TUTTOSCIENZE 31 luglio 96


DROGA Contro la coca
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: SCRIPPS INSTITUTE
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA

OGNI giorno leggiamo episodi della lotta contro la droga. Anche se qualche risultato si è ottenuto negli ultimi anni circa la distribuzione e lo spaccio il fenomeno è più che mai di attualità. Non è bastato dichiarare che il drogato è un paziente affetto da una malattia mentale e che si distingue per specifici disturbi nervosi e del comportamento. Tra questi primeggia un desiderio irrefrenabile verso una sostanza che lo rende poi dipendente. Poiché abbiamo registrato un certo successo nel trattamento dell'alcolismo e della dipendenza da eroina, siamo indotti a pensare che ricerca e terapia siano le strade giuste da perseguire anche per il problema della cocaina. Una delle strategie più seguite dalla ricerca neurobiologica è stata quella di cercare di comprendere il meccanismo che porta l'individuo a cercare la droga, non solo la spinta iniziale ma anche le successive modificazioni indotte dalla droga nel cervello. L'approccio farmacoterapeutico attuale si dirige principalmente verso la prevenzione delle ricadute cercando di ridurre l'interesse verso la droga mediante un'azione diretta sui quei cambiamenti indotti dalla droga a livello di funzioni cerebrali fondamentali, quali i condizionamenti basati su alterazioni neurochimiche. Del tutto nuova è la strada battuta da un gruppo di neurofarmacologi dello Scripps Institute in California (Carrera, Nature 14 dicembre 1995) che hanno cercato di sopprimere l'effetto psicoattivo della cocaina mediante una immunizzazione attiva dei soggetti. Si tratta di bloccare l'ingresso della droga al sistema nervoso centrale stimolando il sistema immunitario del drogato a produrre degli anticorpi che riconoscano la cocaina come sostanza estranea e che si leghino ad essa impedendone così il passaggio attraverso quella barriera che esiste tra circolazione e cervello. Il disegno e la preparazione di questo esperimento presuppone l'uso di una sostanza stabile ed immunogenica avente la struttura chimica della cocaina. Usando un nuovo composto coniugato della cocaina i ricercatori sono riusciti a indurre la produzione di anticorpi in grado di legarsi alla droga ogni qualvolta essa venisse introdotta dall'esterno per inoculazione. I pazienti erano rappresentati da ratti, animali di laboratorio che sviluppano praticamente tutte le caratteristiche dei drogati quando esposti ripetutamente alla cocaina. L'effetto indotto dalla droga si manifesta nell'animale come una sfrenata attività motoria e un comportamento stereotipato che ricorda molto da vicino quello del drogato. Si ritiene che tali effetti dipendano da un azione selettiva della cocaina su cellule nervose appartenenti a strutture localizzate al di sotto della corteccia cerebrale quali lo striato, caratterizzate dalla presenza del trasmettitore chimico chiamato dopamina (lo stesso implicato nel Parkinson). La vaccinazione col coniugato della cocaina aveva l'effetto di ridurre notevolmente l'azione di iniezioni di cocaina negli animali. L'effetto farmacologico era specifico per la cocaina e quindi non dimostrabile per altre sostanze psicoattive come l'amfetamina. Si poteva inoltre constatare direttamente (un vantaggio dell'esperimento su animali) che l'accesso della cocaina al cervello, particolarmente al cervelletto ed allo striato era stato parzialmente bloccato in seguito al processo di immunizzazione. Non si conosce ancora il limite pratico di tale intervento, cioè l'efficienza della vaccinazione verso dosi molto alte di droga. Gli autori suggeriscono che una simile immunofarmacoterapia potrebbe essere sperimentata anche nell'uomo. Essa avrebbe il vantaggio di facile applicabilità e di non tossicità per il sistema nervoso in quanto l'effetto del trattamento si esplica al di fuori di esso a differenza di altri approcci farmacologici. Rimane un dubbio fondamentale circa l'efficacia di tale trattemento. Principalmente che esso trascuri l'effetto fondamentale della droga sul comportamento bloccando solo l'effetto di rinforzo ma evitando di agire sul substrato neurobiologico che è alla base della motivazione per continuare l'uso. Ezio Giacobini


VOLO LIBERO Dal deltaplano al parapendio
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA
NOMI: ROGALLO FRANCIS MELVIN, BOIVIN JEAN MARC
ORGANIZZAZIONI: LANGLEY RESEARCH CENTER
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA

IL volo libero, oggi in grande espansione, praticato con il deltaplano e con il parapendio, così come le sue derivazioni spurie che utilizzano deltaplani e parapendii a motore, ha un'origine nobile e del tutto casuale. Quello che è diventato oggi per milioni di persone un modo economico ed ecologico di realizzare il sogno di volare (di volare con le proprie ali, liberi da vincoli affidati unicamente alla propria sensibilità e alle forze naturali che agiscono nell'atmosfera) discende addirittura dalle attività spaziali. Naturalmente nessuno dimentica gli innumerevoli tentativi fatti in precedenza, specie nella seconda metà dell'800; ma il volo libero, all'apparenza così semplice, è diventato realtà solo dopo che si sono rese disponibili le avanzate tecnologie e le conoscenze aerodinamiche dell'aeronautica e dello spazio. Mentre la Nasa progettava le capsule che avrebbero poi portato l'uomo sulla Luna, si trovò a dover risolvere il problema del loro atterraggio al rientro sulla Terra. Incaricato di affrontarlo fu Francis Melvin Rogallo, responsabile della galleria del vento al Langley Research Center in California. Si trattava di costruire un apparecchio che, chiuso, avesse un limitatissimo ingombro in modo da essere contenuto in un'appendice della capsula, ma in grado di resistere a uno sforzo enorme aprendosi a una velocità di circa 5 mila chilometri l'ora, di sostenere un peso di decine di tonnellate, e di rallentarle fino a meno di 100 chilometri l'ora. Rogallo progettò un'ala triangolare flessibile, costruita con un tessuto di fibra metallica rivestita di silicio, che doveva essere espulsa dalla capsula in una frazione di secondo e mantenuta aperta da un'intelaiatura di tubi gonfiabili. Al progetto lavorarono importanti aziende aeronautiche (tra le altre la Ryan, che aveva fornito a Lindberg l'aereo del leggendario volo sull'Atlantico e che ha costruito qualche anno fa il velivolo che ha fatto il giro del mondo senza scalo). Furono fatte molte prove ma la strada si rivelò poco praticabile a causa delle complicazioni tecniche e la Nasa ripiegò sui più semplici paracadute scegliendo di far scendere le capsule non sulla terra ma in mare. Ma «l'ala Rogallo» non fu dimenticata; la Ryan, per esempio, propose di applicarla ai seggiolini eiettabili dei jet da combattimento per consentire al pilota costretto a lanciarsi sul territorio nemico di raggiungere in planata le proprie linee; provò anche ad applicarvi un carrello e un motore realizzando un apparecchio straordinariamente simile a un deltaplano a motore di oggi. Ma fu tra le mani dei «puri» del volo che l'ala Rogallo trovò il suo imprevedibile futuro. Sperimentata a fini sportivi alla fine degli Anni 60 in Australia e negli Stati Uniti, approdata in Europa, perfezionata, resa sempre più affidabile ed efficiente, ha rapidamente riempito i cieli di tutto il mondo con la sua sagoma a forma di delta (da qui la denominazione di deltaplano, o glider in inglese, dal verbo to glide, planare) e con i suoi colori solari. Successivamente è arrivato il parapendio. E' difficile immaginare qualcosa di più semplice e geniale per volare. Una specie di busta vuota, uno straccetto del peso di pochi chilogrammi, che riempiendosi di aria e manovrato da mani sapienti diventa capace di salire e di scendere, curvare, accelerare e rallentare. Il parapendio ha qualcosa del glider e del paracadute. Con molte prerogative tutte sue: leggerissimo tanto da poter essere portato in uno zaino, facile da pilotare una volta apprese alcune regole fondamentali (le scuole sono ormai numerose), capace di manovrare in spazi ristretti come le valli di montagna, e di atterrare in pochi metri. L'ascendente più immediato è stato il paracadute. Alla fine degli Anni 70 alcuni paracadutisti francesi provano a liberarsi dalla dipendenza (costosa) dell'aereo lanciandosi da una montagna dell'Alta Savoia. E' una tecnica molto empirica e anche un po' rischiosa; ma in soccorso arriva l'esperienza dei deltaplanisti e il paracadute comincia a cambiare, ad assumere una forma del tutto nuova, e comincia a diventare non più solo un mezzo di discesa ma anche di spostamento in senso orizzontale. La frequentazione della montagna attira l'attenzione degli scalatori, che trovano subito questo nuovo aggeggio molto interessante per facili ed entusiasmanti discese dopo dure scalate. La discesa dalla vetta dell'Everest di Jean-Marc Boivin nel 1988 è il punto di arrivo del «paralpinismo», quando ormai il parapendio ha cominciato a vivere di vita propria, ad affinare tecniche costruttive e di volo, a stabilire i propri record, a diventare attività di massa. La «vela», che costituisce la parte fondamentale del parapendio è formata da una specie di busta di materiale sintetico aperta sul davanti. Una volta piena d'aria essa si trasforma però in una vera e propria ala, di cui infatti utilizza la terminologia tecnica: la parte superiore è l'estradosso, quella inferiore l'intradosso, il bordo posteriore si chiama bordo d'uscita, quello anteriore bordo d'entrata. Il bordo d'entrata, però, è molto diverso da quello di un'ala classica: infatti l'apertura anteriore che lascia entrare l'aria dà alla «busta» la giusta forma aerodinamica. Estradosso e intradosso sono collegati per tutta la loro estensione da divisori verticali sempre di tessuto sintetico, le centine, che hanno il compito di dare alla vela il profilo aerodinamico voluto dal progettista. Un istante prima del decollo la vela, che giace inerte sul terreno, viene opportunamente orientata e il bordo d'attacco mantenuto aperto in modo da poter catturare il vento relativo, cioè quello che eventualmente può soffiare in quel momento o quello che il pilota genera correndo per decollare. Il parapendio deve essere mantenuto costantemente gonfio altrimenti perde le sue caratteristiche di ala, perde cioè la «portanza», e precipita. Si calcola che circa i due terzi della portanza siano generati dalla depressione che durante il volo stabile si genera al disopra dell'estradosso mentre il terzo restante è fornito dalla pressione dell'aria sull'intradosso. Il pilota trova posto nell'imbrago, costituito da un seggiolino o selletta, collegato alla vela da una serie di cavi costruiti con materiale sintetico ad alta resistenza. I cavi, oltre a reggere il seggiolino, hanno la funzione di tiranti con cui variare la forma dell'ala e quindi pilotare l'apparecchio; sono manovrati per mezzo di due maniglie poste poco più in alto delle spalle del pilota. Il pilotaggio del parapendio non presenta più pericoli della maggior parte delle altre discipline sportive, a patto di essere in possesso delle indispensabili conoscenze. Per questo è obbligatorio frequentare una scuola e sostenere un esame. Un apparecchio così leggero, infatti, è interamente affidato all'aria e ai suoi movimenti. Una buona comprensione dei fenomeni meteo e aerologici è quindi indispensabile sia per volare in sicurezza sia per ottenere risultati soddisfacenti; in particolare la conoscenza delle correnti ascendenti (le «termiche») e del loro comportamento nelle diverse situazioni ambientali, che sapientemente sfruttate consentono di raggiungere quote superiori ai 4000 metri e distanze di oltre un centinaio di chilometri Vittorio Ravizza


PARAMOTORE Il record di altezza: 3847 metri
Autore: V_RA

ARGOMENTI: TRASPORTI, STORIA DELLA SCIENZA
NOMI: LILIENTHAL OTTO, CHANUTE OCTAVE, MONTGOMERY JOHN, LANGLEY SAMUEL PIERPONT
ORGANIZZAZIONI: LANGLEY RESEARCH CENTER
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, CALIFORNIA

FINO a quando non furono disponibili motori adatti, l'idea di volare appesi a un oggetto simile a un aquilone che oggi possiamo considerare l'antenato del deltaplano e del parapendio, fu lungamente sperimentata tra l'800 e il '900. Ma con risultati poco incoraggianti, e incidenti. Il tedesco Otto Lilienthal compì oltre duemila voli lanciandosi con numerosi modelli di veleggiatore da una collina alta 30 metri e raggiungendo una distanza massima di 400 metri, prima di restare ucciso il 9 agosto del 1896 durante un ennesimo tentativo. Il francese (trapiantato in Usa) Octave Chanute, ingegnere già famoso per aver costruito alcuni dei più arditi ponti sul Missouri e sul Mississippi, era ormai troppo anziano quando cominciò a occuparsi di volo, ma tra il 1896 e il 1897 usò la sua capacità e le sue risorse economiche per consentire ad altri di volare con vari modelli di veleggiatori che ripercorrevano le esperienze di Lilienthal (oltre che per aiutare i fratelli Wright mentre preparavano il primo aereo). Le esperienze sul volo libero continuarono per qualche anno anche dopo l'avvento del volo a motore. John Montgomery, professore di scienze di San Diego, California, nel 1905 vide schiantarsi il suo amico e pilota Daniel Maloney che si era lanciato da un pallone aerostatico con un aliante che avevano costruito insieme, e sei anni dopo toccò a lui restare ucciso durante un tentativo di decollo a San Josè. Samuel Pierpont Langley, matematico e astronomo, già noto per importanti ricerche sul Sole, direttore della Smithsonian Institution, autore dei primi studi sulla portanza non subì danni fisici ma nel 1903 il tentativo di far volare il suo «Aerodrome» lanciandolo con una catapulta da una chiatta sul Potomac a Washington, finì con un tuffo nel fiume attirandogli le ironie della gente e dei giornali. (Tuttavia il nome di Langley ritorna nella storia del volo libero perché proprio nell'istituto a lui intitolato Francis Rogallo più di mezzo secolo dopo avrebbe concepito la sua «ala»). L'applicazione di un piccolo motore è una scorciatoia che non piace agli appassionati del volo libero. Tuttavia i deltaplani a motore hanno subito avuto un grande successo perché consentono di volare liberi dalla dipendenza dalle correnti e dall'orografia, per tempi lunghi e sono anche più semplici da pilotare. Meno comuni, per ora, sono invece i parapendii dotati di un motore posto dietro il sedile del pilota, con un'elica spingente che consente di decollare in piano. Tuttavia anche per questo rumoroso aggeggio si prevede un roseo futuro. All'inizio di giugno è stato stabilito il nuovo record di altezza che conferma le potenzialità del «paramotore»; durante il salone dell'Aviazione di Forlì Stefano Cocco, un pilota collaudatore di Valdagno (Vicenza) ha toccato la quota di 3847 metri, contro i 3200 del record precedente. (v. ra.)


SUDORI D'ESTATE Un climatizzatore naturale Come l'organismo si difende da afa e canicola
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA canicola e l'afa s'accaniscono su chi è rimasto in città. Sudiamo anche stando a riposo. Se poi facciamo anche soltanto piccoli sforzi, i vestiti ci si appiccicano addosso, il sudore cola a gocce dalla fronte. Se non fossimo capaci di sudare sarebbe un guaio, perché - come tutti sanno - l'organismo avrebbe grosse difficoltà a disperdere il calore in eccesso, e la temperatura corporea salirebbe a livelli pericolosi per la nostra stessa vita. Ma se si tiene d'occhio l'economia generale della regolazione termica, può essere attribuita una qualche funzione al sudore che cola abbondante, o bisogna considerarlo uno spreco? Ogni grammo d'acqua che evapora dalla nostra pelle ci sottrae quasi 0,6 chilocalorie (calore latente di evaporazione). Un uomo di settanta chili, salendo di dieci metri su per una scala, oltre all'energia impiegata per sollevare il suo peso ne consuma dell'altra che si traduce in calore. Se non venisse disperso, questo basterebbe a portare da 37 a 38 gradi la temperatura di quasi quattro chili di quei muscoli che sono entrati in azione. Fortunatamente esso si diffonde al resto del corpo, raggiunge la superficie e lì fa evaporare circa cinque grammi d'acqua, venendo smaltito. Tuttavia, quando il sudore che secerniamo è molto di più di quello che fa a tempo a trasformarsi in vapore, noi perdiamo una gran quantità di due sostanze utili in esso contenute: acqua e sale (cloruro di sodio). Per resistere dobbiamo rimpiazzare le perdite con bevande o alimenti che oltre all'acqua contengano piccole dosi di sale. Tutto questo rivela dunque un qualcosa di mal progettato nel funzionamento dell'organismo? Se scorriamo i trattati di fisiologia, quelli che accennano al problema sembrerebbero indurci a concludere che è proprio così: del resto si sa che la perfezione non è di questo mondo. Vediamo un po'. Il testo di Patton e altri (trad. M. Mancia, 1991) dice: «Il sudore che viene secreto e non può essere evaporato non è utilizzabile per la dispersione di calore». Sul Mountcastle (trad. T. Gualtierotti, 1985) si legge: «Il sudore che sgocciola dal corpo non partecipa al raffreddamento per evaporazione». Andando indietro nel tempo troviamo nell'Howell- Fulton del 1965 che «il fluido secreto in eccesso non è di giovamento, perché l'acqua deve evaporare per poter assorbire il calore corporeo». Il Casella nel 1974 scriveva: «La quantità di sudore secreta in eccesso (che non subisce evaporazione) non è di alcuna utilità ai fini della dispersione termica». Tuttavia il Casella-Taglietti, uscito proprio quest'anno, è meno categorico: «Quando la quantità di sudore secreta superi la quantità che viene via via evaporata, la sudorazione è di minore utilità ai fini della dispersione termica, perché il sudore eliminato sotto forma di gocce consente solo di allontanare la quantità di calore che esso contiene». Naturalmente, soltanto l'acqua che entra nell'organismo portando in sè meno calore di quando esce reca questo giovamento: se per esempio ingeriamo un bicchiere d'una bevanda a 10 gradi e poi espelliamo (come sudore) a 37 gradi l'acqua che essa conteneva, ci liberiamo di circa 5 chilocalorie che le abbiamo ceduto per riscaldarla. Per le bevande calde (brodo, té, caffè, latte) l'effetto è evidentemente contrario. A questo punto vale la pena di illustrare una considerazione apparsa anni fa su una rivista americana dedicata all'insegnamento della chimica. Immaginiamo di sudare quel tanto che basta a disperdere, per evaporazione, il calore prodotto in eccesso dai nostri muscoli durante uno sforzo. Trattandosi d'una soluzione, il sudore evaporando lascia un residuo di sale (e d'altre sostanze in dosi inferiori). Intanto lo sforzo continua; le nostre ghiandole sudorifere emettono altro liquido che raggiunge la superficie cutanea, dove trova il sale rimasto dall'evaporazione precedente: si forma dunque una nuova soluzione, più concentrata della prima. La tendenza a evaporare diminuisce in proporzione: una legge scoperta nel penultimo decennio del secolo scorso dal francese Francois-Marie Raoult afferma infatti, in parole povere, che la pressione del vapore in equilibrio con una soluzione è tanto maggiore quanto più quest'ultima è diluita (il valore massimo è quello del solvente puro). Insomma il sudore, concentrandosi, evaporerebbe sempre meno, finendo addirittura col bloccare il raffreddamento. Allora la sudorazione copiosa una funzione, sia pure indiretta, ce l'ha: il liquido, colando, di fatto lava continuamente la pelle e dunque impedisce che il sale si concentri. In questo modo contribuisce a mantenere efficiente la perdita di calore per evaporazione. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


IL CIELO DI NOTTE Le luci dello spazio Complesse le fluorescenze siderali
Autore: FERRERI WALTER

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

CHE di notte il cielo non sia totalmente buio è noto, ma questo non dipende solo dall'illuminazione prodotta dall'uomo, ma anche da una alcuni fenomeni naturali. Anche lontano dalle luci parassite, senza Luna e ad alta quota, quando l'occhio è assuefatto alla notte, si nota un fondo luminoso dovuto a sorgenti naturali. Infatti, questo è un centinaio di volte più luminoso della brillanza minima a cui l'occhio è sensibile. La volta celeste, nel suo insieme, dà in media, sopra una superficie orizzontale, la stessa illuminazione di una lampada da 50 candele alla distanza di 400 metri; ma talvolta è anche più luminosa. Le principali sorgenti del chiarore notturno furono identificate nella prima metà del nostro secolo: sono l'airglow notturno (usiamo l'inglese, perché il corrispondente italiano «chiarore del cielo» non è utilizzato), la luce interplanetaria e la luce stellare integrata. Il contributo di ciascuna componente non è stabilmente definibile perché dipende dalla latitudine geomagnetica dell'osservatore, dalla stagione e dall'ora della notte. Per un osservatore situato a una latitudine intermedia come l'Italia ciascuna di queste tre cause contribuisce per circa 1/3 della luce totale del cielo notturno. Il contributo dagli oggetti extragalattici (luce cosmica) è meno dell'1% del totale, mentre la luce delle stelle riflessa dalla polvere interstellare prossima al piano galattico (luce galattica diffusa), è misurabile ma piccola rispetto alle tre maggiori sorgenti. Al contrario, la luce prodotta dalle aurore polari è intensa, ma normalmente non si manifesta in Italia e comunque non fa parte di quella che produce la luminosità del cielo notturno. Airglow. E' la luce emessa dagli atomi e dalle molecole dell'atmosfera terrestre in uno strato alquanto sopra gli 80 km. Poiché tale strato è relativamente basso e sottile, il suo contributo alla luminosità, visto dalla superficie terrestre, è minimo allo zenit con un incremento verso l'orizzonte (effetto van Rhijn). Questa luce ha origine principalmente dalla fluorescenza di atomi e molecole eccitati dalla radiazione solare e da interazioni chimiche tra i vari costituendi atmosferici. Gli atomi e le molecole eccitati possono irradiare immediatamente dopo il fenomeno di eccitazione oppure dopo diverse ore. Nella regione visibile dello spettro l'airglow contribuisce per circa il 40% dell'illuminazione totale del cielo in una notte illune. Ma nell'infrarosso l'airglow è centinaia di volte più intenso. Se l'energia emessa dall'airglow nell'infrarosso fosse convertita in luce visibile, il cielo notturno avrebbe un'illuminazione uguale a quella causata dalla Luna piena. Luce interplanetaria. E' il contributo dovuto alla luce solare riflessa dalla polvere che si trova tra i pianeti. Quasi tutte le particelle di polvere orbitano intorno al Sole e sono concentrate vicino al piano dell'eclittica. Dalla Terra la brillantezza di questa luce diminuisce rapidamente con l'aumentare della distanza angolare dal Sole e dall'eclittica. Il risultato è la luce zodiacale, così familiare nel passato, soprattutto presso le popolazioni rurali ma oggi difficile da scorgere per l'illuminazione artificiale. Questa luce sembra diffondersi a ventaglio da un punto a metà altezza dallo zenit verso l'orizzonte e il suo nome dipende dal fatto che è vista nell'ambito dello zodiaco. Conosciuta sin dall'antichità, la luce zodiacale fu descritta come la falsa alba dall'astronomo e poeta persiano Omar Khayyam, nella sua opera Rubaiyat intorno al 1100. Il satellite Iras ha mostrato che il ponte di luce zodiacale consiste di bande individuali entro 10 gradi dall'eclittica. Queste sottostrutture possono essere connesse a un grande numero di asteroidi con analoghi parametri orbitali, responsabili di frequenti collisioni causa di concentrazioni inomogenee della polvere. Iras ha anche scoperto un anello di polvere precedentemente sconosciuto. E' a 300-450 milioni di km dal Sole, quindi nella fascia principale degli asteroidi, tra le orbite di Marte e di Giove. Le particelle comprese in questo toro hanno una massa totale analoga a quella di un asteroide da 1 km di diametro e viaggiano in orbite inclinate di 9 gradi rispetto al piano dell'eclittica. A causa dell'inclinazione dell'eclittica sull'equatore celeste, nell'emisfero Nord la luce zodiacale è osservabile più facilmente dopo il tramonto del Sole in primavera e prima del suo sorgere in autunno. Di fatto, la luce zodiacale, quando viene osservata da siti bui, copre una così grande parte di cielo ed è così brillante che spesso osservatori occasionali stentano a credere che sia un fenomeno extraterrestre e non semplicemente un'estensione atmosferica del crepuscolo. Sul lato opposto al Sole dell'eclittica vi è una leggera luminosità scoperta da Brorsen nel 1854. Egli la descrisse come una debole macchia luminosa la cui parte più intensa coincide con la regione opposta al Sole. Chiamò questo fenomeno ge genschein, lo stesso termine utilizzato ora in Italia, mentre nel passato si usava lume dell'opposizione. Il gegenschein, che varia in splendore e ampiezza come la luce zodiacale secondo il ciclo di attività solare, è difficile da osservare anche da regioni molto buie, ed ha un'intensità centrale che dovrebbe renderlo sicuramente rintracciabile da un occhio adattato all'oscurità, se il fondo del cielo fosse perfettamente scuro. Ma in pratica il gegenschein deve competere con il fondo di luce stellare, l'airglow e la banda di luce zodiacale, così esso è solo di circa il 15% più brillante di ciò che lo circonda. In altre parole, sotto le migliori condizioni, la sua luminosità è appena superiore a quella dello sfondo. Questa pallida macchia luminosa attraversa la Via Lattea durante i mesi estivi e invernali ma ne dista oltre 40 gradi dal 6 febbraio al 3 maggio e dal 9 agosto al 4 novembre. Così le epoche migliori per la sua osservazione sono quelle illuni in prossimità degli equinozi. La luce stellare integrata è il terzo maggiore fattore della luce del cielo notturno. Poiché la Via Lattea si presenta molto appiattita, la maggior parte della luce stellare ci proviene da basse latitudini galattiche. Di fatto, la luce stellare integrata dalle parti più ricche della Via Lattea è di oltre un fattore 10 più brillante per unità di area che ai poli galattici. I telescopi rivelano sull'equatore galattico 100 volte più stelle di quelle osservabili ai poli, ma il contributo di questa luce è ridotto dalla maggiore distanza dal Sole e dalla presenza di nubi di polvere interstellare. Walter Ferreri


BIOSENSORI Enzimi e fenoli
Autore: RELLA ROCCO

ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

PRIMA che in miniera arrivassero le lampade di sicurezza, i minatori usavano accompagnarsi con un canarino. In assenza di pericolo, il suo canto li rallegrava; quando l'aria diventava pericolosamente satura di gas la sua morte li avvertiva del pericolo. Il canarino serviva a misurare la concentrazione di sostanze tossiche, ciò che oggi si cerca di ottenere con i moderni biosensori. Le cellule viventi e i loro componenti macromolecolari (Dna, enzimi...) possono interagire con molecole estranee, producendo segnali di tipo metabolico o chimico che, opportunamente misurati, rivelano il tipo e la concentrazione della molecola stessa. L'idea di utilizzare materiale biologico come rivelatore, accoppiare una reazione per convertire il segnale chimico in elettrico oppure ottico, amplificare e misurare quest'ultimo, ha prodotto ciò che oggi è definito «biosensore». Più in generale, un biosensore consiste in un componente biologico (enzima, recettore, anticorpo o microrganismo) in intimo contatto con un trasduttore chimico o fisico (elettrochimico, ottico). Un sistema così semplice può essere applicato in molti settori del controllo ambientale e soprattutto nel controllo di sostanze come fenoli e polifenoli nelle acque superficiali. Questi composti sono notoriamente tossici per quasi tutte le forme di vita, perciò il loro monitoraggio risulta di primaria importanza per la salvaguardia delle acque superficiali. Il limite massimo nelle acque potabili è fissato per legge a 0,5 parti per miliardo. Biosensori enzimatici e microbiologici utilizzanti enzimi tirosinasi o ceruplasmina e ceppi batterici come Pseudomonas putida sono stati proposti, ma la loro applicazione trova seri problemi di stabilità, inibizione da parte dei fenoli stessi e, non ultimi, problemi di inquinamento dovuti alla crescita di microrganismi presenti nella matrice da analizzare. Per ridurre questi inconvenienti e proporre un nuovo biosensore per l'analisi dei fenoli, presso i laboratori dell'Ufficio sicurezza e prevenzione del Cnr di Padova è stato affrontato uno studio sulla possibilità di utilizzare microrganismi metabolizzanti fenolo in attiva crescita ed intrappolati in una matrice polimerica. Alcuni microrganismi sono effettivamente in grado di metabolizzare sostanze normalmente tossiche per la maggior parte degli organismi viventi. In particolare alcuni ceppi del microrganismo termofilo Bacillus stearo thermophilus sono in grado di utilizzare fenolo ed alcuni composti strettamente correlati come unica fonte di carbonio per la loro crescita. Il batterio utilizza le fonti di carbonio normalmente disponibili. In carenza di queste, riduce il proprio metabolismo e modifica drasticamente la sua struttura producendo spore capaci di germinare non appena le condizioni ritornano favorevoli. In presenza di composti fenolici il microrganismo oltre a disporre delle normali vie metaboliche, attiva alcuni geni plasmidici codificanti due enzimi specifici per la loro degradazione. In definitiva il microrganismo in condizioni di lento metabolismo (assenza di fonti di carbonio) è capace di riconoscere composti fenolici e attivare la sua macchina biosintetica che lo rende, in pochi secondi, capace di utilizzare le stesse sostanze da cui ha avuto il segnale. L'elevata efficienza e rapidità di questo nuovo biosensore è sicuramente da attribuire alle condizioni operative ottimali che richiedono una temperatura non inferiore a 50o C. A queste temperature tutti i meccanismi metabolici sono accelerati, la permeabilità delle membrane e la diffusione delle molecole sono notevolmente incrementate e la proliferazione di microrganismi inquinanti è drasticamente ridotta. Grazie alle caratteristiche del microrganismo termofilo Bacil lus stearothermophilus, è stato realizzato un efficiente e specifico biosensore, capace di autorigenerarsi e autosterilizzarsi risolvendo alcuni dei maggiori problemi che hanno impedito sinora l'utilizzazione dei sensori biologici nel monitoraggio continuo delle acque superficiali. Rocco Rella Cnr, Padova


TELEMEDICINA Emodialisi a distanza Due progetti sono già operanti a cura dello Cselt di Torino Un medico può controllare al computer più pazienti lontani
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA, ELETTRONICA
ORGANIZZAZIONI: CSELT, STET
LUOGHI: ITALIA

LO Cselt (Centro studi e laboratori telecomunicazioni) di Torino, polo di ricerca del gruppo Stet, lavora da anni sulle possibilità applicative della telematica alla medicina. Due progetti per la teledialisi sono già realtà. Uno di teleradiologia diventerà presto operativo. Telemedicina vuol dire la possibilità di controllare a distanza lo svolgimento di terapie o il risultato di esami clinici. I primi studi dello Cselt di teledialisi risalgono all'86. Nella fase iniziale si trattò di catturare e numerizzare, cioè rendere informatici, i dati sul paziente monitorizzati dallo stesso apparecchio di emodialisi in attività. I risultati venivano catalogati su computer per costruire una banca dati. La fase successiva è stata collegare il personal computer che in loco raccoglie le informazioni, con un altro lontano attraverso la linea del telefono. Così si ha la possibilità di controllare i parametri di funzionamento di un rene artificiale a distanza. Vuol dire che piccoli centri dispersi sul territorio possono offrire un servizio di emodialisi con personale infermieristico. Il compito di supervisione e coordinamento viene svolto dal medico anche a notevole distanza nel grande ospedale. Al video di un computer lo specialista tiene sotto controllo valori come pressione, ritmo cardiaco, quantità e qualità delle scorie presenti nel sangue di più pazienti, anche lontani fra loro, dirigendo le operazioni degli infermieri in sede. L'ospedale Grassi di Ostia ha iniziato le sperimentazioni su due fronti. E' in connessione con un centro più grande, il Sant'Eugenio di Roma, e al suo interno ha collegato fra loro ad un computer le sale di emodialisi. Un solo medico può controllare i valori di tutti i pazienti a video. Un sistema di allarme porta l'attenzione del dottore sul caso che presenta anomalie. Un altro esperimento di telemedicina è mirato alla domiciliarizzazione della dialisi peritoneale. Il peritoneo è una membrana che riveste i visceri addominali, osmoticamente attiva. Il peritoneo funge da filtro selettivo fra il liquido organico interno e una soluzione fisiologica meno concentrata che arriva attraverso una sonda. In questo modo molte sostanze tossiche sono drenate e portate all'esterno da un altro catetere. La terapia può essere eseguita dal paziente a casa, ma necessita comunque di un controllo. Lo scambio di informazioni fra il malato e il medico curante passa attraverso il computer o un telefono, chiamato intelligente, in grado di inviare anche dati. A video o sul display del telefono appare un «menù» che il dializzato deve compilare con ora di inizio e durata della terapia, con le eventuali anomalie e con le annotazioni personali. Le informazioni arrivano direttamente al centro che segue il malato e vengono controllate e catalogate per programmare la terapia nel migliore dei modi. L'ospedale San Giovanni Bosco di Torino ha un «paziente- pilota» che effettua la dialisi controllato a distanza con successo e soddisfazione. Con queste modalità si evitano al dializzato controlli continui che gli rendono ancora più difficile svolgere una vita normale. La teleradiologia è in fase di ricerca. Spesso le vittime di gravi traumi devono essere trasferite in centri attrezzati. Non sempre però il paziente può essere trasportato senza rischi. La tecnica teleradiologica permette di eseguire gli accertamenti nel più vicino ospedale, anche privo di personale specializzato. La Tac o la macchina per le radiografie sono collegate ad un sistema di memorizzazione e trasmissione. La lastra viene stampata in una struttura più attrezzata. Qui lo specialista delinea una diagnosi e comunica le modalità di intervento ai medici che hanno sott'occhio il paziente. La difficoltà sta nel fatto che la mole di dati trasmessa dagli apparecchi radiologici è notevole. Per essere utile l'informazione deve essere dettagliata, l'immagine in arrivo deve essere fedele a quella di partenza. Anche il minimo particolare può avere un'enorme importanza. Marialuisa Bonzo


SELEZIONI GENETICHE Ma che razza di cane... Dai chihuahua ai S. Bernardo, poca salute
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: GENETICA, ZOOLOGIA, ANIMALI, DOMESTICI
LUOGHI: ITALIA

L'UOMO ha sempre avuto la mania di fare l'apprendista stregone. Soprattutto nell'allevamento degli animali domestici. Basti pensare a quante razze di cani è riuscito a creare partendo dall'antenato originario, il lupo. Non ha fatto nulla di male, finché si è limitato a creare specie «utili», sfruttando le eccezionali doti olfattive del nostro amico fedele. Bisogna sapere che l'odorato del cane è incomparabilmente superiore al nostro. Mentre nelle nostre cavità nasali ci sono cinque milioni di cellule olfattive, in quelle di un pastore tedesco ce ne sono duecento milioni. Ecco perché noi viviamo in un mondo visivo e il cane in un mondo olfattivo. Per lui sono odorose perfino sostanze come il sale da cucina, il chinino o la droga che per noi sono assolutamente prive di odore. Così l'uomo ha creato i cani da pastore, i cani da guardia, quelli che servono da guida ai ciechi, i cani da valanga, da catastrofe o da droga. Il guaio è che ci prova gusto anche a selezionare e a fissare i caratteri più impensabili, che sarebbero certamente eliminati dalla selezione naturale. Quasi che la genetica fosse un gioco. Noi diciamo che il cane è il nostro migliore amico, ma chissà se lui ricambierebbe il complimento. C'è da dubitarne. Gli allevatori ne hanno combinate di tutti i colori con questi poveri discendenti del Canis lupus, per soddisfare le più stravaganti richieste del mercato. Per adeguarsi ai gusti dei compratori, gli allevatori guardano assai più all'aspetto fisico che non allo stato generale di salute del prodotto che ottengono. Col risultato che nascono mostriciattoli, esseri anormali come il chihuahua che entra comodamente in una tazza da caffellatte. Forzare la natura per ottenere il muso schiacciato del pechinese o le dimensioni minime del chihuahua comporta ovviamente dei rischi. Tutti sanno come sia dolce l'espressione di un bassotto, di un chow-chow o di un cucciolo di San Bernardo. Ebbene, questi cani hanno seri problemi alle palpebre. Hanno infatti una deformazione nota come «occhio di diamante». La palpebra superiore tende a distorcersi, mentre quella inferiore si rovescia all'esterno, provocando un costante flusso di lacrime. Molti di questi cani hanno occhi sempre infiammati e una leggera congiuntivite permanente, così come altri cani d'allevamento a naso corto hanno bulbi oculari che sporgono eccessivamente. Il che comporta facilità di urto agli occhi e facilità di essiccamento della cornea. A volte questa protrusione è così accentuata che il cane ha perfino difficoltà a chiudere completamente gli occhi. La dimensione della testa è importante in molte razze di allevamento. I pechinesi, i carlini, i bulldog inglesi e francesi hanno una respirazione particolarmente affannosa. Molte di queste creature a naso corto hanno una mascella troppo piccola per accogliere i denti e ne risultano problemi dentari. Inoltre la struttura delle vie aeree è distorta con un palato molle relativamente prolungato che interferisce con la respirazione, specialmente nel sonno. In questi cani sono abbastanza frequenti sinusiti e altri inconvenienti respiratori. I bassotti poi quasi sempre soffrono di artrite proprio per la anormale brevità degli arti. Di conseguenza questi cani hanno spesso un'andatura strascicata che è una pietosa parodia della magnifica andatura del levriero. E sempre a causa della sagoma assurdamente lunga, i bassotti tedeschi in particolare vanno soggetti quasi sempre in tarda età a calcificazione dei dischi intervertebrali. Adulti e bambini amano molto le grandi orecchie penzolanti del cocker spaniel e non si rendono conto che proprio quelle orecchie flosce sono talmente sviluppate e pelose internamente che bloccano l'aria circolante nel canale uditivo, creando l'ambiente ideale per i parassiti. Per cui le povere bestie vanno quasi sempre soggette a infezioni croniche dell'orecchio. Lo spettro delle peculiarità fisiche si estende alla mole. Ad una estremità troviamo il chihuahua e il minuscolo terrier Yorkshire così piccoli che spesso hanno problemi di gravidanza. All'opposto troviamo i giganti come gli alani e i San Bernardo, i quali hanno stranamente una vita assai più breve di quella delle altre razze. E' assai probabile che il San Bernardo abbia un'eccessiva produzione dell'ormone dell'accrescimento, ciò che porta a una struttura ossea più pesante della norma, specialmente nella testa e nelle zampe. L'elenco dei problemi che hanno i cani da allevamento non finisce qui. Fra i chihuahua si riscontra un'incidenza dell'idrocefalo (troppo fluido nel cervello) superiore alla norma. Nei barboncini è comune il soffio al cuore. Nei cocker spaniel ci sono più casi di epilessia del normale. E i boxer sembra siano predisposti a diverse forme di cancro. Ma, oltre a tutti i problemi di salute derivati dall'allevamento di un numero così elevato di razze (sono quasi quattrocento), ci sono le storture imposte dal nostro senso estetico, come il taglio della coda. Non si tiene conto del fatto che la coda è straordinariamente importante per i cani come per gli altri animali che la posseggono. Adempie sempre a funzioni precise. Nel Canis familiaris è un efficientissimo strumento di comunicazione. Come nel suo progenitore selvatico, il lupo, serve a trasmettere un'ampia gamma di messaggi. Con la coda il cane esprime il suo stato d'animo: l'allegria, la mortificazione, la sottomissione, la fierezza. Lasciargli soltanto un mozzicone è un vero oltraggio. L'hanno capito gli inglesi. E infatti tre anni fa, nel l993, è stata varata in Gran Bretagna una legge che vieta di tagliare la coda ai cani. I più scontenti sono stati i veterinari che hanno visto sfumare da un giorno all'altro una lauta fonte di guadagno. Isabella Lattes Coifmann


SMART DRINKS Le bevande intelligenti un business
Autore: ROSA ALESSANDRO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ALIMENTAZIONE
NOMI: HARMAN DENHAM, DEAN WARD, PAULING LINUS, POPCORN FATIH
LUOGHI: ITALIA

SE nascesse oggi il dottor Faust avrebbe cittadinanza californiana: sulle coste del Pacifico negli ultimi 50 anni si è fatto largo il desiderio di raggiungere l'immortalità con opportuni stili di vita e integratori alimentari. Ultimi arrivati sono gli «smart drinks», le bevande intelligenti, cocktail di vitamine, oligominerali, antiossidanti, aminoacidi, magari arricchiti con estratti di erbe come il Ginkgo biloba (albero originario della Cina e da alcuni ritenuto un carburante del cervello), l'Iperico (antidepressivo derivato da un'erbacea della famiglia delle guttifere), il Kava- Kava (radice con proprietà neuroprotettive, usata dai polinesiani). L'impulso iniziale a questa tendenza data 1954, quando Denham Harman iniziò a teorizzare la funzione deleteria sulle nostre cellule dei radicali liberi, colpevoli dell'invecchiamento e attaccabili con assunzioni di antiossidanti. Da allora si è creato un piccolo esercito di sperimentatori, ricercatori, divulgatori. Hanno affascinato gli americani libri come «Stop aging now» (Fermiamo adesso l'invecchiamento) e «Biological age measurement» (Valutazione biologica dell'età) di Ward Dean, medico capo della Delta Force. Oltre 2 milioni di lettori hanno affrontato le 850 pagine di «Life extension» (Prolungamento della vita) in cui Dark Pearson e Sandy Shaw spiegavano come le sostanze nutritive possono migliorare la qualità della vita. Pearson (biologo e psicologo del Mit e della Nasa) e Shaw (biochimico all'Università della California) hanno poi creato un'industria, Life Service, che produce gli «smart nutrients» per i cocktail multivitaminici, integratori dell'ultima generazione. I quali contengono amminoacidi come l'arginina, la taurina e la L- carnitina; il coenzima Q-10; minerali come rame e ferro; varie vitamine idrosolubili (che sono eliminabili facilmente, al contrario di quelle liposolubili che si accumulano nell'organismo). La gamma di questi «elisir di lunga vita» è ampia e si rivolge a chi spera di ricuperare energia, nutrire la mente, tonificare la circolazione e il cuore, stimolare la crescita dei capelli e delle unghie, praticare gli sport più faticosi, correggere le macchie pigmentate. Gli americani li comprano nei drug store, per corrispondenza, e via Internet. In Italia cominciano ad apparire in certe farmacie. Già l'anno scorso il mercato degli integratori (antiossidanti, tonici, complessi vitaminici del gruppo A e B) è stato un business dal fatturato di 350 miliardi di lire. Faith Popcorn (non è uno pseudonimo, ma il vero nome della studiosa che gli americani definiscono la «Nostradamus del marketing» per le sue previsioni sui consumi futuri) ha individuato nel campo della nutrizione biodinamica la maggior tendenza del prossimo secolo. Sarà davvero l'elisir di Faust? Il mondo scientifico è diviso. Teoricamente si potrebbero conquistare 8-10 anni proteggendosi per tutto l'arco della vita, non solo attraverso una nutrizione corretta, ma anche rinunciando a stress, sedentarietà, fumo, alcol. Una testimonianza viene dall'esperienza di Linus Pauling, due volte premio Nobel (per la chimica nel 1953 e per la pace nel 1962), gran sostenitore dell'assunzione regolare dei cocktail supervitaminici e tonici. Per tutta la sua vita ha ingerito vitamine a dosaggi altissimi, anche 300 volte superiori a quelli consigliati. E' morto a 93 anni di cancro e quando conobbe la diagnosi disse che senza tutte quelle vitamine si sarebbe ammalato 30 anni prima. Alessandro Rosa


ALGHE MARINE La lunga storia dell'acetabularia
Autore: BONOTTO SILVANO

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

LE Dasicladali sono alghe marine unicellulari giganti. Le tre specie di Dasycladus note misurano 2-3 centimetri. La specie Acetabularia major, che vive nelle zone tropicali e temperate dell'Oceano Pacifico, può raggiungere una lunghezza di 15 centimetri. Accanto ad essa, l'Acetabularia exigua, che misura soltanto 3 millimetri, sembra una nana. Si conoscono ormai una quarantina di specie diverse di Dasicladali (generi Dasycladus, Chlorocladus, Ba tophora, Bometella, Neomeris, Cymopolia, Halicoryne e Aceta bularia), che, dove le acque sono trasparenti, possono vivere fino a una profondità di una cinquantina di metri. La specie più studiata è quella che vive nei nostri mari, l'A cetabularia mediterranea, che i sistematici hanno ribattezzato con il nome meno attraente di A. acetabulum. Quest'alga del Mediterraneo ha una lunga storia. Il greco Dioscorides, nato ad Anazarbo in Cilicia, che faceva parte dei servizi medici nell'esercito dell'imperatore Nerone (37-68 a. C.), fu il primo a darne una descrizione nel suo famoso trattato scritto in greco, ma passato alla posterità sotto il titolo latino «De Materia Medi ca». Egli chiamò quest'alga «Androsaces», nome che fu ripreso dai vari studiosi, quali il Mattioli (1565), il Cesalpino (1583) ed il Parkinson (1640), che molti secoli più tardi la riscoprirono. Stranamente, il francese Lamouroux (1816), dimenticando le osservazioni dei suoi predecessori, trasferì l'A cetabularia del Mediterraneo nel mondo animale. Fu il botanico italiano Mattioli a pubblicare per primo un disegno dell'Acetabularia che mostra con sufficiente precisione la forma delle cellule adulte. Nell'ateneo torinese viene conservata una copia del suo prezioso libro del 1565, dal quale è tratta la figura 1. Con lo sviluppo delle scienze e della ricerca scientifica sperimentale nel nostro secolo, l'A cetabularia acquisì una grande importanza e, dopo essere stata addomesticata in laboratorio, fu introdotta in molti istituti di ricerca in tutto il mondo. In Europa, spetta al tedesco Joachim Hammerling il merito di aver dimostrato che l'Acetabularia è una cellula gigante con un unico nucleo, situato alla sua base, nel cosiddetto rizoide. Se il nucleo viene asportato sezionando il rizoide, si ottiene una lunga (4-5 millimetri) cellula anucleata capace di sopravvivere, se mantenuta alla luce, anche fino a tre mesi. La cellula possiede, infatti, circa 10 milioni di cloroplasti, che con il processo fotosintetico trasformano l'energia luminosa in energia chimica, necessaria per il sostentamento e lo sviluppo dell'alga. Inoltre, il suo bilancio energetico viene completato da vari milioni di mitocondri di piccola taglia. Ci si doveva perciò aspettare che, con tali proprietà, l'Acetabula ria diventasse un materiale biologico adatto per numerosi studi di biologia e fisiologia cellulare. La coltura di specie morfologicamente diverse permise, poi, la realizzazione di trapianti interspecifici, i quali dimostrarono, ben prima della scoperta dei geni sul Dna e dell'Rna messaggero, che i caratteri ereditari della specie erano contenuti nel nucleo. Quest'ultimo, dovendo servire una cellula gigante, ha nel suo nucleo migliaia di cistroni (tredicimila nella specie mediterranea), i quali producono l'Rna per numerosissimi ribosomi, che assicureranno la sintesi delle proteine nel citoplasma. Il nucleo è, inoltre, sufficientemente grande per permettere di iniettarvi materiale genetico estraneo, di origine sia animale che vegetale. E' stato così visto, per esempio, che i geni della zeina vengono espressi nell'Aceta bularia. Tra i grandi nomi della ricerca moderna sull'Acetabu laria meritano di essere ricordati, oltre ad Hammerling (Berlino), anche Jean Brachet (Bruxelles), Georg Schweiger (Ladenburg) e Seibin Arasaki (Tokyo). Recentemente, l'Acetabu laria ha fatto il suo ingresso nel campo dell'ecologia fondamentale e applicata e viene utilizzata con successo anche in ecotossicologia e come bioindicatore dell'inquinamento chimico e radioattivo dell'ecosistema marino costiero. Chi, durante l'estate, dovesse osservare il fondo del mare, anche a bassissima profondità (un metro o più), potrebbe scorgere, nelle baie protette, l'Acetabula ria, che spesso forma intere praterie, come in Corsica o in altre isole del Mediterraneo, di cellule più o meno calcificate aventi una lunghezza di alcuni centimetri ed un cappellino radiato, che i giapponesi chiamano l'ombrellino marino. Silvano Bonotto Università di Torino


DALLA SLOVENIA Nei boschi trentini c'è di nuovo l'orso
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'HANNO visto sicuramente due cacciatori alcuni mesi fa in Val Tovanello. E' un maschio di tre o quattro anni, di circa 150 chilogrammi. E dopo il primo avvistamento ne sono seguiti altri, con tracce, ceppaie rotte, formicai divelti. Ha svernato nelle Marmarole tra Auronzo e Lozzo e dopo il risveglio si è spostato verso Cima Gogna. Dopo 115 anni l'orso bruno è quindi ritornato in Trentino, probabilmenete arrivato dalla Slovenia. Danilo Mainardi, etologo all'Università di Venezia, afferma che in Trentino esiste una piccola comunità di orsi, 5-10 esemplari di taglia piccola, chiamati «formigarol» per l'abitudine di nutrirsi di formiche. Caratterizzano l'orso bruno, Ursus ar ctos, come carnivoro e onnivoro, i deboli canini e i larghi molari. La sua natura, di difficile interpretazione, giustifica le molte contraddizioni nei racconti di pastori e cacciatori: per alcuni un animale pavido e timido, per altri forte e aggressivo. In realtà è difficile comprendere l'umore di un orso, poiché non ha mai gesti minacciosi o un'espressione degli occhi o la posizione delle orecchie che faccia capire il suo stato d'animo, e ben lo sanno i domatori che preferiscono lavorare con qualunque bestia piuttosto che con l'orso. L'orso bruno delle Alpi è certamente il più timido e per lo più onnivoro, ma in questi ultimi tempi, con l'abbondanza di caprioli nel Trentino è evidentemente diventato un predatore. I contadini si sono visti distruggere i raccolti e le staccionate dai daini e dai caprioli fuggiti alla predazione dell'orso. L'orso bruno comprende molte sottospecie. Ha una lunghezza di 200-220 cm e, ritto sulle zampe posteriori, può raggiungere i 260-270 centimetri. Il pelo folto, robusto e arruffato è generalmente bruno con sfumature rossicce, marrone giallastre fino al grigio. Cammina poggiando sui cuscinetti nudi dei piedi con le cinque dita munite di poderosi artigli non retrattili. La sua vita si anima con il sopraggiungere dell'estate quando comincia a cercare la femmina per la riproduzione. Caratteristico è il giaciglio che la femmina prepara per il parto: tronchi abbattuti o un rifugio nelle rocce che riveste di pezzi di corteccia, di rami, foglie ed erbe. Poi, con un lungo digiuno, si prepara al parto che avviene di solito in dicembre-gennaio: i piccoli nascono in numero di due o tre, grandi 20-25 centimetri e completamente nudi. La madre li riscalda tenendoli fra le zampe anteriori come in una culla. Dopo 30-32 giorni aprono gli occhi ma rimangono dipendenti dalla madre per circa dieci settimane. L'orsa li pulisce con la lingua, li massaggia, liscia il pelo che si viene via via formando. A tre o quattro mesi cominciano ad arrampicarsi sul corpo della madre e a muoversi nella tana. Franca Fabris


IL DUEMILA Anno della matematica «Per rivalutare una scienza negletta»
AUTORE: PEIRETTI FEDERICO
ARGOMENTI: MATEMATICA, MANIFESTAZIONI
PERSONE: CONTE ALBERTO
NOMI: CONTE ALBERTO
ORGANIZZAZIONI: UMI UNIONE MATEMATICA ITALIANA
LUOGHI: ITALIA

QUANTI pregiudizi nei confronti dei matematici: «Immaginazione, fantasia, invenzione sono loro affatto negate - scriveva, nel Settecento, Jonathan Swift, sistemandoli su Laputa, l'isola fra le nuvole che Gulliver visita nei suoi viaggi - sebbene mostrino sufficiente abilità a maneggiare il regolo, la matita e il compasso sopra un pezzo di carta, non ho mai visto gente più zotica, goffa, maldestra nei negozi ordinari della vita». E 270 anni dopo, poche settimane fa, Gianni Vattimo, su questo giornale esprimeva idee simili: «Si mostrano relativamente incapaci di organizzarsi una vita quotidiana (normale). Tutti quelli che fanno questo mestiere, in sostanza, hanno la tendenza a vivere in case dove i libri si accumulano dappertutto e talvolta non ci si cura di rifare i letti e di lavare i piatti». Se si tiene presente che sta crescendo la diffidenza e l'ostilità di molte persone nei confronti della scienza e che si registra un continuo calo degli iscritti alle facoltà scientifiche e a quella di matematica in particolare, si può ben capire la preoccupazione della comunità dei matematici per la loro immagine un po' appannata e la conseguente decisione di avviare una serie di iniziative per rendere più popolare la loro scienza. Questo è uno degli obiettivi del WMY 2000, World Mathematical Year 2000, l'anno della matematica, lanciato dall'Imu, l'Unione Matematica Internazionale, col patrocinio dell'Unesco, al congresso tenuto in Giappone nell'agosto del 1990. Il riferimento era il Congresso di Parigi del 1900 al quale David Hilbert era intervenuto per presentare quelli che, secondo lui, sarebbero stati i problemi al centro della ricerca del ventesimo secolo. Si doveva quindi, per prima cosa, cercare di individuare i temi della matematica del ventunesimo secolo. Ma questo non poteva essere che il punto di partenza del lavoro della commissione per il WMY 2000, creata per l'occasione, perché i matematici, consapevoli che non era possibile restare chiusi all'interno del loro gruppo e che era necessario confrontarsi con un pubblico più vasto, decisero di porre anche altri obiettivi alla loro iniziativa. Il 2000, anno della matematica, dovrà essere l'occasione per «rendere visibili al mondo esterno alla comunità dei matematici la sua natura, il suo ruolo e le sue funzioni», dimostrando che la matematica, sia pura che applicata, è una delle chiavi dello sviluppo: «Ogni sforzo dev'essere indirizzato al miglioramento del livello qualitativo nei Paesi del Terzo Mondo - si legge ancora nella presentazione del progetto WMY 2000 - puntando per questo sull'educazione matematica». L'Italia, come partecipa a questo progetto? Lo chiediamo ad Alberto Conte, presidente dell'Umi, Unione Matematica Italiana: «Al Congresso internazionale di Kyoto, dov'è nata l'idea di proporre il 2000 come anno della matematica - dice il presidente - tra le tante relazioni ricordo quella di un vecchio matematico giapponese, dall'aspetto del grande saggio orientale, il quale presentò i risultati di un'indagine svolta dal prestigioso Istituto Taniguchi, di cui era presidente. «Obiettivo della ricerca, condotta a livello internazionale, era la determinazione dei parametri fondamentali secondo i quali dovevano essere calcolate le possibilità di sviluppo di ogni Paese. Dopo lunghe e meticolose analisi, le conclusioni degli esperti del Taniguchi furono sorprendentemente semplici: per determinare il valore potenziale di un Paese era sufficiente sommare le conoscenze matematiche dei suoi abitanti. «Il livello matematico di una nazione è l'indice più efficace per capire quale possa essere il suo futuro: questo è il messaggio che vorremmo far arrivare alla gente. Il nostro obiettivo principale per il Duemila coincide con quello dell'Imu. «Vogliamo sottolineare l'importanza della matematica in tutte le attività umane. Sovente questa viene percepita come qualcosa di astratto e lontano dagli interessi della gente, mentre in realtà la ritroviamo ovunque, da Internet che usa i più sofisticati strumenti matematici, alla progettazione delle linee ad alta velocità, all'organizzazione di tanti momenti della nostra vita quotidiana». Quali iniziative sono previ ste per il Duemila? «L'Italia ospiterà una grande manifestazione internazionale Matematica e Arte, che potrebbe avere la sua sede ideale nel castello di Rivoli, alla periferia di Torino, con una grande mostra, dalla scoperta della prospettiva al computer come strumento dell'artista. Inoltre stiamo pensando a una serie di iniziative che terremo nella "Città della Scienza" a Napoli, dove un grande padiglione sarà dedicato alla matematica. Abbiamo anche pensato all'emissione di una serie di francobolli dedicata ai massimi matematici italiani, primo fra tutti Lagrange, il più europeo dei nostri matematici. «Ma l'obiettivo primario rimane, per noi, la scuola con la sburocratizzazione dell'insegnamento e l'aggiornamento dei programmi, reinserendo al primo posto, secondo le indicazioni dell'Imu, lo studio della geometria, fondamentale per la formazione dello studente. «Si deve per questo sottolineare l'alto livello professionale degli insegnanti di matematica italiani, riconosciuto in tutte le sedi internazionali. Si può quindi contare su di loro per l'indispensabile rinnovamento della scuola e intendiamo organizzare una grande convenzione degli insegnanti di matematica per definire insieme gli obiettivi per l'inizio del terzo millennio». Ricordiamo che a Siviglia dal 14 al 21 luglio, c'è stato l'ottavo Congresso di Educazione Matematica, mentre, dal 18 al 27 agosto 1998, a Berlino, si terrà il nuovo Congresso internazionale dei Matematici, l'ultimo prima del Duemila. Riusciranno i matematici a far superare ai profani la diffidenza della gente nei loro confronti e a far capire che anche la matematica deve far parte del patrimonio culturale di ogni persona? Impresa difficile come lo sono tutte le battaglie contro ignoranza e pregiudizi, ma non impossibile in una «società digitale», fondata sui numeri. Per seguire le novità sul «WMY 2000», il sito in Internet è: http://www.mathp6.jussieu.fr/%7ejarraud/ma200.html Federico Peiretti


FLASH Imballaggi, critiche dei produttori
ARGOMENTI: ASSOCIAZIONI, PRODUZIONE, PROTESTE, MINISTERI, AMBIENTE
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA

Le associazioni dei produttori di imballaggi e delle loro materie prime criticano l'ipotesi, allo studio al ministero dell'Ambiente, di un unico organismo centralizzato, che comprenderebbe gli utilizzatori degli imballaggi e la grande distribuzione, basato su un sistema di tassazione delle materie prime.


FLASH Mario Sarcinelli al vertice Treccani
ARGOMENTI: NOMINA, VICE PRESIDENTE, EDITORIA
NOMI: SARCINELLI MARIO
ORGANIZZAZIONI: TRECCANI
LUOGHI: ITALIA

Mario Sarcinelli è il nuovo vicepresidente del consiglio d'amministrazione dell'Istituto dell'enciclopedia Treccani: l'assemblea lo ha nominato in sostituzione di Carlo Azeglio Ciampi.


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