TUTTOSCIENZE 21 agosto 96


FANTATECNOLOGIA L'anima? Mettila in un chip Il sogno dei tecnici della British Telecom
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA
NOMI: WINTER CHRIS
ORGANIZZAZIONI: BRITISH TELECOM
LUOGHI: ITALIA

CHI scrive ama definirsi un tecnologo «duro». Non vi è ombra di allusione alla semantica bossiana della «durezza», ma semplicemente il concetto della vocazione per la concretezza dell'ingegneria, e anche la confessione di una certa «ottusità» mentale. La premessa è opportuna come segno di cautela per il lettore, al quale si cercherà qui di dimostrare che il progetto del microchip dell'immortalità, di cui si è parlato molto in queste ultime settimane, non ha alcuna credibilità scientifica. Chris Winter e i suoi collaboratori della British Telecom intendono realizzare entro trenta anni un microcircuito da inserirsi nel nervo ottico e da collegarsi anche ai sensori dell'udito, del tatto, del gusto e dell'olfatto, al fine di raccogliere in una memoria elettronica tutta l'informazione che arriva ai nostri sensi nell'arco di una vita. Quella memoria elettronica potrebbe costituire la «scatola nera» dell'uomo oppure la trappola della sua anima («soul catcher», come viene chiamato il progetto), ed essere trapiantata alla sua morte in un altro individuo, per garantire la sopravvivenza del primo. Le idee base del progetto sono costituite dalla valutazione del volume dell'informazione globale catturata dai sensi di un uomo nella sua vita - dell'ordine di 10.000 miliardi di caratteri - e dalla convinzione che fra trenta anni questo volume di informazione potrà essere contenuto in un microcircuito. La dimensione della memoria necessaria è stata probabilmente sottostimata: nell'ipotesi che ogni minimo particolare di ogni immagine che la nostra retina cattura arrivi in qualche modo al cervello, si otterrebbero valori molto più alti di quelli indicati. Tuttavia, è ragionevole sperare che entro trent'anni si scoprano tecniche di compressione della sovrabbondanza intrinseca delle immagini più efficienti di quelle che oggi conosciamo, in modo da ridurre l'informazione acquisita dagli organi di senso ai valori indicati da Chris Winter. Anche l'ipotesi di riuscire nel 2025 a memorizzare 10.000 miliardi di caratteri in un unico microcircuito è ottimistica ma non del tutto irragionevole. Infatti, dai primi Anni 60, quando iniziò la storia della tecnologia microelettronica, il numero dei caratteri memorizzati in un microcircuito è cresciuto ad un ritmo costante di 100 volte ogni dieci anni. Oggi siamo in grado di realizzare microcircuiti contenenti ciascuno un milione di caratteri. Ai tassi di miglioramento indicati entro 30 anni si potrebbe arrivare vicini all'obiettivo dei 10.000 miliardi di caratteri di cui ha bisogno la trappola dell'anima. In realtà, fare previsioni a lungo termine come sono i trenta anni, potrebbe rivelarsi un esercizio deludente, anche perché una memoria così capace presuppone dimensioni dei suoi transistori elementari dell'ordine delle distanze tra gli atomi. Tuttavia, la tecnologia microelettronica ci ha abituato a tali e tanti miracoli da rendere credibili i progetti più ambiziosi. Non è qui la vera assurdità del progetto. L'assurdità è legata a un modello primitivo del nostro cervello. Per molti anni gli uomini hanno pensato che i ricordi si affollassero nella mente come immagini miniaturizzate della realtà, probabilmente fisiche e tridimensionali. Ancora in tempi molto recenti nei trattati di anatomia ci si domandava come facessero gli uomini a vedere diritto benché il nervo ottico si rovesci nel suo cammino verso il cervello. E qualche ricercatore ha sentito il bisogno di verificare che un uomo si abitua rapidamente a indossare occhiali che rovescino le immagini, con il cielo in basso e la terra in alto, e che impiega per riabituarsi alla visione usuale, dopo l'esperimento, lo stesso tempo che ha impiegato ad abituarsi alle immagini rovesciate. Contrariamente a queste convinzioni, nel nostro cervello non risiede alcuna immagine fisica del mondo esterno, ma una sua rappresentazione sintetica e concettuale. Ad esempio, il sistema dei ricettori della retina, dei neuroni periferici del nostro cervello e quello degli strati più profondi elaborano le immagini del mondo esterno raccolte dagli occhi in modo estremamente complesso di cui, tuttavia, si intuisce un'organizzazione per strati sovrapposti, a ciascuno dei quali corrisponde un livello di astrazione sempre più elevato. Semplificando molto (e inventando) potremmo dire che l'immagine di una mela rossa su un tavolo scuro, raccolta dalla retina come insieme ordinato di puntini colorati, così come fa una telecamera, viene prima elaborata per riconoscere i due oggetti e stabilire la loro posizione nello spazio e poi viene rappresentata come l'insieme di due concetti astratti - la mela e il tavolo - ciascuno con un attributo astratto di colore, legati da una relazione del tipo «stare sopra». Oggi sappiamo qualcosina su quanto avviene negli strati più bassi di questo sistema di elaborazione e saremmo interessati a saperne molto di più, se non altro per risolvere problemi applicativi importanti, come ad esempio quello della visione elettronica. Infatti, il solo problema elementare di riconoscere la mela nella scena appare così difficile da indurre un noto ricercatore del settore ad affermare che se non esistesse in natura un modello funzionante, quello biologico, noi diremmo che la visione elettronica è impossibile. Invece, riguardo agli strati più alti, quelli dove avviene la concettualizzazione, non sappiamo praticamente nulla. Non conosciamo i codici con cui l'informazione è memorizzata, nè i modi dell'interazione fra memorizzazione ed eleborazione; e non sappiamo neppure se tutti gli individui adottino gli stessi codici e gli stessi programmi di elaborazione dei dati. Siamo avvolti nel mistero, ma i misteri più profondi riguardano l'intelligenza umana. E non parliamo di anima, per amore di Dio e degli uomini. Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino


TOLTO IL SEGRETO MILITARE Aerei a celle solari? Meglio dei satelliti
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: AEROVIRONMENT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Pathfinder, Helios

MISURA 30 metri di apertura alare, un po' più del Boeing 737, pesa 220 chili e decolla alla velocità di 24 chilometri l'ora, spinto da sei motori elettrici (in origine erano otto) alimentati da pannelli solari. E' il Pathfinder, un incredibile aereo radiocomandato, che anticipa i futuri velivoli senza pilota, capaci di volare per settimane o addirittura per mesi a oltre 30 mila metri di quota, svolgendo molti dei compiti oggi affidati ai satelliti artificiali a un costo enormemente più contenuto. Realizzato dall'industria californiana AeroVironment, il Pathfinder è già entrato nella storia dell'aviazione. L'11 settembre dello scorso anno ha raggiunto i 15.413 metri di quota, stabilendo il primato per i velivoli ad energia solare. Il record è stato ottenuto durante uno dei voli di collaudo svolti dalla Nasa presso il centro sperimentale Dryden. L'agenzia spaziale americana, infatti, sta valutando l'impiego di questo velivolo per lo studio dell'atmosfera superiore e degli effetti dell'inquinamento, nell'ambito del programma scientifico «missione pianeta Terra». I test del Pathfinder proseguiranno nei prossimi mesi, con l'obiettivo di raggiungere i 25 mila metri, più del doppio della quota massima a cui volano i jet di linea. Intanto, i progettisti della AeroVironment stanno lavorando a due nuovi progetti di velivoli ad energia solare. Il primo, chiamato Centurion, dovrà superare i 30 mila metri. Il secondo, l'Helios, sarà un velivolo «tutt'ala», privo cioè di fusoliera. Raddoppiano, però, le dimensioni e l'apertura alare passerà da 30 a 60 metri, uguagliando quella del più grande aereo civile del mondo: il Boeing 747 «Jumbo». La caratteristica più importante dell'Helios sarà però il sistema propulsivo. Ai pannelli fotovoltaici che, come sul Pathfinder, rivestiranno tutto il dorso dell'ala, verrà abbinato un sistema di celle a combustibile, destinato a produrre energia elettrica durante la notte. Com'è noto, le celle a combustibile generano elettricità trasformando idrogeno e ossigeno in acqua. Durante il giorno, una parte dell'energia ottenuta con i pannelli fotovoltaici verrà utilizzata per scindere nuovamente l'acqua nei due gas. Con questo procedimento a ciclo chiuso e con una riserva di idrogeno e di ossigeno contenuta nei serbatoi, Helios potrà restare in volo nella stratosfera anche per più di quattro mesi. Oltre allo studio dell'atmosfera e al monitoraggio ambientale (bassa velocità e assenza di emissioni lo rendono ideale per queste missioni), il velivolo potrà essere impiegato per una enorme varietà di compiti nel campo dell'osservazione del pianeta e delle comunicazioni. Volando in circolo ad altissima quota, sarà come uno «pseudo- satellite», capace di ritrasmettere dei segnali a lunga distanza. La facilità con cui si potrà allestire una missione, la lunghissima autonomia e i costi permettono di ipotizzarne l'uso nella sorveglianza del territorio (per esempio, il controllo dei confini), nella prevenzione e nella lotta contro gli incendi delle foreste, nelle grandi calamità per coordinare i soccorsi e ripristinare le comunicazioni. Un altro possibile impiego è l'osservazione di fenomeni meteorologici, come l'evoluzione degli uragani. Trasformare queste idee in realtà è una sfida impegnativa. Volare nella stratosfera, dove la densità dell'aria è minima, richiede sei volte la velocità e la potenza che occorrono al livello del mare. Così il Pathfinder, a mano a mano che sale di quota, accelera, passando da 24 a 150 chilometri l'ora, mentre le grandi eliche girano più veloci: da 300 fino a 1700 giri al minuto. Un aiuto viene dal sistema propulsivo: con l'aumento della quota il volo migliora il rendimento dei pannelli fotovoltaici, grazie al miglior raffreddamento e alla maggiore quantità di radiazioni solari. Per raggiungere la quota di crociera, il Pathfinder deve anche affrontare l'insidia delle violente correnti a getto, masse d'aria che si muovono a oltre 100 chilometri l'ora, con punte molto più elevate. Per questa ragione, la leggera e apparentemente fragile struttura del velivolo è in realtà estremamente robusta (è progettata per sopportare cinque volte il suo peso). Il segreto? E' nei materiali. Una sottile e resistente pellicola di Mylar riveste un'intelaiatura in fibra di carbonio, Kevlar, Nomex e... legno d'abete: largamente impiegato agli albori dell'aviazione, è ancora capace di tenere testa ai prodotti delle tecnologie più avanzate. Giancarlo Riolfo


PROGETTO MILITARE Era concepito per lanciare missili
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
NOMI: MACCREADY PAUL
ORGANIZZAZIONI: AERO-VIRONMENT INC.
LUOGHI: ITALIA

Piccola e sconosciuta al grande pubblico, l'AeroVironment Inc. di Simi Valley è nata per iniziativa di Paul MacCready, ideatore di numerosi aerei «impossibili». Suo è il Gossamer Albatross: velivolo a pedali che nel 1979 attraversò il Canale della Manica spinto dalla forza muscolare del pilota-ciclista Bryan Allen. Ancora suo, il Solar Challenger, che nel 1981 volò da Parigi all'Inghilterra con un motore elettrico alimentato da pannelli fotovoltaici e il collaudatore Steve Ptacek ai comandi. Velivoli nati per conquistare un posto nel «Guinness dei primati»? Niente affatto. Le strane macchine di MacCready sono laboratori per sperimentare soluzioni innovative, in vista di impieghi concreti. Per esempio, lo studio di aerei capaci di volare molto lentamente è servito per realizzare il «Pointer», minuscolo velivolo radiocomandato usato dalle forze armate Usa per osservare dall'alto il campo di battaglia. Anche il Pathfinder nasce da un progetto militare. Il Pentagono ne studiava l'impiego come base di lancio volante per i missili del sistema di difesa antimissile Raptor-Talon. Abbandonato questo progetto, è ora a disposizione della scienza.


TECNOLOGIE D'AVANGUARDIA Come ti metto in scatola l'energia elettrica In anteprima le batterie del 2000: leggere, pulite, quasi eterne
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ENERGIA
LUOGHI: ITALIA

LE celle solari diventano sempre più economiche, di notte le centrali mettono a disposizione una potenza elettrica che potrebbe essere sfruttata e invece va almeno in parte perduta, i generatori eolici sono esposti - è il caso di dirlo - ai capricci del vento, si lavora per progettare auto elettriche competitive, ma... Il problema è sempre quello: è difficile accumulare l'energia elettrica in batterie che siano davvero efficienti. L'anello mancante, a quasi due secoli da quando Alessandro Volta inventò la sua pila (1800), è lì. Risolvere il problema significherebbe dare continuità alla produzione di elettricità fotovoltaica ed eolica anche quando sole e vento non ci sono, utilizzare meglio la produzione delle centrali nelle ore non di punta, avere auto a inquinamento zero. La ricetta ideale? Leggera, potente, facilmente e indefinitamente ricaricabile, di lunga durata, non inquinante, pieghevole, con scarse perdite a vuoto, a basso costo. Così dovrebbe essere la batteria perfetta, quella che sognano i tecnologi. Se avessero goduto di uno sviluppo come l'elettronica negli ultimi due decenni, le batterie avrebbero già raggiunto tutti questi traguardi. Ma ci sono sintomi che fanno bene sperare. Una batteria interessante soprattutto per l'auto a trazione elettrica è quella a zinco-aria. L'anodo è costituito di un impasto di particelle di zinco, simile all'anodo delle batterie per flash. Ma il catodo è particolare, «respira» assorbendo ossigeno dall'aria in una membrana di carbone, con leganti e catalizzatori: lo scopo è di ossidare lo zinco. L'elettrolito può essere idrossido di potassio in acqua con agenti coagulanti e/o materiali fibrosi assorbenti. Le reazioni dichiarate da un costruttore Usa sono: al catodo «aria» O2 più H2O più 2e- u 2OH- all'anodo: Zn più KOH più 2OH- u KZn (OH)3 più 2e- elettrolito: KZn (OH)3 u ZnO più KOH più H2O Risulta: O2 più Zn u ZnO a 1,4 V L'accumulatore sembra non possedere materiali tossici metallici, nè chimici. Una «fetta» di 33 X 35 X 0,45 centimetri pesa 0,7 kg; 1,5 V a vuoto; eroga 100 A di picco con superficie catodica di 800 centimetri quadrati. La potenza di una batteria Zn-aria è sui 150 W/kg - 300 W/litro - in esercizio continuo e sui 200 W/kg di picco. Di particolare interesse si prospetta la batteria a zinco- aria sviluppata dalla Edison Termoelettrica di Trofarello, vicino a Torino, che con energia specifica di oltre 200 Wh/kg, ha 8 volte più energia di quelle al piombo acido e oltre il doppio delle batterie di più avanzata tecnologia sviluppate finora. Ogni pacco di batterie che equipaggia le 44 vetture elettriche Opel Corsa Combos delle Poste tedesche eroga più di 80 kWh e il valore energetico corrisponde all'energia di un serbatoio di 50 litri di benzina. In autonomia significa che con una ricarica la versione elettrica può raggiungere una distanza pari alla versione a benzina. Oltre ad avvicinarsi alle caratteristiche ideali, questa batteria a zinco-aria si ricarica in pochi minuti in un'area attrezzata che in futuro potrebbe essere una stazione di servizio. Viene sfilato l'anodo di zinco - il cui pacco è velocemente rimosso da una macchina automatica - e inserito nel veicolo il pacco carico. I pacchi scarichi ritornano all'impianto per la rigenerazione (riciclaggio e ricarica). Questo avviene senza la necessità di centrali di ricarica di molti megawatt di potenza e senza affollare le città con nuove stazioni di servizio. Il benzinaio «elettrico» ci rifornirà di energia pulita e non respirerà benzene. Un'altra batteria del futuro farà scomparire la dinamica magia elettrolitica di Humphry Davy: forse non vedremo più le bollicine delle batterie al piombo segnalare la predisposizione degli elettroni alla nuova avventura di carica. Il principio è sempre quello: due elettrodi immersi in un elettrolita. Però la forma della batteria al litio- polimeri è quella d'un rotolo di tappezzeria, consistente come i feltri alluminati da mettere dietro i radiatori. Il sistema è stato presentato di recente dalla danese Danionics che l'ha definito «in fase di sviluppo». E' un multistrato polimerico - trattiene energia ad alta densità - flessibile, arrotolabile, pieghevole, ovviamente impilabile, sagomabile in qualunque forma si voglia. La batteria è quindi diventata un foglio dello spessore (anzi della «sottigliezza») di 0,2-0,3 millimetri che impacca tutti gli elementi tradizionali: due elettrodi, l'elettolita e i morsetti. L'elettrolita è un polimero non acqueo ad alta conduttività, alta stabilità ed elevata resistenza meccanica, composto - oltre che di polimeri - di solventi e di sali di litio. La produzione avviene in due tempi, una di mixing e una di curing. Il mixing mette insieme i componenti - in adeguata proporzione - e il curing rende il polimero finale. Il risultato è il contatto fisico-elettrochimico tra gli elettrodi e il polimero elettrolita che funziona sia come elettrolita che come «colla» per tenere insieme i componenti laminati. Galvani resterebbe a bocca aperta: la bacchetta magica della tecnologia ha trasformato la sua rana in un foglio di plastica. Uno dei principali inconvenienti delle tradizionali batterie ricaricabili - il cambiamento fisico che avviene nelle fasi di carica e di scarica - si manifesta col degrado degli elettrodi, con conseguente perdita di capacità e riduzione della vita della batteria. Nelle batterie «laminate» il problema è risolto a livello atomico, col materiale usato per gli elettrodi, interponendo ossidi metallici. Tali ossidi, in grado di inserire ioni litio a 4 V - come quelli usati per il catodo - hanno strutture cristalline che permettono ai piccoli ioni del litio di essere assorbiti e respinti all'interno della struttura senza apprezzabili cambiamenti nelle dimensioni fisiche. Con una densità teorica di energia di circa 400 Wh/kg, la durata della carica è maggiore, dovuta al maggiore contenuto di energia. Confrontando una batteria a «film» con una al Ni-Cd, il volume è ridotto di un fattore da 2 a 3 e il peso da 3 a 4 a favore del film. Una caratteristica importante è la possibilità di ricaricare la batteria in qualunque punto della fase di scarica. Una tradizionale batteria al Ni-Cd infatti si danneggia irrimediabilmente se viene ricaricata prima che sia avvenuta la scarica completa e in ogni caso ha bisogno di una sovraccarica del 50% per essere caricata completamente, cosa non richiesta da quella al litio-polimeri, che aggiunge un concetto estetico all'idea di accumulo di energia elettrica. La batteria sarà ad alto rendimento ma docile, flessibile e confezionabile nella forma voluta: sarà ricaricata in atelier? Gian Carlo Bo


SIAMO ANCORA NELL'ETA' DEL PIOMBO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Composizione di una batteria

UNA batteria è composta di due elettrodi separati da un elettrolita. Collegando agli elettrodi un carico esterno si produce un passaggio di corrente grazie a un flusso di ioni nell'elettrolita, dovuto alle reazioni elettrochimiche agli elettrodi che convertono energia chimica in energia elettrica (vedi disegno qui accanto). L'energia (Wh) immagazzinata è uguale alla tensione (V) per la capacità (Ah). In una batteria primaria (non ricaricabile) le reazioni elettrochimiche non sono reversibili e il sistema può soltanto essere scaricato. In una batteria secondaria (ricaricabile), invece, le reazioni elettrochimiche sono reversibili e costituiscono un sistema che può essere caricato e scaricato molte volte. Le batterie di uso comune utilizzano piombo e quindi sono ingombranti e molto pesanti. Da questo punto di vista, nonostante, tanti progressi della tecnologia, possiamo dire che viviamo ancora nell'età del piombo. La difficoltà che si incontra nel progettare una batteria piccola, leggera, economica, a lunga autonomia, ricaricabile e pulita finora ha ostacolato lo sviluppo dell'auto elettrica. La trazione elettrica potrebbe praticamente annullare l'inquinamento da circolazione automobilistica nelle metropoli. E' vero che produrre l'elettricità per ricaricare le batterie è pur sempre fonte di inquinamento, ma le emissioni di una singola centrale possono essere controllate molto meglio che non le emissioni di tante auto in continua circolazione. Inoltre la ricarica delle batterie potrebbe avvenire nelle ore notturne, durante le quali la produzione elettrica delle grandi centrali termiche rimane in parte inutilizzata. L'autore di questo servizio sulle batterie a nuova tecnologia attualmente in via di sperimentazione, Gian Carlo Bo, torinese, da tempo collaboratore di «Tuttoscienze», è uno specialista in energie alternative e pubblica da qualche mese uno stringato notiziario quindicinale - inviato via fax agli abbonati - che si chiama Z.E.R.O, (ovvero Zero Emission Reporter & Observer), «Notizie dal mondo su veicoli a emissione zero e energia alternativa» , con aggiornate news settoriali provenienti da corrispondenti ai quattro angoli del globo. Chi desidera ulteriori informazioni può rivolgersi al numero telefonico 011/819.52.76.


LA TERRA SI RISCALDA Rimarremo senza ghiacciai Arretrano in tutto il mondo, Alpi incluse
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, GEOGRAFIA E GEOFISICA
NOMI: SMIRAGLIA CLAUDIO, ROSSI GIANCARLO
LUOGHI: ITALIA

I ghiacciai delle Alpi in questi mesi sono sotto osservazione. L'arco alpino ne ha 800, 200 sul versante italiano. I dati del 1994-1995 indicano che quasi tutti sono in arretramento. I rilievi vengono eseguiti ogni fine estate da volontari coordinati dal Comitato Glaciologico Italiano (che ha sede a Torino) in collaborazione col Cai. «In un secolo i ghiacciai hanno perso il 50 per cento di superficie, sebbene sia stato registrato fra gli Anni 60 e 80, in pieno effetto serra, un piccolo avanzamento dei fronti. La fusione dei ghiacci è ripresa negli Anni 90 - dice Claudio Smiraglia, presidente del comitato scientifico del Cai e coordinatore del settore lombardo del Comitato glaciologico -. L'aumento di temperatura globale del pianeta, che in 145 anni è stata di un grado, è la causa della trasformazione morfologica dei ghiacciai. Quelli grandi perdendo la lingua glaciale diventano di circo, quelli piccoli si trasformano in nevai ed i nevai in fase terminale si sciolgono totalmente lasciando una tazza vuota con detriti». Valutare il volume di un ghiacciaio non è facile. Per esempio, se un ghiacciaio è arretrato di 50 metri non è detto che il fenomeno sia dovuto alle condizioni meteorologiche dell'anno in corso, in quanto bisogna considerare il tempo di risposta o di reazione che varia in rapporto alla massa di ghiaccio. Questo tempo di risposta può essere di 5-10 anni per un ghiacciaio tipo Forni in Valtellina in quanto il bacino collettore si deve prima riempire di neve per fare sì che l'onda si sposti in avanti, mentre per i piccoli glacio-nevati nelle alte quote bastano poche buone nevicate per fare sì che il fronte si sposti a valle anche nell'anno in corso. La piccola glaciazione che si è avuta negli Anni 70 si è registrata sulle Alpi, sull'Himalaya, sul Kilimangiaro e nella quasi totalità delle catene montuose, esclusi l'Antartide e l'Artico in quanto per i Poli i tempi di risposta sono molto lunghi e quindi non risentono delle piccole variazioni climatiche. I dati di monitoraggio di tutti i ghiacciai del mondo confluiscono al World Glaciers Monitoring Service di Zurigo, istituzione internazionale che pubblica ogni cinque anni lo stato in essere di tutti i ghiacciai del mondo. L'ultima edizione riporta i dati 1985- 1990 ed è stata pubblicata nel 1993 a cura dell'Iachs-Unep e Unesco, mentre i dati 1990-1995 sono ora in via di pubblicazione. Questa banca dati dà un quadro pressoché completo delle riserve d'acqua dolce del pianeta. I vari carotaggi che si fanno in Antartide, nell'Artico, sull'Everest e sulle Alpi studiano la qualità del ghiaccio e dell'acqua che può essere compromessa dall'inquinamento atmosferico. I monitoraggi in corso mettono in evidenza che le parti più alte dei ghiacciai, nevaio fresco, sono inquinate di solfati, nitrati, piombo, Ddt in tracce piccolissime, mentre la parte terminale, cioè quella più vecchia, è quasi pura. Comunque anche l'acqua derivante dal livello fresco esce dal ghiacciaio quasi pulita perché le varie fasi di fusione diluiscono i materiali nel corpo glaciale. «Abbiamo appena terminato il primo carotaggio italiano sulle Alpi - aggiunge Smiraglia - con le attrezzature che il Dipartimento di Scienza della Terra dell'Università di Milano ha utilizzato per le perforazioni in Antartide. Dal ghiacciaio del Lys, Monte Rosa, abbiamo estratto una carota di 80 metri. In essa sono racchiusi un secolo di storia dell'industrializzazione italiana, i vari processi di produzione dell'energia con il carbone prima e con il metano poi, l'inquinamento chimico, radioattivo e quello naturale. L'Enel, che ha finanziato il progetto per la maggior parte, è interessata soprattutto a questa ricerca. L'equipe composta da otto persone ha lavorato una settimana in condizioni quasi polari. Non è un'operazione facile fare carotaggi nei nostri ghiacciai perché non tutti i siti sono validi in quanto la temperatura del ghiacciaio non va oltre lo zero, mentre ai Poli le temperature sono ovunque al di sotto dei -10, -20, -25 gradi». Il carotaggio è stato fatto al colle del Lys, nel gruppo del Monte Rosa, a quota 4250 metri a cura, oltre a Smiraglia, di Giancarlo Rossi dell'Enel, (ente finanziatore), con la collaborazione del Progetto nazionale ricerche in Antartide, che ha fornito la strumentazione. I grandi ghiacciai si rimpiccioliscono, ma la montagna ha comunque grandi risorse non ancora del tutto note. Sono in via di censimento migliaia di piccoli ghiacciai rocciosi confinati oltre i 2800 metri sotto le vette delle Alpi. Sono quasi invisibili perché ricoperti di ghiaia e pietrisco che rallentano la penetrazione del calore, cosicché il ghiaccio sottostante ha temperature al di sotto dello zero, cosa che non ha un ghiacciaio normale. L'anima dei ghiacciai rocciosi è di permafrost, formato dal consolidamento dell'acqua di fusione. Questi particolari ghiacciai sono indicatori climatici importanti, purtroppo anche il loro nucleo di permafrost si sta degradando, come hanno rilevato i glaciologi svizzeri che stanno facendo monitoraggi sul campo. Pia Bassi


IN BREVE Guidoni, nel 1999 altro volo shuttle
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: GUIDONI UMBERTO
LUOGHI: ITALIA

Umberto Guidoni, che ha partecipato in febbraio alla missione shuttle con il satellite «Tethered», è stato prescelto per un altro volo nel 1999 in occasione del lancio del «modulo logistico» della stazione spaziale internazionale. Il 12 agosto Guidoni ha già iniziato l'addestramento per la nuova missione.


IN BREVE Un telescopio per uso pubblico
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: HACK MARGHERITA
LUOGHI: ITALIA

Il 29 agosto Margherita Hack inaugurerà il nuovo Osservatorio astronomico del Monte Generoso, non lontano da Mendrisio, dotato di un telescopio da 60 centimetri di diametro. L'Osservatorio sarà a disposizione del pubblico su richiesta di scuole e gruppi di astrofili che vogliano svolgere ricerche. Finanziato dalla svizzera Migros, è stato costruito da una ditta italiana. Tel. 0782-42041.


IN BREVE Gravità e quanti convegno per Regge
ARGOMENTI: FISICA
NOMI: DE ALFARO VITTORIO, REGGE TULLIO
LUOGHI: ITALIA

Una delle più difficili sfide della fisica del nostro tempo consiste nel mettere d'accordo in una teoria coerente la meccanica dei quanti e la teoria della gravitazione di Einstein. Su questo tema si terrà dal 17 al 21 settembre un convegno internazionale a Santa Margherita Ligure, organizzato da Vittorio de Alfaro. L'incontro è dedicato a Tullio Regge, pioniere di questi studi, nel suo 65o compleanno. Tra i temi affrontati, la teoria delle stringhe, la teoria quantistica dei buchi neri, l'entropia, le condizioni dell'universo primordiale. Tel. 011-670.7215.


IN BREVE Olimpiadi della creatività
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: MANZELLI PAOLO
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO ECO-CREA
LUOGHI: ITALIA

I «Premi per un futuro creativo» assegnati dall'Istituto ECO- Crea verranno consegnati il 30- 31 agosto nell'isola greca di Kos. Tra i vincitori, Levy-Leblond dell'Università di Nizza. Un riconoscimento andrà anche al Progetto Cultura della Telecom. Il premio verrà poi trasformato, entro il 2000, nelle «Olimpiadi della creatività». L'iniziativa è di Paolo Manzelli, Università di Firenze, direttore dell'Istituto ECO-Crea.


IN BREVE Preistoria: a Forlì congresso mondiale
ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Si terrà a Forlì dall'8 al 14 settembre il congresso mondiale di preistoria e protostoria. Mostre e conferenze divulgative affiancheranno le relazioni scientifiche. Tra i relatori, alcuni dei paleontologi più famosi: Johanson, Tobias, Coppens, De Lumley. Tel. 0543-357.25.


UN TUBO DI 2210 CHILOMETRI Autostrada per il metano Il nuovo gasdotto Tunisia-Italia
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: ENI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Qui passerà la nostra energia. Tracciato del nuovo gasdotto Transmed 2

NEI prossimi anni il gas naturale acquisterà un ruolo preminente per lo sviluppo dell'economia mondiale, in quanto fonte di energia «pulita» e flessibile, a buon prezzo e con riserve accertate ormai equivalenti a quelle del petrolio (circa 145 trilioni di metri cubi). Si prevede che nel 2000 l'Europa dovrà importarne circa 164 miliardi di metri cubi all'anno e avrà, rispetto agli attuali accordi di importazione, un deficit annuo di 30 miliardi di metri cubi. Quale Paese provvederà a colmare il deficit? Quando, fra qualche anno, il gas del Mare del Nord sarà sufficiente solo alla Gran Bretagna e alla Norvegia, il Paese che assumerà il ruolo di maggiore fornitore dell'Europa sarà probabilmente la Russia che, insieme alle altre Repubbliche dell'ex Urss, possiede il 40 per cento delle riserve mondiali. Tuttavia, perché si realizzi questo scenario, dovranno essere superati ostacoli logistici e climatici e distanze di oltre 3500-4000 chilometri. Nel frattempo, un crescente contributo, specialmente per le nazioni europee del bacino mediterraneo, come l'Italia, verrà dato ai Paesi nordafricani e del Medio Oriente. Un passo decisivo per il potenziamento delle forniture nordafricane sarà compiuto grazie al nuovo gasdotto transmediterraneo (Transmed 2), una delle più grandi e innovative opere del genere mai costruite, che si dirama dal tronco algerino del primo Transmed (collegato al giacimento sahariano di Hassi R'Mel) e corre più o meno al suo fianco fino a Minerbio (Bologna). Il gasdotto, realizzato interamente dall'Eni e attualmente in fase di completamento, ha uno sviluppo complessivo di 2210 chilometri di lunghezza, di cui 370 in territorio tunisino, 370 in mare, 1470 in Italia. Per il tratto italiano, tra Mazara del Vallo e Minerbio, sono state necessarie circa 750.000 tonnellate di acciaio per la costruzione dei tubi. Il tracciato attraversa ben 856 corsi d'acqua, tra cui i fiumi Tevere ed Arno, e molteplici infrastrutture, tra cui 64 ferrovie, 182 strade ed autostrade ed oltre 1400 strade provinciali e comunali. Per il passaggio in 20.000 proprietà private di 272 Comuni, si sono dovute richiedere la bellezza di quasi 3000 autorizzazioni ad enti pubblici. Il Transmed 2 non è un semplice Transmed bis. Infatti, proprio in virtù dell'esperienza maturata con il primo, la realizzazione, sia in terra che in mare, delle nuove condotte ha potuto avvalersi di una tecnologia ormai evoluta e perfezionata. D'altra parte la presenza di una tubatura in pressione, spesso in stretto parallelismo per oltre 1000 chilometri, è stata un vincolo non trascurabile, sia in termini di sicurezza, sia sotto il profilo della stabilità della nuova infrastruttura. Rispetto al primo Transmed sono aumentate inoltre le restrizioni di carattere urbanistico e ambientale. Nuove leggi hanno sottoposto a vincolo paesaggistico diverse porzioni del territorio, istituendo nuovi parchi e riserve, tra cui quelli del Salso e dei Nebrodi in Sicilia e quello del Pollino in Calabria e tutelando le aree boscate o a vincolo di rimboschimento. Per superare questi vincoli e ridurre l'impatto ambientale durante la costruzione dell'opera, si è operato in tre direzioni: scelta ponderata del tracciato, adozione di opportune opere di ripristino ambientale (con ricostruzione del manto vegetale) e ricerca di nuove tecniche costruttive. Tra le soluzioni ingegneristiche messe a punto nei dieci anni intercorsi tra la costruzione dei due gasdotti ricordiamo la trivellazione orizzontale controllata (T.O.C.) e la trivellazione con scudo guidato. Il procedimento T.O.C., che deriva dalla tecnica di perforazione direzionale dei pozzi petroliferi, consente di attraversare i corsi d'acqua in subalveo a profondità di molto superiori ai metodi tradizionali evitando in tal modo gran parte delle operazioni di riprisitino della regimazione idraulica. La trivellazione con scudo guidato (microtunnelling) permette di attraversare ostacoli naturali non affrontabili dai metodi tradizionali (posa a cielo aperto e spingitubo) garantendo un controllo continuo della direzione d'avanzamento mediante un sistema laser. Per quanto riguarda il tratto sottomarino del Transmed 2, sono stati impiegati appositi mezzi navali dotati di sistemi satellitari per controllare con precisione le operazioni di posa (fino a 600 metri sotto il livello del mare) e speciali veicoli telecomandati per l'ispezionamento successivo delle condotte. La posa del gasdotto è stata anche l'occasione di importanti scoperte archeologiche, grazie alla collaborazione con le soprintendenze territorialmente competenti, che hanno suggerito di effettuare la cosiddetta «archeologia preventiva»: mediante l'utilizzo di indagini cartografiche, fotointerpretazioni e prospezioni geofisiche (con il georadar) sono state delimitate le aree di maggior interesse archeologico e recuperati, con scavi preventivi, i reperti, per evitare che venissero danneggiati durante i lavori di scavo. Tra i ritrovamenti più importanti vanno segnalati i lastricati romani tra Avezzano e Sepino, i resti di ville e tombe etrusche nel Viterbese, un insediamento di età ellenistica tra Terranuova Bracciolini e Loro Ciuffenna, un mosaico di una villa romana, resti dell'età del bronzo e del ferro e oltre cinquanta tombe tra Altedo e Minerbio. Davide Pavan


LOTTA AGLI HANDICAP Caschetto con telecamere per ipovedenti Lo stanno provando 450 americani ma arriverà presto anche da noi
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' JOHN HOPKINS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Lves (Low vision enhancement system)

IL Low vision enhancement system (Lves) è un nuovo ausilio per migliorare la capacità visiva di chi ha un grave deficit. Per molti ipovedenti, cioè per persone che pur non essendo cieche hanno un'acuità visiva ridotta, non esistono nè interventi chirurgici nè cure risolutive e anche l'uso di lenti non è di grande aiuto. Studiato e realizzato dall'Università John Hopkins di Baltimora, il Lves è un caschetto elettronico che trasmette davanti agli occhi di un ipovedente grave immagini ingrandite grazie a un sofisticato sistema di microtelecamere e di schermi. Due telecamere poste all'altezza degli occhi danno una visione di insieme dell'ambiente fornendo un'immagine tridimensionale, grandangolare, senza ingrandimento. Una terza centrale, con zoom, permette di mettere a fuoco un oggetto o un viso ingrandendolo da 3 a 10 volte. Un sistema automatico focalizza con lo zoom oggetti distanti da 2,5 centimetri all'infinito. Le immagini vengono trasmesse, con un complicato sistema di specchi, su due video in bianco e nero ad alta definizione di 4X5 pollici posti davanti agli occhi. Lo schermo può essere modificato aggiungendo la correzione delle lenti usate dall'ipovedente. Una unità di controllo elettronica gestisce le immagini ricevute dalle tre microtelecamere. Un software dà inoltre la possibilità di regolare il contrasto tra l'oggetto osservato e lo sfondo, di aumentare o diminuire la luminosità, di invertire la polarità dell'immagine per vedere, ad esempio, le lettere bianche su sfondo nero e leggere con meno fatica. L'unità di controllo funziona con batterie ricaricabili che danno al Lves un'autonomia di 90 minuti. Il caschetto può poi essere collegato con un apposito adattatore al televisore o al computer e diventarne direttamente il video. L'uso del sistema richiede un addestramento. Sono necessari un corso con istruttori specializzati e un periodo di adattamento per imparare a muoversi e a sfruttare le potenzialità dell'apparecchio. Anche in Italia partirà presto la sperimentazione sul Lves. Da quest'autunno, con un finanziamento congiunto della Regione Lombardia e dell'Unione Europea, l'istituto scientifico Medea della Nostra Famiglia di Busisio Parini provincia di Lecco inizierà i test sui ragazzi ipovedenti in età evolutiva dagli 11 ai 17 anni. Il lavoro verrà eseguito in collaborazione con l'università di Heidelberg in Germania che si occupa del training all'uso del Lves per gli adulti e con quella di Goteborg in Svezia che si è specializzata per gli anziani. Il costo del sistema, che per ora è commercializzato solo negli Stati Uniti, è di 8000 dollari: 450 americani ipovedenti ne posseggono e ne utilizzano uno. Il peso del caschetto è di poco meno di un kg, a cui si aggiunge un altro kg dell'unità di controllo che viene portata alla cintura. Il peso del sistema, l'ingombro e l'appariscenza lo rendono poco adatto per muoversi per strada. In un ambiente controllato, come la casa, la scuola o il lavoro può invece rivelarsi uno strumento utile per l'integrazione e per sfruttare al meglio le potenzialità degli ipovedenti. La ricerca sta comunque seguendo la strada della miniaturizzazione. Si spera, nei prossimi 10-15 anni, di ridurre il Lves a un paio di occhiali quasi normali e di rendere le immagini a colori. Marialuisa Bonzo


RICERCHE SUL ROMBO Il pesce trasformista Si adegua all'istante ad ogni fondale
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: RAMACHANDRAN VILAYANUR
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DELLA CALIFORNIA
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA, SAN DIEGO

E' uno dei più veloci trasformisti che si conoscano: i suoi cambiamenti di colore sono talmente rapidi e perfetti da battere addirittura quelli del camaleonte. Eppure, questo straordinario artista dei mari è conosciuto per tutt'altre virtù, soprattutto quelle delle sue carni, che ne fanno uno dei pesci più apprezzati sulle nostre tavole. Il rombo in effetti, sotto quel curioso aspetto di pesce «schiacciato», nasconde delle capacità mimetiche davvero uniche. Una nuova serie di studi ha cercato di approfondire le conoscenze su queste sue abilità criptiche giungendo a conclusioni sorprendenti. Nei laboratori dell'Università della California, a San Diego, un gruppo di ricercatori, guidati dal neurofisiologo Vilayanur Ramachandran, ha sottoposto ad una lunga serie di tests delle varietà tropicali dei rombi (Bothus ocellatus). Questi pesci sono stati introdotti in vasche il cui fondale è stato preparato in modo particolare, con tonalità e aree di colore ogni volta diverse. Come era nelle previsioni, i rombi si sono adattati ogni volta al nuovo tipo di fondale, con grande velocità. Di media impiegavano meno di otto secondi a riprodurre sui loro corpi le stesse caratteristiche della sabbia o della ghiaietta sulle quali si erano posati. La sorpresa è arrivata quando, sui pavimenti delle vasche, i ricercatori hanno sostituito la sabbia con dei pannelli di plastica sui quali erano disegnate figure complesse, persino delle scacchiere. Sorprendentemente i rombi si sono adattati senza grosse difficoltà anche a questi fondali artificiali. Il loro corpo infatti è in grado di riprodurre almeno sei tipi diversi di motivi geometrici, come cerchi neri, punti colorati o persino figure simili a delle «H». Modificando l'intensità di queste figure erano in grado di nascondersi, quasi perfettamente, negli acquari utilizzati per gli esperimenti. Se messi due volte nella stessa vasca, i rombi impiegavano meno di due secondi per appiattirsi sul fondo e diventare invisibili. Segno di una inattesa «memoria» mimetica. I ricercatori stanno cercando di comprendere meglio i sofisticati meccanismi neurologici che regolano queste straordinarie capacità criptiche. E' probabile, infatti, che alcuni tipi di cellule del loro sistema visivo rispondano unicamente alle forme, che compaiono nell'ambiente circostante. In altre parole, secondo Ramachandran, queste cellule si sarebbero specializzate, diventando dei piccoli «detectors» delle forme e dei contorni di tutto ciò che costituisce il fondale. Il risultato è che la pelle del rombo riceve impulsi estremamente precisi su come organizzare la propria superficie riproducendo, grazie alle cellule che contengono dei pigmenti, macchie colorate più o meno grandi. Cambiare i colori del proprio corpo è una capacità che hanno anche altri abitanti del fondale, come le seppie o i polpi. Nel loro caso il segreto è nascosto nei primi strati della pelle che contengono dei «lenzuoli» colorati di cellule pigmentate (cromatofori). A seconda degli impulsi inviati dal cervello, dei muscoli particolari sono in grado di allargare o di restringere queste cellule, aumentando o diminuendo la loro superficie in modo da coprire o no il colore che emerge dagli strati sottostanti. I rombi e le sogliole, rispetto ai polpi ed alle seppie, hanno un'abilità in più: sono in grado, grazie alla loro forma, di appiattirsi completamente sul fondale per sfuggire ad un predatore o tendere la trappola ad una preda. Questa particolarità è il risultato di una lunga evoluzione che ha completamente deformato questi pesci. I rombi e le sogliole, infatti, nascono con la forma di un pesce normale. In seguito avviene la metamorfosi: l'occhio migra sul lato opposto, la bocca si modifica e così altre parti del corpo. Infine il pesce abbandona il nuoto orizzontale e si adagia su di un lato del corpo diventando un tappeto vivente. Curiosamente, a seconda se i due occhi si trovino su di un lato del corpo o sull'altro, tra i cosiddetti pesci piatti (sogliole e rombi) si distinguono specie «sinistre» e «destre». Fateci caso la prossima volta che ordinate uno di questi pesci al ristorante. Alberto Angela


SCOPERTA A BERLINO Un virus causa la depressione
Autore: PREDAZZI FRANCESCA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: BODE LIV, LUDWIG HANS, GUARDA FRANCO, CARAMELLI MARIA
ORGANIZZAZIONI: ROBERT KOCH INSTITUTE
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, GERMANIA, BERLINO

UN gruppo di ricercatori berlinesi ha isolato un virus al quale si stava dando la caccia da tempo: un microrganismo che si annida nelle cellule cerebrali ed è corresponsabile della sindrome maniaco-depressiva. In altre parole, il virus della depressione. Per la prima volta nel sangue dei pazienti degli ospedali psichiatrici berlinesi sono stati isolati tre tipi di Borna virus, un'infezione che si sospetta essere una delle cause della depressione. La scoperta è una conferma di quanto i ricercatori del Robert Koch Institut avevano intuito due anni fa, quando nei globuli bianchi dei pazienti psichiatrici erano stati trovati antigeni contro il Borna virus. La sindrome di depressione bipolare è chiamata anche maniaco depressiva per le fasi che si alternano nel paziente. Ad un periodo di depressione nera (che presto o tardi si conclude con il suicidio nel 20 per cento dei pazienti), seguono fasi euforiche dette appunto maniacali, in cui il paziente si sente in grado di fare di tutto. Non è raro che in queste fasi prenda dei rischi (per esempio investimenti finanziari) che lo possono portare alla rovina. La depressione è una delle malattie più enigmatiche. Non si conoscono le cause, non si conosce una vera terapia, ci si limita a somministrare psicofarmaci che moderano il problema ma non lo risolvono. Illustri pazienti hanno segnato il mondo dell'arte, da Robert Schumann, a Gustav Mahler, a Lord Byron, da Virginia Woolf a Hemingway a Van Gogh. Spesso la depressione finisce in suicidio come per Virginia Woolf o per Hemingway, spesso si sospetta una componente ereditaria, di cui un esempio da manuale è proprio la famiglia dello scrittore americano. Depressi erano anche suo padre e suo figlio: Hemingway, il padre, e il fratello morirono suicidi, come la nipote Margaux proprio in tempi recentissimi. Il rapporto di causa-effetto tra il virus e la malattia maniaco-depressiva, è diventato ancora più stretto dopo la scoperta berlinese. «Non è il virus l'unica causa della malattia», spiega il virologo Hans Ludwig, «ma contribuisce senz'altro allo sviluppo della depressione. In che modo lo dobbiamo ancora scoprire». Un fatto certo è che il rapporto tra il virus e la depressione non è casuale. Non solo il 25 per cento dei pazienti depressi mostrava di possedere anticorpi contro il Borna virus rispetto al due per cento del gruppo di controllo, ma l'incidenza del micro organismo è direttamente proporzionale alle fasi di depressione nella malattia. Quando il paziente è depresso la concentrazione è molto alta, mentre le tracce spariscono quando il paziente passa nella fase maniacale, quello stato di supervalutazione della propria persona nel quale si sente invincibile e capace di tutto. L'isolamento del virus della depressione porta una speranza per i pazienti maniaco depressivi? «E' ancora presto per dirlo», risponde cauto Hans Ludwig. «Abbiamo appena isolato il virus, adesso il prossimo passo sarà certamente la ricerca di sostanze antivirali con cui combatterlo». L'equipe dell'Istituto Robert Koch presso la Freie Universitaet di Berlino è guidata da Liv Bode e Hans Ludwig e comprende otto ricercatori, ma i contatti internazionali non mancano ed in particolare in Italia i ricercatori tedeschi hanno collaborato con il prof. Franco Guarda dell'Istituto di Patologia dell'Università di Torino e con la dott. Maria Caramelli dell'Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria, sempre a Torino. Trattandosi di un virus, chiediamo ancora al virologo Ludwig, questo significa che la depressione è contagiosa? «Non possiamo ancora dirlo, certo il virus in qualche modo si deve diffondere, ma non sappiamo come. Il virus e la sua moltiplicazione sono implicati nella depressione nell'uomo, ma esistono anche altri fattori, per esempio una predisposizione famigliare». L'uomo non è però l'unico essere nel quale si sia trovato il Borna virus, anzi le ricerche erano incominciate più di cent'anni fa proprio per un'epidemia fra i cavalli e in anni successivi si è notato che venivano colpite anche le pecore, i gatti e gli struzzi. Il nome Borna deriva proprio da una regione vicino a Lipsia dove per la prima volta si notò la strana malattia che rendeva i cavalli sempre più apatici fino a portarli alla morte. Nel cervello degli animali furono trovati degli strani nodini. «Il virus produce una distruzione fine del sistema nervoso attraverso una concentrazione eccessiva di proteine - dice Ludwig - a differenza dell'encefalopatia bovina (Bse), la famosa " vacca pazza" che distrugge il cervello in modo brutale». E' per questo che i sintomi presso i diversi animali nei quali si è riscontrato o si è iniettato il virus in laboratorio non sono necessariamente gli stessi, pur essendo tutte anomalie nel comportamento. «I cavalli diventano apatici e si lasciano morire, le scimmie diventano meno aggressive, i gatti sviluppano apatia e diventano molto dipendenti, i topi non sono più in grado di imparare. Supponiamo che anche nell'uomo avvenga questa distruzione fine che porta ad instabilità», dice il virologo berlinese. Una nuova terapia per la depressione porterebbe un sollievo a molti: secondo gli ultimi studi in Italia, Germania e Stati Uniti il 5% della popolazione nel corso della propria vita è soggetto ad attacchi di depressione. Francesca Predazzi


I GAMBERETTI SCHIOCCATORI Con una pistola ad acqua contro gli intrusi Colonie di crostacei lungo le coste tropicali del Belize
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: DUFFY EMMETT
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, BELIZE

ANCHE il mare ha le sue formiche. Si tratta di un piccolo gamberetto, Synalpheus regalis, che vive dentro una spugna, in comunità strutturate secondo le classiche regole che caratterizzano una società di formiche, di api o di termiti. Infatti c'è una sola femmina feconda, la regina, qualche centinaio di figli, ovviamente sterili, fra i quali la generazione più anziana si occupa di quella più giovane. In termini scientifici questa struttura sociale viene definita eusocialità. Con questa scoperta Synal pheus regalis si è aggiudicato in un colpo solo due primati: è il primo caso di eusocialità riscontrato in ambiente marino e il primo documentato fra i crostacei. Non gli mancava che la fama, a questo punto, che gli è arrivata con il numero di Nature (6 giugno) dove il biologo J. Emmett Duffy lo ha descritto. Lungo sì e no 2 centimetri, Synalpheus regalis appartiene a una famiglia di crostacei, quella degli Alfeidi, nota per possedere un'arma singolare: una pistola ad acqua offensiva e per di più dotata di botto. Si tratta di una delle due chele con cui termina il primo paio di zampe (i gamberetti, che sono decapodi, ne hanno ben dieci paia): molto più sviluppata dell'altra, è provvista di un dito forgiato come un martello, che, chiudendosi sulla «mano», spara uno schizzo d'acqua seguito da uno schiocco fortissimo. L'effetto su un avversario o su una preda che si trovi nei paraggi va dallo stordimento alla morte. Tanto che gli alfeidi si sono meritati il nome di gamberetti schioccatori. Synalpheus regalis vive lungo le coste tropicali del Belize in una barriera corallina e per casa ha una spugna, genere Xesto spongia. Il progetto generale di una simile dimora è una sorta di sacchetto, cavo all'interno, ancorato a un'estremità sul fondo e aperto dall'altra parte, e con le pareti sforacchiate di canaletti attraverso cui l'acqua entra per uscire dall'apertura superiore, portando in sospensione particelle di cibo. Più o meno come abitare in un supermercato in una metropoli dove milioni di concittadini sono afflitti ogni giorno dallo stesso problema della spesa. Come potete immaginare, alloggi cone questi vanno a ruba, tanto che nella barriera corallina della nostra ricerca non si è trovata una spugna libera e gli inquilini spaziavano da ogni genere di gamberetto a piccoli pesci. Ovvio quindi che il nostro, occupata una casa, non intenda mollarla. Ed ecco quindi che si organizza una enorme famiglia: una sola femmina, la «regina», riconoscibile per il ventre gonfio di uova, si occupa della riproduzione con la collaborazione, sembra, di un solo «marito»; mentre i figli più grandi della coppia, insediatisi nei canaletti della spugna, provvedono alla difesa a suon di potenti schiocchi. Uccidono qualsiasi intruso, di altre specie o della propria, che provi a entrare per stabilirsi nell'alloggio, proteggendo in tal modo la crescita dei più giovani, esentati per il momento dal servizio di guardia. Così facendo, Synalpheus regalis realizza quel modello di eusocialità - divisione di compiti per la riproduzione, sovrapposizione di più generazioni nel nido e cura collettiva dei più giovani - tipico delle formiche, delle api o delle termiti. La scoperta non sarebbe così importante se non fosse che l'eusocialità di per sè fa notizia. Secondo la teoria di Darwin, infatti, la selezione naturale premia gli individui che riescono a lasciare più discendenti nelle generazioni future: come mai allora negli insetti sociali si è evoluta una casta sterile? Questa domanda fu un rompicapo senza soluzione per lo stesso Darwin, finché nel 1964, quasi cento anni dopo, W. D. Hamilton risolse il problema: le operaie delle formiche, così come quelle delle api, hanno una singolare affinità genetica con le sorelle. Condividono in media il 75% dei geni, anziché il 50% come la norma fra sorelle e fratelli, e fra genitori e figli. Per questo alle operaie delle formiche, così strettamente imparentate, conviene - per contribuire con i propri geni alle future generazioni - allevare i figli della madre piuttosto che metterne al mondo di propri. Come spesso succede, però, trovata la regola, salta fuori l'eccezione. Nella società delle termiti le operaie sterili sono imparentate fra di loro come normali sorelle. E lo stesso vale per gli afidi, che fondano società analoghe nelle galle delle foglie; e anche per gli eterocefali glabri, i mammiferi nudi, ciechi e bruttini (assomigliano, per dirla con le parole del loro scopritore, a un salsicciotto montato su quattro stecchini) che vivono in cavità sotterranee in comunità di un'ottantina di individui con tanto di regina prolifica, caste sterili e giovani da accudire. Anche nelle società dei gamberetti schioccatori fratelli e sorelle sterili sono geneticamente imparentati fra loro secondo la norma. Perché allora in tutte queste società la maggior parte degli individui rinuncia al sesso per allevare i fratelli? La risposta a questa domanda, un puzzle da lungo tempo, verrebbe suggerita ora proprio dal nostro gamberetto. In differenti situazioni ambientali, gamberetti dello stesso genere Synalpheus vivono una normale vita di coppia e fin da subito abbandonano i figli al loro destino. Invece, nella barriera corallina, la possibilità di avere una casa ricca di cibo e riparata dai predatori è una molla potente per associarsi in gruppo fra consanguinei. Soprattutto se si hanno le armi per farlo. Ecco quindi che queste società si sono evolute per la difesa della cavità dove risiedere, quando è una risorsa di grande valore. Sia essa una galla, la camera di un termitaio, una galleria sotterranea o una spugna. Maria Luisa Bozzi




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