migliaia di ricercatori ha contribuito a creare nell'opinione pubblica nel corso di molti anni. Forse, tutto sommato, avrei preferito che Sokal, fatto lo scherzo, ne avesse riso, e chiesto scusa in onore alla massima di Lao Tze, «appena ti fabbrichi un pensiero, ridici sopra». Enrico Predazzi Università di Torino


CASI CLAMOROSI Al mito della fusione fredda un premio Nobel immaginario
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: FLEISCHMANN MARTIN, PONS STANLEY
LUOGHI: ITALIA

LA comunità scientifica è un gruppo sociale come tutti gli altri. E quindi come ogni gruppo sociale può avere nel proprio seno qualche membro deviante o che vive ai margini delle norme comunitarie. Due vicende hanno scosso l'immagine della ricerca scientifica negli ultimi anni: quella della «memoria dell'acqua» e quella della «fusione fredda». La prima consisterebbe nella capacità dell'acqua di mantenere una qualche traccia strutturale di altre molecole contenute in precedenza. Se il fenomeno fosse reale ne deriverebbe una prima prova scientifica a favore delle cure omeopatiche. Gli esperimenti compiuti dal medico francese Benveniste non hanno tuttavia trovato conferma; anzi, una commissione di indagine ha rilevato errori sistematici nella raccolta dei dati. La «fusione fredda» fu annunciata nel 1989 dai chimici Fleischmann e Pons: l'elettrolisi di acqua ottenuta con elettrodi di palladio preventivamente arricchito con deuterio (isotopo dell'idrogeno contenente un neutrone nel nucleo) porterebbe alla fusione di idrogeno in elio, con produzione di energia. La fusione è un fenomeno reale. Avviene, «a caldo» (decine di milioni di gradi), nelle stelle. Ma non si è riusciti a dimostrarlo nelle condizioni illustrate da Fleischmann e Pons. Nonostante ciò la leggenda della «fusione fredda» continua. Il 27 novembre ci è giunto un comunicato dell'ufficio stampa dell'Associazione industriali della Provincia di Verona nel quale, addirittura, si afferma che Fleischmann e Pons avrebbero avuto per il loro lavoro il Premio Nobel nel 1990 (]) e si rivendica la priorità dell'«invenzione» da parte di Omero Speri, docente di chimica in una scuola di Verona. Piero Bianucci


Tuttoscienze e Leonardo in Cd-Rom
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Coupon per acquisto Cd-Rom Tuttoscienze '95 e Leonardo

IL Cd-Rom che raccoglie l'annata 1995 di «Tuttoscienze» e una antologia dei servizi del tg scientifico «Leonardo» della Rai è andato rapidamente esaurito in quasi tutte le 4000 edicole nelle quali era stato distribuito. Poiché molti lettori non hanno potuto acquistarlo e ce ne fanno richiesta, pubblichiamo qui accanto un tagliando per ordinarlo contrassegno, allo stesso prezzo di 24.500 lire, senza alcun aggravio per le spese di spedizione. Il Cd-Rom contiene più di mille articoli e un pratico sistema di «navigazione» per fare ricerche a tema.


I RISULTATI DI UN IMPORTANTE ESPERIMENTO A caccia di carbonio Un po' di ferro contro l'effetto serra
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: CHIMICA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. Gli scambi di carbonio (in miliardi di tonnellate)

LA figura qui accanto ci racconta una storia semplice e triste. La vegetazione e l'atmosfera scambiano annualmente circa 100 unità di carbonio (C). Una unità corrisponde a un miliardo di tonnellate. Attraverso la fotosintesi, la CO2 (anidride carbonica) viene assorbita e assieme all'energia solare e all'acqua, dà origine agli zuccheri (cioè energia) che poi noi mangiamo o facciamo mangiare dai nostri vassalli, i ruminanti, che come premio vengono poi da noi mangiati con assoluta disinvoltura. Attraverso la respirazione e l'evaporazione, le piante restituiscono all'atmosfera praticamente tanto carbonio quanto fu immagazzinato (questo non vale per la vegetazione più giovane, che immagazzina più C di quanto ne emetta). E' interessante notare che la quantità di C nella biomassa è dello stesso ordine di grandezza del C nell'atmosfera terrestre. Alla destra della figura ci sono gli oceani, anch'essi potenti macinatori di C, che agiscono usando il meno noto ma non meno efficiente fitoplancton, che incamera C per poi essere a sua volta primo scalino nella catena alimentare che si incarica di immagazzinare il C al fondo degli oceani. Detto così, sembra che questo pianeta, come ebbe a dire Woody Allen, non sia altro che un gran ristorante dove la specialità del giorno è carbonio, eccetto che il menu non cambia mai. Gli oceani però ci fanno un gran favore poiché assorbono più di quello che emettono: qualche gigatone in più. Prima che arrivassero gli intelligenti bipedi che siamo noi, la natura aveva ideato un sistema in cui tutti respiravano e assorbivano ma con un continuo calo della CO2, cortesia degli oceani. Perché mai? Perché la Terra è un organismo che ci tiene a mantenersi in buona salute e poiché abbiamo un vicino di casa, Venere, che quale Eliogabalo planetario, ha ecceduto in banchetti di CO2, ora si trova febbricitante: l'ultimo bollettino legge 450o C. E la Terra, non volendo correre questo rischio, mantiene gli oceani in stato di allerta, avendoli incaricati di assorbire più CO2 di quella che emettono. Questa misura precauzionale ha una ragione d'essere, ci sono dei soggetti nervosi, tipo i vulcani, che alla minima provocazione possono rigurgitare massicce dosi di CO2. Guardiamo ora la parte centrale della figura. C'è una sola freccia: si produce CO2 ma nessuno la sottrae. E questo siamo noi a farlo. Estraiamo petrolio, carbone e gas naturale da dove la Terra l'aveva faticosamente nascosto, lo bruciano e produciamo CO2. La Terra impiegò miliardi di anni per farlo, noi pochi anni. Ormai lo abbiamo capito: quei 6 miliardi di tonnellate di C possono riservare delle brutte sorprese alle generazioni future ma per quanti trattati internazionali si siano sottoscritti, è un fatto innegabile che è risultato estremamente difficile portare a termine gli impegni assunti. A meno che da oggi tutti si spenga la luce e si ritorni a viaggiare in bicicletta, tanto per usare rimedi estremi, quella freccetta per minuscola che possa apparire rispetto alle altre, è una spina nel curriculum vitae di un secolo orgoglioso come il nostro che ci ha visti camminare sulla Luna. E se invece provassimo a convincere gli oceani ad assorbire qualche percento in più dei 100 e passa miliardi di C che già si scambiano oggi? Il 13 ottobre 1996, tre gruppi di scienziati, americani, inglesi e messicani hanno pubblicato una serie di articoli sulla prestigiosa rivista inglese «Nature». Annunciano risultati molto positivi sulla possibilità di fertilizzare gli oceani. In oceanografia esiste da anni un enigma: ci sono almeno tre zone in cui persiste una incomprensibilmente bassa biomassa clorofillica nonostante ci siano abbondanti nutrienti, fosfati e nitrati. Perché questa anoressia oceanica? L'esperimento, chiamato IronExII (c'era stato un IronExI ma di durata troppo corta per permettere conclusioni statisticamente valide), si svolse a 3. 5oS e 104oW ed iniziò il 29 maggio 1995. Il primo giorno si fertilizzò il mare con 225 kg di ferro (solfato di ferro) mescolato con un tracciante passivo (esafluro di zolfo SF6) sparso su un rettangolo di 72 km2. I solchi erano distanti 400 metri ma dovuto alla turbolenza oceanica dopo un giorno si constatò che i 25 metri di profondità dello strato limite dell'oceano erano uniformemente distribuiti (questo lo si verifica grazie ai traccianti). Altri 112 kg di ferro vennero introdotti nei giorni 3 e 7 della spedizione. Ogni giorno veniva portata a termine una serie di misure di variabili di svariato interesse: temperatura, salinità, contenuto di ferro, SF6, CO2, DMS (dimetil solfati), fitoplancton. La risposta biologica fu rapida e uniforme. La concentrazione di massa clorofillica aumentò dal valore iniziale di 0,153 microgrammi/litro a 4 microgrammi/litro, aumentò di circa il 3000%. E questo fu misurato il nono giorno, cioè due giorni dopo la somministrazione dell'ultima vitamina di ferro. Una fioritura di biomassa clorofillica e una diminuzione della fugacità della CO2 del 60%. Questo importante risultato fa passare dallo stadio di ipotesi a quello di realtà la tanto discussa fertilizzazione degli oceani quale possibile agente anti effetto serra. Come sempre nella scienza, siamo partiti da una curiosità oceanografica, la scarsa biomassa clorofillica là dove c'è abbondanza di nutrienti, un enigma che interessò un ristretto numero di specialisti, ma la cui soluzione può aiutare a risolvere un dilemma per più di 6 miliardi di esseri umani. Ricordate Einstein? Cominciò col chiedersi come sarebbe apparso il mondo se viaggiassimo alla velocità della luce, e finì con la scoperta della relatività e della formula che, fra le altre cose, ci ha portato l'energia nucleare. Vittorio M. Canuto Nasa, New York, NY


STANDARD BIOMEDICI Anticorpi, finisce l'anarchia Concordati in Giappone test «universali»
Autore: MALAVASI FABIO

ARGOMENTI: GENETICA
LUOGHI: ITALIA

GLI anticorpi (o immunoglobuline), proteine che circolano nei liquidi dell'organismo (ad esempio il sangue), sono strutturati in modo da legare il loro bersaglio (o antigene) in maniera quanto mai specifica. Di queste proteine esistono tipi diversi, ciascuno con una sua caratteristica, come la distribuzione preferenziale in certi tessuti o la forza di legame con l'antigene. Il risultato di tutto ciò è che l'incontro tra un organismo e un antigene innesca - tra gli altri effetti - una risposta di anticorpi che è variabile per qualità e quantità e muta radicalmente da persona a persona. Gli anticorpi sono usati da tempo nella ricerca e nella pratica biomedica. Le limitazioni intrinseche sono emerse quando li si è usati per lo studio di un bersaglio complesso, come la superficie di una cellula, che è costituita da migliaia di antigeni. Una svolta decisiva è venuta dagli anticorpi monoclonali, immunoglobuline prodotte in vitro con caratteristiche di totale omogeneità e - a differenza di quanto avviene con le immunoglobuline prodotte in vivo - in grado di reagire esclusivamente con un solo antigene. Gli studiosi dei linfociti (cellule circolanti nel sangue) subito si appropriarono degli anticorpi monoclonali: sfruttando la capacità di legare una sola molecola per volta è infatti possibile sezionare la complessità dei recettori presenti sulla superficie cellulare. A partire dai primi Anni 80 prese così il via una serie di fortunati progetti di produzione di anticorpi, condotti principalmente negli Usa e in Inghilterra, che avrebbero in poco tempo non solo cambiato radicalmente il modo di fare ricerca ma anche fornito reagenti di eccezionale diffusione nella pratica clinica. Tuttavia l'impiego di anticorpi monoclonali come reagenti per riconoscere la cellula in base all'espressione di marcatori di superficie poneva grossi problemi concettuali e di standardizzazione. Infatti questo sistema di analisi si basava sull'uso di anticorpi altamente specifici, ma che contro molecole di superficie ignote funzionano tuttavia da marker. In sostanza si usavano reagenti ignoti contro molecole ignote: cosa concettualmente non accettabile. Il secondo punto è invece di tipo organizzativo: anticorpi prodotti in laboratori diversi venivano descritti e studiati in maniera non omogenea, con il risultato che reagenti uguali sono stati considerati per lungo tempo di specificità differente. Una decina di anni fa si decise di porre fine agli equivoci legati alle specificità dei vari anticorpi monoclonali a disposizione della comunità scientifica e clinica, tra l'altro divenuti in breve tempo un fertile pascolo delle prime società di biotecnologia. La strategia scelta fu quella adottata attorno agli Anni 60 per comprendere la complessità del sistema di istocompatibilità, che consisteva nel radunare insieme i protagonisti del settore (produttori di anticorpi, utenti specializzati ed esperti di statistica) in un unico gruppo di lavoro. Operativamente, la prima tappa è stata quella di far confluire gli anticorpi presso un laboratorio di riferimento, incaricato di una prima valutazione di controllo. La tappa successiva era quella di distribuire campioni dell'anticorpo a tutti quei laboratori, cliniche o industrie che avevano messo a disposizione dei test specialistici nei quali includere i reagenti in esame. I risultati derivanti dall'inclusione in una sorta di griglia analitica venivano poi analizzati dagli specialisti con l'aiuto determinante degli statistici. Si vide così che molti reagenti in circolazione (con pennellate di vanità, alcuni venivano indicati con i nomi dei produttori, altri con quelli dell'istituto di origine, altri ancora con oscure sigle del gergo di laboratorio) erano tra loro identici, in quanto formavano degli «aggregati» (in inglese, cluster) di reattività. Entrò quindi in vigore l'attribuzione della reattività per cluster (o cluster designation, abbreviata in Cd). Si ebbero così i primi Cd, a indicare recettori cellulari identificati inizialmente in base alla reattività con un anticorpo monoclonale e successivamente definiti in base a parametri biologici: ruolo in vivo, funzione e variazioni durante il differenziamento cellulare o in malattia. Il piccolo numero iniziale di Cd in realtà aprì la via a un numero crescente di molecole definite in base a questo sistema cooperativo, giungendo fino a 130. L'ultimo incontro della comunità internazionale del campo si è svolto a Kobe, in Giappone: scelta sottilmente politica fatta in occasione del workshop precedente svoltosi a Boston. Infatti negli ultimi anni il Giappone ha contribuito fortemente allo sviluppo di queste tecniche analitiche e la sua industria biotecnologica e farmacologica ha ora un potenziale incomparabilmente superiore a quella europea, e in particolare italiana, praticamente bruciata dalle scelte miopi degli ultimi anni. Quest'anno alla lista dei 130 Cd precedenti si sono aggiunte una quarantina di nuove molecole, un numero che consente ormai di disegnare delle mappe geografiche della superficie cellulare con una capacità di dettaglio inimmaginabile solo qualche anno fa. E, in ultima analisi, ad avvantaggiarsi maggiormente di tutto questo armamentario di anticorpi anti-Cd sono stati i pazienti, le cui cellule vengono oggi valutate in test non invasivi, rapidi e a basso costo: l'esempio più rappresentativo è l'analisi delle cellule Cd4 e Cd8 che si fa nei pazienti affetti da Aids (e nei sospetti tali), oltre che alla maggior parte dei prelievi nelle banche del sangue. Infine, la novità più significativa è che i risultati sono ora messi a disposizione in modo schematico-riassuntivo, e anche in tempo reale via Internet (http: //HLDAWS.med.osaka- u.ac.jp) in un sito consultabile gratuitamente da qualunque laboratorio o clinica. Fabio Malavasi Università di Ancona


SE NE PARLA A TORINO La tua città del futuro? E' su Internet Progetti urbanistici e architettonici visitabili virtualmente
Autore: CANEPARO LUCA

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: INTERNET
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)

VOLETE sapere come sarà la vostra città in futuro? Chiedetelo a Internet. Molti Comuni italiani stanno aprendo i propri archivi e progetti a Internet. Bastano un personal computer collegato a Internet e l'indirizzo giusto per accedere direttamente a molte informazioni che prima richiedevano la fila a uno sportello. Tra non molto tramite la rete si potrà anche interagire con la pubblica amministrazione, ad esempio per segnalare le buche nelle strade. Se il vostro Comune ha un proprio servizio Web, probabilmente il suo indirizzo è www.Comune.vostra città.it. La cartografia, il piano regolatore generale, le planimetrie degli edifici comunali sono sovente già consultabili tramite la rete. Per il comune di Torino l'indirizzo è: sat00103.comune.torino.it. Anche i progetti architettonici e urbanistici diventeranno consultabili in rete. Per Torino l'indirizzo è www.Comune.Torino.it/spazio/Welcome.html; qui potete trovare alcune idee e progetti per la riqualificazione urbana. Tra i vari progetti urbani richiamiamo la vostra attenzione sull'area intorno alla stazione ferroviaria di Porta Susa, un po' perché riguarda cambiamenti di grande portata e lungo periodo per Torino, un po' perché alla sua documentazione in Internet sta lavorando al Politecnico di Torino il gruppo di ricerca sulla «Progettazione in rete» (Dipartimento di progettazione architettonica, responsabili Anna Maria Zorgno e Pio Luigi Brusasco). I lavori a Porta Susa prevedono la quadruplicazione dei binari: così aumenterà considerevolmente l'importanza della stazione, che diverrà il fulcro del sistema di interscambio fra treni ad alta velocità, treni locali, la futura metropolitana, autubus e il trasporto privato. I lavori procedono per varie fasi: è in corso la prima, che concerne la quadruplicazione e la copertura dei binari. La nuova stazione ferroviaria in progetto sarà spostata verso corso Vittorio Emanuele e realizzata al nuovo livello dei binari. L'area dell'attuale stazione, liberata dalla barriera dei binari, sarà disponibile per nuove destinazioni ed usi. Il nostro gruppo di ricerca sta progressivamente portando in Internet la documentazione dei lavori su quest'area: carte storiche, analisi sulla viabilità e i trasporti, fino a prefigurare i progetti da realizzare. Mappe, piante, sezioni saranno disponibili al sito Internet: www.Comune. Torino.it/Portasusa per la consultazione da parte di progettisti e «addetti ai lavori», ma anche dei cittadini. E' già disponibile un modello virtuale tridimensionale in formato Vrml dell'area intorno alla stazione. Per vedere questo modello con il proprio personal computer è necessaria o la versione 3 di Net scape o uno dei numerosi navigatori Vrml disponibili in rete (www.sdsc.edu/vrml). Se il vostro personal è sufficientemente potente (un Pentium o analoghi) e ha abbastanza memoria Ram (16 megabyte), potete collegarvi al nostro sito e caricare il modello virtuale dell'area. Potete osservarlo da ogni punto di vista, vicino o lontano, e muovervi al suo interno. Insomma potete visitare virtualmente l'area di Porta Susa secondo percorsi possibili e immaginari, per esempio dai tetti degli edifici circostanti o a volo d'uccello. Tra alcuni mesi sarà possibile visitare non solo lo stato attuale, ma anche alcuni progetti sull'area di Porta Susa. Sarà anche disponibile un apposito programma di navigazione nei modelli virtuali Vrml, che permetterà non solo di esplorare i progetti, ma anche di «incontrare» le altre persone che stanno contemporaneamente visitando quello spazio virtuale e di comunicare con esse tramite brevi messaggi battuti sulla tastiera. Dopo di che sarà possibile organizzare tour ai nuovi progetti con la partecipazione di progettisti, sindaco e assessori, naturalmente virtuali. Queste e altre possibilità delle reti saranno mostrate e discusse nell'ambito del work shop La città digitale, venerdì 6 dicembre, ore 9,30, al Lingotto Congressi, Torino (telefono: 011/664.41.11; e-mail: ind LingottoFiere.it). Luca Caneparo Politecnico di Torino


TUTTOSCIENZE SCUOLA. INGLESE Le parole della geofisica
Autore: CARDANO CARLA

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, LINGUISTICA, STRANIERI
LUOGHI: ITALIA

AMPLIAMO le nostre competenze linguistiche in inglese occupandoci questa settimana della composizio ne della litosfera. Tra pochi vocaboli specifici dell'argomento, compaiono nel brano nomi di elementi chimici e altre parole utili nelle letture scientifiche. «The rocks of the lithosphere have an average density of 2.7 and are almost entirely made up of 11 elements, which together account for about 99.5% of its mass. The most abundant is oxygen (about 46.60% of the total), followed by silicon (about 27.72%), aluminum (8.13%), iron (5%), calcium (3.63%), sodium (2.83%), potassium (2.59%), magnesium (2.09%) and titanium, hydrogen, and phosphorus (totaling less than 1%). In addition, 11 other elements are present in trace amounts of from 0.1 to 0.02%. These elements, in order of abundance, are carbon, manganese, sulfur, barium, chlorine, chromium, fluorine, zirconium, nickel, strontium, and vanadium. The elements are present in the lithosphere almost entirely in the form of compounds rather than in their free state. These compounds exist almost entirely in the crystalline state, so they are, by definition, minerals. The lithosphere comprises two shells, the crust and upper mantle, that are divided into a dozen or so rigid tectonic plates». «Earth», Microsoft (R) Encarta. Copyright (c) 1994 Microsoft Corporation. Copyright (c) 1994 Funk & Wagnall's Corporation. Average: vocabolo comunissimo nei testi scientifici; il significato è: medio, come aggettivo. La parola esiste anche come sostantivo. Può essere sostituita da mean. Silicon: un «falso amico» di cui già abbiamo parlato; significa silicio, l'elemento chimico tipico della litosfera; il silicone, invece (silicone anche in inglese) è il nome di una categoria di derivati sintetici polimerici del silicio. Aluminum: è facile capirne il significato, però attenzione allo spelling] Iron: significa ferro, simbolo: Fe; dal latino ferrum = ferro. Chlorine: tanto simile all'italiano da generare maldestre traduzioni come «clorina», nome adatto forse a un detersivo, ma decisamente una traduzione errata. Si tratta del cloro, elemento chimico dal simbolo Cl, di derivazione greca (chloros = verde). Fluorine: è il nome dell'elemento chimico fluoro, simbolo F, dal latino fluere = scorrere. Compound: la parola corrispondente è: composto. Free state: letteralmente stato libero, da contrapporre, come in italiano, allo stato combinato, in cui l'elemento fa parte di un composto. Shell: parola usata in molte aree delle scienze, col significato di strato, involucro, come nel nostro brano; egg shell è il guscio d'uovo, shell è la conchiglia dei molluschi, l'esoscheletro di molti artropodi e quello delle tartarughe. In chimica shells sono i livelli energetici cui appartengono gli elettroni in un atomo. Carla Cardano


TUTTOSCIENZE SCUOLA. L'ECONOMIA DELLE SANZIONI Autarchia con Vipla, Lanital, Vinidur Anni Trenta: il «fai da te» con nuove fibre e materiali sintetici
Autore: MARCHIS VITTORIO

ARGOMENTI: CHIMICA, STORIA, ECONOMIA, INDUSTRIA
NOMI: GADDA CARLO EMILIO, GIANI PIPPO
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

AUTARCHIA è una parola che oggi non si usa più: «dal greco, Autarkeia "Il bastare a se stesso", autosufficienza economica tale che un Paese possa produrre all'interno tutto ciò di cui ha bisogno ponendo termine alla dipendenza economica dall'estero» si legge sullo Zingarelli. Alle soglie della guerra, negli Anni Trenta, «autarchia» è una parola magica, rivitalizzatrice per un'economia povera, ridotta al lastrico dal blocco internazionale, che impedisce l'approvvigionamento di risorse materiali ed energetiche. Anche l'ingegnere Carlo Emilio Gadda parla delle «Funivie Savona - San Giuseppe di Cairo e della loro funzione autarchica nell'economia nazionale» (Le Vie d'Italia, dicembre 1938). Descrivendo l'impianto di trasporto del carbone dal porto di Savona sino al deposito sugli Appennini - ancora oggi visibile da chi percorre l'autostrada Ceva-Savona - può con gioia pensare «alla ferrovia che percorre la valle del Santuario (di Vicoforte) e a cui si risparmia tanto traino di vagoni dietro la breve scintilla del pantografo, tanto costo di materiale rotabile male utilizzato (...) dalla dimenticata frusta all'elettrico, dal cavallo all'autocarro cisterna. E per la nera merce, adesso, un mezzo speciale, uno strumento sottile e direi perfido: una trovata] La gru che sbraccia venti chilometri]». A Torino, nell'ottobre dello stesso anno si è inaugurata nel Palazzo delle Esposizioni del Valentino la Prima Mostra Nazionale dell'Autarchia, che ha visto lo svolgersi di un primo Convegno sul tema. Nel maggio del 1939, in occasione della visita (l'ultima) di Mussolini a Torino, hanno luogo le «Seconde giornate dell'autarchia»: si respira già aria di mobilitazione generale, la guerra è vicina. Con spirito ben differente si svolgerà nel novembre del '42 il primo «Convegno tecnico italo-germanico dell'autarchia». Metà delle relazioni tecniche sono a firma di ingegneri tedeschi «appartenenti alle Potenze dell'Asse». «Dopo l'esperienza delle sanzioni ginevrine - afferma Pippo Giani nella relazione conclusiva - apparve in tutta la sua importanza l'autarchia nazionale a sostegno dell'indipendenza politica del Paese». All'autarchia in senso stretto (e difficilmente attuabile) si associano i concetti di «sostituzione» e di «risparmio» . In questa prospettiva le tecniche e l'ingegneria assumono un significato particolare, soprattutto - al di là delle propagande politiche che costellano i documenti dell'epoca - per un «razionale impiego dei materiali». Più del 70% dei laminatoi in Germania ormai funzionano su cuscinetti di materia plastica: «Vinidur» e «Oppanol» sono i nomi commerciali dei nuovi materiali a base di cloruro di polivinile e su poli-isobutilene che trovano impiego anche nel nostro Paese. Con il «Vinidur» si costruiscono tubi, condotti, recipienti per l'industria chimica, carter per pompe. Per la prima volta si incomincia a parlare di «materie abbinate» che possono essere quasi considerate le progenitrici dei compositi. A un materiale si affidano le funzioni di sostegno, a un altro quelle di resistenza all'usura o di smorzamento delle vibrazioni. Soprattutto il tessile risente dell'ondata autarchica. Alla lana si sostituisce il «Lanital» che dimostra caratteristiche di coibenza termica migliori delle fibre artificiali alla viscosa e cuproammoniacali. La «Vipla» è ottenuta per polimerizzazione del cloruro di vinile monomero: per poter essere utilizzata per la filatura deve essere sottoposta ad una ulteriore clorurazione. La filatura avviene da soluzione acetonica. A fianco delle fibre sintetiche si mettono a punto nuove tecnologie per la lavorazione della cana pa, e persino delle fibre di gi nestre e vermene. Autarchia non è soltanto sviluppo e utilizzo di nuovi materiali - quasi un fai-da-te tecnologico - ma anche e soprattutto la razionalizzazione della progettazione. Proprio in questo periodo si incominciano ad alleggerire le costruzioni meccaniche eliminando i materiali in eccesso, si studiano le tensioni negli organi meccanici per evitare la concentrazione di sollecitazioni nei punti più facili a rottura, si valutano i problemi di integrazione tra elementi tra di loro interagenti. L'esempio della funivia di Savona nella descrizione dell'autore del «Pasticciaccio di via Merulana» è pienamente centrato. Una storia dell'autarchia, oscurata per molti anni sia dalla disattenzione degli storici per le tecniche sia dalle perplessità nell'affrontare a tutto tondo un decennio travagliato per il nostro Paese, non è ancora stata scritta. Vittorio Marchis Politecnico di Torino




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