TUTTOSCIENZE 23 agosto 95


A TORINO Un convegno sulla cultura del colore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA, BIOLOGIA, CONGRESSO
NOMI: REGGE TULLIO, ZAKI SAMIR, CAROTENUTO ALDO, SACKS OLIVER, NEWTON ISAAC, HUBEL DAVID
ORGANIZZAZIONI: FIAT, PPG
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)
NOTE: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita» TEMA: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita»

IL colore è fisica: nasce dagli elettroni esterni degli atomi. E' natura: mimetizza ed esibisce. E' fisiologia: diventa percezione in miliardi di cellule cerebrali. E' psicoanalisi: acquista significati simbolici nell'inconscio. Ancora: è messaggio, design, moda, architettura, arte. In una parola: vita. Appunto «I colori della vita» s'intitola un convegno interdisciplinare organizzato da Fiat e Ppg al Lingotto di Torino il 27- 28 agosto. Interverranno fisici (Tullio Regge), fisiologi (il premio Nobel David Hubel, Semir Zeki, Strata, Glickstein, Bowmaker, Giacobini, Bizzi, Maffei, Berlucchi), pisicoanalisti (James Hillman e Aldo Carotenuto), antropologi (Philippe Fagot), architetti e designer (Aldo Colonetti, Adalberto Dal Lago, Tomas Maldonado, Richard Zahren, Filippo Alison, Daniele Marini, Mary Lewis, Cesare De Seta, Stefano Iacoponi, Nevio Di Giusto, Gaetano Pesce, Michele De Lucchi, Bernard Lassus, Michael Lancaster, Ed Taverne, Magnago Lampugnani, Hernandez-Cros, Benedetto Camerana, gli autori del Piano del colore di Torino Germano Tagliasacchi e Riccardo Zanetta), storici e critici dell'arte (Dorfles, Quintavalle, Jean Clair). Che cosa sarebbe il mondo senza colori si può capire leggendo l'ultimo libro di Oliver Sacks, «Un antropologo su Marte» (Adelphi), dove troviamo la storia di un pittore che, in seguito a un incidente, vede il mondo soltanto in bianco e nero, menomazione che lo precipita nell'angoscia e nella depressione: un dramma umano, ma anche un intrigante caso clinico che ci ha aperto uno spiraglio su come il nostro cervello elabora la percezione visiva. Questo meccanismo è in parte ancora oscuro, nonostante i fondamentali contributi dati da Hubel e Zeki, entrambi presenti al convegno. Newton nel 1666 con un prisma dimostrò che la luce bianca è un miscuglio di colori. Maxwell chiarì che a ogni colore corrisponde una radiazione elettromagnetica di specifica lunghezza d'onda. L'idea più ovvia è che l'occhio e il cervello reagiscano a queste diverse lunghezze d'onda. Ma non è così semplice. Certo, le cellule della retina chiamate coni hanno tre pigmenti, uno per colore fondamentale, combinando i quali si può ottenere la percezione di ben sette milioni di sfumature. Ma Edwin Land ha ottenuto immagini a colori proiettando due semplici immagini in bianco e nero, una delle quali con filtro rosso. Ne possiamo concludere che Goethe non aveva del tutto torto quando sosteneva che «l'illusione ottica è la verità ottica», slogan che Sacks traduce più correttamente in «l'illusione visiva è verità neurologica». I colori percepiti, insomma, non sono la conseguenza diretta e automatica delle diverse lunghezze d'onda, ma una costruzione del cervello. In un primo stadio la percezione interessa la zona V1 della corteccia cerebrale, le cui cellule rispondono alla lunghezza d'onda ma non determinano la visione dei colori: siamo ancora in un mondo bianco, nero e grigio. Poi, come Zeki ha scoperto, il segnale giunge alla zona V4, dove avviene la codifica dei colori, pur essendo le cellule di questa zona indifferenti alla lunghezza d'onda. Il pittore studiato da Sacks (e poi anche da Zeki) distingueva le lunghezze d'onda, attribuendo ad esse una scala di grigi, ma aveva perso la funzionalità di quelle cellule della corteccia cerebrale che traducono la scala di grigi in una visione cromatica. Questo schema, bisogna aggiungere, è molto semplificato: la corteccia cromatica interagisce con un centinaio di altri centri del mesencefalo; inoltre il colore è soltanto un aspetto della percezione visiva: il cervello ha apparati specifici per valutare la forma, il movimento, la profondità. Se è così intricata la fisiologia, possiamo immaginare quanto sia complessa l'elaborazione culturale del colore, dai messaggi elementari di un semaforo fino a quelli sublimi di un'opera d'arte. Per non parlare del ruolo del colore nell'urbanistica, nel design, nella multimedialità (su questo tema è in programma una tavola rotonda condotta da Gad Lerner). Il senso del convegno torinese (segreteria 011-669.0282) sta proprio nella sfida a questa complessità, in un dialogo tra culture troppo spesso separate. Piero Bianucci


DA NEWTON A MAXWELL I colori svelati Come si formano a livello atomico
AUTORE: REGGE TULLIO
ARGOMENTI: FISICA, STORIA DELLA SCIENZA, BIOLOGIA, CONGRESSO
PERSONE: MAXWELL JAMES
NOMI: MAXWELL JAMES
LUOGHI: ITALIA
NOTE: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita» TEMA: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita»

LO scozzese James C. Maxwell condusse a termine nel decennio 1850-60 una grande sintesi dei fenomeni elettromagnetici che è servita da piattaforma di lancio sia per la fisica moderna sia per la tecnologia del nostro secolo. Dalle equazioni di Maxwell risulta che la luce è formata da onde elettromagnetiche la cui lunghezza d'onda è compresa nell'intervallo tra 400 nm e 600 nm (1 nm = 1 nanometro = 1 miliardesimo di metro). Di fatto lo spettro delle onde elettromagnetiche è enormemente più vasto: parte da onde radio lunghissime per terminare con raggi gamma ultrabrevi. L'occhio umano è sensibile solamente alla luce, ossia a una piccolissima porzione dello spettro posta a metà strada tra questi due estremi, e assegna ad essa un colore che dipende dalla lunghezza d'onda e parte dal rosso per quelle più lunghe fino al violetto per quelle brevi passando per tutte le sfumature dello spettro visibile. Il colore ha quindi carattere antropomorfo e soggettivo: non tutte le persone percepiscono il colore allo stesso modo e la maggioranza degli animali non sa cosa sia il colore o lo vede in modo radicalmente diverso da quello umano; ad esempio molti insetti possono vedere nell'ultravioletto, che per noi è invisibile. Newton non poteva conoscere le equazioni di Maxwell, vissuto circa due secoli dopo, ma usò il prisma per scomporre la luce bianca e scoprì che il bianco non è colore primario bensì mistura e sovrapposizione di infinite componenti dello spettro visibile. Tutti i colori e non solo il bianco possono essere ottenuti variando le proporzioni nella miscela ma i colori puri dello spettro possono essere forniti solamente da luce monocromatica con una lunghezza d'onda ben definita. Ogni mescolanza di luci diverse conduce a colori sempre meno saturi e sempre più mescolati con il bianco. Sovrapponendo luce verde con luce rossa otteniamo luce gialla, che è meno satura del giallo spettrale (per intenderci, quello prodotto da lampade al sodio). Lo schermo di un televisore produce in questo modo tutti i colori partendo da tre componenti primarie: il rosso, il verde e il blu. Alcuni colori, come il giallo, sono in realtà misture additive e quindi meno sature dei colori dello spettro ma l'occhio non se ne accorge, anche perché in natura è molto difficile imbattersi in colori puri. Goethe scrisse, quando era ancora giovane, un celebre trattato sui colori, la «Farbenlehre», criticando l'esperimento di Newton. Goethe era un poeta straordinario ma come fisico valeva poco: usò un prisma con una fenditura molto larga che permetteva ai colori di rimescolarsi. Da quanto vide elaborò una fantasiosa teoria in stile Sturm und Drang in cui i colori apparivano come lotta tra la luce e le tenebre, teoria che fu ripresa e idolatrata da Schopenhauer, critico spietato della scienza dei suoi tempi. Grosso modo il colore misura la lunghezza d'onda della luce e questa dipende dalle modalità di emissione da parte degli atomi e delle molecole. Un atomo emette luce quando un elettrone salta da un'orbita a un'altra di energia più bassa ed irraggia l'energia in eccesso mediante un quanto di luce o fotone. Secondo la legge di Planck la frequenza del fotone è proporzionale alla sua energia; più alto è il salto più alta è la frequenza e piccola è la lunghezza d'onda. La luce visibile viene solitamente emessa dagli elettroni esterni degli atomi, gli elettroni a ridosso del nucleo emettono raggi X di energia migliaia di volte più elevata. Il colore delle molecole deriva invece da modi complessi e globali di oscillazione in cui viene emessa o assorbita luce non monocromatica distribuita in bande spettrali diffuse. I daltonici non distinguono il rosso dal verde e in pratica vedono il mondo solamente attraverso due componenti primarie. In compenso percepiscono meglio luci ed ombra e scoprono con facilità oggetti ben mimetizzati. Inversamente ci si può chiedere come apparirebbe il mondo a un superuomo dotato di quattro o più componenti primarie e capace di vedere nell'ultravioletto o nell'infrarosso. Possiamo in parte immaginarlo guardando le fotografie eseguite con falsi colori in cui l'infrarosso è sostituito dal rosso, il rosso dal giallo e così via. Io stesso possiedo l'unica fotografia stereo e in falsi colori esistente al mondo di Werner Heisenberg, quello del principio di indeterminazione: in essa il sobrio vestito del fisico assume un colore rosso volgarissimo e il viso diventa cianotico. Se per miracolo ci fosse data la supervista, le opere più celebrate dei grandi pittori mostrerebbero imperfezioni e volgarità inaudite, l'alta moda diventerebbe una pagliacciata insopportabile e ci passerebbe l'appetito davanti a leccornie con colori nuovi ma repellenti. A me bastano i colori che già abbiamo. Tullio Regge Politecnico di Torino


E il cervello creò l'arcobaleno I meccanismi della nostra visione cromatica
AUTORE: FIORENTINI ADRIANA, MAFFEI LAMBERTO
ARGOMENTI: BIOLOGIA, FISICA, STORIA DELLA SCIENZA, CONGRESSO
NOMI: NEWTON ISAAC
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Il percorso delle immagini
NOTE: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita» TEMA: CONVEGNO A TORINO SULLA CULTURA DEL COLORE. «I colori della vita»

SCRIVEVA Goethe: «Agli uomini il colore dona grande diletto». In effetti il colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo: i fiori, i frutti, la luce del cielo all'alba o al tramonto e molte delle opere dell'uomo, a cominciare dalla pittura, ci apparirebbero assai meno piacevoli ed eccitanti se fossero senza colore. Il colore di una luce o di un oggetto non è una proprietà intrinseca di quella luce o di quell'oggetto, ma è qualcosa che nasce nel nostro occhio e nel nostro cervello. Il sole al tramonto non è rosso, e l'erba dei prati non è verde: siamo noi che li vediamo così. E' ovvio tuttavia che ciò che noi vediamo, e quindi anche il colore, dipende dall'agente fisico che causa l'eccitazione delle cellule nervose del nostro occhio, e cioè da onde elettromagnetiche di opportuna lunghezza d'onda. Queste costituiscono lo spettro visibile, compreso tra 400 e 700 nanometri. La nostra capacità di vedere i colori dipende inoltre anche dall'intensità di illuminazione. Se il livello di illuminazione è troppo basso diventiamo ciechi ai colori. I fotorecettori presenti nella retina del nostro occhio e responsabili della visione dei colori (coni) hanno bisogno di un livello di illuminazione abbastanza alto (livello diurno o fotopico) per funzionare. In condizioni notturne funziona un'altra popolazione di fotorecettori, insensibile ai colori. Questi fotorecettori sono chiamati bastoncelli. La luce solare contiene tutte le lunghezze d'onda dello spettro visibile, all'incirca con la stessa intensità, e ci appare bianca. Se però facciamo passare un sottile raggio del sole attraverso un prisma, questo si disperde nelle sue componenti dando luogo a uno spettro in cui si succedono luci di colore diverso. Fu nella sua stanza al Trinity College di Cambridge che Newton fece per la prima volta questo esperimento e osservò che lo spettro è continuo e che il colore passa dal rosso al violetto, attraverso numerose gradazioni intermedie di arancione, giallo, verde e blu. I colori delle radiazioni semplici disperse dal prisma sono i colori spettrali e i colori che siamo capaci di distinguere nello spettro, circa 250, sono molto più numerosi di quelli a cui possiamo dare un nome. Nella retina del nostro occhio ci sono tre tipi di coni sensibili a tre regioni dello spettro di lunghezza d'onda maggiore (rosso), intermedia (verde) e corta (blu). Dalla eccitazione in diverse proporzioni, di questi recettori deriva la percezione di tutta la gamma di colori. L'informazione che ne risulta viene trasmessa al cervello per una via neurale specializzata e viene elaborata in particolare in un'area della corteccia cerebrale, chiamata «area del colore». Una lesione limitata a questa area può far perdere la visione dei colori, pur mantenendo inalterate le altre proprietà della visione. Recenti studi di genetica molecolare hanno dimostrato che in una fase precoce dell'evoluzione delle specie animali si è formato un sistema primordiale di visione cromatica costituito da due soli tipi di fotorecettori, uno sensibile alle lunghezze d'onda corte e uno sensibile alle lunghezze d'onda medio-lunghe. Questo sistema permetteva di distinguere nello spettro due regioni, la regione del blu e quella del giallo- rosso: i colori in queste regioni dello spettro vengono distinti come colori freddi e colori caldi. Gli animali che abbiano solo questo sistema di fotorecettori sono dicromati. Poi nel corso dell'evoluzione sono apparsi ulteriori tipi di fotorecettori, che nel caso delle scimmie e dell'uomo consistono nella terna di coni che abbiamo descritto. Si ritiene che questo sia avvenuto per scissione dell'unico pigmento giallo in due componenti, rosso e verde. Le scimmie del vecchio mondo sono gli unici animali con cui noi condividiamo questa proprietà della visione tricromatica. Il sistema evolutivamente più recente, rosso- verde, permette di distinguere tra loro le tinte della gamma verde, giallo, arancione e rosso, ciò che non era possibile con il solo sistema blu-giallo più antico. Si è fatta l'ipotesi che la visione tricromatica dei primati si sia evoluta in corrispondenza con quella dei frutti di colore giallo-arancione-rosso come i manghi e le banane, che costituiscono la dieta prevalente delle scimmie. Per molto tempo si è creduto che questa fosse la visione cromatica più ricca del regno animali. Oggi invece sappiamo che esistono animali con quattro tipi di fotorecettori, come certi pesci e certi uccelli, che verosimilmente hanno una visione cromatica assai più ricca e variegata della nostra. Per contro, è interessante ricordare che gli animali a noi più familiari, come il cane e il gatto, hanno una visione dicromatica: quindi più povera della nostra e paragonabile a quella dei daltonici. Adriana Fiorentini Lamberto Maffei Scuola Normale, Pisa


INQUINAMENTI ESTIVI Le due facce dell'ozono In quota è benefico, al suolo irrita i polmoni
Autore: VOLPE PAOLO

ARGOMENTI: CHIMICA, ECOLOGIA, INQUINAMENTO, ATMOSFERA
LUOGHI: ITALIA

DA molti anni ormai il traffico, il riscaldamento e le attività industriali provocano nei centri urbani concentrazioni di ossidi di carbonio, di zolfo e di azoto che, nelle giornate senza vento o pioggia, divengono prossimi e talvolta superiori al livello di guardia. Solo ultimamente però i bollettini sull'inquinamento hanno incominciato a segnalare, tra i gas potenzialmente nocivi, anche l'ozono, del quale sapevamo solo che da lassù, nell'alta atmosfera, protegge la nostra pelle dal cancro provocato dagli ultravioletti. La domanda che allora ci si può porre è se l'ozono è buono o cattivo, se lo vogliamo o no. L'ozono, una forma «allotropica» dell'ossigeno (tre atomi invece di due nella molecola), è un gas molto raro in natura e che artificialmente può essere prodotto in diversi modi, per esempio facendo scoccare una scarica elettrica nell'ossigeno; la sua caratteristica di forte ossidante - il suo potenziale di ossidazione, 2,07, è superiore a quello del cloro (1, 36) - lo rende sì utile in molti processi industriali ma anche aggressivo verso tutte le forme di vita, tanto che uno dei suoi impieghi più comuni è quello di battericida. Negli Anni 50 erano di moda gli «ozonizzatori», piccoli elettrodomestici che con una scarica elettrica generavano ozono scomponendo l'ossigeno biatomico e favorendone la ricombinazione in molecole triatomiche. Lo scopo era di generare il gas battericida, non tenendo conto che l'ozono, mentre uccideva i batteri, danneggiava i polmoni di chi lo respirava. Questo impiego è ancora molto diffuso, ma sotto stretto controllo; viene spesso usato - ad esempio in Francia - per potabilizzare l'acqua degli acquedotti in luogo del cloro, con vantaggi di efficacia e di sapore. L'ozono in eccesso dopo qualunque uso può essere facilmente distrutto con un riscaldamento dosato in modo da spostare l'equilibrio della reazione verso l'ossigeno. Ozono di origine naturale è presente nell'aria in concentrazioni molto basse e variabili, formato principalmente dalle scariche elettriche atmosferiche che forniscono l'energia necessaria al verificarsi della reazione 302 - 203, endotermica per 68,4 kcal/mole. La sua molecola, relativamente stabile, si decompone lentamente ridando ossigeno, cosicché, all'equilibrio la sua concentrazione naturale può variare tra le 0,02 e le 0,04 parti per milione. A questa concentrazione, e comunque sotto le 0,1 p.p.m., viene sopportato bene dagli organismi viventi, ad esso abituati dall'inizio dei tempi; ma se supera questa soglia può provocare gravi danni; all'uomo ed agli animali provoca secchezza ed irritazioni agli occhi e forti infiammazioni alle vie respiratorie, che diventano simili ad ustioni se la concentrazione supera una parte per milione. Nelle specie vegetali provoca una diminuzione di resa significativa, che può raggiungere il 50 per cento per concentrazioni di una parte per milione. Concentrazioni naturali così elevate sono eccezionali, localizzate e temporanee (perfino artificialmente è difficile superare concentrazioni del 12 per cento) e sono difficili da raggiungere anche quando le attività umane creano condizioni favorevoli. Queste condizioni possono essere le fonti di elevata temperatura in condizioni di forte insolazione. Nel traffico urbano si possono avere vicino ai motori surriscaldati in estate e in presenza di raggi UV, soprattutto se la diminuzione dell'ozono nell'alta atmosfera lascia passare quella componente con lunghezza d'onda 0,25 - 0,30 micrometri che è in risonanza con il legame dei tre atomi d'ossigeno nell'ozono. E' bene sottolineare che non sono i motori a emettere ozono, ma è la loro alta temperatura, così come quella delle marmitte, che fornisce l'energia necessaria (per litro sono solo 3 kcal) a spostare l'equilibrio della reazione 302 - 203 verso destra. La molecola triatomica è comunque di per sè instabile e l'ozono ridiventa lentamente ossigeno non appena si allontana la fonte di calore che ne ha favorito la formazione, cosicché è improbabile che si raggiunga l'equilibrio in concentrazioni prossime ai livelli di guardia. E' sconcertante come l'uomo con le sue attività agisca sull'ozono esattamente al contrario di come gli converrebbe: con l'immissione in atmosfera di prodotti clorurati e di ossidi di azoto distrugge l'ozono in alta quota, dove questo gli rende un servizio insostituibile, e lo crea a livello terra dove invece è nocivo a sè ed alla vita in genere. Nè c'è da sperare che l'ozono urbano salga a reintegrare lo strato depauperato a 20 chilometri di quota perché l'ozono è più pesante dell'ossigeno (circa una volta e mezzo) e dell'aria. La conseguenza più grave delle attività umane resta la distruzione dello strato ad alta quota. Rimediare a questo fenomeno è estremamente difficile in quanto per evitarlo non basta diminuire le bombolette spray o cambiare clorofluoro carburi; gli ossidi d'azoto provenienti dalla combustione, in fortissimo aumento ne sono altrettanto responsabili. Rimediare all'ozono prodotto a terra è molto più semplice e immediato. Paolo Volpe Università di Torino


CONVEGNO Dove vanno gli eredi di Einstein
Autore: EHLERS JUERGEN, FRANCAVIGLIA MAURO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA, MATEMATICA, CONGRESSO
NOMI: EINSTEIN ALBERT, HAWKING STEPHEN
LUOGHI: ITALIA, FIRENZE (FI)

OLTRE 600 fisici, matematici e astronomi di tutto il mondo nei giorni scorsi si sono riuniti a Firenze per discutere i problemi e le più recenti scoperte nel campo della teoria della relatività generale e della cosmologia. La teoria della relatività generale scaturì dal pensiero di Einstein tra il 1907 e il 1915: con la teoria quantistica dei campi, oggi è uno dei due pilastri fondamentali su cui appoggia l'intera fisica. Perché tanto interesse? Innanzitutto perché la relatività generale offre una descrizione elegante e coerente della struttura dello spazio e del tempo e delle loro mutue relazioni, fornendo uno schema comune a tutta la fisica e l'astronomia, i cui concetti e le cui leggi sono in un modo o nell'altro formulati sulla base dei suoi assunti. In secondo luogo la relatività generale dà una spiegazione della forza gravitazionale: secondo Einstein ogni tipo di materia incurva lo spazio-tempo a 4 dimensioni; in regioni dense di materia le leggi della geometria differiscono quindi da quelle di Euclide, nello stesso modo in cui le figure geometriche disegnate su una superficie curva differiscono dalle analoghe disegnate in un piano. Una terza ragione per cui l'interesse sulla relatività è ancora vivo a ottant'anni dal 1915 è che, grazie allo sviluppo di nuovi strumenti di osservazione, solo ora diventa possibile sottoporre ad esperimento alcune predizioni sulla teoria. Una quarta ragione, infine, è che relatività e teoria quantistica, sebbene entrambe di grande successo, ancora non si conciliano bene, e la sfida più grande è quella di creare una teoria unitaria che le comprenda. Tra i problemi aperti discussi a Firenze c'è la formazione e la struttura delle singolarità dello spazio-tempo, i luoghi, cioè, dove la curvatura cresce a dismisura e le leggi convenzionali della fisica cessano di valere. Secondo una congettura di Roger Penrose la formazione di tali singolarità - come il collasso gravitazionale di una stella massiccia - avviene sempre all'interno di un «orizzonte» che circonda l'oggetto collassato e ne impedisce l'influenza sul mondo esterno dove risiediamo come osservatori. Fino ad oggi non è stato possibile dimostrare definitivamente questa celebre congettura, nota come «censura cosmica», ma recenti risultati mostrano che essa è valida in una vasta classe di situazioni. A ciò si è giunti tramite sofisticati calcoli con elaboratori elettronici. La «relatività numerica» (l'uso, cioè, del computer per affrontare calcoli altrimenti impossibili) è oggi divenuta una branca vitale di ricerca. Una delle grandi sfide in quest'area è la collisione di due buchi neri; in essa si sviluppano infatti campi gravitazionali forti e in rapida oscillazione, con la conseguente emissione di onde gravitazionali. La relatività generale predice che onde gravitazionali vengano emesse non solo in seguito a una simile collisione, ma anche da qualsiasi sistema di corpi in movimento. Una prova sperimentale diretta della loro esistenza è uno degli obiettivi principali della ricerca corrente e la speranza è di rivelarle prima della fine del secolo. Le previsioni teoriche sulle loro proprietà e le tecniche costruttive di svariati rivelatori sono state tema di discussione. Alcuni rivelatori consistono in barre metalliche ultrafredde (come le antenne Nautilus di Frascati e Auriga di Legnaro), altri di specchi sospesi tra i quali corrono raggi laser (di questo tipo è il rivelatore Virgo in costruzione a Pisa). Sono anche in discussione progetti di rivelatori laser nello spazio. Un problema di particolare difficoltà è la costruzione di una teoria della gravità quantistica. Questo obiettivo è lontano ma al congresso di Firenze sono stati presentati ben precisi progressi. Alle più piccole dimensioni, alla «scala di Planck», spazio e tempo non possono più essere descritti da un comtinuum regolare, ma piuttosto da una struttura schiumosa formata da minuscoli anelli; o ancora, secondo la visione presentata a Firenze da Stephen Hawking, da una sua varietà quadridimensionale dalla complicata struttura fluttuante, descrivibile mediante «buchi neri virtuali». Jurgens Ehlers Max-Planck-Institut, Potsdam Mauro Francaviglia Sigrav e Università di Torino


NUOVE TECNOLOGIE Il palazzo intelligente Per gestire acqua, temperatura e sicurezza
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, PROGETTO, AMBIENTE
NOMI: ROSSI ALDO
LUOGHI: ITALIA, VERBANIA (VB)
NOTE: Progetto «Codra-Lab»

NELLA città del futuro il robot presiede alla riproduzione dei fiori (camelie e azalee). E l'«Intelligent management» guida le lampade di segnalazione aeroportuale come mezzo visivo per disciplinare il traffico degli aerei a terra, sottraendolo alla decisione dei piloti. Ancora: i palazzi diventano «intelligenti» per migliorare la vivibilità dei condomini. Siamo sul Lago Maggiore, sponda piemontese, in un ambiente naturale fra i più belli d'Europa. La città del futuro si chiama «Parco tecnologico del Lago Maggiore» ed è una iniziativa della Cee e della Regione Piemonte per promuovere lo sviluppo imprenditoriale attraverso l'innovazione delle tecnologie e dell'organizzazione. Il progetto globale, opera per la parte architettonica di Aldo Rossi, prevede oltre 30 mila metri quadrati coperti in un parco di 150 mila metri quadri. La prima fase è stata completata con un investimento di 24 miliardi: sei edifici adibiti a laboratori, centri per la ricerca, sale congressi. La seconda fase (10 miliardi) è in allestimento. Questo «Tecnoparco», il primo esempio in tutta l'Italia settentrionale e fra i pochi in Europa, ha già dato modo a undici aziende di sviluppare progetti di innovazione. Si va dall'automazione all'ecologia, dalle biotecnologie alla florovivaistica, dai componenti innovativi ai laboratori di misura e certificazione. Una coesistenza di molteplici interessi e obiettivi, in un «campus» di produzioni pilota, destinato ad aziende grandi e piccole. Così, in questi laboratori avveniristici alle spalle di Verbania (capoluogo della neonata provincia del Verbano Cusio Ossola) stanno nascendo progetti già operativi. Eccone alcuni. L'edificio intelligente. Un sistema integrato di hardware e software, denominato «Wizard», è in grado di gestire in simultanea tutti i moduli che rendono un palazzo «intelligente»: in particolare il trattamento delle acque e dell'aria, l'eventuale produzione di energia elettrica, i sistemi di illuminazione, quelli di insonorizzazione, quelli di sicurezza. Un solo «cervello» che coordina il comfort dell'edificio e riduce i costi di energia. Banca dei semi. Si chiama progetto «Codra-lab» ed è indirizzato all'identificazione e selezione di semi di piante autoctone, catalogati a seconda della specie e del luogo di appartenenza. Un lavoro finalizzato agli interventi di recupero e ripristino ambientale. Intelligent management. Un «occhio» che coordina le lampade di segnalazione aeroportuale come strumento per dirigere il traffico degli aerei sulla pista in maniera centralizzata e automatica. In particolare - dalla torre di controllo - sono via via attivate davanti all'aereo in movimento le luci di asse di via di rullaggio. Questo sistema, chiamato «stop-go» di guida, indica al pilota la strada da seguire, con un altro compito: quello di evitare ogni possibilità di incontro con altri aerei in movimento. Tecnoverde. Nasce nel cuore della floricoltura piemontese, dove si concentra la maggiore produzione di azalee, rododendri e camelie. L'attività prevede la sperimentazione di materiali innovativi e la messa a punto delle tecniche colturali più adatte alle condizioni climatiche locali. Una grande serra con produzione affidata, oltre che agli esperti, anche ai robot. Uno degli obiettivi è quello di riprodurre in serie le specie pregiate programmando la disponibilità in qualsiasi momento, per far fronte alle esigenze di mercato. Oltre all'ampliamento dell'offerta del prodotto la ricostruzione del patrimonio genetico di tutti i fiori tipici della zona, la ricerca di nuove tecnologie per la produzione di piante e dello studio di fitopatie. «Tecnoverde», come del resto tutti gli altri laboratori, è collegato per via telematica con banche dati e università. In questo campus produttivo esiste, infine, «Tecnolab», un laboratorio destinato a tutte le aziende per eseguire prove sperimentali su nuovi materiali, processi industriali, e dove si svolgono attività di controllo e certificazione dei prodotti. Gianfranco Quaglia


POTENZA DELLE POTENZE Corsa al numero più grande Quanti elettroni ci starebbero in tutto l'universo
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA

IL significato dell'espressione miriade, che per noi è oggi vagamente «una grande quantità», era per i greci precisamente «diecimila» (10 elevato alla 4^), e di esso rimane traccia in «miriagrammo» (diecimila grammi, cioè 10 chilogrammi). La miriade era il massimo numero per cui i greci avessero un nome esplicito. Per numeri maggiori usavano circonlocuzioni: ad esempio «miriade di miriadi» (10 alla 8^) o «miriade di miriadi di miriadi» (10 alla 12^), in cui ciascuna ripetizione di «miriade» aumentava l'esponente di 4. L'espediente poteva forse essere adeguato per i calcoli dei mercanti, ma non lo era per quelli di Archimede, lo scienziato più famoso dell'antichità. Egli viveva nelle nuvole, come tutti i matematici, ma amava anche passeggiare sulla spiaggia: un giorno, combinando i due aspetti, si chiese quanti granelli di sabbia ci sarebbero voluti per colmare l'intero universo, secondo le stime allora correnti per la sua grandezza. Oggi possiamo dire facilmente che la sua soluzione, in un lavoro intitolato Arenario, fu 10 alla 63. Egli, non avendo a disposizione la notazione esponenziale, dovette invece ingegnarsi a trovare un metodo che gli permettesse di esprimere numeri di tale grandezza, e che non fosse quello poco pratico di dire «miriade di miriadi... di miriadi» per 16 volte. La sua idea fu di ripetere «miriadi» non pedestremente, usando una sola dimensione, ma intelligentemente, usandone due. Egli definì due operazioni complementari: il ciclo e l'ordine. Il ciclo di ordine 0 consiste nel partire da un qualunque numero dato n, e nel moltiplicare per esso ad ogni passo: il ciclo si conclude dopo n passi, e quindi definisce il numero n alla n. Finito un ciclo di qualunque ordine, si prende il suo numero finale e si ricomincia un nuovo ciclo dell'ordine successivo: gli ordini si concludono dopo n passi, definendo il numero (n alla n) alla n, cioè n alla (n alla 2^). Prendendo come n di partenza la miriade di miriadi, cioè il numero 10 alla 8^, Archimede riuscì così a ottenere il numero (10 alla 8^) alla (10 alla 16^), che è dell'ordine di grandezza di 10 alla 10^ alla 17^, e che egli chiamava «una miriade di miriadi del miriademiriadesimo ciclo del miriademiriadesimo ordine». Benché tale numero andasse ben oltre i bisogni balneari di Archimede, che come abbiamo detto non superavano 10 alla 63^, ci si potrebbe aspettare che con gli sviluppi della scienza quelli che egli considerava come grandi numeri siano ormai divenuti inadeguati. Per metterli alla prova, possiamo considerare questa versione moderna del problema che egli si pose: quanti elettroni ci vorrebbero per colmare l'intero universo, secondo la stima attuale della loro grandezza? La dimensione dell'universo, se non ci si limita a quello osservabile ma si accetta la teoria inflattiva, è dell'ordine di 10 alla 35^ anni luce: poiché un anno luce è la distanza percorsa dalla luce (che viaggia alla velocità di circa 300.000 chilometri al secondo) in un anno, cioè circa 10 alla 16^ metri, tale raggio sarà dell'ordine di 10 alla 51^ metri. La dimensione dell'elettrone è dell'ordine di 10 a -18 metri, e quindi il rapporto fra la dimensione dell'universo e quella dell'elettrone è dell'ordine di 10 alla 69^. Per ottenere il rapporto fra volumi, e quindi il numero di elettroni necessari a colmare l'universo, basta elevare al cubo tale rapporto: si ottiene così un numero dell'ordine di 10 alla 207^. Mentre Archimede aveva trovato 10 alla 63^, e quindi meno di 10 alla 10^ alla 2^ granelli di sabbia, noi abbiamo trovato 10 alla 207^, e quindi meno di 10 alla 10^ alla 3^ elettroni. Se due millenni di sviluppo hanno solo aumentato da 2 a 3 l'ultimo esponente, ci si può aspettare di dover attendere fino all'anno 30. 000 per raggiungere il 10 alla 10^ alla 17^ fino al quale Archimede sapeva contare: nonostante tutta quella sabbia, i suoi occhi sapevano vedere lontano! Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


LA MANTA Il buon diavolo di mare Mostro con le corna, ma innocuo
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Vista dorsale di una femmina di razza chiodata. Ventre della femmina di razza chiodata

GRANDE è a volte il disappunto dei pescatori quando sentono la rete molto pesante. S'illudono di aver fatto chissà quale pingue bottino e invece si accorgono di aver pescato un «diavolo di mare», un bestione che ha un grosso inconveniente: non è buono da mangiare. Per la verità è un evento che si verifica di rado perché nel nostro Mediterraneo c'è soltanto - e non è nemmeno molto frequente - il «diavolo di mare minore» (nome scientifico: Mobula mobula). Ma ve ne sono altre otto specie. La nona l'ha scoperta di recente nella baia di California Giuseppe Notarbartolo di Sciara, che l'ha battezzata col nome di Mobula munkiana in onore di Walter Munk, il decano dell'oceanografia. La nuova specie è la più piccola della famiglia. Misura soltanto un metro di «apertura alare». Mentre il diavolo di mare minore, chiamato anche cefalottera, misura normalmente un paio di metri di apertura alare. Ne sono stati pescati tuttavia esemplari larghi anche cinque metri che raggiungevano il peso di una tonnellata. A sentir parlare di apertura alare può venire il dubbio che si tratti di uccelli. Ma i «diavoli di mare», o mante che dir si voglia, sono pesci. Pesci sui ge neris, bisogna subito aggiungere: molto diversi dagli altri. Non hanno come i loro colleghi tradizionali la sagoma a siluro e la linea aerodinamica che ben conosciamo. La loro forma, decisamente insolita, è romboidale per via delle pinne pettorali sviluppatissime che hanno proprio l'aspetto di grandi «ali». Il gigante della famiglia è la Manta birostris, che può raggiungere i sette metri di larghezza e le due tonnellate di peso. Bazzica soltanto nei mari tropicali e subtropicali. Di tanto in tanto questi grossi bestioni sono anche capaci di saltare fuor dall'acqua, come colossali aquiloni in preda al vento. E' probabile che lo facciano per liberarsi, sia pure temporaneamente, dei numerosi parassiti che li molestano. Parecchi crostacei copepodi scambiano infatti quella piattaforma mobile per suolo pubblico e vi si insediano in gran numero. Le mante sono pesci cartilaginei, come le razze (alle quali si riferiscono le illustrazioni qui riprodotte) e gli squali. Ma invece di nuotare veloci come questi ultimi, debbono accontentarsi di battere lentamente l'acqua con le grandi pinne pettorali, con una tecnica paragonabile al volo degli uccelli. I più antichi pesci cartilaginei comparvero sul pianeta nel Giurassico, intorno a 175 milioni di anni fa. Ma alcuni tipi di ieraidi, considerati pesci «moderni», sono apparsi soltanto nel Cretacico, circa 140 milioni di anni fa. Si rifugiarono sul fondo sottomarino e, nel corso della loro storia evolutiva, si adattarono alla nuova situazione appiattendo il corpo e allargando le pinne pettorali, che si fusero con il capo e con parte dei fianchi. Le mante sono ancora più giovani. I loro fossili più antichi risalgono appena a una trentina di milioni di anni fa. Invece di trascorrere la maggior parte del tempo sul fondo, come fanno le razze, le mante optarono per la vita di superficie e poco alla volta svilupparono in maniera smisurata le pinne pettorali che dovevano sorreggerle nell'acqua. Nacque così quel magnifico animale che incede lentamente nel mare come un enorme uccello bianconero. Il nomignolo di «diavolo» è dovuto a un paio di vistose corna che sorgono proprio nella classica posizione cefalica. Ma si tratta di un «qui pro quo». In realtà le grandi pinne pettorali si interrompono a livello degli occhi, così che i loro lobi anteriori vengono a formare un paio di appendici cefaliche che ricordano con un po' di fantasia le corna dei mammiferi. Quelle corna che nelle specie maggiori possono raggiungere quasi un metro di lunghezza sono mobilissime e funzionano da braccia che portano il cibo alla bocca. E' un cibo molto semplice. Perché a somiglianza degli altri giganti del mare (balene, squali-balena, squali pellegrini) anche le mante si nutrono soltanto di minuscole creature planctoniche. Per un cibo di questo genere, i denti non sono necessari. E infatti la manta gigante ha perduto completamente quelli della mascella inferiore, mentre le altre mante hanno la bocca armata di denti piccolissimi su ambedue le mascelle. Ma sono denti che praticamente non servono. Ovviamente, per riempire il loro stomaco di plancton ce ne vuole parecchio. Ecco perché le due corna stabiliscono un flusso continuo di acqua ricca di plancton che penetra nella bocca, deposita il cibo in una sorta di filtro formato dalle appendici foliacee delle branchie e poi dalle branchie stesse fuoriesce. Chi si imbatte in una manta per la prima volta - succede soprattutto nei mari caldi - si spaventa terribilmente nel vedere quella grande bocca spalancata. Ed è facile capire perché sul conto di questi grandi pesci cartilaginei siano fiorite tante leggende. C'è chi li ha tirati in ballo come mostri marini e chi sostiene che possano strappare l'ancora alle navi per trascinarle alla deriva. In effetti, una manta può giocare involontariamente dei brutti scherzi a pescatori e subacquei. Può capitare, per fare un esempio, che un esemplare arpionato si tiri dietro la barca con i suoi arpionatori. E può anche succedere che un subacqueo intento a fotografare lo strano pesce corra qualche serio pericolo perché le sue bombole destano nella manta un eccessivo interesse. Questo non significa però che la manta sia un animale pericoloso per l'uomo, anche se la presenza di un aculeo velenifero alla base della coda potrebbe far pensare il contrario. Tra i miliobatoidei, a cui razze e mante appartengono, il veleno è una tradizione di famiglia. Basti pensare alla famigerata pastinaca, che possiede un aculeo velenoso lungo fino a 35 centimetri, ed è quindi pericolosissima per il bagnante che inavvertitamente la calpesti. Quel pugnale acuminato inietta un liquido fortemente tossico e provoca ferite dolorosissime. Niente di tutto questo per il «diavolo di mare» che nuota in mare aperto senza curarsi nè degli uomini nè dei grossi pesci che gli nuotano intorno. A lui bastano gli animaletti microscopici che fanno parte del plancton. Per cui bisogna riconoscerlo. Anche se assomiglia a un demonio con tanto di corna e di ali, tutto sommato, questo curioso cugino degli squali è veramente un buon diavolo. Isabella Lattes Coifmann


PER L'OMS Virus Ebola, finito l'allarme
Autore: P_B

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: LE GUENNO BERNARD
ORGANIZZAZIONI: OMS
LUOGHI: ITALIA

VIRUS Ebola: è finito l'allarme, ma non il rischio. Domani, 24 agosto, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) proclamerà ufficialmente la vittoria sull'epidemia che in maggio ha imperversato in Zaire uccidendo complessivamente 233 persone. Rimane però la possibilità che il virus si risvegli all'improvviso, perché nonostante tutte le ricerche fatte in questi mesi non si è ancora capito dove si rifugi nei lunghi periodi di latenza: certamente non nell'uomo, perché nel nostro organismo il periodo di incubazione è breve, da 6 a 10 giorni, dopo i quali l'infezione si manifesta con emorragie mortali nel 50 per cento dei casi. Forse il virus Ebola colonizza piccoli mammiferi, o qualche insetto, rimanendo per anni silenzioso, fino a quando non riesce a trasferirsi nella specie umana. Il pericolo, dunque, rimane. Ma di sicuro Ebola non è «peggio dell'Aids», nè la «peste del Duemila», come enfaticamente scrivevano in prima pagina i giornali qualche mese fa, pur continuando a rappresentare una sfida alla scienza. Il criterio che adotta l'Oms per dichiarare conclusa un'epidemia è pragmatico, e anche un po' semplicistico: cessa l'allarme quando non si registra più nessun caso di infezione per un tempo pari ad almeno quattro volte il periodo di incubazione del batterio o del virus in questione. Il 24 agosto si compie questo «tempo burocratico» dall'ultima manifestazione di Ebola, ed è quanto basta ai funzionari ginevrini dell'Organizzazione mondiale della Sanità per chiudere il caso. Ovviamente l'ultima epidemia ha stimolato la ricerca. Scienziati dell'Istituto Pasteur di Parigi guidati da Bernard Le Guenno hanno isolato una nuova varietà del virus Ebola che ha colpito una zoologa svizzera di 34 anni, reduce da studi sugli scimpanzè nel Tai National Park della Costa d'Avorio. Sono così salite a quattro le famiglie di Ebola note: le tre precedenti sono quelle dello Zaire, del Sudan e di Reston. E' un passo avanti verso l'identificazione del «parcheggio biologico» dal quale di tanto in tanto il terribile virus fa le sue sortite. Un progresso c'è stato anche nella cura. Le ultime sette vittime sono sopravvissute grazie a una terapia sperimentale basata su trasfusioni di sangue da pazienti sopravvissuti, e quindi dotati di anticorpi specifici per questo virus. La storia di Ebola è breve. L'infezione fa la sua prima comparsa nel 1967 in Germania a Marburgo (infatti viene inizialmente battezzato «virus di Marburgo»), nei laboratori della casa farmaceutica Berhing, dove si utilizzavano scimmie importate dall'Uganda per produrre vaccini. Queste scimmie risultarono portatrici di un virus dalla forma filamentosa: più esattamente un retrovirus, che ha Rna come materiale genetico (al pari dell'Aids). L'inserviente che aveva l'incarico di nutrire le scimmie fu contagiato e morì l'8 agosto 1967. Altre 31 persone contrassero l'infezione e 7 morirono a causa di febbri che inducono prima disturbi neurologici, poi vomito ed emorragie dello stomaco e dei visceri. Ebola fa una seconda fugace apparizione nel 1975 in Sud Africa. Poi si ripresenta molto più drammaticamente l'anno dopo colpendo 300 persone nel Sudan (151 morti) e 237 nello Zaire (211 morti). Da allora si sono avute varie mini-epidemie, con una mortalità crescente benché nel frattempo si fossero tentate cure sintomatiche (solo l'interferone sembrava dare qualche risultato). In mancanza di esami adeguati, anche la diagnosi precoce rimaneva impossibile, Ebola veniva regolarmente scoperto quando ormai era troppo tardi: il 1° gennaio 1980 muore un cittadino francese residente in Kenya; ancora in Kenya il virus uccide un bambino danese nel 1987; del 4 ottobre 1989 è la comparsa del virus nella città americana di Reston, in Virginia, in seguito all'importazione di un centinaio di scimmie di origine filippina da parte della Hazleton Research Products. Infine, nel maggio scorso, l'epidemia iniziata con la morte di 4 suore italiane nello Zaire. Si è fermata dopo aver ucciso 233 volte. [p. b.]


PROGETTO BIOITALY Abbiamo 2700 ambienti da difendere Verso una mappa ecologica finanziata dall'Unione europea
Autore: GRANDE CARLO

ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: AGRICOLA BRUNO
ORGANIZZAZIONI: UE UNIONE EUROPEA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Progetto «Bioitaly»

BOSCHI, stagni e rive dei fiumi, villaggi e borgate rurali, siepi e campi, dove trovano rifugio durante le loro migrazioni le specie protette. E' in arrivo una mappa dei tesori ecologici e ambientali d'Europa, che finalmente vede l'Italia come protagonista. La salvezza delle ultime isole di natura nel nostro Paese dipenderà molto dal progetto «Bioitaly», avviato dal Servizio conservazione natura del Ministero dell'ambiente (diretto da Bruno Agricola) e finanziato dall'Unione europea. La prima fase del lavoro, svolto con la collaborazione di Regioni e Province Autonome, della Società botanica italiana, l'Unione zoologica, la Società italiana di Ecologia e varie associazioni ambientaliste, si è appena conclusa. Ha prodotto un primo elenco di circa 2700 zone da difendere: l'isola di Salina, ad esempio (un ecosistema particolarmente vulnerabile) e vari biotopi liguri studiati dal consorzio Fisia-Teletron. Una delle prime realizzazioni del progetto «Bioitaly» (costo 8 miliardi, 4 dei quali finanziati dall'Unione europea), sarà la Carta della natura in Italia, che vedrà la luce tra pochi mesi e consentirà di stabilire le linee fondamentali di assetto del nostro territorio. Va da sè che anche l'Europa, entro il Duemila, potrà contare su un insieme di aree protette, denominata «Rete natura 2000». Il progetto consentirà di raccogliere una enorme massa di dati. Per ogni area, oltre all'estensione territoriale, sono state individuate le caratteristiche ecologiche più importanti. Importante la collaborazione con il ministero per le Risorse agricole (la sua Carta forestale confluirà nella Carta della natura) e quello dei Beni culturali. Le informazioni verranno riversate in una banca dati e una grande rete informatica, che già collega il Servizio Conservazione natura con ogni Regione e Provincia autonoma, consentirà a tutti gli utenti interessati di conoscere in tempo reale le caratteristiche dei siti della «Rete natura 2000». La seconda fase, che terminerà nel dicembre '96, oltre a completare il censimento predisporrà un check-up scientifico approfondito sulle condizioni di ogni ecosistema. Entro il giugno 2004 ogni Stato membro realizzerà le «Zone speciali di conservazione», segnalando gli interventi più urgenti per mantenerle o ripristinarle e i pericoli più immediati di distruzione. A quel punto la rete «Natura 2000» sarà una realtà per tutta l'Europa: la Commissione della Comunità europea, in un recente libro bianco sulle «vie per entrare nel XXI secolo», ha riconosciuto che al centro della sua politica dev'esserci il concetto di «sviluppo sostenibile», perché solo così si potrà porre rimedio agli «sconvolgimenti della vita sociale e familiare, della civiltà urbana e ai nuovi tipi di consumo». Carlo Grande


GUIDA ALLE OASI DEL WWF
Autore: C_GRA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, LIBRI
NOMI: FRANCESCATO GRAZIA, PRATESI FULCO
ORGANIZZAZIONI: GIORGIO MONDADORI EDITORE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Le oasi del Wwf»

SEI anni fa erano una trentina, oggi sono raddoppiate: le oasi del Wwf, angoli di bell'Italia strappati al degrado e alla speculazione, sono sparse in 18 regioni e coprono 25 mila ettari. Dal bosco di Alvisopoli, vicino a Venezia, alla costa di Siculiana, in provincia di Agrigento (l'elenco completo è nella guida Le oasi del Wwf, a cura di Canu e Indelli, ed. Giorgio Mondadori), sono anche «aule verdi» - scrive Grazia Francescato nell'introduzione - frequentate da oltre 300 mila visitatori l'anno. Senza contare la loro importanza come «laboratori» per le nuove professioni ecologiche, dall'agricoltura biologica al recupero dell'artigianato, dal ripristino ambientale al restauro dei centri storici, dall'agriturismo all'editoria verde. Il primo dei «gioielli di famiglia», spiega Fulco Pratesi, fu il Lago di Burano, sulla costa di Capalbio: l'area venne affittata nel '67 per 4 milioni l'anno, più lo stipendio a una guardia. I soci (800 in tutto) sborsarono mille lire a testa. Per gestire la natura, le difficoltà del Wwf (che per le Edizioni ambiente ha appena pubblicato anche una Guida ai parchi nazionali), non sono diminuite. Quest'anno nell'oasi di Orbetello non si è ripetuto il miracolo del '94, quando nacquero 25 fenicotteri, i primi a memoria d'uomo sulla penisola italiana. Ci vorrebbe un isolotto per i volatili, fondi del Comune e dell'UE permettendo.[c. gra.]


ABBRONZATURA Il Sole buono I benefici prevalgono sui rischi se ci si espone con un po' di misura
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: FINSEN NIELS
LUOGHI: ITALIA

IN una giornata estiva di molti anni fa il medico danese Niels R. Finsen notò un gatto che si crogiolava al sole e continuava a spostarsi verso la luce non appena l'ombra lo raggiungeva. In seguito a questa semplicissima osservazione Finsen si appassionò a un'idea che solo apparentemente è ovvia: tutti gli esseri viventi sono figli del sole, senza luce non c'è vita, e i nostri rapporti con il cosmo risultano nel modo più evidente dal fatto che la vita è collegata con la presenza del sole. Siccome in Danimarca il sole è piuttosto pallido, Finsen pensò di sostituirlo con una macchina. Così introdusse nella terapia la lampada ad arco per i bagni di luce, poi chiamata finsenterapia. In questo modo Finsen iniziò la lotta ad alcune malattie per mezzo della luce, aprendo la strada a nuove ricerche per la scienza medica, ed ebbe il Nobel per la medicina con questa motivazione: «In riconoscimento del contributo alla cura delle malattie attraverso radiazioni luminose concentrate». La luce interferisce in vari modi nelle funzioni vitali. Una delle azioni più note è sulla cute, ma non si tratta solamente di un fenomeno locale. La cute beve la luce e ne trasforma l'energia chimica e fisica in modo utile per tutto l'organismo. L'assorbimento della luce da parte della pelle produce fenomeni capaci di influenzare tutto il corpo attraverso riflessi nervosi e ormonici e reazioni biochimiche. Nel sangue aumentano i globuli rossi, e per questo la luce è salutare per gli anemici. I polmoni si espandono più ampiamente e rapidamente, fornendo più ossigeno. Ferite, piaghe, ustioni si riparano con celerità in quanto la luce è un eccellente alleato delle difese naturali. Ci sono dunque molte spiegazioni scientifiche del nostro desiderio istintivo di esporre il corpo al sole. Ma come sempre, la saggezza sta nel mezzo: la prudenza è necessaria. Le conseguenze dannose di un'esposizione irragionevole al sole sono numerose, dalle ustioni ai tumori della pelle, e se ne è parlato più volte anche in questa sede, ultimamente a proposito del melanoma. Gli effetti benefici sono però sicuramente superiori agli aspetti negativi. Il sole è un amico anche se, di solito per colpa nostra, non sempre ci vuole bene. Il vantaggio più noto dell'esposizione della pelle ai raggi solari è la produzione di vitamina D, essenziale per l'assorbimento e il metabolismo del calcio. Le radiazioni ultraviolette determinano nella pelle la sintesi d'una forma di vitamina D, la D 3, mediante conversione del 7-deidrocolesterolo. L'esposizione al sole offre molti altri benefici, alcuni conosciutissimi e altri senza dubbio ancora da scoprire. Stare al sole è comune a parecchie specie di animali, come aveva osservato Finsen. L'effetto essiccante del sole sulla pelle previene le infezioni da batteri e miceti. Studi effettuati nei Paesi nordici hanno dimostrato che chi lavora in ambienti chiusi, o vive in regioni illuminate da un sole eccessivamente pallido, migliora fisicamente quando gli vengono date moderate dosi supplementari di radiazioni ultraviolette. D'altronde la pelle si difende dalle radiazioni, nocive se troppo abbondanti, per mezzo di pigmenti varianti fra il marrone e il nero, le melanine (ve ne sono due famiglie) sintetizzate da cellule speciali, i melanociti. Le melanine sono prodotte da una serie di ossidazioni dell'aminoacido tirosina con l'aiuto d'un enzima, la tirosinasi. Legate a molecole proteiche, le melanine sono aggregate in granuli del diametro da 0,1 a 2 micron. I melanociti iniettano questi granuli nelle cellule dell'epidermide che producono la cheratina, una proteina dura e resistente. Anche nella pelle non abbronzata le melanine proteggono il Dna delle cellule dell'epidermide concentrandosi in una placca che, come uno scudo, difende il nucleo cellulare dalle radiazioni ultraviolette. Altri pigmenti naturali sono i carotenoidi, presenti nell'epidermide e soprattutto nell'ipoderma. I pigmenti non sono la sola difesa contro le ustioni da sole, persino i neri possono avere una scottatura e, al contrario, una pelle albina può mostrare una certa tolleranza ai raggi ultravioletti, sebbene non possegga pigmenti. E' evidente dunque che esistono altre protezioni; una è lo strato corneo sulla superficie della pelle, un'altra può essere data dall'acido urocanico, che è presente nell'epidermide e assorbe molto efficacemente i raggi ultravioletti. Ulrico di Aichelburg


MEGA-RICERCA Colesterolo condanna senza appello
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: THE LANCET, SCANDINAVIAN SIMVASTATIN SURVIVAL STUDY
LUOGHI: ITALIA

PER decenni si sono succeduti studi clinici e sperimentali volti a valutare se un trattamento che riduca il colesterolo nel sangue sia anche in grado di ridurre il rischio di danni cardiovascolari. Sebbene la grande maggioranza dei dati (valutati anche con il metodo delle meta-analisi) sembri convalidare in modo netto una tale ipotesi, i risultati discordanti di alcune ricerche e l'osservazione che l'infarto del miocardio può colpire anche chi ha tassi di colesterolo del tutto normali (per l'intervento di altri fattori di rischio) hanno fatto sì che l'interpretazione dei risultati sia sempre stata oggetto di controversie. Il tema del contendere era essenzialmente se fosse lecito suggerire uno stile di vita rigido e, eventualmente, un trattamento con farmaci praticamente continuativo per abbassare il colesterolo, in assenza di prove assolutamente convincenti e incontrovertibili che da ciò derivi un aumento della sopravvivenza. Date queste premesse, è comprensibile il grande interesse suscitato dalla recente pubblicazione su «The Lancet» dei risultati dello «Scandinavian Simvastatin Survival Study» o «4S», una ricerca di grandi proporzioni alla quale hanno partecipato 94 centri clinici della Scandinavia, che ha avuto come obiettivo primario la valutazione degli effetti sulla mortalità e la morbilità di un trattamento prolungato con un farmaco ipocolesterolemizzante, la simvastatina, su pazienti già affetti da alterazioni coronariche o che avevano già subito infarti del miocardio. La ricerca, che è stata condotta in doppio cieco contro placebo (metà dei pazienti è stata trattata con il farmaco attivo e metà con una sostanza del tutto inerte, con l'assegnazione del tutto casuale ai due gruppi), ha interessato 4444 pazienti di entrambi i sessi (con netta prevalenza maschile), tra i 35 e i 69 anni, con una colesterolemia totale tra i 212 e i 309 mg/dl, già in trattamento dietetico ipolipidico. Di queste 4444 persone, 2223 sono state trattate con placebo e 2221 con simvastatina, al dosaggio di 20 o 40 mg al giorno, fino al raggiungimento di una colesterolemia al di sotto dei 200 mg/dl. I pazienti sono stati seguiti mediamente per 4/5 anni, fin quando, come era stato programmato all'inizio dello studio, non si fossero verificate almeno 440 morti. L'analisi dei risultati ha dimostrato che nel gruppo trattato con placebo vi è stato un totale di 256 decessi (il 12 per cento) contro i 182 (l'8 per cento) del gruppo trattato con simvastatina; i morti per cause coronariche sono stati 189 nel gruppo trattato con placebo contro i 111 del gruppo trattato con simvastatina, con una riduzione del rischio del 42 per cento; si sono verificati 622 eventi coronarici maggiori (infarti non letali, rianimazioni dopo arresto cardiaco) nel gruppo trattato con placebo (28 per cento) contro i 431 (19 per cento) del gruppo trattato con simvastatina. I pazienti morti per cause non cardio-vascolari sono stati 49 nel gruppo trattato con placebo e 46 nel gruppo trattato con simvastatina, a ulteriore dimostrazione che l'effetto favorevole era specificatamente indirizzato e che la riduzione della colesterolemia non comporta un rischio aggiuntivo di mortalità per altre cause. Il trattamento con simvastatina ha prodotto in media una riduzione del colesterolo totale del 25 per cento, una riduzione del colesterolo-Ldl (quello aterogeno) del 35 per cento e un aumento del colesterolo-Hdl (quello protettivo) dell'8 per cento. La differenza dei risultati riscontrati fra i due gruppi è statisticamente significativa e dimostra in modo convincente che un trattamento ipo-colesterolemizzante a lungo termine è efficace nel migliorare la sopravvivenza dei pazienti con malattia coronarica, riducendo la necessità di ricorrere ad interventi di bypass o di angioplastica. Si dovrebbe quindi ridestare l'attenzione verso il «problema colesterolo» in modo da prevenire le alterazioni arteriosclerotiche invece di contrastarle quando siano pericolosamente manifeste. Antonio Tripodina


BILANCIO POSITIVO Cerotti sulla menopausa Il punto sulle terapie ormonali
Autore: CAMPAGNOLI CARLO, SISMONDI PIERO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

E' di recente apparso sul New England Journal of Medicine a firma di Colditz l'aggiornamento di un ampio studio statunitense riguardante le terapie ormonali per la menopausa e il rischio di tumore del seno. Questo lavoro merita la massima attenzione e giustamente ha fatto notizia, anche se è stato commentato in modo inevitabilmente sommario e non sempre preciso. Innanzitutto sono da ricordare due peculiarità delle terapie ormonali «made in Usa». La dose di estrogeni più frequentemente impiegata è stata per anni doppia rispetto a quella ritenuta oggi ottimale (che, appunto, gli americani definiscono «bassa»): la dose elevata era utilizzata da circa due donne su tre negli Anni 70, e da oltre una donna su tre ancora negli Anni 80. Inoltre sono stati usati i soli estrogeni senza l'aggiunta del progestinico, causando l'aumento di tumore dell'endometrio rilevato a metà degli Anni 70. Successivamente, anche negli Usa, si è dimostrato come l'aggiunta del progestinico elimini l'aumento del rischio per l'endometrio. E veniamo allo studio di Colditz. Riguardo al tumore del seno se ne ricava: 1. Nessun aumento del rischio per trattamenti di durata inferiore ai 5 anni; 2. Un moderato, ma significativo aumento del rischio per le donne con trattamento in atto da più di 5 anni; 3. Nessuna sostanziale variazione del rischio per l'aggiunta del progestinico; 4. Nessun aumento del rischio a partire da 2 anni dalla fine del trattamento, anche se effettuato per più di 10 anni. Lo studio si è esteso dagli Anni 70 sino al 1992. E' certo che un'ampia parte della casistica faceva uso di dosi troppo elevate di estrogeni. La dose «bassa», quando usata senza progestinico, ha causato un rischio di tumore endometriale sicuramente minore. Inoltre due recenti studi di meta-analisi, comprendenti anche casistiche dall'Europa dove da sempre la dose usata è quella «bassa», indicano che quest'ultima non è causa di rischio per il seno. Lo studio di Colditz era già stato pubblicato nel 1990; in quell'occasione l'autore aveva distinto le diverse dosi di estrogeni (sul cui impiego aveva informazioni a partire dal 1980) e non erano risultate differenze nel rischio per il seno. E' da considerare la possibilità di fattori di confusione, come il fatto che negli Usa la dose «bassa» venisse prescritta di preferenza alle donne già a rischio per motivi che possono essere sfuggiti alla pur accurata analisi statistica. Ma il fatto che nell'ultima pubblicazione, riferita a una casistica più che raddoppiata, non si faccia distinzione tra le dosi merita attenta considerazione. Quali sono i riflessi pratici per le donne italiane? Assoluta tranquillità per chi segua una terapia a medio termine (fino a 5 anni) o sia stata trattata in passato (ovviamente ciò non esime dai consueti controlli ai quali anche le «non trattate» debbono sottoporsi). D'altro canto, per alcune donne è necessario un trattamento di lunga durata: per menopausa precoce o per maggior rischio di fratture da osteoporosi (la terapia estrogenica è per ora l'unica sicuramente in grado di ridurre le fratture, sebbene la protezione svanisca nell'arco di qualche anno dalla sospensione). Le prime non si considerino più a rischio delle loro coetanee non ancora in menopausa. Per le seconde il suggerimento è di prendere tempo, frenando il peggioramento dell'osteoporosi tramite l'avvio o il proseguimento del trattamento ormonale: è presumibile che i residui dubbi sulla sicurezza della terapia di lunga durata saranno chiariti entro pochi anni. Carlo Campagnoli Piero Sismondi


ESPERIMENTO Nell'occhio una retina elettronica?
Autore: U_D_AICH

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: RIZZO JOSEPH
ORGANIZZAZIONI: HARVARD MEDICAL SCHOOL
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Retinal Implant Project

INSERIRE nella profondità dell'occhio una minuscola telecamera con il compito di registrare le immagini che la retina non è più in grado di percepire, e far sì che tali immagini siano poi trasmesse lungo le normali vie nervose ai centri visivi cerebrali, è la straordinaria impresa sperimentale (per ora soltanto tale: sottolineiamolo per non destare illusioni) compiuta da Joseph F. Rizzo e comunicata al recente decimo Congresso della Società europea di oftalmologia. Rizzo, giovane italo-americano, lavora alla Harvard medical school di Boston con altri ricercatori del famoso Mit (Massachusetts institute of technology), e chi si intende di queste cose sa che non c'è nulla di meglio al mondo di Harvard e del Mit per la biologia. Questa tecnica è uno dei segnali dell'avvenire al quale andiamo incontro, l'accoppiamento dell'«ingegneria» (non si parla forse già dell'ingegneria genetica?) alla medicina. Denominata Retinal implant pro ject, ha già dato risultati soddisfacenti per quanto riguarda le manovre chirurgiche e la biocompatibilità dello strumento introdotto nell'occhio. Il quale strumento sostituirebbe le difettose cellule retiniche fotosensibili, o fotorecettori, i coni ed i bastoncelli, e stimolerebbe le cellule gangliari, ossia le cellule nervose situate negli strati più profondi della retina, le cui fibre vanno a costituire il nervo ottico che conduce la stimolazione al cervello. Negli animali da esperimento si è constatato che in effetti ciò avviene. La Società europea di oftalmologia ha conferito a Rizzo un premio speciale a riconoscimento del suo pionieristico lavoro. L'importanza del Retinal im plant project sta nel fatto che si tratta di un tentativo di terapia di certe malattie degenerative della retina (la membrana luminosa come la chiamava Helmholtz) per le quali vi sono limitate o talora nulle possibilità di cura. Pensiamo in particolare alla degenerazione senile di natura arteriosclerotica, e ad altre degenerazioni insorgenti spesso senza cause apparenti. L'impianto retinico, sostituentesi in un certo senso alle cellule, insomma la retina artificiale se così vogliamo chiamarla, potrebbe risolvere questi problemi. [u. d. aich.]


INGEGNERIA GENETICA Nel sangue di coccodrillo il futuro delle trasfusioni
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: GENETICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: NATURE
LUOGHI: ITALIA

LE trasfusioni di sangue sono un grande problema medico e sociale. In medicina l'impiego delle trasfusioni si è dilatato anche per il bisogno di grandi quantità di sangue umano negli interventi di trapianto d'organo. Senza parlare del bisogno di derivati del sangue indispensabili per garantire la sopravvivenza di individui affetti da gravi malattie come l'emofilia. Siamo quindi costretti a importare sangue e a controllarlo in modo accurato e dispensioso, a evitare che capitino guai, peraltro sempre in agguato. Ci manca il sangue per carenza di donatori e quando la stampa riporta scandali o incidenti da trasfusione, invece di accusare la nostra scarsa generosità, ci piangiamo su lacrime di coccodrillo. Invece, è molto probabile che avremo bisogno in futuro, non di lacrime, ma di sangue di coccodrillo. Non sto scherzando. Sto semplicemente guardando al futuro di una recente scoperta che è stata riportata qualche tempo fa da Nature e che ora gode di seria considerazione. Il coccodrillo è un grande cacciatore subacqueo e riesce a stare immerso per lungo tempo senza respirare e a tendere così pazienti agguati alle sue prede. La ragione di questa resistenza in immersione è stata identificata in una curiosa proprietà della sua emoglobina, la proteina dei globuli rossi, che, in tutti i vertebrati, trasporta ossigeno ai tessuti. Normalmente, nel processo respiratorio, l'anidride carbonica si discioglie nel sangue come ione bicarbonato per venire emessa a livello dei polmoni; nel coccodrillo questo non capita, ché l'emoglobina di coccodrillo è in grado di legare direttamente l'anidride carbonica che viene prodotta dal processo respiratorio. Ciò provoca un enorme aumento dell'efficienza di scambio dell'ossigeno. In altre parole l'emoglobina umana trattiene molto ossigeno liberandolo nei tessuti solo in minima parte; invece, il coccodrillo utilizza fino in fondo l'ossigeno legato alla sua emoglobina. La ragione di questa maggiore efficienza sta nel fatto che l'emoglobina di coccodrillo lega gli ioni bicarbonato e questo inibisce la capacità di trattenere l'ossigeno. Questo viene così rilasciato fino all'ultima molecola. La causa molecolare di questo comportamento sta in un gruppo di aminoacidi in sequenza che sono in grado di legare ioni-bicarbonato presenti unicamente sull'emoglobina di coccodrillo. Questa breve sequenza è codificata nel Dna del coccodrillo, a indicare che bastano piccoli cambiamenti nei geni per ottenere effetti di adattamento all'ambiente. L'evoluzione si basa proprio su queste caratteristiche genetiche. Veniamo all'aspetto biotecnologico. E' chiaro che far esprimere nei globuli rossi di un mammifero un po' di emoglobina di coccodrillo può aumentare enormemente la capacità di rilasciare ossigeno e ridurre la necessità di transfondere grandi quantità di globuli rossi per sostituire il sangue perduto. Bastano piccole quantità di globuli rossi simili a quelli del coccodrillo a sostituirne milioni di normali. Questo è esattamente quello che è stato fatto sperimentalmente con successo, infilare cioè il gene dell'emoglobina di coccodrillo nei globuli rossi di mammifero per migliorare l'efficienza degli scambi di ossigeno. Sono disposto a giurare che questa applicazione di biotecnologia sofisticata arriverà presto a far parte del bagaglio dei medici. Piccole trasfusioni di sangue costruito in laboratorio ridurranno la necessità di grandi quantità di sangue di donatori e quindi diminuirà sia la necessità di reperirne di nuovi sia il rischio di controlli affrettati. Non mi stanco di ripetere che l'Italia investe troppo poco in ricerca. Questo tipo di applicazione tecnologica, figlio della ricerca di base, avviene solo se la necessità di attirare giovani brillanti nei laboratori e investire denaro nelle loro idee diventerà parte del bagaglio culturale del nostro Paese. Pier Carlo Marchisio Dibit San Raffaele, Milano




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