TUTTOSCIENZE 8 novembre 95


TUMORI OBIETTIVO EUROPA. CONFRONTI Nelle cure l'Italia è competitiva
AUTORE: TERRACINI BENEDETTO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: AGENZIA INTERNAZIONALE PER LE RICERCHE SUL CANCRO (IARC), UE UNIONE EUROPEA, PROGETTO «EUROCARE», ISTITUTO NAZIONALE TUMORI DI MILANO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. TAB. CODICE EUROPEO CONTRO IL CANCRO ==================================================================== Adottando un più sano stile di vita è possibile evitare taluni tipi di cancro e migliorare lo stato si salute. ----- 1) Non fumare. Fumatori, smettete il più presto possibile e non fumate in presenza di altri. Se non fumi, non provare a farlo. ----- 2) Se bevi alcolici, birra, vini o liquori modera il tuo consumo. ----- 3) Aumenta il tuo consumo quotidiano di verdure e frutta fresca. Mangia spesso cereali ad alto contenuto di fibre. ----- 4) Evita l'eccesso di peso, aumenta l'attività fisica e limita il consumo di alimenti grassi ----- 5) Evita l'esposizione eccessiva al sole ed evita le scottature soprattutto nell'infanzia. ----- 6) Attieniti strettamente alle norme di prevenzione delle esposizioni alle sostanze conosciute come cancerogene. Rispetta tutte le istruzioni di igiene e di sicurezza per le sostanze cancerogene ----------- Molti più tumori possono essere curati se scoperti per tempo ----------- 7) Consulta un medico se constati un rigonfiamento, una lesione che non guarisce (anche nella bocca), un neo che cambia forma, dimensioni o colore, o qualunque emorragia anormale. ----- 8) Consulta un medico se hai continui problemi, quali tosse persistente, raucedine persistente, un mutamento delle abitudini intestinali o urinarie o una perdita inspiegabile di peso. ----------- Per le donne ----------- 9) Effettuate regolarmente uno striscio vaginale. Partecipate ai programmi organizzati di screening del cancro del collo dell'utero. ----- 10) Sorvegliate regolarmente il vostro seno. Partecipate ai programmi organizzati di screening mammografico se avete più di 50 anni. ====================================================================
NOTE: LA RICERCA SUL CANCRO TEMA: LA RICERCA SUL CANCRO

DA quando i progressi della medicina hanno reso il decorso del cancro non più inesorabile, conoscere la probabilità di sopravvivere - oltre a essere un diritto individuale di chi si ammala, salva la libertà di «non sapere» - serve ai pianificatori della salute per capire con quanta efficacia le strutture sanitarie in una data regione sanno utilizzare le nuove scoperte. Purtroppo i «viaggi della speranza» esprimono l'idea - radicata in molti - che l'efficacia delle cure dei tumori sia più bassa nel nostro Paese rispetto alla Francia o agli Stati Uniti. Ma le cose stanno proprio così? Una prima risposta viene ora da un rapporto di quasi 500 pagine dell'Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro (Iarc) sul progetto Eurocare, una iniziativa dei Registri Europei, finanziata dall'Unione Europea, guidata dall'Istituto nazionale tumori di Milano (Int) e dall'Istituto superiore di sanità italiano. Lo studio include 800 mila pazienti, riaggregati per età, sesso, tipo di cancro e Paese di residenza (si tratta di Paesi con diversi sistemi sanitari e diverse culture mediche). Il rapporto è stato presentato a Torino, alle Molinette, alla fine di settembre, da Esteve dell'Iarc e Berrino dell'Int. Non è una novità che in Italia vi siano istituzioni con standard terapeutici di avanguardia. Ma la misura che l'epidemiologo vuole ottenere (e, sperabilmente, il programmatore sanitario vuole utilizzare) è se questi standard siano a disposizione di tutti i malati. Per una malattia grave come il cancro, un indicatore è la sopravvivenza media dei pazienti. Protagonista è la popolazione di una zona, non l'individuo che può permettersi un viaggio all'estero o dal grande clinico che richiama malati da fuori regione. La sopravvivenza è l'intervallo temporale tra diagnosi e morte, quale che sia la causa di quest'ultima. A determinarne la durata concorrono: 1) la storia naturale della malattia; 2) la capacità delle cure, o della diagnosi precoce, di modificare la storia naturale; 3) l'anticipo diagnostico causato da esami per riconoscere un cancro asintomatico (indipendentemente dalla capacità dell'anticipo diagnostico di modificarne la storia naturale della malattia); 4) gli effetti collaterali letali (fortunatamente rari, nel complesso) delle cure per il primo cancro; 5) l'effetto protettivo del cambiamento di stile di vita successivo al primo cancro (ad esempio, meno stress da lavoro o smettere di fumare). Chi ha avuto un cancro può anche morire per cause che nulla hanno a che fare con il cancro (ad esempio, sfracellarsi cadendo in un crepaccio). Per questo motivo le stime di sopravvivenza vengono «corrette» per la mortalità nella popolazione generale di pari età. Lo studio Iarc include popolazioni europee di cui - con metodo omogeneo - vengono registrate sistematicamente le diagnosi di tumori e dove il dossier individuale viene integrato periodicamente con la notizia della persistenza in vita o dell'avvenuto decesso (in Italia oggi i registri sono 9, tutti nel Centro- Nord tranne uno e servono circa il 10 per cento della popolazione totale). Lo studio Iarc per ora non può valutare il peso relativo di ciascuno dei fattori citati. Consente però di confrontare le chances del malato medio, diagnosticato a metà degli Anni 80, di «cavarsela» a seconda della popolazione cui appartiene. L'indicatore più usato è la proporzione di malati che sopravvivono 5 anni dopo la diagnosi. In un confronto con Svizzera, Olanda e Francia, l'Italia (almeno nelle popolazioni servite da un Registro Tumori) esce tutt'altro che male. In ciascuno dei 4 Paesi, tra il 72 e il 77 per cento delle donne con diagnosi di cancro della mammella vivono dopo 5 anni. Per il cancro dello stomaco la sopravvivenza in Italia (20 per cento negli uomini e 24 nelle donne), è la più alta dei 4 Paesi. Per il cancro del colon, negli uomini e nelle donne, varia rispettivamente da minimi del 41 e 48 per cento in Italia a massimi del 50 e 58 per cento in Svizzera. Per il cancro del retto, i valori per Italia e Francia sono 42-43 per cento a confronto del 48 per cento in Olanda e Svizzera. Per quasi tutti i tumori dell'adulto, le chances di sopravvivenza in Italia e negli altri Paesi continentali sono maggiori che in Inghilterra. Fin dal 1967 in Piemonte c'è un registro dei tumori in residenti di meno di 15 anni (la registrazione dei tumori in tutte le età, iniziata nel 1985, è ancora limitata agli abitanti di Torino). Quello pediatrico è uno dei settori dell'oncologia che negli ultimi decenni hanno visto i più brillanti successi nel progresso delle terapie. Nel linguaggio oncologico, ad esempio, per le leucemie linfatiche acute (il tumore più frequente nei bambini) il termine sopravvivenza è stato sostituito da guarigione. Ebbene, mentre i bambini piemontesi con leucemia linfatica acuta diagnosticata negli Anni 60 erano svantaggiati - nelle loro chances di guarire - rispetto ai loro coetanei americani o britannici, quelli diagnosticati negli Anni 80 hanno fruito di una organizzazione sanitaria tanto efficace (quasi 80 per cento di guarigioni a 5 anni) quanto quella dei bambini inglesi e nordamericani (bianchi). Non è poco, nè per i bambini leucemici nè per le equipes che li curano, e neppure per il Servizio sanitario piemontese. Tutto bene, dunque? No, e per diversi motivi. La sopravvivenza media è un importante indicatore di successo nel controllo del cancro, ma non l'unico. Impedire alla gente di ammalarsi è sempre meglio che curarla bene dopo che si è ammalata. Inoltre, la qualità della vita di coloro che sono clinicamente guariti è un tema nuovo, tutto da investigare (a cominciare da approfondimenti metodologici su cosa si intende per qualità della vita). Infine, confronti internazionali tra sopravvivenza dei pazienti diagnosticati nello stesso stadio clinico della malattia potranno aiutare a meglio definire il peso dei vari fattori in gioco. Nè ci si può crogiolare con la verifica che «tutto sommato non andiamo tanto peggio di altri Paesi europei e degli Stati Uniti», dove vigono i migliori standard oggi disponibili. L'importante è sorvegliare che, via via che nuovi strumenti di controllo del cancro (compresa la prevenzione primaria, anche se oggi è poco di moda) sono validati e disponibili, vengano utilizzati al massimo delle loro potenzialità. La sopravvivenza dei malati di cancro che misuriamo oggi riflette il sistema sanitario in funzione negli Anni 80, quando veniva avviato il Sistema sanitario nazionale. Nel caso di un suo eventuale smantellamento, c'è da domandarsi se in futuro rimarranno gli attuali motivi di (prudente) soddisfazione. Benedetto Terracini Università di Torino


TUMORI OBIETTIVO EUROPA. RISORSE La ricerca arranca in salita
AUTORE: GAVOSTO FELICE
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA, PROGRAMMA, FINANZIAMENTO
ORGANIZZAZIONI: CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE, IRCC
LUOGHI: ITALIA
NOTE: LA RICERCA SUL CANCRO TEMA: LA RICERCA SUL CANCRO

IN Italia le risorse finanziarie della ricerca scientifica sono appena sufficienti per assimilare i maggiori progressi fatti in Paesi più avanzati e per sviluppare alcune ricerche originali in particolari discipline. Ciò dipende, innanzitutto, dal fatto che le risorse da noi impegnate per la ricerca ammontano, in rapporto al prodotto interno lordo, a meno dei due terzi di quelle impiegate dalla maggioranza dei Paesi dell'Europa occidentale. Per la ricerca medica, il divario negativo è anche dovuto al fatto che la nostra industria ha sempre trascurato, salvo poche eccezioni, questo spazio di mercato, peraltro in continua crescita, non investendo nella ricerca. Il cammino verso l'Europa è quindi tutto in salita anche nel settore della ricerca oncologica; ma le ragioni non sono soltanto di natura finanziaria. Occorre ammettere che, alla carenza di investimenti, si sommano un notevole spreco nel distribuire le risorse e gravi deficienze di programmazione. Gli sprechi, purtroppo, sono ancora dovuti a clientelismo e opportunismo, altri a mancanza di modelli efficienti. Chi ha il compito di distribuire contributi per la ricerca deve assicurare un buon rendimento degli investimenti, scegliere i migliori campi di intervento e i gruppi di ricerca capaci: purtroppo, soltanto da parte del Consiglio Nazionale delle Ricerche vi è stato un miglioramento nella scelta dei programmi e nei criteri di distribuzione dei fondi per l'oncologia, grazie a tre progetti finalizzati che si sono avvalsi di nuovi sistemi di gestione. Università, Sanità e Regioni non hanno finora saputo operare ai livelli di qualità internazionali. La sostanza del problema riguarda in primo luogo l'identificazione di ricercatori validi (che non si improvvisano, ma si creano dopo anni di lavoro, in centri idonei, a fianco di ricercatori già formati in ambienti stimolanti) e con la creazione di norme legislative per trattenerli. Poi c'è il controllo dei risultati: la mancanza di un severo e trasparente controllo sull'attività dei vari istituti finanziati contribuisce allo spreco delle già limitate risorse. Si assiste ancora, da noi, a un fatto ben curioso: spesso i controllori sono gli stessi che dovrebbero essere controllati. In altri Paesi, il controllo delle risorse assegnate a enti pubblici per la ricerca è di pertinenza del Parlamento, le cui Commissioni intervengono direttamente e drasticamente quando riscontrano carenza di risultati. Le maggiori carenze di programmazione concernono la costituzione di Centri specialistici efficienti e moderni. Nel caso dell'oncologia, un problema fondamentale è la scarsità di Istituti specializzati per ricovero e cura con finalità scientifiche, nel senso di una intima interconnessione, in loco, tra ricerca e assistenza, con aumento notevole della produttività ed efficacia del sistema. In Italia vi sono soltanto sei Istituti per l'Oncologia con tali caratteristiche, e in Piemonte neanche uno. C'è, inoltre, una tendenza a congelare la situazione allo stato esistente, prevalendo l'interesse di una difesa corporativa dello «status» ottenuto al bisogno intellettuale, proprio del ricercatore, di espandere le possibilità di produrre ricerca. In Francia esiste una ventina di Centri analoghi, quasi tutti molto efficienti, pronti anche ad accogliere pazienti provenienti dall'Italia. L'obiettivo prioritario del nostro Paese è di diventare «europeo» anche in questo settore, ma gli ostacoli sono ancora molti. Vanno segnalati, però, alcuni fatti che potrebbero invertire la tendenza: si sta delineando, dopo una serie di concorsi giudicati «scandalosi», una maggiore serietà nella selezione dei candidati, ricercatori e medici, con l'adozione di criteri più obiettivi nella valutazione dei risultati scientifici; si registra da alcuni anni un aumento delle pubblicazioni su riviste internazionali molto selettive e con un buon «fattore di impatto» ad opera di gruppi di ricercatori operanti in Italia. Infine, c'è da parte dei cittadini una spinta verso la creazione di «cose concrete», per esempio la costituzione di moderni Istituti di Ricerca e di Cura, la raccolta di fondi per la ricerca, oppure l'appassionata partecipazione a gruppi di volontari per la cura domiciliare di ammalati gravi. Stiamo assistendo, come per l'economia, a un'inversione di tendenza nel lento cammino verso l'Europa? Felice Gavosto Direttore scientifico Ircc, Torino


TUMORI OBIETTIVO EUROPA Torino scende in campo Nel '96 il nuovo centro oncologico
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA, PROGRAMMA, PROGETTO, SANITA'
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO PER LA RICERCA E LA CURA DEL CANCRO
LUOGHI: ITALIA, CANDIOLO (TO)
NOTE: LA RICERCA SUL CANCRO TEMA: LA RICERCA SUL CANCRO

IN Italia sono soltanto sei gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) orientati all'oncologia. Si trovano a Milano, Genova, Roma, Napoli, Bari e Pordenone. Rimangono quindi vaste aree nelle quali la popolazione non dispone di strutture che possano accoppiare in modo ottimale ricerca e terapia dei tumori. Un vuoto vistoso si nota in Piemonte e Valle d'Aosta (con una popolazione complessiva intorno ai 5 milioni di abitanti), in Emilia, Toscana, Marche e Umbria, in vaste aree del Sud e nelle isole. A Torino, e quindi in Piemonte, la soluzione è in arrivo con l'Istituto per la ricerca e la cura del cancro che sta sorgendo nel territorio di Candiolo, per due terzi finanziato con i contributi volontari dei cittadini. L'Istituto (di cui è stata completata la «fase 1»: l'edificio è visibile nella fotografia qui sopra) sarà già operativo all'inizio del prossimo anno. Il settore di sinistra ospita i servizi generali, i laboratori di anatomia patologica e di analisi cliniche, i laboratori di ricerca (oncologia molecolare e medica) e di epidemiologia. Il settore di destra ospita il Centro elaborazione dati e la centrale di controllo dell'edificio. Al primo piano, ambulatori, diagnostica per immagini e gastroenterologia. I tre ultimi piani sono destinanti a «day hospital» e, in una fase successiva, alle degenze. L'edificio in primo piano contiene i servizi tecnologici di base: centrale elettrica di trasformazione e impianto di climatizzazione. Per la gestione, nel quadro del Sistema Oncologico della Regione Piemonte, sono stati definiti accordi con l'Ordine Mauriziano per l'attività di assistenza e con l'Università per la ricerca. Quest'ultima è articolata in varie convenzioni, ciascuna relativa a uno specifico programma.


TUMORI OBIETTIVO EUROPA Modello Olanda Come funziona ad Amsterdam il sistema integrato per vincere la difficile battaglia contro il cancro
AUTORE: HEIJBROEK DE CLERCQ
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, PROGRAMMA, FINANZIAMENTO, STATO
ORGANIZZAZIONI: IKA INTEGRAAL KANKERCENTRUM DI AMSTERDAM
LUOGHI: ITALIA
NOTE: LA RICERCA SUL CANCRO TEMA: LA RICERCA SUL CANCRO

ALLA fine del 1978 il Parlamento olandese prese l'iniziativa di sviluppare una politica nazionale per la prevenzione e cura dei tumori. Prioritaria è stata la costruzione di una rete nazionale di «centri oncologici regionali integrati». Così nacque nel '79 l'Integraal Kankercentrum di Amsterdam (Ika). Oggi i centri sono diventati nove, tutti figli dell'idea di portare il meglio delle cure disponibili il più vicino possibile ai pazienti. Un Centro regionale è un ente che comprende ospedali, università e dipartimenti di radioterapia. Ogni regione ha un Centro. L'area regionale servita dall'Ika ha 2,5 milioni di abitanti, 26 sono gli ospedali coinvolti. Il modello è quello degli analoghi centri americani. Ma nessun altro Paese al mondo ha una rete integrata così ampia e accurata. I fondi provengono dal servizio sanitario nazionale e dalle compagnie di assicurazione. I consulenti dell'Ika sono medici legati all'Istituto tumori olandese e appoggiano i medici degli ospedali regionali con consulentenze periodiche negli ospedali stessi o al telefono, per le urgenze. Questo consente ai pazienti di ricevere le migliori cure il più vicino possibile a casa. I consigli degli specialisti si basano su linee-guida stilate dai gruppi di lavoro sui tumori. Un altro importante compito dei Centri regionali è quello di fornire assistenza a domicilio e istruire gli addetti, soprattutto sui temi psico-sociali e sulle cure di supporto. I pazienti e le loro famiglie sono invitati a partecipare ai gruppi di aiuto, per affrontare meglio la frustrazione della malattia e i problemi pratici. Spesso, dividere le proprie emozioni con persone che si trovano nella stessa condizione aiuta a superare almeno una parte dell'angoscia. L'Ika ha la funzione del mediatore: mette in contatto le persone e fornisce i locali. Sul modello americano, c'è anche il programma «Look good, feel better», (cura l'aspetto, ti sentirai meglio), che insegna a limitare i danni estetici della chemioterapia. Molti pazienti si sentivano così insicuri da chiudersi in casa e rinunciare ai contatti sociali: ritrovata un'identità estetica, invece, tornano ad accettarsi e condurre una vita pressoché normale. Due sono i programmi nazionali di screening: uno per il cancro alla mammella, per donne tra i 50 e i 70 anni; e uno per il cancro alla cervice, per donne fra i 30 e i 60 anni. Tra il 1986 e il 1989 sono diventati operativi i Registri regionali dei tumori, che servono a redigere i protocolli terapeutici, controllare la qualità delle cure, compiere ricerche epidemiologiche e diffondere l'educazione sanitaria. Heijbroek-de Clercq Comprehensive Cancer Center Amsterdam


MISSIONE «KUIPER EXPRESS» Astronavi per volare nel futuro Dyson: il motore a ioni è il più promettente
Autore: DYSON FREEMAN

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: KUIPER EXPRESS
LUOGHI: ITALIA

LA prima domanda a cui si deve rispondere quando si pensa al futuro delle attività spaziali è: «Che cosa è andato storto?». Si supponeva che l'era spaziale avrebbe indotto l'umanità verso un glorioso futuro di espansione nel cosmo. Invece è diventata, come l'era dell'energia nucleare, un simbolo di aspettative esagerate e di promesse non mantenute. Il volo spaziale muterà radicalmente nel prossimo secolo, ma la tecnologia è già abbastanza avanzata da permetterci di fare supposizioni su dove si arriverà entro 100 anni. Forse sbaglieremo nei dettagli, ma le leggi della fisica pongono saldi limiti a ciò che potremo fare. Il futuro della biotecnologia presenta un'incertezza di tipo diverso: non possiamo neanche supporre quali siano i suoi limiti. Credo che il XXI secolo sarà l'era della biotecnologia e che essa trasformerà a fondo sia la forma dei veicoli spaziali sia i nostri modelli di vita. Per i veicoli spaziali del futuro sono stati proposti svariati sistemi di propulsione, cinque dei quali - nucleare, solare, laser, con acceleratori a vela solare e a presa dinamica - rappresentano grandi promesse tecnologiche. Dovendo scegliere uno di essi come il candidato più promettente, punterei su quello solare. La propulsione solare accelera la sonda grazie a un getto di ioni a bassa spinta. La luce che colpisce le celle solari genera elettricità usata per ionizzare e accelerare un gas inerte come lo xeno. Sono gli ioni espulsi dal motore a spingere in avanti il veicolo. In un propulsore chimico, il carburante fornisce sia l'energia sia la quantità di moto, mentre nella propulsione solare le sorgenti di energia (la luce del Sole) e della quantità di moto (il getto di ioni) sono distinte. Nello spazio ritengo che la propulsione solare sarà vincente perché permette di spingersi tanto lontano, per velocità, efficienza ed economia, quanto è consentito dalle leggi della fisica. Quelli solari sono motori economici e universali, adatti al trasporto di carichi in tutto il sistema solare. Questa flessibilità non significa che gli altri sistemi di propulsione non saranno necessari. Per lanciare veicoli nello spazio avremo ancora bisogno di propulsori chimici o lanciatori ad alta spinta più efficienti. Il motore nucleare funziona in modo molto simile a quello solare ma elimina la dipendenza dalla luce del Sole per la generazione di elettricità. La propulsione laser ricava energia da un laser ad alta potenza situato sulla superficie terrestre. Le vele solari, spinte dalla pressione della luce solare, sono caratterizzate da una partenza lenta ma non richiedono combustibile. Gli acceleratori a presa dinamica sono un sistema di lancio economico per carichi voluminosi che possono resistere a una gravità migliaia di volte superiore a quella terrestre. Ma per viaggi lunghi ad alta velocità, quello solare sembra il sistema da privilegiare. Ci sono due limiti fisici alle prestazioni dei veicoli a propulsione solare. Uno è stabilito dal rapporto spinta/peso del motore, l'altro dal rapporto peso/potenza delle superfici che raccolgono l'energia solare. Il primo limita l'accelerazione ed è il più grave per le missioni brevi. Se un veicolo può accelerare a un centimetro per secondo quadrato (circa un millesimo della gravità terrestre), raggiungerà la velocità di 26 chilometri al secondo in un mese. Coprire rapidamente distanze relativamente brevi richiede una partenza veloce, ovvero un alto rapporto spinta/peso. Il rapporto peso/potenza limita la velocità massima ed è importante per i lunghi tragitti. Più sottile è la superficie del collettore solare, maggiore è la potenza per un dato peso. Le leggi della fisica pongono come limite un peso di circa un grammo per metro quadrato, valore che rappresenta meno di un millesimo del peso dei pannelli previsti per il Kuiper Express, la sonda che dovrebbe esplorare Plutone e l'estrema periferia del sistema solare. Un veicolo spaziale a propulsione solare potrebbe, in linea di principio, superare le prestazioni del Kui per Express di un fattore 1000. Il Kuiper Express userebbe i suoi motori solari per la propulsione presso la Terra e poi volerebbe di conserva fino ai margini del sistema solare. Un veicolo spaziale dotato di collettori a pellicola sottile potrebbe usare il suo motore anche nella Fascia di Kuiper, dove la luce del Sole è 1000 volte più fioca che sulla Terra. Vicino al nostro pianeta un simile veicolo potrebbe toccare velocità di diverse centinaia di chilometri al secondo, abbastanza per raggiungere Marte, Venere o Mercurio in meno di un mese. Anche se i pannelli solari a film sottile non saranno costosi, la loro dimensione e sottigliezza ne renderanno difficile l'uso pratico. Il problema sarà più serio per i grandi carichi. Veicoli spaziali con persone a bordo, per esempio, difficilmente potrebbero pesare meno di una tonnellata. Un veicolo di questo peso necessiterà di collettori solari con un'area di circa 8000 metri quadrati. Se questi viaggi avranno senso dipenderà dalle motivazioni dei passeggeri. Come la maggioranza degli scienziati, sono più interessato a missioni senza equipaggio. Per i robot sonda i vantaggi della propulsione solare possono essere accentuati contraendo il peso da tonnellate a chilogrammi. Il processo di miniaturizzazione che ha portato dalle sonde Voyager al Kuiper Express può essere spinto oltre. I veicoli spaziali a propulsione solare del futuro peseranno probabilmente pochi chilogrammi e avranno un pannello solare il cui diametro varierà da 10 a 20 metri; sarebbero ideali per l'esplorazione scientifica e probabilmente anche per la maggior parte delle esigenze commerciali e militari. Il compito principale dei veicoli spaziali è la raccolta di informazioni, che già sappiamo eseguire in modo economico con macchine che pesano meno di un chilogrammo. La propulsione solare darà a queste missioni la flessibilità che manca alle sonde a propulsione chimica. Ma dove saranno diretti i nostri microveicoli spaziali fra cento anni? E' come se si fosse chiesto nel 1905 ai fratelli Wright dove sarebbero andati gli aeroplani nel 1995. Una semplice risposta è: «Ovunque». Un dato importante relativo al sistema solare è che la sua massa complessiva non è la somma di quella dei pianeti. Questi contengono gran parte della massa non solare, ma la maggior parte della superficie appartiene a piccoli oggetti: satelliti, asteroidi, comete. Fatta eccezione per i satelliti più grandi e per due asteroidi, questa area è totalmente inesplorata. I nostri veicoli spaziali andranno verso luoghi che nessuno ha mai visto. Freeman J. Dyson Institute for Advanced Study, Princeton


«LE SCIENZE»: ECCO IL DUEMILA
NOMI: DYSON FREEMAN
ORGANIZZAZIONI: KUIPER EXPRESS, LE SCIENZE
LUOGHI: ITALIA

L'articolo di Freeman Dyson pubblicato qui accanto è un'anticipazione tratta dal prossimo numero del mensile «Le Scienze», in edicola tra qualche giorno: uno speciale fascicolo monografico intitolato «Come sarà il 2000», concepito per celebrare i 150 anni di «Scientific American», del quale «Le Scienze» è l'edizione italiana. Contiene saggi di autori di fama mondiale in campi fondamentali della scienza e della tecnologia: informatica, telecomunicazioni, trasporti, medicina, macchine e materiali, energia e ambiente. Per la medicina, ad esempio, gli articoli affronteranno la terapia genica, il ricorso a organi artificiali realizzati con la «coltivazione» di tessuti biocompatibili e la chirurgia praticata con robot. Per i trasporti i temi trattati sono le ferrovie ad alta velocità, l'auto su misura, l'evoluzione degli aerei di linea e i voli spaziali, questi ultimi appunto con il contributo di Dyson. Nell'articolo che anticipiamo quasi integralmente, Dyson delinea le tecnologie che nel prossimo futuro si svilupperanno nella navigazione extraterrestre. La ricerca nello spazio, infatti, dovrà necessariamente diventare meno costosa e più efficiente, e questo si può ottenere soltanto rivedendone radicalmente alcuni aspetti concettuali. Dyson è uno dei più originali fisici teorici del nostro tempo. Professore di fisica al celebre Institute for Advanced Study di Princeton (Usa), si è occupato anche di ingegneria e controllo degli armamenti. E' inoltre un eccezionale divulgatore scientifico. Tra i suoi libri tradotti in italiano va ricordato «Turbare l'universo», edito da Boringhieri.


SCAFFALE Morris Desmond: «Osservare il gatto», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

DESMOND Morris, notissimo etologo, molto attento anche ai comportamenti umani, analizza in questo libro le abitudini del gatto rispondendo a 80 domande che tutti ci siamo poste: dal perché delle fusa al significato dei molti tipi di miagolio di cui i gatti sono capaci. L'introduzione, invece, tratteggia la tipologia del padrone di cani rispetto al padrone di gatti. Dove la parola padrone è inadeguata. Non siamo noi a possedere un gatto, ma è lui a possedere noi.


SCAFFALE Verdet Jean-Pierre: «Storia dell'astronomia», Longanesi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Ecco una storia dell'astronomia forse non così completa come quella classica di Abetti o quella più recente di Giovanni Godoli (Utet) ma singolare per lo sviluppo insolito di alcuni suoi capitoli: in particolare quelli sui progressi nella misura prima della Terra, poi del sistema solare, della nostra galassia, e infine dell'universo. Un grande rilievo (quasi 70 pagine) ha anche la storia delle teorie sull'origine del sistema solare. L'autore è astronomo all'Osservatorio di Parigi.


SCAFFALE Autori vari: «Profondo cielo», Biroma Editore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Stelle doppie e multiple, nebulose chiare e oscure, gruppi di centinaia di giovani stelle, ammassi globulari contenenti fino a mezzo milione di stelle vecchissime, galassie, ammassi di galassie: il cielo offre un catalogo delle meraviglie quasi inesauribile. Ma per viaggiare nello spazio occorre una guida: non sempre queste meraviglie sono facili da trovare, e in ogni caso l'osservazione al telescopio è sempre diversa - e purtroppo deludente - rispetto a ciò che si vede nelle fotografie. Una guida a 374 oggetti celesti, corredata da 280 fotografie riprese con telescopi amatoriali, ci viene ora presentata da quattro abili astrofili: Francesco D'Arsiè, Alessandro Dimai, Roberto Nuzzo e Gabriele Rosolen, membri delle associazioni di astrofili di Cortina e di Conegliano. Di ogni oggetto celeste troviamo caratteristiche, cartina per individuarlo, foto. Un'opera per appassionati seri, che il cielo vogliono studiarlo davvero. Per chi volesse mettersi in contatto con il piccolo editore che ha pubblicato il volume, il telefono è: 049-942. 2177 (via San Pio X, 108 - 35015 Galliera Veneta).


SCAFFALE «Il popolamento della Terra», Le Scienze Quaderni
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: GENETICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Il «quaderno» di ottobre della rivista «Le Scienze» è curato dal genetista Alberto Piazza e ha per tema «Il popolamento della Terra», un tema al quale Luca Cavalli Sforza e lo stesso Piazza hanno dato importanti contributi. Da segnalare anche gli ultimi quaderni usciti: «La termodinamica» (a cura di Enrico Bellone), «Matematica computazionale» e «Tossine e veleni».


SCAFFALE Harris Zellig: «Linguaggio e informazione», Adelphi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Dove nasce il significato di una frase? Nelle parole, nell'ordine grammaticale, nella sintassi o in un sistema che comprende tutto questo? La risposta è complessa, ma forse nel testo scientifico è più facile trovarla. E' quanto fa Zellig Harris in un capitolo di questo suo saggio, peraltro piuttosto esoterico. Harris, di origine russa, insegnava linguistica alla University of Pennsylvania. E' morto nel 1992.


SCAFFALE Gribbin John: «Costruire la macchina del tempo», Aporie
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

I viaggi nel tempo sono stati a lungo tema esclusivo dei libri di fantascienza. Poi, negli Anni 70-80, fisici teorici spericolati come Tipler, Hawking, e Penrose hanno incominciato a intravedere la possibilità di rendere coerenti certe idee degli autori di fantascienza con le teorie relativistiche, la cosmologia e la fisica delle particelle. Ovviamente non c'è nulla di realizzabile concretamente: ma un bel gioco intellettuale è lecito. E con Gribbin si riesce a giocare abbastanza bene. Piero Bianucci


PROGETTO DEL CNR Scusi, oggi che inquinamento c'è? A Roma previsioni quotidiane, come quelle meteo
Autore: VICO ANDREA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, ATMOSFERA
NOMI: FEBO ANTONIO
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: G. L'INQUINAMENTO MEDIO A TORINO, MILANO, GENOVA, ROMA E NAPOLI

IMMAGINIAMO un fumatore che nel suo appartamento fuma 20 sigarette al giorno, di cui 18 con le finestre spalancate e 2 la sera in una stanza chiusa. Per combattere l'inquinamento dell'aria di casa è sufficiente dimezzare le sigarette senza badare a «quando» vengono consumate? No. Serve a poco ridurre le sigarette fumate con le finestre aperte, cioè con un costante ricambio d'aria. Occorre prima di tutto eliminare quelle 2 consumate in un ambiente chiuso, dove il fumo ristagna. Perché quelle 2, più tutte le altre, sono quelle pericolose per i polmoni di tutta la famiglia. Analogamente in una città l'inquinamento atmosferico non è solo un fatto di quantità, ma di quantità in relazione alle condizioni meteorologiche. Molto spesso è inutile bloccare il traffico nelle ore centrali della giornata. Servono provvedimenti più mirati. E' questo l'obiettivo di un progetto del Cnr, denominato «Sistema integrato di valutazione e previsione dell'inquinamento atmosferico di Roma», in questi giorni ai cancelli di partenza. Coordinato dall'Istituto inquinamento atmosferico del Cnr, il progetto sarà finanziato dal ministero per l'Ambiente e dal comune di Roma, con la collaborazione scientifica dell'Istituto di fisica dell'atmosfera del Cnr, del Centro meteorologico dell'Aeronautica militare e dell'Istituto per la prevenzione e sicurezza sul lavoro. Porterà all'elaborazione di previsioni a breve periodo sulla salubrità dell'aria e aiuterà la stesura di progetti per il risanamento sul lungo periodo. Cioè sarà uno strumento utilissimo a sindaci e assessori, che finalmente avranno la possiblità di studiare rimedi concreti contro l'inquinamento dell'aria in città. Anche i cittadini saranno coinvolti in prima persona: tra un anno (inizialmente solo a Roma), accanto alle previsioni del tempo, potremo avere le previsioni dell'inquinamento. Ascolteremo moniti del tipo «Domani prevediamo alcune ore di aria inquinata stagnante: non portate a spasso bambini e, se proprio dovete usare l'auto, usatela nel pomeriggio». «Questo studio è nato dall'esigenza di gestire meglio i dati raccolti in fatto di inquinamento ambientale», spiega Antonio Febo, ricercatore dell'Istituto inquinamento atmosferico del Cnr e responsabile del progetto che avrà sede a Roma, a Villa Ada. «Grazie alle centraline che annusano l'aria delle città e ad altri sistemi di monitoraggio dell'inquinamento, oggi possiamo sapere molte cose di ciò che respiriamo, ma questi dati sono spesso impiegati per valutazioni superficiali e frettolose. E' necessaria un'analisi più approfondita circa le cause e l'evoluzione dell'inquinamento atmosferico di un'area cittadina. Noi intendiamo sperimentare un sistema integrato per indagare su tutti i parametri chimici, ma anche su quelli fisici dell'atmosfera (la pressione atmosferica, la capacità di rimescolamento dell'aria, i campi di vento...) per metterli in relazione fra loro. Vogliamo capire le motivazioni dei processi di inquinamento e perché in una determinata area, in funzione delle ore del giorno e della notte o delle stagioni, l'aria si avvelena in un modo o in un altro». Attualmente, infatti, sapendo che il biossido di carbonio è dannoso per l'uomo, accade che incarichiamo una centralina di misurare 24 ore su 24 le concentrazioni di biossido di carbonio in un punto «strategico» della città. Si ottiene però un'informazione appena appena indicativa. Sappiamo che un certo livello è stato superato tot giorni in un mese, ma non è solo questo che interessa se non sappiamo perché proprio in quell'istante si è verificata una situazione di inquinamento acuto. Il volume di traffico non è l'unica variabile. Tant'è vero che quando la circolazione viene limitata tutti sperano nella pioggia o nel vento. Inoltre ancora non sappiamo (e dunque non possiamo escludere) cosa accade quando si verifica la concomitanza di più fatti (un dato gas velenoso con determinati eventi meteorologici). Ciò che riteniamo oggi non dannoso, in presenza di una serie di fatti apparentemente slegati fra loro, può diventarlo. Per esempio: l'ossido di azoto che emettono le auto è innocuo in concentrazioni normali ma con successive trasformazioni può diventare acido nitrico, pericolosissimo per l'uomo e per gli ecosistemi. «Studieremo anche l'orografia del terreno, che influisce sui movimenti delle masse di aria sia in termini di regime di brezza che di venti prevalenti che in termini di interscambio tra i bassi strati (20-30 metri) dell'atmosfera e quelli più alti», aggiunge Antonio Febo. «L'interscambio di aria tra i primi 20 metri dell'atmosfera e gli strati superiori è praticamente bloccato dal tramonto al sorgere del sole; l'aria inquinata ristagna più di notte che di giorno. Allora perché bloccare il traffico di giorno? O perché le targhe alterne, che di fatto non dimezzano il traffico ma lo riducono al massimo del 20-25%? E' chiaro che entro 10-20 anni il volume di traffico andrà notevolmente ridotto per salvaguardare la salubrità dell'atmosfera in generale, ma questo è un problema che riguarda l'inquinamento di base. Noi studieremo l'inquinamento acuto, i picchi con valori critici per cercare di prevederli». Non ultima, tra le finalità del progetto di Cnr c'è anche la prevenzione di atteggiamenti impropri e spese inutili. Spesso, a fronte di costi sociali altissimi (sostenuti quasi esclusivamente dai cittadini), una limitazione «improvvisata» del traffico ha risultati minimi. Ma la politica del divieto è figlia della sostanziale mancanza di dati certi a disposizione degli amministratori pubblici. «Con il nostro progetto vogliamo migliorare il modo di studiare l'inquinamento atmosferico», conclude Antonio Febo, «ma anche riuscire a comunicare i risultati scientifici a chi non è un tecnico del settore». Andrea Vico


IPPOPOTAMI E io ti offro un fiume Si accoppia chi monopolizza l'acqua
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: KLINGEL HANS
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA incredibile, ma nonostante sia noto sin dall'antichità, si può dire che l'ippopotamo (Hippopotamus amphibius) rimanga ancora oggi per molti versi un animale misterioso. Il fatto è che non è facile studiarlo nel suo habitat naturale, quando se ne sta immerso nell'acqua torbida e limacciosa dei fiumi o dei laghi poco profondi, lasciando sporgere all'esterno a mò di periscopio solo narici, occhi e orecchie. E ancora più difficile è seguirlo nelle sue peregrinazioni notturne in terraferma, quando percorre chilometri alla ricerca dei vegetali di cui si nutre. Eppure lo zoologo Hans Klingel dell'Università di Braunschweig (Germania) è riuscito a svelare aspetti inediti dell'organizzazione sociale di questo mammifero, conducendo per quattro anni e mezzo una ricerca nel Queen Elizabeth National Park dell'Uganda. Ci sono nell'ippopotamo anfibio non poche stranezze. Per esempio lo si può vedere talvolta madido di un sudore rosso come sangue. Gli indigeni dell'Africa tropicale credono che l'animale si strofini a bella posta contro le superfici scabrose per procurarsi ferite cruente allo scopo di farsi un salasso. Ma è un'ipotesi che non regge, perché la pelle del pachiderma è tutt'altro che delicata. Basti pensare che dopo la concia ha uno spessore di quattro centimetri e mezzo ed è talmente dura che viene usata per la pulitura dei diamanti. In realtà non si tratta di sangue, bensì di una secrezione delle ghiandole cutanee, ricca di sali minerali, che il bestione emette quando la sua pelle avvezza all'umidità sta per troppo tempo all'asciutto. E' insomma una difesa naturale contro la disidratazione. L'ippopotamo ha dimensioni di tutto rispetto. E' lungo fino a 4 metri e mezzo e può pesare oltre 3 tonnellate. Mostruosa è la testa, con la parte facciale spropositatamente sviluppata, le orecchie minuscole mobilissime, gli occhi sporgenti. Enorme è soprattutto la bocca, armata di una quarantina di denti. L'ippopotamo si chiama giustamente anfibio perché di giorno sguazza nell'acqua e la notte la passa in terraferma mangiando a quattro ganasce. Divora circa 70 chili di erba per notte. Non c'è da meravigliarsi che un cibo così ricco di cellulosa comporti l'emissione di una quantità rilevante di escrementi, che vengono ammucchiati a terra in caratteristici cumuli conici larghi uno o due metri e alti un metro, veri e propri biglietti da visita che marcano il territorio. In acqua invece gli escrementi vengono espulsi con frenetiche rotazioni della coda, che servono a spargerli in un ampio raggio e concimano egregiamente le acque del fiume o del lago. Di fronte al nemico, uomo o animale che sia, il pachiderma si erge minaccioso e spalanca la bocca, una enorme fornace rosso fuoco, da cui sporgono le poderose zanne, i canini, due sciabole ricurve di avorio lunghe dai 50 ai 60 centimetri. Sono queste le temibili armi da combattimento che i maschi rivali usano nei duelli, lotte che durano anche un paio d'ore senza esclusione di colpi sino a che uno dei due non ci lascia la pelle. Del resto, anche nei riguardi dell'uomo, l'ippopotamo è considerato, insieme con il bufalo, l'animale africano più pericoloso, anche se Klingel è di diverso avviso. Secondo lui, gli ippoppotami si erano abituati alla sua presenza e non gli mostravano nessuna ostilità. Come lo studioso tedesco ha avuto modo di constatare, la vita sociale del pachiderma si svolge soprattutto nell'acqua. Qui il bestione si accoppia, mette al mondo i figli, gioca e lotta. Ma fino a che punto gli ippopotami sono animali sociali? Quando all'imbrunire li si vede uscire dall'acqua e arrampicarsi lungo le rive scoscese del fiume per andare in terraferma a pascolare (tra parentesi siccome seguono tutti gli stessi sentieri, sotto il peso dei loro corpi la terra cede e si formano trincee profonde anche più di un metro e mezzo) a vederli in fila indiana si ha l'impressione che siano coinvolti in una forma di attività sociale. Ma non è così. Perché appena arriva all'asciutto, il gruppo si disperde e ciascuno pascola per conto proprio. Eppure l'organizzazione sociale esiste. Klingel ha potuto accertare che circa il dieci per cento dei maschi adulti domina gli altri membri del branco. La loro dominanza però si manifesta soprattutto nelle aree monopolizzate per gli accoppiamenti. Il livello dell'acqua non è sempre costante. Un fiume può cambiare il suo corso, una zona acquitrinosa tropicale si può essiccare. E allora come risponde l'ippopotamo a questi drammatici cambiamenti del suo habitat? Il possesso di un territorio stabile, in cui cioè l'acqua mantiene un livello costante, costituisce un'attrattiva agli occhi della femmina. Lei infatti non accetta passivamente la corte di qualunque pretendente, ma esercita il suo diritto di scelta, concedendosi anche a parecchi possessori di territori stabili. E dove il fiume non gioca brutti scherzi, gli ippopotami tendono a conservare lo stesso territorio anche per oltre un decennio. Dove invece il fiume si prosciuga, gli animali sono costretti a lunghe estenuanti migrazioni in cerca di altre pozze d'acqua. I più deboli cadono facilmente preda dei leoni e delle iene. Sopravvivono soltanto i più forti. Oltre alla siccità, altri pericoli mortali incombono sugli ippopotami: il bracconaggio per le zanne che, a differenza di quelle dell'elefante, non ingialliscono con il tempo e trovano impiego nelle protesi dentarie; la bonifica di molte zone acquitrinose trasformate in terreni agricoli; i continui mutamenti ambientali operati dall'uomo. Per questo gli ippopotami sono scomparsi da varie regioni africane, come il bacino del Nilo. Riusciranno a sopravvivere nel prossimo millennio? La loro scomparsa sarebbe una vera calamità. L'ippopotamo ha infatti un ruolo vitale nell'ecologia dei laghi e dei fiumi africani, perché la sua presenza significa tonnellate di sostanze nutritive, solo parzialmente digerite, trasportate ogni notte nell'acqua dai prati circostanti. Una insostituibile fonte di cibo per i pesci e gli altri animali acquatici. Isabella Lattes Coifmann


UDITO Una protesi digitale e automatica
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LE protesi acustiche si evolvono: dall'amplificazione indifferenziata dei suoni si è passati gradualmente all'amplificazione personalizzata. Ora la tecnologia fa un altro passo avanti: protesi automatiche, con amplificazione non lineare (selettiva), e suono completamente digitalizzato grazie a un piccolissimo computer incorporato. Capostipite di questa tendenza è la protesi DigiFocus Oticon: contiene un chip potente quanto un personal computer con processore 486 e pesante solo quattro grammi; il Dap (Digital Audio Processor) ha una capacità di calcolo di 14 milioni di istruzioni al secondo, con cui elabora le informazioni in arrivo da un vicino sensore che misura il suono 50 volte al secondo, controllando 150 parametri; a ogni rilevazione Dap decide se l'ambiente acustico è cambiato e se è il caso di regolare i volumi a seconda delle frequenze critiche. Questo tipo di amplificazione (detta non lineare) non aumenta in modo uniforme tutti i volumi ma tende a rafforzare solo i suoni deboli. Il problema tecnico e audiologico delle protesi acustiche è infatti quello di integrare esattamente l'udito dell'individuo, la cui debolezza può riguardare alcune frequenze, di solito quelle alte che corrispondono ai suoni più acuti. Come è facile notare nelle sordità leggere, può succedere di non distinguere le parole, di confondere alcune lettere, ma allo stesso tempo di essere infastiditi dai rumori forti. E un cattivo bilanciamento dei suoni può provocare un rifiuto della protesi. Il suono, ricevuto da un microfono miniaturizzato, viene convertito in forma digitale, che garantisce una maggiore ricchezza di toni, poi analizzato secondo sette bande di frequenza. Il Dap viene programmato in modo personalizzato in base alla perdita uditiva con l'ausilio di un «sistema esperto» che calcola la giusta taratura. La messa a punto dell'apparecchio, in stretta collaborazione con il tecnico audioprotesista, dura circa un mese (durante il quale l'utilizzatore è invitato a tenere un diario). DigiFocus è il primo apparecchio acustico digitale e automatico (senza necessità di ulteriore regolazione da parte dell'utilizzatore): è una piccola rivoluzione nel suo campo, anche per la riduzione del voltaggio della batteria, portata da 3,3 a 0,9 volts, che consente duecento ore di autonomia. Progettato al Centro di Ricerca Oticon di Eriksholm (Copenhagen) da un'equipe internazionale di audiologi e tecnici in collaborazione con il National Acoustic Laboratory di Sydney, sarà prodotto in versione retroauricolare e endoauricolare, cioè portabile all'esterno o all'interno dell'orecchio. La protesi interna può risultare più accettabile perché meno visibile, ma si adatta solo a sordità non gravi. Generalmente gli utenti indicano al primo posto tra le qualità richieste a una protesi acustica l'efficacia, poi la robustezza. Il fattore estetico appare secondario, ma costituisce un'altra causa per cui molti adolescenti si ostinano a non usare la protesi acustica pur avendone bisogno (così come si può rifiutare la propria immagine con gli occhiali da vista). Se la perdita uditiva supera i 35 decibel, di solito viene consigliato un apparecchio acustico; in Italia ne vengono prescritti 160 mila all'anno, e si osserva un incremento dei disturbi dell'udito negli adulti: per patologie legate al'età, malattie dell'orecchio, traumi, eccessiva esposizione a rumori forti (negli ambienti di lavoro, in discoteca o con «walkman» a tutto volume). Per forme di sordità gravissima, oltre gli 85 decibel, purtroppo al momento nessuna protesi può molto. La ricerca tecnologica sta ora facendo i conti con i telefoni cellulari: la diffusione dei sistemi Gsm richiede sempre maggiori schermature contro le interferenze. Rosalba Giorcelli


ALLUVIONE, UN ANNO DOPO Punto-chiave: ripulire i fiumi Alvei e sponde in ordine assorbono la piena
Autore: CAMERANA BENEDETTO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, ALLUVIONI
LUOGHI: ITALIA

SEI novembre 1994: l'alluvione colpisce il Piemonte e soprattutto le Langhe. Città e paesi devastati, la campagna stravolta dalla furia delle acque e dalle frane. E' uno choc: si scopre un territorio del tutto indifeso, quasi nel Duemila e a due passi da Torino, città della tecnica. Le autorità di Stato hanno parlato di una catastrofe naturale. Ma non meno catastrofica è stata la cura del territorio. Certo 220 millimetri di pioggia in 72 ore sono molti. Ma l'intensità di caduta, in Italia, può essere molto più violenta (alcuni record: 340 millimetri in 8 ore, Liguria, 1970; 570 in 5 ore, Carnia, 1983). E' vero che le colline delle Langhe sono geologicamente instabili. La struttura è a «monoclinale», formata da strati di roccia paralleli e inclinati. Ogni collina presenta così due facce: un pendio morbido e allungato contrapposto a un fianco ripido, quasi verticale. Di qui il carattere del paesaggio langarolo: dolce e aspro assieme. In caso di piogge torrenziali, lungo i versanti a pendio gli strati marnosi tendono a scollarsi da quelli sottostanti di arenaria. Immense zolle di collina possono allora slittare a valle. Sugli altri versanti, è lo scorrimento dei torrenti, scalzando la fragile base delle pareti più ripide, a provocare crolli improvvisi. E' un territorio malleabile, in movimento: e sono proprio le frane - «di scivolamento» o «di crollo» - e l'erosione dei molti corsi d'acqua che lo incidono profondamente, a modellarne le forme: la bellezza del paesaggio nasce anche da lì. A parte l'estetica, frane ed erosione fanno delle Langhe un territorio potenzialmente minaccioso. E' un paesaggio difficile da vivere, persino pericoloso, se non se ne conoscono a fondo la morfologia e i movimenti. Per abitare le Langhe e le piane circostanti bisogna saper guardare ai luoghi, studiarne i rischi, non certo imprevedibili. Entrano allora in gioco le colpe di una urbanistica spesso distratta, quasi cieca alle differenze geologiche tra una località e l'altra. Una pianificazione quantitativa e non qualitativa consente e talvolta promuove l'urbanizzazione di un terreno inondabile come la costruzione di abitazioni in prossimità di un pendio franoso. Per l'alluvione è stato molto facile colpire soprattutto lì, dove si sono perse la cultura del territorio e l'attenzione ai luoghi, dove si è abbassata la guardia davanti ai pericoli di sempre. Ma gli errori dell'urbanistica non spiegano tutto. L'alluvione ha colpito duramente anche nel cuore degli abitati più antichi, in luoghi da sempre ritenuti sicuri. Interi quartieri di Asti e Alessandria sono finiti sott'acqua. A Canelli il centro storico è stato totalmente devastato da un'unica onda alta tre metri. La pioggia torrenziale, la fragilità geologica, la cattiva urbanistica non sono dunque motivi sufficienti. Si è detto come l'uso estensivo dell'asfalto per piazzali e grandi parcheggi possa accelerare lo scorrimento dell'acqua piovana. Ma le cause di una simile catastrofe vanno cercate anche altrove: soprattutto nei fiumi e sulle loro sponde, che non hanno più conosciuto le tradizionali cure di ordinaria manutenzione. Sono argomenti controversi: dragare o no l'alveo? Pulire le sponde dalla boscaglia o lasciarle allo stato di natura? Nei giorni successivi all'alluvione si è scatenata una raffica di denunce incrociate: verdi e non verdi si accusavano a vicenda delle colpe del disastro. Si è anche parlato di una violentissima ondata, provocata dalla troppo ritardata apertura di una diga, che avrebbe devastato il corso del basso Tanaro. Ma le «dighe» che a detta di tutti sembrano aver prodotto i maggiori danni sono quelle naturali, casuali: immense cataste di tronchi e fango ammucchiati dalla corrente contro un ponte o un altro ostacolo hanno finito per ostruire parzialmente questo o quel fiume. Ne sono derivati improvvisi cedimenti: di qui le tremende ondate di piena. Così è stato a Santo Stefano Belbo, dove un lago tumultuoso ha scavalcato il ponte e l'immenso sbarramento di alberi da questo trattenuti, per devastare poi Canelli, pochi chilometri a valle. Ma così è stato anche per la Bormida di Millesimo, per il Tanaro alla diga di Clavesana, per lo stesso Belbo a valle di Canelli. A distanza di tempo le opinioni si sono in parte chiarite, anche per via dell'intervento di specialisti. Escludendo a priori le follie delle cementificazioni e i prelievi incontrollati di ghiaia, si scopre allora che la pulizia meccanica dell'alveo di un fiume può essere un'operazione utile per quei tratti che presentano una forte sedimentazione, purché l'azione delle draghe sia controllata e limitata. Allo stesso modo, una moderata azione di disboscamento periodico delle sponde fluviali - la gestione a ceduo, l'abbattimento selettivo delle piante più deboli, lo sfoltimento del sottobosco - sembra poter ridurre l'eventualità delle dighe formate dagli alberi strappati dalla piena. Viceversa, si è poi sottolineata l'importanza del rimboschimento delle aree abbandonate dall'agricoltura tradizionale (vigneti, noccioleti) che garantiva una buona regimazione dell'acqua piovana. Tutte operazioni di manutenzione del territorio che negli ultimi vent'anni si sono sempre più diradate. A un anno dall'alluvione poco si è fatto sia per rimediare ai danni subiti dal territorio sia per ovviare agli errori di gestione. La scarsità e la lentezza dei fondi e la mancanza di coordinamento tra le diverse competenze ostacolano gli interventi. Se le infrastrutture e i servizi primari sono stati in gran parte ripristinati, molti fiumi e molte colline portano ancora i segni di quella catastrofe: alvei sollevati, sponde erose o crollate, frane incombenti. E' un paesaggio ancora ferito, fragile. Certamente più debole di un anno fa. Benedetto Camerana


COME FUNZIONA I padroni del vapore In laboratorio con Papin, Savery e Watt
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, TECNOLOGIA
NOMI: PAPIN DENIS, BRANCA GIOVANNI, SAVERY THOMAS, WATT JAMES, BLANQUI JEROME ADOLPHE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Sezione di una caldaia a vapore

SEMBRA incredibile che dopo Erone di Alessandria, il grande inventore greco che utilizzò l'espansione del vapore per far spalancare le porte dei templi, l'umanità abbia dovuto attendere quindici secoli. Lo stimolo venne agli inglesi dalla necessità di pompare verso l'alto l'acqua delle miniere. Ai bisogni dei britannici risposero i francesi, che dovevano rifornire Versailles con l'acqua della Senna. Huygens diede l'incarico di trovare una soluzione al suo assistente Denis Papin verso il 1675. Papin aveva già inventato la pentola a pressione, ermeticamente chiusa, con cui i cibi cuocevano prima e meglio. Naturalmente c'erano dentro le idee fondamentali di Giovanni Branca (1629). Ora l'espansione del vapore gli suggerì l'idea di scaldare un po' d'acqua in un tubo nel quale uno stantuffo veniva spinto dall'espansione energetica del vapore. Agli inglesi non interessava la cucina, e ne abbiamo visto i risultati, ma le miniere sì. Così l'ingegnere militare britannico Thomas Savery utilizzò il principio della pentola per costruire un marchingegno a vapore, astutamente battezzato l'Amica del Minatore, forse perché i minatori non avevano la mutua, la cui mancanza fu critica. La macchina si rivelò infatti una falsa amica e di pessima salute: scoppiavano recipienti, tubi e minatori. E il rendimento era ridicolo. Savery brevettò la pentolona nel 1698 e sette anni dopo Thomas Newcomen, sempre inglese e di professione fabbro, la perfezionò, senza risolvere il vero problema di dover raffreddare, dopo ogni riscaldamento, il cilindro che conteneva il vapore. Il rendimento restava bassissimo e rimase così un'altra sessantina d'anni, quando un fabbricante scozzese di strumenti di precisione, James Watt, venne incaricato dall'università di Glasgow di riparare una macchina del Newcomen. Watt aveva elaborato l'omonimo principio della parete fredda (non per niente veniva da una zona di distillazione di whisky) e risolse il problema. Elaborò una nuova macchina in cui il cilindro era mantenuto sempre caldo e fece passare il vapore in una camera di condensazione separata, mantenuta fredda. Era iniziata la grande corsa. Nacquero navi, locomotive e macchine azionate da motrici a stantuffo. Gli impianti furono svincolati dall'obbligo della vicinanza di corsi d'acqua e le città videro le prime grandi immigrazioni in fabbriche dalle condizioni di lavoro incredibilmente dure e umilianti. Incominciò quella che l'economista francese Jerome Adolphe Blanqui nel 1837 chiamò Rivoluzione industriale. Gian Carlo Bo


IL FILM DI RON HOWARD Tutti gli errori di «Apollo 13»
Autore: CAGNOTTI MARCO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

NELLE ultime settimane si è fatto un gran parlare di «Apollo 13», il film del regista Ron Howard con Tom Hanks che narra la vicenda della sfortunata missione spaziale durante la quale gli astronauti Lovell, Haise e Swigert rischiarono di morire a causa dell'esplosione di un serbatoio di ossigeno e dovettero rientrare sulla Terra senza essersi posati sulla Luna. Ovviamente non è questa la sede adatta a una recensione ma certo dal punto di vista scientifico e tecnologico la ricostruzione dell'impresa dell'«Apollo 13» avrebbe potuto essere più accurata. In particolare due errori attirano immediatamente l'attenzione dello spettatore che, non essendo al corrente dei particolari della missione, assista alla proiezione del film con occhio smaliziato. Nel vuoto dello spazio il suono non si propaga. Questo significa che le esplosioni sono assolutamente silenziose e le perdite di gas non producono alcun rumore. Troppo spesso registi, sceneggiatori e consulenti di film di ambientazione spaziale ignorano questo fatto. Purtroppo è il caso anche di «Apollo 13»: nelle riprese dall'esterno della navicella si sentono i sibili provocati dai motori e dall'ossigeno che fuoriesce dal serbatoio danneggiato. Ci chiediamo se sia una banale dimenticanza oppure una scelta, forse compiuta per rendere più verosimile il fenomeno, in realtà violando una legge fisica elementare. Se è così, siamo proprio sicuri che una rappresentazione più realistica, cioè priva di rumori, sarebbe stata meno conveniente? Il secondo grave errore riguarda le comunicazioni con la base di Houston. Nel corso di ogni missione «Apollo» il sorvolo della faccia nascosta della Luna coincideva con un periodo di black-out radio, durante il quale le comunicazioni con la Terra erano impossibili. E' molto strano quindi che nel film i tre astronauti, guardando la superficie lunare e osservando Fra Mauro, il cratere nel quale avrebbero dovuto allunare se la missione avesse avuto successo, si trovino nell'impossibilità di comunicare con Houston. Infatti Fra Mauro è quasi al centro della faccia che il nostro satellite rivolge perennemente verso la Terra. Inoltre, se la ricostruzione fosse corretta, dovremmo pensare che l'allunaggio sarebbe dovuto avvenire in una zona in cui le comunicazioni sarebbero state impossibili, con tutti i rischi che una scelta del genere avrebbe comportato. Nessuna delle missioni «Apollo» si è mai posata in una regione sulla faccia nascosta della Luna. Ai film di fantascienza si possono perdonare molte cose. Il loro scopo non è descrivere ciò che si può realizzare oggi, ma mostrare ciò che forse si potrà fare in un futuro più o meno lontano. Se quello che vediamo sullo schermo non è in manifesta contraddizione con le più elementari leggi della fisica, possiamo accettarlo e lasciarci trasportare con la fantasia in un mondo in cui scienza e tecnologia saranno più evolute. Ma con un film che pretende di ricostruire lo svolgersi di eventi realmente accaduti dobbiamo essere più severi ed esigenti. A maggior ragione quando la scienza e la tecnica rappresentano uno degli ingredienti essenziali della vicenda. Marco Cagnotti


STRIZZACERVELLO Un problema di Padre Clavio
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

Un padre promette al figlio otto soldi per ogni problema risolto esattamente, ma gli chiede in cambio cinque soldi per ogni problema sbagliato. Dopo aver risolto 26 problemi fanno i conti e scoprono che il figlio non deve nulla al padre nè quest'ultimo a lui. Quanti problemi era riuscito a risolvere il figlio? La risposta domani, nella pagina delle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI Anche le piante che viaggiano soffrono di jet-lag
LUOGHI: ITALIA

Un giovane albero piantato in Europa sarebbe in grado di adattarsi a un altro ritmo sta gionale se trapiantato, ad esempio, in Australia? Nel mio giardino ho un certo numero di iris che mi sono stati mandati dalla Nuova Zelanda: dopo un periodo iniziale di confusione, essi effettivamente si adattano. Ci vogliono circa 18 mesi perché sincronizzino la crescita e la fioritura con le stagioni inglesi. La stessa cosa capita alle piante inviate in Nuova Zelanda. Di solito vengono spedite nella fase «dormiente», quindi appena arrivate cominciano a ricrescere, in quanto trovano condizioni più calde di quelle che hanno lasciato (e quindi pensano che sia arrivata la primavera!). In genere l'anno successivo sono già perfettamente sincronizzate con il nuovo ciclo stagionale. Al massimo, hanno bisogno ancora di un anno. Poi si comportano come se fossero sempre vissute lì. Jennifer Hewitt Kidderminster, Gran Bretagna A che profondità del suolo si fissano le fondamenta dei grattacieli più alti? La scelta del tipo e delle dimensioni di una fondazione costituisce uno dei maggiori problemi dell'ingegneria civile, sia per la difficoltà nella determinazione delle caratteristiche di un terreno, sia per la complessità dei calcoli progettuali, a causa dell'imperfetta aderenza alla realtà fisica sulla quale si basano. La profondità di una fondazione è calcolata quindi in relazione al tipo di terreno e nel caso in cui si richieda una fondazione molto profonda, si può ricorrere alla palificazione, per trasmettere il carico gravante su di un plinto da uno strato di terreno superiore a uno strato inferiore, di maggiore compattezza e resistenza. Luigi Maset Torino Le fondazioni di un grattacielo vengono gettate praticando appositi sbancamenti nel terreno e riempiendoli di calcestruzzo. Se il terreno è solido, non è necessario andare molto in profondità ed è sufficiente ampliare il perimetro di base per distribuire meglio il peso dell'edificio su una maggiore superficie portante. Se invece il terreno presenta debole resistenza, vi vengono piantati, con speciali trivelle, lunghi pali di cemento armato, che distribuiscono il carico dell'edificio ai terreni sottostanti, più compatti. Filippo Armellino Torino Dipende dal terreno sul quale le fondamenta devono poggiare. Se si avesse una base, per esempio, rocciosa, sufficientemente spessa e ovviamente stabile, potrebbero essere solo poggiate, calcolando semplicemente la pressione specifica del peso sovrastante per ogni metro quadrato di base rocciosa. Ovviamente parlo di un caso limite, cioè di un edificio costruito in una zona assolutamente priva di vento. Costantino Pantaloni Colleferro (Roma) Esiste un metodo per stabili re, anche con l'aiuto di stru menti ottici (ma non elettro nici), la distanza tra un osser vatore e un aereo in volo? Se gli osservatori sono due, e sono in grado di compiere una misura di direzione traguardando l'aereo nello stesso istante, la distanza dell'aereo può essere ricavata con un semplice calcolo trigonometrico immaginando un triangolo che ha come base la distanza tra i due osservatori. La contemporaneità della misura è possibile se i due osservatori sono in vista l'uno dell'altro, quindi non è necessario alcun mezzo elettronico, come potrebbe essere un radiotelefono. Un altro metodo, più indiretto, richiede un solo osservatore e consiste nel misurare lo spazio angolare percorso dall'aereo in un tempo determinato, per esempio in un secondo. Conoscendo la velocità dell'aereo, si risale alla sua distanza con una specie di triangolazione inversa rispetto alla precedente. Se l'aereo è in quota e si tratta di un normale modello per trasporto civile, la sua velocità è con ogni probabilità di circa 900 chilometri all'ora. Arcangelo Pepoli Brindisi


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q -Quando e come è stata misurata l'altezza delle montagne più alte del mondo? E qual è oggi la precisione di queste misure? Q - E' vero che si può allungare la vita delle pile tenendole nel frigorifero? Q- Perché, se un dente otturato viene in contatto con un pezzetto di argento, provo una sensazione dolorosa? _______ Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax numero 011-65.68.688




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