TUTTOSCIENZE 11 settembre 96


ARCHEOLOGIA Il segreto delle piramidi Svelata la tecnica di costruzione degli egizi
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA, TECNOLOGIA, ARCHITETTURA
NOMI: FALESIEDI OSVALDO, CURTO SILVIO, BELZONI GIOVANNI BATTISTA
ORGANIZZAZIONI: MUSEO EGIZIO DI TORINO
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, EGITTO, IL CAIRO, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: D. Le macchine usate per la costruzione delle piramidi

NAPOLEONE guardava la cima delle piramidi e pronunciava frasi storiche davanti al suo stato maggiore, tipo «da lassù 40 secoli ci guardano». Certo a lui, piccolo di statura ma pieno di ambizione, l'altezza di quell'opera doveva dare, come del resto dà a chiunque, un senso di vertigine. L'ultimo masso al vertice della piramide di Cheope, a el Ghiza, periferia del Cairo, è a 146 metri di altezza. E' stato messo lassù a conclusione di un lavoro gigantesco durato trent'anni durante i quali la geometrica montagna è stata costruita sovrapponendo con millimetrica precisione oltre 2 milioni di cubi di arenaria (scavati sul posto) e di calcare (portati da lontano). La tradizione, ripresa in numerose ricostruzioni romanzesche di libri e cinema, ci racconta di enormi turbe di schiavi intenti a trascinare sotto la minaccia delle fruste i blocchi di pietra, a rizzare statue e monoliti, un'umanità perduta, sacrificata all'ambizione di sovrani e notabili. Ma negli ultimi decenni quest'immagine è apparsa sempre meno attendibile. Secondo le ipotesi più recenti le grandi costruzioni dell'antico Egitto sono opera di maestranze specializzate, e pagate, dotate di conoscenze e strumenti semplici ma adeguati. Gli antichi egizi, che ci hanno tramandato tante vivaci descrizioni della loro vita quotidiana, del lavoro, della religione, del gioco, sulla tecnica costruttiva non ci hanno lasciato nulla. Solo pochi indizi. Ma su questi indizi gli archeologi (e i tecnici delle più diverse specializzazioni che sempre più spesso li affiancano) hanno cominciato a lavorare da qualche anno arrivando a chiarire gran parte dei «misteri» rimasti finora insoluti. Per esempio: come furono sollevati i blocchi di pietra di piramidi e templi, e come furono tagliati, trasportati e eretti i grandi obelischi. Il greco Erodoto, che scriveva nel V secolo a.C., cioè a distanza di secoli, dice che gli antichi costruttori si servivano di «macchine fatte di piccoli legni»; all'inizio del secolo nelle fondazioni di alcuni templi e di tombe del Nuovo Regno sono stati trovati, riprodotti in scala, dei curiosi strumenti, subito chiamati per la loro forma culle, o dondoli, o slittini, o ancora elevatori oscillanti, accompagnati da rulli di legno lunghi un metro e con un diametro di 10 centimetri. Sulla base di questi pochi elementi già intorno agli Anni 30 si era ipotizzata una precisa tecnica costruttiva: i blocchi di pietra, si è detto, erano posti sopra le «culle» le quali erano poi fatte oscillare inclinandole prima da una parte poi dall'altra mentre al disotto di esse erano infilati dei cunei; ad ogni doppia oscillazione la «culla» con il blocco si sollevava di un'altezza pari a quella del cuneo; una volta che il blocco era giunto all'altezza voluta era poi fatto scorrere sui rulli fino alla posizione cui era destinato. Alla prova dei fatti, però, la teoria non regge perché il blocco, molto pesante, è estremamente instabile. Un test fatto di recente da ricercatori giapponesi davanti alle telecamere è fallito. Strada sbagliata? Vicolo cieco? No, secondo Osvaldo Falesiedi: le «culle» e i rulli sono le «macchine fatte di piccoli legni» di Erodoto; ma vanno impiegate in modo diverso, e allora funzionano. E Silvio Curto, già direttore del Museo Egizio di Torino, uno dei massimi conoscitori dell'antico Egitto, conferma. «Falesiedi - dice - ha risolto il problema della costruzione in ambienti stretti, sia nei templi sia nelle piramidi, e soprattutto quello del sollevamento dei grandi obelischi». Ma chi è Falesiedi? Un autodidatta ingegnoso (la storia dell'egittologia ne è piena, a cominciare da uno dei grandi pionieri, il padovano Giovanni Battista Belzoni, che prima di recarsi a scavare in Egitto faceva l'acrobata). Viterbese trapiantato a Torino, 52 anni, dipendente dell'Iveco (da cui riceve appoggio e aiuto), studi tecnici, appassionato di minerali e fossili, affascinato dagli antichi egizi e dai loro «misteri» insoluti; da 15 anni si arrovella intorno alle questioni tecniche, ha letto tutto il leggibile, ha esercitato conoscenze pratiche (è anche scultore in legno) e immaginazione. Sui pochi indizi ha costruito in scala, e via via modificato, le macchine che dovettero essere usate nella valle del Nilo per costruire i monumenti di quella splendida civiltà. Di recente tre di queste macchine le ha presentate in un'officina dello stabilimento Iveco di Torino, e ha dimostrato che funzionano. Vittorio Ravizza


Una «culla» come gru A Torino i test confermano la teoria
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA, TECNOLOGIA, ARCHITETTURA
NOMI: FALESIEDI OSVALDO, CURTO SILVIO, CILLI LEONARDO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO EGIZIO DI TORINO
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO), AFRICA, EGITTO

QUAL è stata l'originale idea di Falesiedi? Collocare i blocchi da sollevare non sopra le «culle» ma sotto, imbragati con funi. Le «culle», secondo Falesiedi, venivano poste al di sopra degli elementi da sollevare (blocchi delle piramidi, obelischi tagliati dalla roccia, statue), appoggiate alla struttura in costruzione. Facendole oscillare, operazione che con l'aiuto di travi usate come leve richiedeva l'applicazione di una forza modesta, esse si sollevavano lentamente (una decina di centimetri per ogni doppia oscillazione) ma in piena sicurezza. Le macchine ideate da Falesiedi in piccola scala saranno ora riprodotte in scala maggiore dal Centro di archeologia sperimentale torinese per provarle con pesi più vicini a quelli reali. Per Falesiedi si risolvono così tutti gli enigmi posti dai grandi edifici egizi. Per il professor Curto, tuttavia, è più probabile che quelle macchine fossero usate soprattutto dove occorreva costruire strutture interne più raffinate e dove c'era poco spazio. In sostanza, secondo Curto, la massa centrale delle piramidi fu costruita con il sistema, più rapido e meno costoso, delle rampe, piattaforme inclinate di mattoni crudi costruite in corrispondenza dei lati delle piramidi; su questi grandi scivoli i blocchi erano trascinati su slitte. La teoria, dice Curto, poggia su documenti archeologici ed è stata avvalorata dal Progetto Manzini vagliato quest'anno dall'Accademia delle Scienze di Torino. Il lavoro, dice, si svolgeva in tre fasi: nella prima si formava un nucleo di blocchi grossolani a struttura scalare, nella seconda si faceva un primo rivestimento di blocchi sgrossati per regolarizzare la struttura, nella terza era posato un secondo rivestimento di blocchi ben rifiniti che formavano infine delle facce perfettamente lisce. Durante la costruzione, le piramidi dovevano apparire quasi sepolte da questi scivoli di dimensioni enormi (i lati della piramide di Cheope sono lunghi 230 metri); nell'ultima fase, quella della rifinitura, il lavoro doveva procedere dall'alto verso il basso mentre le 4 piattaforme venivano a mano a mano distrutte. (Ma osserva Leonardo Cilli, architetto collaboratore di Falesiedi, che nei pressi delle piramidi dovrebbero esserci enormi depositi di questi mattoni crudi, che invece non si trovano). Di qui in poi intervenivano le macchine. Esse, dice Curto, furono usate «dovunque mancava lo spazio per posare le rampe, specie per le strutture interne e più raffinate». Dunque le ipotesi di Manzini e Falesiedi, che a Curto paiono «ormai definitive», si integrano.(v. rav.)


Dondoli Le tre macchine ideate e provate da Falesiedi
NOMI: FALESIEDI OSVALDO
ORGANIZZAZIONI: MUSEO EGIZIO DI TORINO
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, ITALIA, TORINO (TO), AFRICA, EGITTO

FALESIEDI ha realizzato tre tipi di macchine, per tre specifici impieghi: per il sollevamento di blocchi in pietra nella forma di un obelisco; per il sollevamento di statue di grandi dimensioni; per la movimentazione in verticale e il posizionamento dei blocchi usati per la costruzione della camera sepolcrale della piramide di Cheope. Vediamo ad esempio una possibile sequenza delle operazioni. Prima operazione: il blocco (rappresentato da un mattone di 2,5 chilogrammi) viene fatto inclinare usando due bastoncini di legno che nella realtà potevano essere travi, leve, funi; viene quindi bloccato nella posizione con cunei, pietre o travi. Al termine della manovra per effetto della trazione delle funi il dondolo risulta leggermente inclinato rispetto alle travi su cui poggia. Seconda operazione: si inserisce uno spessore (cuneo, tavola) sotto la base del dondolo che risulta sollevata (nell'esempio è una tavoletta di compensato). Terza operazione: si lascia libero il carico togliendo i fermi perché torni alla posizione iniziale, cioè verticale, poi si ripete la manovra sull'altro lato e si pone sotto il dondolo una seconda tavoletta opposta alla prima. Al termine della manovra il masso appeso al dondolo si sarà sollevato in misura pari allo spessore delle due tavolette inserite sotto il dondolo. Ripetendo la sequenza è possibile sollevare lentamente il carico all'altezza desiderata, eventualmente spostando verso l'alto i punti di appoggio della macchina via via che la costruzione cresce.


CON UN RADAR SPECIALE L'archeologo sale sullo shuttle Ricerche dallo spazio sulla Grande Muraglia cinese
Autore: MIGNANI ROBERTO

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, FOTOGRAFIA
ORGANIZZAZIONI: NASA, SIR (SPACEBORNE IMAGING RADAR)
LUOGHI: ESTERO, ASIA, CINA

NELL'IMMAGINARIO collettivo la figura dell'archeologo è legata a viaggi avventurosi nelle regioni più remote del mondo. Questa visione romantica sta rapidamente cambiando. Strumenti sempre più sofisticati sostituiscono la pala. Per esempio l'archeologo oggi può svolgere le sue ricerche dallo spazio con apparecchi a bordo dello shuttle, la navetta della Nasa. Uno dei problemi principali per l'archeologo è quello di individuare i resti di antiche civiltà quando questi sono completamente sepolti da sabbia e detriti vari o dalla vegetazione accumulatisi durante i secoli. Le immagini fotografiche delle zone archeologiche prese con i satelliti non sempre sono di grande aiuto. Lo strumento più efficace in questi casi è il radar, che riesce a penetrare nella vegetazione più fitta e può, addirittura, «scavare» nel terreno fino a qualche metro di profondità. Meglio ancora se il radar lavora a una quota di qualche centinaio di km, come quella dell'orbita dello shuttle. Sommando i dati accumulati nel corso della sua orbita è possibile, inoltre, simulare l'azione di una schiera di apparecchi disposti a grande distanza e di raggiungere, quindi, una risoluzione angolare sufficientemente elevata da poter distinguere dettagli delle dimensioni di pochi metri. Uno strumento di questo tipo, battezzato Spaceborne Imaging Radar (Sir), era stato installato a bordo dello shuttle Endeavour durante una delle sue precedenti missioni. Il principo di funzionamento è quello di un normale radar terrestre. Inviando un segnale radio a Terra e studiando le caratteristiche del segnale riflesso (eco) è possibile avere informazioni sulla forma della superficie interessata. Lavorando a tre diverse lunghezze d'onda (3, 6 e 24 cm), inoltre, il Sir è in grado di riconoscere oggetti di dimensioni diverse. Le immagini ottenute con il Sir hanno permesso così di studiare alcuni dei più importanti siti archeologici del mondo tra cui la città perduta di Ubar nell'Oman, la Via della Seta che costeggia il deserto di Taklamkan a Nord-Ovest della Cina e la città sacra di Angkor in Cambogia, antica capitale del regno Khmer tra il IX ed il XIII secolo. Ai tempi del suo antico splendore la città di Angkor era una delle capitali più importanti del Sud-Est asiatico. Essa contava più di 60 templi ed era dotata di una efficientissima rete di canali che servivano per irrigare i suoi numerosi giardini e per fornire l'acqua a circa un milione di abitanti. Ora Angkor e i suoi palazzi sono completamente sommersi dalla fittissima vegetazione tropicale ed è molto difficile riconoscere i suoi resti anche sorvolando la zona in elicottero. Inoltre, la città si trova nel bel mezzo della regione della Cambogia controllata dai khmer rossi, il che non incoraggia le ricerche archeologiche. Anche per questo, le osservazioni dallo spazio sono risultate preziose. Il radar dello shuttle è stato in grado di individuare la presenza di costruzioni nascoste discriminando variazioni nella crescita e nella struttura della vegetazione dovute a differenze nella superficie sottostante. In questo modo, le immagini radar hanno ora permesso di rilevare in dettaglio la planimetria dei canali e di studiare il complesso sistema idrologico della città, nonché di individuare la posizione di alcuni dei suoi templi. Uno degli ultimi siti esplorati dallo spazio è stata la Grande Muraglia in Cina. Come ci narra la storia, la costruzione della Grande Muraglia, che si snoda per una lunghezza complessiva di circa 2700 km, venne iniziata nel terzo secolo a.C. con lo scopo di proteggere l'impero cinese dalle invasioni delle popolazione mongole del Nord. Essa venne poi periodicamente ampliata nel corso dei secoli da ogni dinastia che si succedeva al trono dell'impero. Gli archeologi sono ora interessati a studiare un segmento della Muraglia che si trova in una regione desertica a circa 700 km ad Ovest della città di Bejing. Il compito non è semplice. Anche se una sezione della Muraglia è visibile da terra, la maggior parte è completamente ricoperta dalla sabbia del vicino deserto portata dal vento e dai detriti accumulatisi durante i secoli. Ancora una volta, le osservazioni radar sono risultate fondamentali. Tramite le immagini ottenute attraverso lo Sir dello Shuttle, infatti, è ora possibile distinguere due «generazioni» della Muraglia. La prima venne costruita circa 600 anni fa durante la dinastia Ming ed è la parte di più recente costruzione. La seconda, parallela alla prima, è più vecchia di circa 1000 anni e venne costruita durante la dinastia Sui. Roberto Mignani Cnr, Milano


AERONAUTICA Dirigibili, la rivincita A novembre uno Zeppelin in cielo
Autore: FILTRI TULLIO

ARGOMENTI: TRASPORTI, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: FADARO DOMENICO, SANTINI PAOLO, CASTELLANI ANTONIO, COLOMBETTI FILIPPO, FURIA FABRIZIO, VALLONE GIANLUIGI, UBERTAZZI AALESSANDRO, FIOR ALBERT, CAPRILE CARLO
ORGANIZZAZIONI: ZEPPELIN, MUSEO AERONAUTICO CAPRONI
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, GERMANIA, FRIEDRICHSHAFEN, ITALIA, TRENTO (TN), MILANO (MI), ROMA
TABELLE: D. Lo spaccato di un dirigibile classico e il prospetto del dirigibile tedesco Zeppelin NT

UN annuncio d'effetto è venuto dal secondo Congresso Internazionale sui dirigibili, svoltosi di recente a Friedrichshafen, sul lago di Costanza. La risorta Zeppelin, la ditta famosa per i suoi grandi dirigibili di tipo rigido, ha ufficialmente annunciato che a novembre farà volare un nuovo dirigibile, lo Zeppelin NT. Ha la cubatura di 7200 mc, tre motori da 200 cavalli, velocità massima di 140 chilometri all'ora, porta 12 passeggeri più due uomini di equipaggio, ha un'autonomia dalle 18 alle 36 ore, a seconda del carico. Sarà presto seguito da un nuovo Zeppelin, da 30.000 mc, con prestazioni maggiori. Il nuovo dirigibile è munito dei più moderni ritrovati della tecnica, che rendono sicura la navigazione. E' di tipo semirigido, cioè di scuola italiana, cosa insolita per la Zeppelin, caposcuola del tipo rigido, che ha reso famosa la Germania. E' munito di un sistema multidirezionale derivato da quello dell'Omnia Dir - tutte le direzioni - di Enrico Forlanini, del 1930. Questo sistema è applicato oggi anche a un elicottero di avanguardia, il Notar della Douglas, al posto dell'elichetta di coda. Il Congresso di Friedrichshafen è stato preceduto da quello tenuto nel 1995 a Trento, nel Museo Aeronautico Caproni. In esso, studiosi di 19 Paesi avevano confermato la vitalità del dirigibile. Tra i migliori progetti in esso illustrati, ricordiamo: lo Zeppelin NT di cui abbiamo appena parlato, il Dirigibile Alta Quota di Domenico Fodato, il dirigibile gigante russo da 600.000 metri cubi, di forma lenticolare, il dirigibile ad aria calda. Le Università hanno molto contribuito alla rinascita del dirigibile. Ha cominciato il Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale di Roma con una tesi di laurea discussa nel 1992 da Domenico Fadaro, relatori Paolo Santini e Antonio Castellani. Titolo: «Problemi strutturali dei moderni dirigibili». Il Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano, con una tesi discussa nel 1995 da Albert Fior, relatore Carlo Caprile. Titolo: «Studio di fattibilità di un dirigibile moderno». Una terza tesi di laurea è quella discussa al Politecnico di Milano nel 1995 dagli architetti Filippo Colombetti, Fabrizio Furia, Gianluigi Vallone, relatore Alessandro Ubertazzi. Titolo: «Veicoli per trasporto internazionale di merci, in assenza di peso, con eventuale sfruttamento delle correnti in quota». E' un progetto originale: propone un dirigibile modulare, dimensionato a seconda dei carichi da trasportare. E' opera di architetti, con la supervisione di un ingegnere aeronautico, Carlo Ferrarin. Il vecchio dirigibile, rinnovato nelle strutture e nei materiali, potrà dare un modesto ma valido contributo al trasporto aereo. Concepito dapprima per il servizio merci, il dirigibile moderno viene ora indicato anche per i passeggeri. Non in concorrenza con l'aeroplano, ma in servizi complementari, dove la bassa velocità è un pregio. Ad esempio: lotta anticrimine, vigilanza coste, servizi ecologici, soccorsi in zone disastrate, aiuto a navi incidentate, ricerca e ricupero naufraghi. Si aggiunge ora l'impiego per crociere turistiche e visite a zone archeologiche o panoramiche. Il dirigibile consente di portare i visitatori sul posto, riprenderli e condurli in giornata in altri luoghi. Il sistema Forlanini, applicato allo Zeppelin NT, libera il dirigibile dalla dipendenza del personale a terra. Può fare da solo, ancorarsi, spostarsi e ripartire. Tullio Filtri


SCAFFALE Diventano racconto fossili e Dna
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, LIBRI, NARRATIVA
PERSONE: GIUDICE GIOVANNI, MINORE RENATO
NOMI: GIUDICE GIOVANNI, MINORE RENATO
ORGANIZZAZIONI: SELLERIO, MONDADORI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Doppio assassinio». «Il dominio del cuore»

TIMIDAMENTE la cultura scientifica incomincia a filtrare anche nella nostra narrativa, rendendo meno solitarie le incursioni fatte nei decenni scorsi da scrittori come Italo Calvino e Primo Levi. Di più, si assiste a una osmosi: ci sono scienziati che tentano le vie della narrativa portando nella pagina le proprie conoscenze ed esperienze di ricercatori, e ci sono letterati che fanno dei contenuti scientifici una componente del loro racconto. Non per caso, spesso è la struttura del giallo a stimolare la narrativa degli scienziati: la ricerca scientifica, infatti, ha qualcosa dell'archetipo poliziesco: ci sono fenomeni-indizi che richiedono di essere rilevati e messi in relazione, ci sono ipotesi per spiegare questi fenomeni, c'è la prova cruciale dell'esperimento. Ha incominciato Danilo Mainardi, con due gialli etologici, «Un innocente vampiro» e «Il corno del rinoceronte» (Mondadori). Ora è la volta di un biologo molecolare di fama internazionale, Giovanni Giudice, professore all'Università di Palermo e accademico dei Lincei. «Doppio assassino» è l'appropriato titolo del suo racconto, edito da Sellerio. Ne è protagonista l'avvocato Mind, che in seguito a un incidente d'auto perde completamente la memoria degli ultimi 30 giorni prima del trauma. Proprio in quei giorni una sua cara amica, Virginia, era stata assassinata in circostanze misteriose: l'assassino doveva conoscerla bene, e lei doveva averlo accolto senza sospetto nella propria casa. Quando Mind riapprende dell'uccisione di Virginia (che l'incidente aveva cancellato dai suoi ricordi), ne è addolorato e sconvolto. Vorrebbe contribuire alla scoperta del colpevole, ma lo fa in modo maldestro, tanto che alla fine lui stesso viene accusato dell'assassinio. Una impronta digitale e il test del Dna sembrano incastrarlo senza scampo. E poiché il vuoto di memoria perdura, alla fine persino Mind dubita di sè e teme di essere realmente colpevole. Lo salverà l'indagine di un amico testardamente convinto della sua innocenza, il quale riesce a dimostrare che l'assassino è in realtà il suo «doppio», frutto di un esperimento di clonazione. A fornire la prova decisiva sarà ancora un test del Dna: ma del Dna dei mitocondri, organelli della cellula le cui «impronte» genetiche si trasmettono soltanto per via materna. Il racconto serve a Giovanni Giudice per aggiungere al volume una nota bioetica nella quale difende le tecniche dell'ingegneria genetica, pur ponendo la questione della loro regolamentazione. Sul versante simmetrico, narratori che mettono a profitto conoscenze di carattere scientifico, all'estero non mancano gli esempi: solo per citare i due più recenti, ricordiamo «Microservi» di Douglas Coupland (Feltrinelli) e «Il cromosoma Calcutta» dell'indiano Amitav Ghosh (Einaudi). Trovare qualcosa di analogo in casa nostra è più difficile. Un possibile segnale di tempi nuovi affiora tuttavia dall'ultimo romanzo di Renato Minore, «Il dominio del cuore» (Mondadori). Il racconto ci trasporta nel mondo della produzione televisiva e cinematografica. Senza entrare in discorsi critici (Giorgio Barberi Squarotti ha recensito «Il dominio del cuore» su «Tuttolibri» il 20 giugno), osserviamo soltanto come in questo caso la paleontologia offra spessore a uno dei personaggi, l'attore e sceneggiatore Pantieri, che ha la passione dei fossili e tiene a portata di mano l'impronta pietrificata di una Pikaia gracilens, creaturina vissuta 570 milioni di anni fa nella quale l'evoluzione sperimenta forse per la prima volta un rudimentale accenno di spina dorsale, un ritrovato biologico che avrà poi gran fortuna, segnerà il passaggio dal Precambriano al Cambriano e in qualche modo si porrà alle origini stesse della specie Homo. Scientificamente ben documentato, Renato Minore ci fa intuire quanta ricchezza di allusioni, di metafore - e in ultima analisi di poesia - uno scrittore possa trovare nell'«altra cultura». E, cosa altrettanto importante, quanto sarebbe meglio avere una sola cultura, anziché due dimezzate. Piero Bianucci


RICERCA La Corea scopre la fisica teorica Il Nobel Yang dirigerà un nuovo Centro
Autore: PAGAN FABIO

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA, NOMINA, DIRETTORI
NOMI: CHEN NING YANG, SALAM ABDUS, VIRASORO MIGUEL ANGEL, CHUNG KUNG-MO
ORGANIZZAZIONI: APCTP (ASIA PACIFIC CENTER FOR THEORETICAL PHYSIC), CENTRO INTERNAZIONALE DI FISICA TEORICA DI MIRAMARE
LUOGHI: ESTERO, ASIA, COREA DEL SUD, SEUL, EUROPA, ITALIA, TRIESTE (TS)

CAMBIANO rotta le «tigri asiatiche», le aggressive economie dell'Estremo Oriente protagoniste negli ultimi anni di una espansione industriale senza precedenti. La tecnologia da sola non appare più sufficiente a sostenere uno sviluppo in parte drogato dalla manodopera a basso costo e si avverte la necessità di investire nella scienza di base per innovare la ricerca applicata. L'esempio più chiaro è quello del Giappone, dove i fondi per la scienza sono sempre venuti in massima parte dall'industria privata, che li ha indirizzati ai propri fini produttivi. A farne le spese è stata l'università, che poggia tuttora su una struttura sclerotizzata. Lo testimoniano anche le statistiche dei premi Nobel per la scienza: di fronte ai 175 Nobel americani e ai 61 tedeschi, il Giappone può contare su appena 5 «laureati» a Stoccolma (e uno solo negli ultimi dieci anni: l'immunologo Susumu Tonegawa, nel 1987, che aveva comunque lavorato al Mit sulla genetica degli anticorpi). Dopo il sostanziale fallimento delle «città della scienza» (come Tsukuba), sorte con l'obiettivo di incoraggiare la sinergia tra ricerca accademica e industria avanzata, negli ultimi anni il sistema scientifico e produttivo giapponese è passato attraverso una fase di profonda autocritica. Investire poco e male nella ricerca fondamentale non è più una scorciatoia per il «miracolo economico». Una delle prime conseguenze è stata l'impennata registrata dal bilancio per ricerca e sviluppo nel '95. E recentemente il Consiglio per la scienza e la tecnologia ha chiesto al governo di investire nei prossimi cinque anni 155 miliardi di dollari: un incremento del 50 per cento rispetto agli ultimi cinque anni. Ma non è soltanto il Giappone a mettere in discussione il proprio modello di sviluppo tecnologico. La Corea del Sud, un Paese che ha fatto della competizione col Giappone uno dei punti- chiave della sua politica economica degli ultimi anni, punta ora sulla fisica teorica per rilanciare il proprio ruolo internazionale nell'area del Pacifico. Un caso che vale la pena di vedere un po' da vicino, anche per alcuni inattesi rapporti con l'Italia. A Seul, ai primi di giugno, una grande Conferenza su particelle e cosmologia ha inaugurato ufficialmente l'attività dell'Apctp, l'Asia Pacific Center for Theoretical Physics, destinato a sorgere nei prossimi anni nella capitale sudcoreana. Un centro di ricerche che fin d'ora raggruppa tutte le nazioni più importanti che si affacciano sul versante orientale del Pacifico: dal Giappone alla Cina, dalla Corea del Sud all'Australia, dalla Malaysia alle Filippine, a Singapore, a Taiwan, alla Thailandia e al Vietnam. Special advisor dell'Apctp è lo scienziato cino- americano Chen Ning Yang, 74 anni, allievo di Fermi a Chicago, che ricevette giovanissimo il Nobel per la fisica nel 1957, oggi professore all'Università di New York a Stony Brook. A fine anno Yang deciderà se accettare o no la direzione del nuovo centro. L'Apctp nasce dichiaratamente a immagine e somiglianza del Centro internazionale di fisica teorica di Miramare, presso Trieste, che dal 1964 (sotto la bandiera delle Nazioni Unite) accoglie ogni anno migliaia di fisici e matematici del Terzo Mondo. Il legame ideale tra il Centro di Miramare e il suo «gemello» di Seul non sta solo nei programmi e nelle finalità: quasi tutti i membri del planning committee dell'Apctp sono stati infatti membri associati del Centro di Miramare e in quanto tali hanno trascorso lunghi periodi di studio e di ricerca in Italia. Un'esperienza che ha lasciato in loro una traccia profonda, al punto di volerla riproporre in una regione del pianeta che oggi appare tra le più attive e dinamiche sul piano economico e tecnologico. E' una nuova dimostrazione della validità del «messaggio» che Abdus Salam - il carismatico premio Nobel pakistano che ha diretto il Centro di fisica teorica dalla fondazione fino a tutto il 1993 - ha lasciato dietro di sè. «Ancora una volta la fisica teorica diventa un volano importante per lo sviluppo», osserva Miguel Angel Virasoro, il fisico argentino che l'anno scorso ha raccolto l'eredità di Salam alla guida del Centro di Miramare, presente anch'egli alla Conferenza di Seul. «Finora la Corea del Sud (come il Giappone) era stata accusata di voler puntare allo sviluppo economico e industriale facendo a meno della ricerca di base e concentrando i propri sforzi nella ricerca applicata. Ma adesso le cose stanno cambiando, e il governo coreano ha deciso di investire nella ricerca fondamentale e nella formazione di una nuova generazione di scienziati. Merito anche dell'attuale ministro della Ricerca, il fisico Chung Kung- Mo, scienziato e politico di grande competenza e intuito». L'Asia Pacific Center for Theoretical Physics si appoggerà all'Università di Seul e al Kias, il Korean Institute for Advanced Studies. Due gli obiettivi di fondo: fare ricerca di eccellenza e fungere da scuola avanzata per i giovani fisici dell'area asiatica e australiana. Poi, se l'iniziativa avrà successo, l'Apctp pensa di espandere le proprie attività alla matematica, alla chimica, alla biologia. Il governo sudcoreano si è assunto l'onere della costruzione degli edifici del Centro e si impegna a far fronte a una quota significativa del suo bilancio iniziale, che dovrebbe aggirarsi sui 5 milioni di dollari. Per il resto confida molto nel contributo finanziario del Giappone. Nonostante la sfida economica che Seul ha ingaggiato con Tokyo. Fabio Pagan


TECNOLOGIA ITALIANA Per il telefono planetario nasce Tensor Stabilizzerà i 56 satelliti del sistema di comunicazione «Globalstar»
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, TECNOLOGIA, ELETTRONICA
NOMI: PASCUCCI MARCO
ORGANIZZAZIONI: LABEN, GPS TENSOR, GLOBALSTAR, ALENIA SPAZIO, ISTITUTO DI FISICA NUCLEARE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MILANO (MI)

SI chiama «Gps Tensor» ed è un sofisticato sistema elettronico ideato per la nascente telefonia cellulare via satellite. A realizzarlo ci ha pensato un'azienda italiana leader del settore, la milanese Laben, che metterà a punto il sistema «Tensor» per una intera rete di 56 satelliti per telecomunicazioni; la rete diventerà pienamente operativa dal primo decennio del Duemila. I satelliti fanno parte del consorzio internazionale «Globalstar» e verranno costruiti dall'Alenia Spazio, della quale fa parte la stessa Laben; i lanci avverranno tra la fine del 1997 e il 1998 con la possibilità di lanciare in orbita fino a 12 satelliti con un solo razzo vettore, da scegliere tra l'europeo Ariane 4 e il russo A-2 Sojuz. «E' uno strumento innovativo - spiega il direttore della Laben, Marco Pascucci - che sostituirà i sensori di bordo tradizionali, usati finora sui satelliti. Abbiamo già sviluppato dei chip particolari con tecnologia elettronica avanzata e computer in grado di svolgere 20 milioni di operazioni al secondo. Inoltre il costo dell'apparato è piuttosto basso, valutabile sulle centinaia di migliaia di dollari». Il primo modello di volo del «Tensor» qualificato sarà pronto tra qualche mese, e in Laben stanno già facendo dei test con una piattaforma formata da quattro antenne orientabili, che ha volato lo scorso febbraio sul satellite «Spartan» , rilasciato e poi recuperato in orbita dalla navetta americana. Lo scopo del sistema è quello di garantire il controllo, la stabilizzazione e l'orientamento in orbita di ciascun satellite. Il sistema è piuttosto complesso come software, poiché i satelliti saranno tutti in movimento; quindi, oltre a gestire la propria posizione, dovranno essere in grado di «seguire» quella degli altri della stessa rete Globalstar, nonché quelli del Gps che si trovano su altre orbite. «Il sistema Tensor - dice ancora Pascucci - diventerà indispensabile per i piccoli satelliti che oggi hanno un mercato in continua espansione. Con due antenne distanziate tra loro di un metro, si può già garantire la corretta posizione di un satellite, che potendo gestirsi da solo può evitare la scomodità logistica e il costo elevato di decine di stazioni a Terra». «L'esperienza che abbiamo acquisito, specie sull'elettronica di bordo dei satelliti - aggiunge Pascucci -, ci ha portato a un recente accordo con la Russia, per far volare alcuni nostri esperimenti su capsule recuperabili Photon. Sempre con i russi stiamo anche preparando un altro esperimento, insieme all'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, per la fisica delle alte energie denominato Nina, che dispone, come rivelatore, di sottilissime piastrine al silicio di 6 per 6 centimetri con dei piani che permettono di rintracciare la traiettoria delle particelle». La costellazione Globalstar, che si comporrà di 48 satelliti più 8 di riserva, permetterà un servizio di telefonini palmari globale con la possibilità di comunicare in ogni angolo del mondo. Il costo complessivo del programma è previsto in 3,5 miliardi di dollari (circa 5600 miliardi di lire). Antonio Lo Campo


VITA SEGRETA DELLA TALPA Con un radar sul naso Recettori tattili per orientarsi al buio
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: YATES TERRY
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DEL NUOVO MESSICO
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, NUOVO MESSICO
TABELLE: D. Le diverse specie di talpe; D. Struttura della galleria scavata dalla talpa

LO slogan pubblicitario «ti spunta un fiore in bocca», che imperversava qualche tempo fa, dovrebbe diventare «ti spunta un fior sul naso» per la talpa stellata d'America (Condylura stellata) l'unico mammifero al mondo che abbia sulla punta del naso un anello di ventidue tentacoli rosa a forma di stella. Lo zoologo Terry L. Yates dell'Università del Nuovo Messico che l'ha studiata per una decina d'anni, ha scoperto che ciascun tentacolo, simile al petalo di un fiore, contiene una quantità straordinaria di sensibili recettori tattili. Grazie a questi recettori l'animaletto, che è quasi cieco, nelle sue scorribande sotterranee procede speditamente, come se ci vedesse anche al buio. E' naturale che di quel prezioso organo-guida la talpa abbia grandissima cura. Tutte le volte che il naso le s'imbratta di terriccio o di sudiciume, l'animale va in acqua a sciacquarselo. Le altre l8 specie di talpe che popolano la Terra, tra cui la talpa europea (Talpa europaea), la più diffusa in Italia, pur non avendo quella rosea appendice floreale sul naso, posseggono sul musetto a forma di grugno una quantità di peli tattili o «vibrisse» che li guidano magnificamente nel dedalo di cunicoli della tana sotterranea. Ne hanno persino sulla coda, per cui si accorgono anche di quello che succede alle loro spalle. Scavano il terreno con un'abilità prodigiosa. Si aprono la strada col grugno e con le unghie delle larghe zampe anteriori, avanzando a mò di trivella. Di tanto in tanto la talpa emerge in superficie per scaricare la terra scavata. Così intorno al foro d'uscita si forma una collinetta. Tutte quelle aperture disseminate qua e là fanno da fori di ventilazione per la tana sottostante, ma servono anche da uscite di sicurezza in caso di pericolo. E man mano che il lavoro di scavo procede, si forma all'esterno uno strano paesaggio di montagnole che denunciano la presenza delle invisibili scavatrici. Tra i l0 e i 40 centimetri di profondità è tutto un intrico capriccioso di gallerie che ogni tanto si allargano a formare cavità di una ventina di centimetri di diametro. Sono le «camere di riposo» in cui l'animale si rifugia quando ha bisogno di relax. Nel dedalo dei tunnel sotterranei c'è profusione di prede, soprattutto nella buona stagione. I contadini che mugugnano accusando la talpa di rovinare le radici delle piante coltivate, non tengono conto del fatto che l'animale mangia bruchi e insetti nocivi in quantità. Bisogna dire che, pur essendo così efficiente nella caccia, la talpa non è una stakanovista. Regolarmente, dopo 4-5 ore di lavoro, si concede qualche ora di riposo sui morbidi cuscini d'erba delle sue camere sotterranee. Ed è giusto che lo faccia, perché non esiste per lei la pausa del letargo invernale, concessa invece in larga misura al suo cugino insettivoro, il riccio. Nei mesi più rigidi dell'anno, per difendersi dal freddo, la talpa si accontenta di scavare speciali gallerie invernali più profonde, intorno ai 60 centimetri sotto la superficie. E lì si trattiene, dedicandosi anche all'attività venatoria, fino a che l'aria esterna non si fa più dolce. Ogni individuo si insedia in un territorio che conserva per tutta la vita, cioè per 3 o 4 anni. E ne è custode gelosissimo. Per poco che un collega osi sconfinare, sono botte da orbi. I duelli più feroci avvengono nella stagione degli amori, l'unica epoca dell'anno in cui la talpa, abbandonata la consueta solitudine, si accosta agli altri individui della stessa specie. Se si incontrano due maschi si scatena immediatamente un combattimento furibondo. Definirlo «all'ultimo sangue» è poco perché l'esito del duello è ancora più drammatico. Il vinto finisce spesso divorato dal vincitore. Data l'innata aggressività della specie, per favorire l'incontro tra i due sessi si sviluppa all'inizio della primavera un'intensa attività ormonale. Maschio e femmina producono ed emanano feromoni intensamente profumati, che li aiutano a ritrovarsi. Ma bisogna convenire che i maschi sono dotati di un notevole ardore, visto che tutte le femmine riescono a diventare madri. L'estro della femmina è fugacissimo: dura solo un giorno. Passato quell'unico giorno di smarrimento e di passione, la talpa gravida riprende la sua vita solitaria. Dopo un periodo che varia dai 28 ai 40 giorni secondo le specie, giunge il momento del parto. Nelle tane femminili il lieto evento era previsto e tutto è già predisposto perché le cose si svolgano nel migliore dei modi. La padrona di casa si è costruita una camera ampia e accogliente, ben tappezzata di soffici erbe che vengono rinnovate ogni anno. Serve da sala parto e da nursery. E' qui che la partoriente dà alla luce da 3 a 7 affarini minuscoli, rosei, ciechi e nudi che pesano circa 3 grammi ciascuno. Fatto piuttosto insolito tra i mammiferi, la placenta non viene espulsa, ma rimane nell'utero, dove viene riassorbita. La madre si occupa da sola dei piccoli (il marito ormai è uccel di bosco). Allatta i figli per circa sei settimane e appena sono svezzati corre in giro a procurarsi ogni sorta di cibo per sfamarli. Come molti neonati, i cuccioli di talpa sono insaziabili. In 3 settimane raggiungono i 60 grammi, 20 volte il peso della nascita. Appena diventano autosufficienti, avidi come sono di cibo, i piccoli commettono una grossa imprudenza: salgono in superficie dove sanno di trovare bocconi prelibati. Ma fanno i conti senza l'oste. Perché c'è tutta una folla di predoni terrestri e alati che li aspetta al varco. Ed è una strage. Si calcola che ogni anno i due terzi delle giovani talpe vengano divorati dai predatori. In fatto di appetito, anche le talpe adulte non scherzano. Consumano nelle 24 ore cibo per un peso equivalente a quello del loro corpo. Ma le prede non sono disponibili tutto l'anno. E allora le furbissime talpe fanno riserve per i tempi di magra. Alcune camere del nido sono adibite a dispensa. Lì accumulano enormi quantità di insetti e di vermi. Il bello è che le talpe hanno trovato il modo di mangiare carne fresca tutto l'anno. Come fanno? Divorano la parte anteriore dei lombrichi di riserva, quella che contiene i gangli nervosi, centri di coordinazione dei movimenti. I lombrichi sono così paralizzati, ma vivi. La loro carne rimane così freschissima per molti mesi, anche se le talpe non hanno il frigorifero. Isabella Lattes Coifmann


BOSCHI IN FUMO Raddoppiati rispetto al '95
NOMI: CORRADO GIORGIO
ORGANIZZAZIONI: CORPO FORESTALE DELLO STATO
LUOGHI: ITALIA

BRUTTE notizie dal fronte estivo degli incendi boschivi in Italia: a luglio e agosto la superficie bruciata è stata di 38 mila ettari. Nello stesso periodo '95: 18.300. Raddoppiato anche il numero degli incendi: da 3266 a 6093. In realtà la cifra del '95 - un minimo storico degli ultimi vent'anni - è stata dovuta soprattutto ad un'estate particolarmente piovosa. La regione che quest'estate ha subito maggiori danni è stata la Puglia con 15.522 ettari andati in fumo, seguita dalla Basilicata con 7630 ettari. Da sole le due regioni detengono la metà della superficie bruciata della penisola. Scarsi danni in Lombardia, Veneto e Valle d'Aosta; 272 ettari bruciati invece in Liguria, 16 in Piemonte, 53 in Emilia Romagna, 44 nelle Marche, 771 in Toscana. Nonostante i numeri, secondo Giorgio Corrado, dirigente del Corpo Forestale dello Stato, «la tendenza degli ultimi anni è verso una diminuzione. Se nei primi Anni 90 si avevano infatti circa 15 mila incendi all'anno, dal '94 la cifra si è stabilizzata sotto i 10 mila. Il calo è dovuto, oltre che a maggiori piogge estive, ad un cambiamento di strategia da parte del Cfs, con maggiore efficienza e impiego immediato dei mezzi aerei». Il servizio antincendi del Corpo Forestale dello Stato utilizza 2500 uomini, organizzati in 44 gruppi meccanizzati ad alta specializzazione. «Importante è il numero verde (1678-69100), - aggiunge Corrado - che serve non solo per segnalare focolai ma anche reati ambientali diversi. L'origine dei fuochi? 50 per cento doloso, il resto disattenzione o cause involontarie. Da segnalare infine un progressivo aumento degli incendi quanto più cresce la circolazione di autoveicoli nelle zone interessate».


Al fuoco al fuoco Informatizzati i piani contro gli incendi boschivi Ai tempi di Napoleone i piromani venivano fucilati
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INCENDI, STATISTICHE
NOMI: BOVIO GIOVANNI
ORGANIZZAZIONI: CORPO FORESTALE DELLO STATO
LUOGHI: ITALIA

I Paesi del bacino del Mediterraneo sono quelli più colpiti dagli incendi boschivi a causa della frequente siccità, del vento, del tipo di vegetazione, della densità degli alberi e delle condizioni meteorologiche favorevoli all'appiccarsi e al diffondersi del fuoco. Bisogna però osservare che le situazioni possono essere molto diversificate: nei casi in cui il bosco è composto da specie eliofile la biomassa bruciabile è superiore; inoltre ad altitudini comprese fra 400 e 1000 metri si verifica un numero ben superiore di incendi rispetto a quanto accade a quote maggiori poiché la parte più elevata della montagna, caratterizzata da maggiore piovosità, ospita boschi formati da conifere, specie meno infiammabili delle latifoglie. Il bosco ceduo (di castagni, per esempio) è più frequentemente percorso dal fuoco, mentre la fustaia pura di latifoglie è poco colpita perché nella parte aerea possiede una limitata biomassa. «In Piemonte - spiega Giovanni Bovio, docente di Protezione dagli incendi boschivi presso la facoltà di Agraria dell'Università di Torino e autore dell'interessante studio "Come proteggerci dagli incendi boschivi" pubblicato dalla Regione Piemonte - il castagno è la specie più colpita (65 per cento), seguita dalla quercia (25 per cento) e dalla betulla (20%), in quanto nella nostra regione l'incendio è di tipo radente». I rimedi di prevenzione e di protezione del bosco si inseriscono nella pianificazione territoriale, comportano l'intervento di numerose competenze e richiedono il coordinamento di molte risorse. In seguito a vasti incendi sulla Costa Azzurra Napoleone aveva dato disposizioni al prefetto dell'area di individuare i colpevoli e fucilarli, mentre dopo incendi catastrofici avvenuti in Australia già nel 1939 sono stati promulgati i cosiddetti Forest Act per individuare le misure da adottare in foreste a vocazione speciale e si sono apprestati regolamenti per lottare contro gli incendi nelle zone rurali. Una protezione totale del territorio dal fuoco sarebbe troppo costosa, per cui recentemente tra gli esperti di incendi si è diffuso il concetto di «superficie bruciata ammissibile», cioè dal «fire control» si è passati al «fire management», nel senso che è stato riconosciuto che il fuoco in particolari situazioni (giudicate da tecnici competenti e mai in vicinanza di abitati) può essere un elemento di gestione: la rinnovazione del Pinus palustris può ad esempio essere stimolata dalla fiamma. Questa tecnica però è assai contrastata da quei forestali formatisi negli anni in cui si pensava che il fuoco fosse sempre dannoso al bosco. In Italia esistono attualmente piani antincendi preparati in seguito alla legge 47/75 da ciascuna Regione avvalendosi delle competenze del Corpo Forestale dello Stato e delle Comunità Montane, tenendo conto degli eventi, definendo l'area su cui si estende il piano, realizzando aree omogenee, raggruppando Comuni con aspetti simili, stabilendo interventi di prevenzione, di rifornimento idrico, di viali tagliafuoco, le priorità di intervento, le modalità di previsione del pericolo, dell'avvistamento e dell'organizzazione delle squadre di estinzione. Poiché il piano antincendi è un documento di consultazione complessa, le Regioni ne hanno preparato anche una versione informatica. Elena Accati Università di Torino


BIOLOGIA MOLECOLARE Tubercolosi: nuove diagnosi Hiv e tbc diventano un'«associazione a delinquere»
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: MULLIS KARY
LUOGHI: ITALIA

LA biologia molecolare entra nei laboratori che effettuano la diagnosi di tubercolosi. Intendiamoci, il tradizionale esame microscopico per accertare la presenza del microbatterio rimane sempre il procedimento più semplice e rapido per fornire la conferma microbiologica della tubercolosi, ma oggi anche le tecniche molecolari sono diventate un mezzo sicuro e poco costoso per identificare i bacilli, con vantaggi notevoli. Il problema è attualissimo: la tubercolosi devasta i Paesi in sviluppo, ma vi è un ritorno in forze anche nei Paesi industrializzati nei quali si riteneva fosse ormai vinta. Questa recrudescenza è stata senza dubbio favorita dalla propagazione dell'Hiv, il virus dell'Aids: Hiv e tubercolosi formano un'associazione per delinquere nella quale l'uno amplifica l'impatto dell'altra. Nei soggetti infettati da Hiv la tubercolosi è oggi la prima causa di morte. Tuttavia non è soltanto questo il motivo dell'estensione mondiale dell'attuale epidemia della tubercolosi. Sempre di più le migrazioni ed i viaggi internazionali permettono ai microbatteri di oltrepassare ogni frontiera. Inoltre specialmente nelle grandi città esiste una popolazione di emarginati, principali vittime della tubercolosi perché non hanno un soddisfacente accesso alle organizzazioni di diagnosi e di cura. Appunto della diagnosi di laboratorio è importante parlare. Finora i classici metodi per mettere in evidenza i microbatteri erano l'esame microscopico mediante il metodo di colorazione di Ziehl-Neelsen, i terreni di coltura e l'inoculazione del materiale patologico delle cavie. Ma l'esame microscopico è poco sensibile poiché occorre che il prodotto patologico contenga almeno 10 (4) bacilli per microlitro per avere una buona probabilità di vederne uno. Quanto alla coltura e all'inoculazione nelle cavie il difetto è di richiedere molto tempo per ottenere un risultato. La speranza di migliorare la situazione risiede soprattutto nella genetica molecolare. E' possibile infatti identificare i microbatteri mediante sonde genetiche. La sonda è un tratto di filamento di Dna costituito da una determinata sequenza di basi e marcato con un isotopo radioattivo. La sequenza viene preparata appositamente in maniera che corrisponda alla sequenza che si vuole individuare, in questo caso la sequenza del Dna specifica dei microbatteri della tubercolosi. Se c'è il filamento dei microbatteri il filamento della sonda si appaia con questo, si «ibrida». Essendo il filamento-sonda riconoscibile perché radioattivo, ecco scoperto quello che si cercava, il tratto di Dna dei microbatteri. Le sonde permettono di svelare in due ore la presenza di microbatteri nelle culture. C'è di più. Ultima arrivata è la «Polymerase Chain Reaction» ideata dall'americano Kary B. Mullis (Nobel per la chimica 1993), che ha rivoluzionato la genetica molecolare permettendo di ottenere in poche ore centinaia di migliaia di copie d'una sequenza di Dna. La sequenza in tal modo moltiplicata viene messa in evidenza per ibridazione con una sonda genetica. Dunque è teoricamente possibile individuare la presenza di un unico microbatterio della tubercolosi in un materiale patologico. Il risultato si ha in meno di 24 ore. Sebbene molto promettente, questa amplificazione genetica non è ancora diventata un mezzo di routine per scoprire i microbatteri in un prodotto patologico che risulti negativo all'esame microscopico. In compenso può essere fin d'ora usata per determinare se i microbatteri visibili al microscopio sono veramente quelli causa della tubercolosi oppure atipici (ne esistono numerosi non tubercolari), cosa molto importante dal punto di vista epidemiologico e terapeutico, specialmente per i soggetti Hiv-positivi. Ulrico di Aichelburg


MODEM OPERANDI. PROBLEMI DI NAVIGAZIONE Credere a Internet? L'attendibilità della scienza in rete
Autore: MERCIAI SILVIO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

PER la ripresa del nostro dialogo dopo l'intervallo delle vacanze avevo innanzitutto pensato di parlarvi della mia esperienza di Internet in Australia, dove è molto diffusa e utilizzata, come in tutti i Paesi molto estesi e con reali problemi di comunicazione. Ma questo è un discorso un po' lungo: se vi interessa, fatemelo sapere. Invece, mi sta a cuore subito una risposta. Nell'ultimo articolo pubblicato, facevo cenno al mio modo di usare Internet (anche in relazione alla mia professione di medico specialista) e vi chiedevo di scambiare con me le vostre esperienze. Grazie a chi lo ha fatto. Alcuni lettori, però, (mi riferisco a Roberta M. da Torino e a Lorena B. da Leinì) mi hanno scritto descrivendomi situazioni cliniche particolari e chiedendomi di segnalarle su Internet: rispondo qui a queste lettrici dicendo che farò il mio possibile per venire incontro alle loro richieste, ma che, in linea di principio, non intendo, per ovvii motivi, sostituirmi o intromettermi in nessun rapporto terapeutico in atto, tanto più che i grandi ospedali torinesi e l'Università già fruiscono di servizi specializzati di consultazioene delle banche dati di Internet e quindi è davvero improbabile che io possa aggiungere qualche cosa di utile. Comunque, alle due lettrici, i miei migliori auguri. Un'altra cosa che vi preannuncio, ma che oggi rimanderei e sulla quale attendo di sapere se siete interessati, riguarda un approfondimento che sto facendo circa l'attendibilità (scientifica) dei dati reperibili sulla Rete: che, come sapete, tendono ad essere istantanei e «in tempo reale», ma spesso sono incontrollati (chiunque può pubblicare su Internet qualsiasi cosa: in una rivista scientifica, invece, i dati, prima di essere pubblicati, vengono sottoposti a severe verifiche). Tutto questo è evidentemente importante proprio in relazione ad ambiti, come quello medico, in cui, se è importante l'aggiornamento il più ampio possibile, occorre anche poter vagliare con grande attenzione la fondatezza delle informazioni a cui ci si riferisce. L'ultima cosa di cui volevo parlarvi è l'articolo pubblicato sulla prima pagina del nostro giornale da Barbara Spinelli nel numero del 4 agosto. Riguardava l'uso che il terrorismo fa di Internet ed era intitolato «Quando il nemico corre su Internet». Nel suo pezzo, largamente condivisibile, l'autrice segnalava, tra l'altro, come Internet venga utilizzato come ambito dove i terroristi chiamano a raccolta gli iscritti, per spiegar loro come si fabbricano le bombe, come si debilita una democrazia, come si semina paura nei cieli, nelle metropolitane, nei negozi, nelle scuole. Il mio modesto parere è che tutto questo è anche vero e che certamente occorre tenerne conto, ma che osservazioni di questo tipo corrono il rischio di essere lette da taluni come la sottolineatura di una caratteristica specifica di Internet (fa il paio con gli articoli che descrivono l'esistenza di siti a luci rosse su Internet, che ci sono, certo, ma non provano che Internet sia pornografia). Il punto è che i mezzi di comunicazione possono essere usati e abusati da chiunque e a qualunque fine: un'arma a doppio taglio, tipica dei regimi democratici, che non riguarda in nessun modo specificamente Internet: lo stesso discorso vale per il telefono o la posta tradizionale. Ora: possiamo pensare a un modo di fare i conti con tutto questo che non sia l'automatica invocazione, più o meno consapevole, di un controllo censorio? Silvio A. Merciai


Spietati cacciatori di virus Programmi in difesa dell'hard disk
Autore: A_CON

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

RETI, posta elettronica, Bbs: sono i nuovi canali sfruttati dai virus informatici per colpire l'hard disk del vostro computer. Con l'apertura di un sempre maggior numero di porte verso l'esterno, aumenta a dismisura il rischio di una infezione telematica con le conseguenze più svariate: da semplici irregolarità di funzionamento, a drammatiche piantate di sistema, sino alla cancellazione totale dell'hard disk. L'epidemia è tanto più grave per l'aumento delle varietà dei virus, che non sono altro che piccoli programmi, difficili da individuare sulle consuete «directory» di controllo, studiati per provocare danni, a distanza. A questi colpi mortali si può reagire in un solo modo: ricorrendo agli antivirus, programmi che hanno il compito di passare in rassegna ogni angolo delle memorie a caccia di quegli ospiti indesiderati che vengono prima segnalati all'operatore e, su comando, rimossi e distrutti. Nella vasta gamma di questi prodotti «difensivi» si distingue il recentissimo PC-cillin 95, in grado di mettere un'ala su qualsiasi sistema operativo (Win 95, Win 3.x e Dos) e di svolgere anche la preziosa opera di controllore di Internet. PC-cillin è infatti una affidabile sentinella che, se lasciata perennemente attiva, è in grado di individuare circa 6000 sofisticati virus (compresi quelli ad algoritmo mutante, realmente in grado di nascondersi nelle pieghe delle memorie) ed è soprattutto capace di lasciare fuori dalla porta quelli che volessero insinuarsi attraverso Internet. Il programma è un po' caro (220.000 lire più Iva), ma ne esiste una versione in italiano e gira con qualsiasi processore, dal vecchissimo 8086 ai Pentium più avanzati. (a. con.)


Il burattinaio digitale Cartoon virtuali col sistema Porc
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, COMUNICAZIONI, FILM ANIMAZIONE
NOMI: MONSE' MARIA, LEVNER GEOFF
ORGANIZZAZIONI: MEDIALAB
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA
NOTE: «Go-Cart»

IL Bugs Bunny che vediamo ogni sera in tivù durante «Go-Cart» (Rai Due) non è un cartone animato. Scherza con la presentatrice Maria Monsè, improvvisa gag, risponde in diretta alle domande dei telespettatori. Tutte cose impossibili per un tradizionale cartoon, almeno fino a qualche tempo fa. Ma questo Bugs Bunny è l'ultimo risultato dell'incontro di due mondi differenti: la tecnologia della computer grafica e la spontaneità dell'uomo. Testimone dell'eccezionale incontro, la realtà virtuale. Il famoso coniglio della Warner viene animato in tempo reale da un mimo che trasmette i suoi movimenti al computer, grazie ai sensori della realtà virtuale. Dietro le quinte, proprio come un burattinaio digitale, il mimo indossa i DataGlove, guanti elettronici usati nei sistemi di realtà virtuale. Dai movimenti delle mani, un computer superveloce genera le immagini tridimensionali di Bugs Bunny, attingendo a un data base grafico di espressioni facciali e posizioni precalcolate. In questo modo, il burattinaio digitale può manipolare il suo personaggio, rispondendo al pubblico in tempo reale. La tecnica di animazione usata in «Go-Cart» è stata ideata dalla parigina MediaLab, una società al crocevia di tecnologie diverse, dalla creatività quasi artigianale dei cartoon ai dispositivi hi-tech di tute e guanti per la realtà virtuale. Nata nel 1989, 70 dipendenti (età media 30 anni e provenienze disparate, dal teatro alla programmazione, dalla computer grafica al fumetto), controllata da Canalpiù (la pay-tv francese), Medialab ha sviluppato il sistema Porc per abbattere i costi dell'animazione. L'acronimo, scherzoso, sta per Puppetry Orchestratec in Real-Time by Computers. In breve, significa che è possibile animare «puppet» tridimensionali direttamente con i movimenti del corpo. Nato sotto la guida di Geoff Levner, il sistema Porc elabora i dati raccolti da un esoscheletro (una serie di sensori posti su tutto il corpo del mimo) e ne riproduce i movimenti in computer grafica. Il mimo si muove e il personaggio sintetico ripete il passo. E' quasi una rivoluzione nelle tecniche di animazione, e anche nel cinema. MediaLab ha realizzato il sogno di ogni regista: dirigere i personaggi dei disegni animati proprio come degli attori reali. La rivoluzione è cominciata con Donkey Kong, il famoso scimmione dei videogiochi Nintendo, che sarà protagonista di una serie di 26 cartoni animati (in autunno su Canalpiù), girati con la tecnica Porc. Giovanni Valerio




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