TUTTOSCIENZE 14 agosto 96


GIOCHI MATEMATICI Si parte da un triangolo... I giochi matematici da risolvere in vacanza
Autore: PEIRETTI FEDERICO

ARGOMENTI: GIOCHI, MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. Risposte

I POLITRIAL Si parte da un semplice triangolo equilatero, per arrivare a un mondo intrigante di strutture che si possono ampliare all'infinito. Si tratta, per prima cosa, di costruire tutte le forme possibili con i triangoli equilateri, ognuno dei quali dev' essere unito agli altri almeno lungo un lato. C'è una sola figura formata da tre triangoli, mentre sono tre quelle formate da quattro triangoli, quattro quelle da cinque, dodici quelle da sei, ventiquattro quelle da sette e sessantasei quelle da otto triangoli. Si tenga presente che vengono considerate equivalenti le figure simmetriche. Diamo un nome a queste forme, parenti dei più celebri "polimini" (le figure aventi come base di partenza un quadrato unitario, proposte dal matematico americano Solomon W. Golomb, che accennava in un suo articolo anche alle forme triangolari, sulle quali si sono in seguito cimentati molti esperti in giochi matematici). Li possiamo chiamare semplicemente "polimini triangolari" oppure, con riferimento ai "tria"ngoli, li potremmo battezzare, se siete d' accordo, "politrial": tetratrial saranno quindi le figure composte da quattro triangoli equilateri e avremo in successione pentatrial, esatrial, eptatrial, ottatrial e così via. Le forme più interessanti sono i dodici esatrial che si trovano anche in commercio, nei negozi specializzati in giochi, e che sono riportati in figura. Il lettore potrà facilmente costruirsene una serie ritagliandoli da un cartoncino, con l'avvertenza di tenere lo stesso colore sulle due facce, in modo da poterle rigirare a piacere. Dopo aver studiato la successione dei politrial, possiamo tentare di costruire, con i dodici esatrial o con una parte di questi, nuove figure. Ad esempio, parallelogrammi con i lati lunghi rispettivamente 2 e 6 unità, cioè 2X6, oppure 3X6, 4X6, 5X6, 6X6 e 4X9. Si può poi proseguire alla ricerca di altri problemi. Ad esempio, con quattro dei dodici esatrial è possibile costruire modelli due volte più grandi di alcuni di questi (non di tutti) e con nove è possibile costruirne alcuni tre volte più grandi. Un' ultima domanda: è possibile costruire, con i dodici esa trial, dei parallelogrammi con un buco al loro interno che riproduca ancora la forma di uno degli esatrial? Lasciamo alla pazienza e alla fantasia del lettore il piacere di altre scoperte, grati se vorrà comunicarcele. -------------------------------------------------------------------- IL CUORE A PEZZI Quella che presentiamo è una variazione del " Tangram", il quadrato delle sette saggezze, il gioco preferito da Napoleone. (Per chi ancora non lo conosce riportiamo in figura la divisione del quadrato nei sette pezzi con i quali è possibile costruire migliaia di figure diverse). La variazione che proponiamo di questo classico gioco, di origine cinese, offre ancora maggiori possibilità di composizioni diverse. Si parte sempre da un quadrato, ma si aggiungono due semicerchi e la figura che si ottiene, a forma di cuore, dev' essere suddivisa, nel modo indicato, in nove pezzi, cinque dei quali sono settori circolari. Questi pezzi si possono facilmente ritagliare da un cartoncino, ottenendo in tal modo un nuovo, divertente puzzle. Il gioco consiste nel ricostruire il cuore fatto a pezzi e nel ricercare altre forme interessanti che utilizzino sempre i nove pezzi del cuore. -------------------------------------------------------------------- GATTI SEPARATI Nove gatti (rappresentati in figura dai cerchi) sono chiusi in un recinto quadrato. Disegnare altri due quadrati in modo che ogni gatto risulti separato da tutti gli altri, chiuso in un proprio recinto. -------------------------------------------------------------------- LE QUATTRO PARTI DEL QUADRATO Il quadrato di figura dev' essere diviso in quattro parti uguali, contenenti ognuna lo stesso numero di cerchi. Ogni parte avrà quindi la stessa forma, sarà composta da quattro quadretti unitari e dovrà contenere tre cerchi. -------------------------------------------------------------------- PERCORSI A CAPOCCHIA Si gioca in due e sono necessari un foglio di carta, una matita e venticinque fiammiferi. Sul foglio si disegna un quadrato di sedici caselle che devono essere sufficientemente grandi da poter contenere i fiammiferi. A turno, ogni giocatore colloca i fiammiferi nelle caselle, indicando il percorso che deve fare l'avversario, secondo le regole seguenti: a)il primo giocatore sceglie la casella di partenza, fra quelle sui bordi esterni del quadrato; b)sono permessi spostamenti nelle quattro direzioni ortogonali, anche saltando una casella già occupata; c)la direzione è indicata dalla capocchia rossa del fiammifero; d)il numero di fiammiferi indica di quante caselle ci si deve spostare nella direzione assegnata; e)il punto di arrivo del percorso indicato dev' essere una casella vuota. Il giocatore che rimane senza fiammiferi o che non trova più caselle vuote in cui mandare l'avversario, ha perso la partita. Nella partita indicata in figura, con punto di partenza in alto a destra, il giocatore di turno deve collocare i suoi fiammiferi nella casella contrassegnata con l'asterisco. -------------------------------------------------------------------- SEQUENZA REALE I giocatori possono essere due o più. Sono necessari sei dadi e un foglio sul quale segnare i punti. Ogni giocatore lancia a turno i sei dadi cercando di ottenere delle sequenze che partano dall'Asso e che siano le più lunghe possibili. Il punteggio è il seguente: Asso: 5 punti; Asso e Due: 10 punti; Asso, Due e Tre: 15 punti; Asso, Due, Tre e Quattro: 20 punti; Asso, Due, Tre, Quattro e Cinque: 25 punti; e, per la sequenza reale: Asso, Due, Tre, Quattro, Cinque e Sei: 35 punti. Ad ogni lancio si può costruire una sola sequenza. Se escono quindi due Assi, se ne può contare soltanto uno. Se escono tre Assi vengono annullati tutti i punti totalizzati dal giocatore che deve quindi ripartire da zero. Vince il giocatore che per primo arriva ai cento punti. -------------------------------------------------------------------- HOLDER Si gioca in due e sono necessari una matita e un foglio di carta. Ogni giocatore traccia a turno una linea sul foglio, in modo da realizzare una mappa di venti, trenta regioni. Su questa mappa ogni giocatore, a turno, deve poi tracciare un segmento che occupi tre regioni vuote, partendo dal centro di una regione, attraversandone un' altra che abbia un lato in comune con la prima e arrivando infine a una terza regione che abbia un lato in comune con la seconda. Le regioni utilizzate rimangono bloccate e quando un giocatore non trova più terne di regioni vuote da giocare, perde la partita. -------------------------------------------------------------------- DIECIMILA TONDO Quali sono le serie di numeri naturali consecutivi la cui somma è uguale esattamente a 10.000? Risposta Esistono cinque soluzioni diverse. La prima è 28più 29più 30più 31più 32più...più 152 cioè 28 più 124 termini. Le altre soluzioni sono: 297 più 31 termini, 388 più 24 termini, 1998 più 4 termini e naturalmente 10.000 più zero termini. -------------------------------------------------------------------- UNA PARTITA A POKER Quattro amici, Piero, Renato, Giorgio e Vittorio, giocano una partita a poker. All'inizio hanno in tutto 800 mila lire e, alla fine della partita, Piero si trova con 20 mila lire in più rispetto a Renato, 57 mila lire in più rispetto a Giorgio e 93 mila lire in più rispetto a Vittorio. Quanto è rimasto a ciascun giocatore? Risposta A Piero rimangono 242.500 lire, a Renato 222.500, a Giorgio 185.500 e a Vittorio 149.500 lire. -------------------------------------------------------------------- QUADRATI MAGICI Proponiamo infine un gioco con i quadrati magici portafortuna, i classici amuleti di un tempo, che venivano incisi su piastrine d' oro o d' argento. I primi due sono quadrati 4X4 nei quali devono essere collocati i numeri da 1 a 16 in modo che si abbia una somma costante, uguale a 34, su ogni riga, colonna o diagonale. L'ultimo è un quadrato un po' particolare, costruito con i numeri da 5 a 20, in modo che la somma costante, su righe, colonne o diagonali, sia sempre uguale a 50. Chi riuscirà a completare i tre quadrati con i numeri mancanti, avrà delle vacanze splendide. Buon divertimento]


FOTOCAMERA RIVOLUZIONARIA Gli obiettivi normali diventano autofocus Il nuovo sistema (un modulo mobile), inserito nel corpo macchina
Autore: ARPAIA ANGELO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA
ORGANIZZAZIONI: KYOCERA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Schema del modulo mobile all'interno del corpo macchina

SI chiama Contax AX la nuova rivoluzionaria fotocamera che diventa autofocus grazie al sistema Automatic Back Focusing progettato, con soluzioni d'avanguardia, dagli ingegneri del Centro Ricerche della Kyocera. Con la commercializzazione di questo innovativo apparecchio tutti i preziosi obiettivi Carl Zeiss potranno essere utilizzati anche in autofocus. Solo in Italia, dal 1975 ad oggi, ne sono stati venduti oltre 100 mila. Ma non è tutto. Anche le ottiche Zeiss per Hasselblad potranno applicarsi tramite un anello adattatore. Il nuovo sistema di messa a fuoco Abf, inserito nel corpo macchina, è composto da un modulo mobile che contiene nel suo interno lo specchio reflex, il blocco del pentaprisma e il piano film: 10 mm di corsa dal piano focale standard a quello macro. I sistemi operativi autofocus sono: in manuale, si focheggia nel modo tradizionale ruotando la ghiera dell'obiettivo, in S-Af la fotocamera funziona in automatico bloccandosi quando raggiunge la corretta posizione (in questo caso si possono anche eseguire aggiustamenti manuali per un migliore controllo della profondità di campo), in C- Af, quindi fuoco continuo, l'apparecchio insegue il soggetto calcolando sempre il punto focale. Il quarto sistema è il macro che si ottiene col massimo arretramento del modulo, e soprattutto utilizzando qualsiasi ottica inserita. Alla base dell'Abf si concentra tutto il know-how del gruppo «Fine Ceramics» della Kyocera che assicura un movimento fluido, immediato e preciso su guida a rotaia alimentato da un micromotore silenzioso. La Contax AX si presenta con mirino prismatico molto luminoso munito di correzione diottrica, otturatore con tempi di posa da 32 secondi a 1/6000 di secondo in AE a priorità dei diaframmi, oppure in program, da 4 secondi a 1/4000 in manuale e a priorità dei tempi, quindi posa B per riprese lunghe e 1/200 in sincro flash; lo scatto dell'otturatore è di tipo elettromagnetico con terminale per flessibile elettrico. Inoltre lo schermo di messa a fuoco è intercambiabile per 5 versioni, serie FW; il display inserito nel mirino segnala il diaframma, il tempo con spia di esposizione, l'indicatore del lampeggiatore, la compensazione e il contafotogrammi, nonché la messa a fuoco e la scala di fuoco posteriore. Il display a cristalli liquidi esterno riporta invece i valori Iso, esposizioni multiple, contafotogrammi, stato della batteria e trasporto regolare della pellicola. Altre funzioni automatiche incorporate sono il posizionamento del rullino al primo fotogramma, l'avanzamento e il riavvolgimento, nonché le riprese in sequenza sino a 5 fotogrammi al secondo. Riconosciuta dalla Tipa, associazione di riviste fotografiche europee come «Best Design and Technology '96/'97», la Contax AX è costruita con corpo in pressofusione di alluminio, fondello in alluminio temprato e calotta superiore in lega di titanio; pesa 1080 grammi senza batteria e ha il dorso intercambiabile col nuovo Data Back D - 8 «Multifunction»; quindi sono registrabili molte informazioni: giorno, mese e anno più 2 lettere, giorno, ora e minuto più 2 lettere, dati fotografici, numero fotogrammi realizzati e valore numerico fisso composto da 6 cifre più 2 lettere. Inoltre il dorso D-8 ha la funzione di intervallometro per lavorare in automatico consentendo anche la registrazione di note riferenti alla ripresa che vanno ad inserirsi tra un fotogramma e l'altro, oppure sul primo e secondo fotogramma della pellicola. Angelo Arpaia


GENETICA In futuro zanzare innocue?
Autore: ANSALDO LUCA

ARGOMENTI: GENETICA
NOMI: BEATY BARRY
ORGANIZZAZIONI: COLORADO STATE UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA

LA zanzara è ormai considerata l'insetto più noioso, ma soprattutto più pericoloso esistente al mondo. Le malattie che questo dittero trasmette uccidono infatti più persone di qualsiasi altra causa di morte conosciuta. Basti pensare alla malaria che ogni anno nel mondo, dall'Asia al Sud America, uccide non meno di due milioni di persone. In Africa su quattro bambini che nascono, uno muore a causa del morbo. Per contrarre la malaria è sufficiente una sola banale puntura della zanzara Ano pheles, attualmente presente in tutte le zone tropicali e sub tropicali, che inocula, mentre succhia il sangue, il mortale Plasmodium, il protozoo responsabile della malattia. Anche la febbre gialla e la dengue costituiscono due pericolose infezioni sostenute da un agente virale appartenente al gruppo degli Arbovirus. Entrambe sono trasmesse dall'Aedes aegypti, zanzara originaria della valle del Nilo, per ora ancora fortunatamente assente dall'Europa. La dengue infetta ogni anno cinquanta milioni di persone. Non esiste per combatterla una terapia specifica, nè una vaccinazione, per cui la prevenzione è affidata alla lotta alle zanzare. E' possibile invece una profilassi vaccinale contro la febbre gialla, endemica in alcuni Paesi dell'Africa e del continente latino- americano, e mortale nel 5-10 per cento dei casi in cui sviluppa l'infezione. Negli ultimi decenni più di quaranta specie di zanzare hanno sviluppato una resistenza ai pesticidi di più largo impiego, che negli Anni Sessanta avevano permesso addirittura la scomparsa di queste infezioni in molte regioni tropicali e subtropicali. Tutto ciò ha spinto gli studiosi ad escogitare strategie alternative, analizzando con attenzione le abitudini e le caratteristiche delle zanzare per scoprirne i potenziali punti deboli. Un risultato importante è stato raggiunto dal team di Barry Beaty della Colorado State University, che ha trovato il modo di trasformare una zanzara vettore di una malattia mortale in un insetto completamente innocuo. Gli scienziati sono ricorsi ad esperimenti di ingegneria genetica che non hanno precedenti. Gli studi si sono concentrati sul virus di La Crosse, responsabile di forme di encefalite dei bambini negli Stati centrali ed orientali degli Usa. L'obiettivo del gruppo di ricerca era quello di introdurre nella zanzara vettore della malattia, versioni modificate dei geni del virus patogeno in modo da renderle incapaci di trasmettere il morbo. Il risultato è stato raggiunto accoppiando questi geni a quelli di un microrganismo innocuo, il Sindbis virus, che infetta gli insetti senza provocare malattia. Alle zanzare è stato somministrato un pasto di sangue contenente il Sindbis virus modificato che ha prontamente iniziato a replicarsi a livello cellulare. Successivamente gli insetti sono stati infettati con il virus di La Crosse che non è stato però in grado di riprodursi. Le zanzare così trattate erano totalmente incapaci di trasmettere la malattia. La riuscita dell'esperimento è stata importante per poter accertare la possibilità di applicare l'ingegneria genetica alle malattie trasmesse dagli insetti. Infatti lo stesso approccio potrebbe essere applicato a patologie più gravi come la dengue e la febbre gialla, fino ad affrontare situazioni più complesse come la malaria. Il problema che i ricercatori devono risolvere è come trasferire in natura i geni modificati degli agenti patogeni all'interno delle zanzare. Stazioni artificiali di cibo a base di pastoni di sangue come quelli utilizzati in laboratorio sono difficilmente realizzabili. L'obiettivo del gruppo di ricerca è quello di introdurre direttamente i geni nel Dna delle zanzare. Ciò permetterebbe di trasferire l'informazione genetica alla prole e di ottenere generazioni future di insetti del tutto innocui. Luca Ansaldo


STRATEGIE DEL PERIOFTALMO Un simpatico pesce fuor d'acqua Abitatore delle fangose foreste tropicali di mangrovie
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. L'habitat dei perioftalmi; T. La struttura dei perioftalmi

IL prototipo del «pesce fuor d'acqua» è il perioftalmo (Periophtalmus vulgaris). Lui ci può aiutare a capire quel che successe 350 milioni di anni fa, quando un gruppetto di pesci temerari partì alla conquista della terraferma e diede origine ai primi vertebrati terrestri, gli anfibi. Il perioftalmo, in verità, non era della partita. E di quegli antichi colonizzatori, i Crossopterigi Ripidisti, non è nemmeno parente. Eppure nelle sue estrose strategie per resistere fuor d'acqua c'è indubbiamente qualcosa delle tecniche escogitate dall'evoluzione per trasformare un animale tipicamente acquatico come il pesce in un animale acquatico-terrestre come l'anfibio. Per esempio, la respirazione attraverso la pelle, così sviluppata nelle rane e nei rospi. Lui, il perioftalmo, la pratica soprattutto con la pinna caudale, che, riccamente vascolarizzata, diventa quasi un apparato respiratorio supplementare. Per mantenerla umida, il pesce ogni tanto la mette a mollo nell'acqua. Poi ingoia grandi boccate d'aria e la mescola con l'acqua trattenuta ad arte nelle due camere branchiali ermeticamente chiuse verso l'esterno. Un marchingegno che gli consente non solo di resistere alle periodiche emersioni forzate durante la bassa marea, ma anche di avventurarsi intrepido sul fango scivoloso e quando vuole acchiappare qualche animaletto in terraferma, di arrampicarsi addirittura sulle radici aeree delle mangrovie. Già, perché il suo habitat è l'apocalittico paesaggio della foresta a mangrovie, quella barriera vegetale che si estende per migliaia di chilometri lungo le coste tropicali dell'Asia, dell'Africa, dell'America e rende quasi inaccessibili larghi tratti della costa neozelandese. Sono i fiumi che hanno creato la barriera, trasportando verso la foce tonnellate di fango dopo le piogge torrenziali tipiche dei tropici. Ed è lì che prosperano le mangrovie. Quelle stranissime piante si sollevano dal mare di melma con una quantità di radici accessorie che, partendo dal tronco e dai rami, sembrano curiosissimi trampoli. I perioftalmi ci si trovano a meraviglia. Il fango non li disturba. Un uomo affonderebbe in quella palude insidiosa come sabbie mobili. Ma loro, lunghi generalmente meno di venti centimetri, sono agili e leggerissimi. In verità, non si può dire che si avventurino alla cieca nelle escursioni terrestri. Prima di mettere piede sulla terraferma, si guardano attorno con circospezione. I loro occhi sporgenti grossi come bottoni sono mobilissimi e indipendenti l'uno dall'altro. Il perioftalmo è strabico come il camaleonte. I suoi occhi possono guardare nello stesso momento l'uno in una direzione, l'altro nella direzione opposta. E consentono al pesce di vederci altrettanto bene nell'acqua come nell'aria, da vicino e da lontano, dotati come sono di un elevato potere di accomodazione. Si direbbe che il perioftalmo se li tenga da conto, quegli occhi preziosi. Quando se ne sta a riposo e non ha bisogno di guardarsi in giro, gli occhi li lascia scivolare verso il basso e li sistema in due cavità apposite, dove ampie pieghe cutanee li ricoprono e li proteggono. Camminare in terraferma è sempre problematico per un pesce abituato solamente a nuotare. Ma il perioftalmo questa difficoltà l'ha superata brillantemente nel corso della sua storia evolutiva. Le pinne pettorali sono venute acquistando una muscolatura particolarmente robusta. Inoltre si sono piegate ad angolo retto verso l'esterno, in modo da poter funzionare quasi come le zampe di un vertebrato terrestre. Sicché un perioftalmo che procede strisciando sulla melma dà l'impressione di un nanerottolo che avanzi carponi, facendo leva sui gomiti. Ma il piccolo pesce tropicale ha altre risorse in fatto di locomozione fuor d'acqua. Quando dà la caccia a un granchiolino o ad un altro animaletto, accelera l'andatura procedendo a salti. Lo slancio per saltare glielo dà la pinna caudale, che lo catapulta come una molla a dieci o venti centimetri di distanza. Così, saltellando come un ranocchio, raggiunge la preda. Per questo in Africa lo chiamano «mudskipper» che significa «saltatore sul fango». Adotta ovviamente la stessa tattica quando è inseguito da un predatore. Quando però si tratta di un avversario della sua stessa specie, il perioftalmo lo affronta a piè pari con una parata intimidatoria. Solleva la testa, guardandolo truce e contemporaneamente rizza come stendardi le larghe pinne dorsali dai colori vistosi. La minaccia il più delle volte sortisce il suo effetto. Se però l'intruso non si lascia scoraggiare, i due vengono, per così dire, alle mani. In quell'occasione i perioftalmi fanno sfoggio di tutta la loro aggressività e, affrontando i rivali, stabiliscono una precisa scala gerarchica. Risultano vincitori i primi che riescono a occupare un territorio dai confini ben definiti. Una volta insediati nella zona prescelta, si danno subito a scavare la tana che servirà prima da garconniere poi da nursery per i figlioletti. E qui si vede la straordinaria abilità del perioftalmo maschio che, in posizione verticale, a testa all'ingiù, sprofonda sempre più nel fango come una perfetta macchina scavatrice. Scavata la tana, prende il fango con la bocca e ne foggia centinaia di palline che dispone tutto attorno alla buca. Il nido viene costruito all'asciutto durante la bassa marea, ma al sopraggiungere dell'alta marea la buca si trasforma in una piscina che fa da camera nuziale. Si tratta ora di trovare la sposa. Per attrarre l'attenzione delle femmine di passaggio, il maschio mette bene in mostra le pinne pettorali cosparse di brillanti macchioline azzurre. Ma se in mezzo a tutto quel groviglio di radici sporgenti, nessuna femmina riesce a vederlo, il perioftalmo si puntella sulla coda e al colmo dell'eccitazione sessuale, si mette a saltellare come un indemoniato. Finalmente una femmina lo vede, capisce a volo che quella danza è una dichiarazione d'amore e i due entrano insieme nella camera nuziale. Lì la femmina depone le uova che il maschio feconda. E dalle uova nascono i piccoli. Sguazzano nel minuscolo specchio d'acqua dove sono nati, fino a che non impareranno come si fa a procurarsi un gustoso pasto terrestre. Isabella Lattes Coifmann


DEPRESSIONE Dal «male oscuro» all'epilessia Già Ippocrate postulava un legame tra le due patologie
Autore: MONACO FRANCESCO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: IPPOCRATE
ORGANIZZAZIONI: ROYAL COLLEGE OF PSYCHIATRISTS
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, REGNO UNITO, GRAN BRETAGNA, LONDRA

LA depressione, definita in termini neoromantici «il male oscuro», è più frequente nei pazienti con epilessia che nei gruppi di controllo, ed è associata alle difficoltà psicosociali da essa causate, quali i vissuti di discriminazione (sociale, lavorativa, affettiva), lo scarso adattamento alle crisi, lo stress finanziario. Inoltre, l'incidenza di suicidio in pazienti epilettici è 4-5 volte superiore a quello della popolazione generale. Che le due patologie siano collegate da un nesso, oggetto attualmente di intensi studi, è un'acquisizione millenaria; già Ippocrate nel V secolo a.C. aveva osservato che «i melancolici diventano usualmente epilettici e gli epilettici melancolici», e postulava l'esistenza di un meccanismo casuale unico che avrebbe determinato l'una o l'altra malattia a seconda che esso si fosse realizzato nel corpo (in tal caso avrebbe prevalso l'epilessia) o nella mente (in tal caso avrebbe prevalso la depressione). Questo importante argomento, ovvero la possibilità di una coesistenza di due patologie in uno stesso soggetto («comorbidità») è di notevole rilevanza sia dal punto interpretativo (perché succede?) che clinico (quali sintomi?) e terapeutico (che fare?). Nel recente simposio su tali tematiche tenutosi presso il Royal College of Psychiatrists di Londra, gli studiosi del settore hanno illustrato le varie ipotesi biologiche che, oltre e in parallelo a quelle socio-relazionali, possono tentativamente spiegare il perché di tale comorbidità. Tra tutte le teorie, la più interessante è sembrata essere quella che indica la presenza di un'alterazione a carico delle sostanze deputate al trasporto dell'impulso nervoso da cellula a cellula, i cosiddetti «neurotrasmettitori» (noradrenalina, dopamina, serotonina, e Gaba). In relazione a quest'ultima ipotesi, i pazienti con epilessia a rischio per depressione avrebbero di base un deficit a livello del sistema nervoso centrale di serotonina; questa, a sua volta, si ridurrebbe ulteriormente a causa della ricorrenza di crisi epilettiche e/o dell'uso di farmaci antiepilettici. Alcuni autori, inoltre, hanno osservato una diminuzione dei livelli plasmatici di acido folico in pazienti depressi con epilessia rispetto a quelli non-depressi, ed hanno ipotizzato un ruolo di tale sostanza nel determinismo delle due patologie. I farmaci antiepilettici hanno effetti marcati sul tono dell'umore, sia in senso euforizzante che depressogeno. Non solo: gli antidepressivi della «prima generazione», detti «triciclici» perché costituiti da tre cicli (anelli) di atomi di carbonio, possono provocare crisi epilettiche. Infine, l'interazione tra queste due famiglie farmacologiche potenzialmente antagoniste tra di loro (antiepilettici ed antidepressivi) è complessa e tale da incidere significativamente sul risultato terapeutico. L'impiego dei nuovi farmaci antiepilettici (vigabatrin, lamotrigina, topiramato, gabapentin, ecc.), da un lato, e dei nuovi antidepressivi (fluoxetina, venlafaxina, moclebemide, nefazodone ecc. ), dall'altro, sta decisamente muovendo le acque in uno stagno farmacologico piuttosto calmo da almeno un lustro. Infatti, per entrambi questi due gruppi farmacologici, gli effetti secondari sull'una o l'altra patologia coesistente sono rilevanti, tali da poter orientare «ippocraticamente» la malattia o verso il polo «eccitatorio» (epilettico) o verso quello «inibitorio» (depressivo). Di tutti i farmaci citati, il più interessante pare essere la fluoxetina. Questo antidepressivo, appartenente al gruppo dei farmaci «Ssri», i quali impediscono la ricaptazione della serotonina da parte della cellula nervosa (e che quindi lasciano più sostanza attiva a disposizione lì dove è indispensabile), avrebbe dimostrato una bassa o nulla capacità di provocare crisi epilettiche. Anzi alcuni studi avrebbero evidenziato un effetto antiepilettico. Tali dati sarebbero pertanto in accordo con l'ipotesi citata del deficit di serotonina nei pazienti epilettici depressi. Ulteriori ricerche in questo campo sono in fase avanzata di attuazione. Francesco Monaco Università di Sassari


IPERSVILUPPO Scoperto il gene dei giganti
Autore: M_VER

ARGOMENTI: GENETICA, RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: FORABOSCO ANTONINO
ORGANIZZAZIONI: CNR, POLICLINICO DI MODENA, CENTRO DI GENETICA DELL'UNIVERISTA' DI MISSOURI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, MODENA (MO)
NOTE: «Progetto Genoma»

ANCHE l'alta statura, come quella troppo bassa, può essere una «malattia». Non certo in sè - anzi, l'altezza è spesso considerata una componente della bellezza - quanto per le ricadute che può avere sull'organismo. Ma quando si superano i due metri si può davvero entrare nella patologia. E' di questi giorni l'annuncio che, nell'ambito del progetto Genoma, è stato scoperto uno dei geni responsabili dell'ipersviluppo: è situato sul cromosoma X, il cromosoma sessuale comune sia agli uomini sia alle donne. Chi ne è sprovvisto cresce a dismisura perché, attraverso la proteina Glypican, viene a mancare il regolatore dell'ormone della crescita. La ricerca, che è frutto di una collaborazione internazionale tra il Centro di Genetica dell'Università del Missouri a Saint Louis, il dottor Pilia del Cnr e il Policlinico di Modena, è una novità importante perché finora si era studiato soltanto il nanismo, cioè la crescita bloccata. Qui invece si è entrati nei meccanismi della ipercrescita non controllata: il gigantismo può essere l'indizio che il ciclo di sviluppo delle cellule non è ben regolato e quindi ci può essere una predisposizione ai tumori, che sono anch'essi una crescita cellulare fuori di qualunque controllo. A quanti centimetri si passa nella categoria a rischio? «Dipende dalla statura media nazionale - spiega il professor Antonino Forabosco, direttore del servizio di genetica medica del Policlinico di Modena -. Poiché gli italiani sono alti mediamente 170 centimetri, parliamo di gigantismo quando si superano i due metri. Non occorre aspettare l'età dello sviluppo per vederne i segni: l'iperaccrescimento avviene già nell'utero materno, i neonati pesano oltre quattro chili». Questo nuovo gene - battezzato GPC3 - è situato in una posizione molto felice per poter intervenire: all'esterno della membrana cellulare e non dentro la cellula. «Il suo meccanismo d'azione - dice ancora il professor Forabosco - è però molto complesso, in quanto controlla l'interazione tra uno dei tanti fattori di crescita, "controllori" fondamentali di tutto ciò che avviene nell'organismo, e il suo recettore». Per questo l'assenza del gene porta uno sbilanciamento di tutto il sistema, con una predisposizione allo sviluppo eccessivo delle cellule di qualunque organo. Sono possibili anche difetti nelle vertebre, ma non c'è mai ritardo mentale. La prima tappa è stato il riconoscimento del gene e del suo ruolo. Il futuro dovrebbe portare la possibilità di integrare la funzione mancante come già avviene con il nanismo che adesso, con la scoperta dell'ormone della crescita e la possibilità di somministrarlo quando scarseggia, è perfettamente curabile. (m. ver.)


NUOVE TECNOLOGIE Il calcestruzzo ha duemila anni
Autore: RUSSO SALVATORE

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, EDILIZIA, ARCHITETTURA, CONGRESSO
LUOGHI: ESTERO, EUROPA, FRANCIA, PARIGI

L'ANTENATO del calcestruzzo compie duemila anni. Un compleanno senza festeggiamenti, sottovoce, come forse avviene per tutti quei materiali così essenziali e legati alla storia dell'uomo che è naturale pensare siano sempre esistiti. Eppure dal bitume al cemento, al conglomeratus romano, fino al moderno calcestruzzo, c'è un lungo cammino che ha condizionato le abitudini costruttive, dal semplice muro di sostegno alle opere più complesse, trovando poi nell'accoppiamento all'acciaio la sua soluzione più duttile, con le prime ardite sperimentazioni d'inizio secolo su fioriere e scafi leggeri, e poi le attuali centrali nucleari e le case antisisma. L'ultima generazione di conglomerato si chiama «calcestruzzo ad elevate prestazioni» ed è destinata ad accompagnare costruttori e progettisti oltre le soglie del 2000. Il quarto convegno mondiale sullo stato dell'arte di questo materiale si è recentemente concluso a Parigi, con la presentazione di oltre 300 pubblicazioni scientifiche: un appuntamento ormai di rito (a scadenza triennale) per gli addetti ai lavori. Vediamo, allora, quali sono le caratteristiche di questo calcestruzzo rinforzato. Innanzitutto la resistenza a compressione. Si tratta del principale parametro di identificazione del materiale; la nostra normativa prevede l'impiego di una classe di resistenza massima pari a 550 kg/cmq, mentre questi calcestruzzi speciali possono raggiungere agevolmente i 1000 kg/cmq, con prestazioni simili a quelle di pietre artificiali. Ma non solo. Anche il modulo di elasticità a compressione, già attestato su valori tra 280 e 300 mila kg/cmq, raggiunge ora un valore pari a 380 mila kg/cmq. E la resistenza a trazione, tradizionalmente non valutata nei calcoli di progetto da parte degli strutturisti, raggiunge ora livelli pur sempre modesti ma non più trascurabili, pari a circa 50 kg/cmq. Tra gli altri vantaggi, anche quelli estetici, con un allungamento dello stato di conservazione delle superfici in cemento armato, grazie a una sensibile riduzione dell'ampiezza delle fessure, che favoriscono l'aggressione chimica delle armature metalliche. Il radicale miglioramento delle prestazioni meccaniche del calcestruzzo ha anche cambiato la concezione del prodotto: non più artigianale ma frutto di condizionamenti chimici e di differenti dosaggi a seconda del tipo di impiego richiesto. Come per l'uso di calcestruzzo con fibre, che utilizza materiali sintetici - lana di vetro, lana di roccia - annegati nella matrice cementizia, per ottenere un netto miglioramento in termini di resistenza. Oppure per l'uso di superfluidificanti che consentono una sensibile riduzione del rapporto acqua-cemento a favore della resistenza complessiva, senza peraltro diminuire la lavorabilità del materiale. Anche i vantaggi pratici sono immediati. Ad esempio una maggiore economia nel progetto delle sezioni in cemento armato: utilizzando un materiale con le stesse caratteristiche di impiego ma più resistente, si possono ridurre le dimensioni degli elementi costruttivi di base (travi, pilastri, solai). Tanti pregi, dunque, e un unico difetto: la fragilità in fase di collasso, un comportamento in fase di rottura a compressione più repentino e immediato rispetto ai calcestruzzi tradizionali. Il calcestruzzo ad elevate prestazioni ha fornito buoni risultati in termini di durabilità in piattaforme petrolifere, e nelle centrali nucleari, soprattutto in Francia e America, per le quali i criteri di isolamento e sicurezza hanno importanza primaria. D'altra parte il comportamento di questo calcestruzzo sotto cicli di temperatura elevata (250o C - 400o C) ha mostrato - anche se le ricerche sono ancora in corso - come oltre 250o C vi sia una sensibile riduzione della resistenza se il materiale è nudo, mentre a livello di impiego strutturale sopporta cicli di temperature sino a 400-500o C. Anche in campo antisismico si prevedono notevoli sviluppi applicativi, con particolare riferimento alle strutture alte. D'altra parte, non potevano mancare i primi risultati sul versante architettonico, come le torri gemelle edificate nel moderno quartiere della Defense, vicino la Grand'Arche, e i più recenti grattacieli di Chicago e New York. La ricerca sul calcestruzzo rinforzato non è finita. Alcuni studiosi giapponesi stanno mettendo a punto un calcestruzzo ad elevatissime prestazioni, con resistenza a compressione fino a 2000 kg/cmq, e le prime prove verranno effettuate tra breve, nell'Università di Tohoku. Salvatore Russo


SCOPERTO IN MAROCCO Un feroce squalo di terra Sorprese africane: il Carcharodontosaurus saharicus
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA
NOMI: SERENO PAUL
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DI CHICAGO
LUOGHI: ESTERO, AFRICA, MAROCCO

SE vi foste trovati nel Sahara 90 milioni di anni fa avreste visto un paesaggio completamente diverso da quello attuale: c'erano foreste tropicali, fiumi e laghi. In cielo volavano gli pterosauri, e nelle praterie si incontravano dinosauri. Insomma, un piccolo Eden nel quale si nascondeva, però, uno dei più feroci carnivori mai esistiti. Era il Carcharodontosaurus saharicus, un dinosauro bipede che sfiorava i 14 metri di lunghezza. Il suo cranio fossile, recentemente scoperto in Marocco, supera il metro e mezzo di lunghezza e le sue orbite, vuote, dovevano contenere occhi grandi quanto meloni. Non esiste modo migliore per descrivere questo tipo di dinosauri, se non quello di paragonarli ad autentici «squali terrestri». I loro denti, taglienti come rasoi e finemente seghettati, avevano le dimensioni di coltelli da cucina. Il Carcharodontosaurus in effetti univa le dimensioni di un elefante alla violenza di una tigre. La struttura delle ossa del bacino e degli arti inferiori indica che era un predatore attivo. Cacciava per lo più con agguati improvvisi, e micidiali, come quelli del suo cugino, il famoso Tirannosauro. Piombava sulle vittime con le mandibole spalancate, e la violenza dell'impatto consentiva ai denti di penetrare profondamente nei corpi delle prede. Il cranio del Carcharodontosaurus aveva una struttura elastica, capace di «deformarsi» leggermente per attutire l'impatto. Come tutti i teropodi, cioè i dinosauri carnivori bipedi, non masticava i bocconi, ma li mandava giù interi. Le sue fauci in effetti funzionavano come una tagliola: servivano ad addentare la carne delle vittime e a strapparne immensi blocchi grazie a potenti movimenti del collo. Il Carcharodontosaurus saharicus era indubbiamente uno dei killer più spaventosi della preistoria. Con una curiosità: malgrado i suoi 14 metri di lunghezza, aveva un cervello minuscolo, grande quanto un modesto bicchiere da tavola (100 cm cubi). Avere un cervello relativamente piccolo è una caratteristica di quasi tutti i dinosauri. Il Brachiosauro, il più alto dinosauro mai esistito (12 metri di altezza), aveva un cervello grande come una pera, lo stesso si può dire del terribile Tirannosauro. Tuttavia, è da sfatare il luogo comune che vuole i dinosauri come stupidi. Anzi, forse è vero proprio il contrario: se un cervello così piccolo era in grado di presiedere a tutti i movimenti del corpo (compresa la respirazione, la digestione, ecc.), a regolare tutti gli equilibri metabolici, e soprattutto ad organizzare il comportamento sociale e venatorio di esseri così imponenti, ciò significa che era anche un vero gioiello dell'anatomia. Un piccolo «computer» vivente. Oltre al Carcharodontosaurus, il gruppo di paleontologi dell'Università di Chicago, guidato da Paul Sereno, ha portato alla luce i resti di un altro dinosauro carnivoro, molto più piccolo, il Deltadromeus agilis, a conferma che il Sahara costituisce uno straordinario «Eldorado» per la ricerca. Un forziere colmo di sorprese (basta pensare al «cimitero dei dinosauri» nel deserto del Niger) che però, solo in futuro, potrà essere pienamente studiato: pericolose instabilità politiche e tribali non consentono attualmente di condurre ampie campagne di scavo. In altre regioni del globo, fortunatamente, la ricerca non si è fermata e, in questi ultimi mesi, sono state diffuse le notizie di altre importantissime scoperte. A contendere il primato di «re» al famoso Tirannosauro, oltre al Carcharodontosauro (che possiede un cranio leggermente più lungo), c'è infatti un nuovo dinosauro carnivoro, il Gigantosaurus, un altro peso massimo tra i carnivori, rinvenuto in Argentina. La recente scoperta di un altro teropode (dinosauro carnivoro bipede) di dimensioni colossali, in Thailandia, indica che questi predatori giganteschi erano diffusi in numerose aree del globo, spesso in momenti e periodi diversi. In altre parole non costituivano eccezioni spettacolari nel programma dei dinosauri, ma un «tema» evolutivo che si è riprodotto più volte, con delle differenze. A questo proposito gli scopritori del Carcharodontosaurus ammettono di essere sempre più sorpresi dell'«originalità» evolutiva dei dinosauri africani, che mostrano soluzioni anatomiche assai interessanti e del tutto distinte rispetto a quelle degli altri dinosauri nel resto del pianeta. E' un complesso intreccio di storie evolutive che ignoriamo ancora in gran parte e che stanno lentamente emergendo dai sedimenti ad ogni colpo di scalpello. Alberto Angela


SPIAGGE Coralline silicee vulcaniche
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

UNA famosa bossa nova brasiliana, «La ragazza di Ipanema», parla di una splendida fanciulla che cammina con incedere flessuoso sulla finissima sabbia della più famosa spiaggia del mondo, a Rio de Janeiro. Ora, anche se l'esercizio è difficile, invitiamo quei lettori che stanno contemplando una scena analoga a staccare lo sguardo e la mente della ragazza e a concentrarsi sulla composizione geomineralogica della sabbia. Ogni spiaggia ha una grande e lunga storia da raccontare, a volte vecchia quasi quanto il nostro pianeta. La sabbia può essere considerata l'ultimo anello nel grande ciclo dell'orogenesi, il momento del «ritorno alle origini» di tutti i materiali che i processi geologici avevano portato fin sopra le più alte montagne. Ogni ciclo di nascita e crescita di un sistema montuoso è infatti accompagnato e seguito da un ciclo di disgregamento a opera degli agenti atmosferici. Il risultato finale, cioè la dimensione media dei singoli granuli e il colore della spiaggia, dipende essenzialmente dalla sua composizione mineralogica e quindi dal tipo di rocce originarie che hanno concorso alla sua formazione. Non è facile, osservando la sabbia, riuscire ad intuire da quali rocce deriva. Innanzitutto, rocce diverse possono dare origine allo stesso prodotto finale di disgregazione; in secondo luogo, le rocce originarie possono non esistere più nell'immediato entroterra, essendo state totalmente disgregate, oppure le sabbie possono essere state trasportate per distanze enormi dalle onde e dalle correnti e diventa arduo risalire al loro luogo di origine. Ogni spiaggia è quindi spesso un mix di molti eventi formativi e di trasporto, difficilmente distinguibili tra loro e ordinabili cronologicamente. Quasi tutte le spiagge contengono silicati, ma moltissime rocce contengono minerali appartenenti a questa famiglia, escluse le rocce carbonatiche, come calcari e dolomie, che non danno mai origine a spiagge sabbiose. Le piogge, il vento, l'azione del gelo e del disgelo, le sostanze chimiche prodotte da vegetali e animali disgregano queste rocce, separando le singole «piastrelle» che costituivano il «mosaico mineralogico» originario. Per l'azione di questi agenti le parti carbonatiche della roccia si sciolgono e quelle feldspatiche si trasformano in minerali argillosi, mentre alcuni minerali, in virtù della loro inalterabilità, subiscono solo un'azione di arrotondamento e frantumazione durante la fase di trasporto al mare da parte dei fiumi e andranno a costituire e a caratterizzare le differenti spiagge. Tra di essi ricordiamo il quarzo, gli anfiboli, i pirosseni e altri silicati come lo zircone, l'epidoto, i granati e l'olivina, i minerali metallici come la magnetite e la cassiterite, gli ossidi come il rutilo, il crisoberillo, il corindone e gli spinelli, oltre all'oro e al platino. Un tipo particolare di spiaggia, che esiste solo lungo le coste dei mari tropicali, è quella corallina. In questo caso la «sabbia» è costituita da frammenti di coralli, e quindi da materiale di origine animale e non minerale. In Italia non abbiamo esempi di questo tipo. I minerali che costituiscono le spiagge dorate più fini, come quelle della Versilia, della riviera romagnola o dei litorali veneti sono prevalentemente a dominante quarzosa. Anche le spiagge bianche del Nord della Sardegna, che derivano dai graniti rosa della Gallura, hanno una composizione analoga. In questo caso la spiaggia non conserva il colore originario delle rocce da cui deriva, in quanto i feldspati, che danno il colore rosa alle rocce originarie, durante il trasporto vengono quasi totalmente alterati, perdendo così il colore. Degne di nota sono le spiagge del litorale laziale, come quelle di Nettunio e le spiagge del lago di Bolsena, che appaiono quasi nere. Ciò non è dovuto alla presenza di inquinanti, ma all'abbondanza di magnetite, olivina e pirosseni, derivanti dalla disgregazione delle rocce vulcaniche molto comuni nell'entroterra. Un'ultima curiosità riguarda le spiagge elbane, che spesso risplendono per la presenza di ematite lamellare, o acquistano colorazioni rossastre o vinose per il forte contenuto in ferro. Davide Pavan


MEDITERRANEO Tutti, troppi al mare Nelle aree più fragili numero chiuso
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: DEMOGRAFIA E STATISTICA, ECOLOGIA, TURISMO, AMBIENTE
NOMI: PRATESI FULCO, REALACCI ERMETE
ORGANIZZAZIONI: LEGAMBIENTE, WWF
LUOGHI: ITALIA

TUTTI al mare dopo un anno di lavoro. A cercare qualche centimetro di sabbia libero per sdraiarsi tra la folla. A nuotare tra le barche a motore che non rispettano l'obbligo di navigare ad almeno 300 metri dalla costa. Alla ricerca degli arenili meno inquinati segnalati da Lega Ambiente, sempre disposta a fornire informazioni (tel. 08/882.681) ai bagnanti sui progressi dell'inquinamento. Tutti al mare, ma il nostro mare di villeggianti non ne può più. Nel Mediterraneo la pressione del turismo di massa è al limite del sostenibile con 320 milioni di presenze all'anno, concentrate per oltre due terzi nella stagione estiva. La regione mediterranea è la prima area turistica del mondo per numero di visitatori, strutture di ricezione e fatturato, comprende però meno del 3 per cento delle zone salvaguardate a livello ambientale sul pianeta. In tutto il Mediterraneo si contano 575 tra riserve e parchi naturali, ma solo 114 di questi sono integralmente protetti. In Italia, tra 18 parchi nazionali, oasi, riserve regionali e 70 aree protette dal Wwf, è tutelato il 7 per cento del territorio: un terzo dell'obiettivo fissato dagli ambientalisti. «La soluzione al degrado portato dal turismo è la creazione di nuove aree protette e ben sorvegliate», sostiene Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf e presidente del Parco nazionale d'Abruzzo. In alcune zone costiere della Penisola solo l'intervento delle ruspe potrà rimediare al disastro ecologico provocato dall'abusivismo edilizio. Ma in molte realtà la situazione sta cambiando. Ambientalisti ed albergatori, nemici per vent'anni, hanno avanzato progetti comuni e decaloghi verdi a Jesolo Lido, a Pantelleria, all'Elba. «I problemi delle nostre spiagge si risolvono solo modificando alla radice i comportamenti di tutti noi: del governo, degli operatori e di coloro che sulle spiagge vanno in vacanza e non rispettano l'ambiente come dovrebbero», spiega Ermete Realacci, presidente nazionale di Lega Ambiente. Il problema è mondiale. Nel Duemila il turismo sarà la prima industria del pianeta. E' aumentato di venti volte tra il 1950 e il 1996. Ogni anno coinvolge più di mezzo miliardo di persone (un decimo dell'umanità) in viaggio oltre frontiera e fattura 4 mila miliardi di dollari. Dalla Banca Mondiale al Parlamento europeo da molti anni arriva l'invito a correre ai ripari: a ridurre al minimo l'impatto ambientale dell'industria in maggiore crescita sulla Terra. Nel 1980 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che invitava ad arginare il flagello del turismo di massa. Da allora cosa si è fatto? In quasi tutta l'Europa occidentale stanno lentamente aumentando le zone sottoposte a vincoli naturalistici. In Germania, nella foresta bavarese, dove il numero di visitatori è più che raddoppiato in un decennio, sono stati creati numerosi posti letto senza costruire nuovi edifici, ma ristrutturando quelli esistenti e trasformando molte fattorie in pensioni. In Spagna, nelle Isole Baleari, dopo il successo turistico degli Anni Settanta e il conseguente boom edilizio, si è avuta una crisi di presenze provocata dal degrado ambientale: per porvi rimedio è stato attivato il progetto Ecomost: prevede la chiusura degli hotel costruiti a meno di 100 metri dal mare, la conseguente eliminazione di 46 mila posti letto, limiti all'accesso delle automobili e un piano di riforestazione delle isole. Piani simili sono stati avviati, in contesti ambientali molto diversi, anche in Irlanda, in Galles, in Cornovaglia, a Cipro. Ma in Italia, a parte la recente e discussa istituzione del parco nell'arcipelago toscano, non è in vista nessuna iniziativa per risanare il patrimonio costiero. Sembra un paradosso, ma uno dei maggiori pericoli per l'ecosistema viene dal crescente desiderio di trascorrere le vacanze in ambienti incontaminati. Perché l'interesse per le attività ecoturistiche sposta in aree protette - per la fragilità oltre che per la singolarità del luogo - masse di visitatori attratti dall'avvistamento degli animali, da interessi botanici, dall'alpinismo o da sport a diretto contatto con la natura. I 3 milioni di escursionisti che percorrono i sentieri alpini, come le masse di turisti che visitano i parchi degli Stati Uniti, le savane e i deserti africani o la Grande Barriera Corallina in Australia provocano spesso un impatto devastante sull'ambiente da cui sono attratti. Innescano un meccanismo perverso: la loro affluenza impone la costruzione di strutture di ricezione alberghiera, di ristorazione e di trasporto. Nascono problemi di smaltimento dei rifiuti e dei liquami biologici senza inquinare. E con l'aumento del numero di visitatori la questione s'ingrandisce fino a minacciare l'equilibrio ecologico del parco. Per le isole e gli ambienti più a rischio, la soluzione d'emergenza è l'introduzione del numero chiuso, come è stato fatto in alcuni atolli dell'Oceano Indiano e della Grande Barriera Corallina, ma anche sui sentieri più battuti di alcuni parchi nazionali neozelandesi e statunitensi. «Anche in Italia per le aree più fragili il rimedio è il numero chiuso: nel Parco nazionale d'Abruzzo l'abbiamo già applicato sui sentieri della Val di Rosa e di Monte Amaro, dove l'affluenza viene limitata nelle stagioni di riproduzione della fauna», spiega Fulco Pratesi. E anche al parco dell'Uccellina, in Maremma, l'accesso è stato ridotto a 500 automobili al giorno. L'opposto di quello che succede al parco del Circeo, divorato da una folla che straripa sulla spiaggia erodendo e flagellando le dune. Marco Moretti


AEROPORTI E SICUREZZA Risonanza magnetica per droga ed esplosivi Un apparecchio già installato allo scalo di Los Angeles
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA, ELETTRONICA, CONTROLLI, SICUREZZA, AEREI
ORGANIZZAZIONI: NAVAL RESERACH LABORATORY, QUANTUM MAGNETIC
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA, LOS ANGELES

LA tragedia del Jumbo della Twa ha riproposto in termini drammatici il problema del controllo dei bagagli caricati a bordo degli aerei civili e, più in generale, di quanto entra nell'aereo, sia portato a mano che spedito come merce. Poiché è molto difficile garantire l'assoluta affidabilità di tutte le persone che in un grande aeroporto hanno in qualche modo a che fare con l'aereo a causa del numero elevato di operazioni necessarie (meccanici, poliziotti, addetti ai rifornimenti, al carico dei bagagli, eccetera), è sempre più spinta la ricerca di un'apparecchiatura, di una «porta» attraverso la quale transiti e venga controllato qualunque oggetto prima di essere imbarcato, in grado di segnalare la presenza di esplosivo al plastico. Purtroppo, mentre un tempo le bombe erano costituite da un involucro metallico relativamente facile da vedere, almeno con i raggi X, oggi le bombe al plastico sono invisibili, più piccole e più leggere. Nei primi Anni 80 una ditta americana, la Quantum Magnetic, aveva iniziato degli esperimenti per scoprire le droghe più diffuse, cocaina ed eroina e loro composti, comunque nascoste in qualsiasi tipo di imballaggio o involucro. L'idea dalla quale i ricercatori erano partiti era quella di sfruttare la risonanza magnetica del nucleo atomico dei solidi, un fenomeno che è collegato e dipendente dalle proprietà molecolari di ogni specifica materia. Quando un nucleo atomico quadripolare viene sottoposto ad un campo elettrico variabile si genera un cambiamento nell'orientamento del nucleo rispetto al campo elettrico e quando la frequenza del campo elettrico che disturba il nucleo è uguale alla frequenza di risonanza propria del materiale che contiene questo nucleo si genera un segnale nel campo delle radio frequenze che può essere raccolto ed amplificato. Ogni materiale che contiene un nucleo quadripolare ha quindi una unica propria frequenza di risonanza. Le ricerche condotte insieme al Naval Research Laboratory hanno permesso di individuare, oltre alle frequenze proprie della cocaina, di alcuni suoi composti e dell'eroina, anche quella degli esplosivi plastici. E' stato quindi sviluppato uno strumento che identifica queste frequenze e le prove hanno dimostrato che l'apparecchiatura, che fra l'altro è relativamente semplice, garantisce una precisione del 99%, ma ciò che è importante è che l'errore è sempre di segno positivo: una volta su 100, mediamente, segnala cioè un allarme per un oggetto che risulta poi non pericoloso mentre non si lascia mai sfuggire un oggetto che contiene questo tipo di droghe o dell'esplosivo al plastico. Dopo la messa a punto in laboratorio l'apparecchiatura è stata installata al Terminal 7 dell'aeroporto di Los Angeles a metà novembre '95, in serie ad un normale apparecchio a raggi X sul nastro trasportatore dei bagagli dove ha controllato 4000 colli (e fra questi alcuni appositamente «pericolosi») al ritmo di 600 all'ora emettendo due segnali, «Alarm» oppure «No alarm», e non ha commesso un solo errore scovando l'esplosivo al plastico nascosto negli oggetti più impensabili, ad esempio in un blocco di pesce surgelato. Ora le prove continuano per verificare eventuali interferenze con altri apparati, o con campi magnetici o anche con vibrazioni presenti nell'aeroporto per assicurarsi che l'apparecchiatura ne sia refrattaria. Inoltre, poiché ha una sensibilità che dipende dalla massa e dalle dimensioni dell'oggetto esaminato, si lavora per poterlo utilizzare sia sui normali bagagli ma anche su oggetti più grandi, colli spediti come merce o molto più piccoli. In particolare è in fase di messa a punto un modello dedicato ai pacchetti postali ed alle lettere che troverà le droghe e l'esplosivo al plastico spedito utilizzando il sistema postale. Certamente la tragedia del volo Twa, indipendentemente dai risultati dell'indagine sulla sua causa, accelererà la messa a punto di uno strumento che, nato per scovare i corrieri della droga, sembra diventare purtroppo sempre più indispensabile negli aeroporti di tutto il mondo. Gian Carlo Boffetta




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