TUTTOSCIENZE 5 luglio 95


DIAGNOSTICA Un test al Dna stana l'Helicobacter Pylori
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA, BIOLOGIA
NOMI: STANGALINI DAVIDE
ORGANIZZAZIONI: FLEMING RESEARCH
LUOGHI: ITALIA

SEMPLICI analisi di laboratorio con la nuova tecnica di biologia molecolare Pcr (polymerase chain reaction) possono diagnosticare l'infezione dell'Helicobacter Pylori, che colonizza il cavo orale e la mucosa gastrica provocando l'ulcera duodenale. In pratica, si ricerca il Dna del batterio, il materiale genetico che lo identifica con certezza assoluta. Questa tecnica si usa già con successo per la ricerca nel sangue dell'epatite B e C, del Cytomegalovirus, dei virus erpetici, del virus della mononucleosi e del virus dell'Aids (Hiv). «Anche nel caso dell'Helicobacter - dice il biologo molecolare Davide Stangalini della Fleming Research - abbiamo sintetizzato i reagenti necessari per identificare il Dna del microrganismo e così è stato possibile riscontrare il Dna, oltre che nelle normali biopsie, anche nella saliva e nel sangue». La presenza nel sangue e nella saliva del Dna dell'Helicobacter pylori apre una serie di problemi clinico-epidemiologici che sono attualmente all'esame nell'Istituto San Paolo di Milano diretto dal professor Podda. Lo studio della casistica clinica costituita da pazienti affetti da gastropatie è ancora in corso: il lavoro, in equipe con la Fleming Research, consiste nel monitorare l'evoluzione delle positività del Dna, in corso di terapia antibiotica per sradicare l'infezione. E' noto da tempo che l'Helicobacter pylori è la causa delle gastriti ulcerose e anche del carcinoma gastrico, ma solo le nuove tecniche diagnostiche potranno permettere di identificarlo in anteprima, consentendo terapie preventive.Pia Bassi


ALIMENTAZIONE I gelati? Quasi una medicina Ecco quando possono far bene alla salute
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL gelato è un alimento che piace a quasi tutti gli italiani, ma ancor più agli americani e agli europei. Tra il 1919 e il 1924, divennero popolari tre tipi di gelato: 1) la Good Humor Bar, cioè il gelato da passeggio con la paletta di legno; 2) l'Eskimo Pie, il gelato ricoperto di cioccolata; 3) il Popsicle, cioè il ghiacciolo, che all'inizio era fatto di limonata. Il gelato, in generale, fa bene alla salute: del resto l'organismo trae beneficio da tutti i nutrienti che ogni alimento apporta, purché siano in equilibrio tra di loro e con gli altri cibi che mangiamo nella giornata. Per esempio, nel suo piccolo, il gelato è utile per prevenire e combattere l'osteoporosi, perché è ricco di calcio e fosforo. E' utile per la stanchezza cronica, grazie ai carboidrati che contiene, e per il cuore, grazie alle proteine e ai minerali come potassio e sodio. In genere, è considerato un rinfrescante, mentre è un vero e proprio alimento. Il suo valore nutritivo dipende naturalmente dagli ingredienti impiegati, che sono, in genere, latte, crema di latte, uova, zucchero, cacao, caffè, frutta e additivi aromatizzanti, addensanti ed emulsionanti. I gelati a base di latte sono importanti perché apportano molto calcio, fosforo e proteine; quelli a base di frutta apportano invece molte vitamine. Si possono distinguere tre tipi di gelati: con crema di latte, con grassi vegetali e alla frutta. I primi due tipi contengono latte e si equivalgono come valore nutritivo e come gusto. La loro unica differenza sta nella composizione di acidi grassi polinsaturi (quelli degli olii di semi), dato che la crema di latte ne ha meno rispetto ai grassi vegetali. Un etto di gelato fornisce dalle 100 alle 250 kilocalorie (ma quello alla frutta ne fornisce 165). Il gelato è pastoso grazie alla presenza di aria, indispensabile per ottenere quei cristalli di ghiaccio che lo fanno diventare soffice. I gelati industriali contengono più aria (40-50 per cento) di quelli artigianali (30 per cento), mentre nei gelati «espressi», ottenuti con una macchina particolare, la softcream, la quantità di aria, è di circa il 60 per cento. I gelati alla frutta si ottengono a partire da acqua, zucchero e polpa di frutta e hanno, rispetto a quelli al latte, meno calcio (100 milligrammi contro i 165 di questi per 100 grammi), meno proteine (2,5 grammi contro 4,2) e quindi anche meno calorie (165 kcal. contro le 220 kcal.). Dopo aver pranzato, è di grande importanza saper scegliere tra i vari tipi di gelato. Per esempio, dopo un pasto leggero, cioè povero di grassi e di calorie, va bene un gelato alla crema; invece, dopo un pasto ricco di nutrienti e di calorie, è sen'altro preferibile un gelato alla frutta. Grazie alla sua rapidità di assimilazione e al suo valore energetico, il gelato è un alimento ideale per i pasti intermedi, come gli spuntini di metà mattina e la merenda pomeridiana. E' anche un valido alimento per quei bambini che sono sempre inappetenti e fanno una grande fatica e nutrirsi bene. In questo caso, la scelta deve cadere sui gelati a base di latte o di uovo, scartando i ghiaccioli che per la loro composizione non forniscono quasi alcun apporto nutritivo. Giorgio Calabrese Università Cattolica, Piacenza


DEMENZA PRECOCE Clonato il gene dell'Alzheimer Hanno collaborato due gruppi italiani
Autore: PINESSI LORENZO

ARGOMENTI: GENETICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: ALZHEIMER ALOIS, HARDY JOHN
ORGANIZZAZIONI: NATIONAL INSTITUTES OF HEALTH DI BETHESDA
LUOGHI: ITALIA

L'ULTIMO numero di Nature ha pubblicato uno studio di grande rilievo sulla malattia di Alzheimer. Un gruppo di ricerca composto da studiosi canadesi, statunitensi, italiani e francesi, dopo anni di studio, è riuscito a isolare il gene responsabile della malattia ad esordio presenile. E' una importante svolta per lo studio dei meccanismi che causano la malattia e per le prospettive terapeutiche. Nel 1907 un neuropatologo tedesco, Alois Alzheimer, descrisse per primo il caso di una donna di mezza età che, nell'arco di alcuni anni, aveva sviluppato sintomi come gravi disturbi della memoria, alterazioni del comportamento, compromissione delle funzioni intellettive, morendo poi in uno stato di grave demenza. Agli inizi degli Anni 80 un gruppo di ricercatori dei National Institutes of Health di Bethesda (Usa) ha deciso di raggruppare sotto la denominazione di «malattia di Alzheimer» le forme di demenza di tipo degenerativo. Il 4 per cento della popolazione in età senile è affetta da tale patologia. In Italia vi sono 500 mila persone colpite da Alzheimer, 3.500.000 negli Usa. Il costo sociale per la diagnosi e il trattamento, soprattutto per il ricovero dei pazienti, è stimato negli Stati Uniti in più di 80 miliardi di dollari ogni anno. Con il costante aumento degli anziani i pazienti e i costi sociali connessi continueranno a salire. Per questo il Congresso Usa ha posto la ricerca sull'Alzheimer tra i temi primari della Decade of the Brain. Fino a pochi anni fa le cause dell'Alzheimer erano del tutto ignote. Nel 1984 si scoprì che le placche senili nel cervello, tipiche della malattia, sono costituite da aggregati di diverse proteine e che la principale è la beta- amiloide. Il gruppo di Glenner e Wong e quello di Colin Masters riuscirono a purificare la beta- amiloide e dimostrarono che era costituita da frammenti di 40-43 aminoacidi, derivanti da una proteina di membrana il cui gene è sul cromosoma 21. Con questa scoperta si spiegò perché tutti i pazienti con sindrome di Down, quindi con tre copie di cromosoma 21, se raggiungono i 40 anni sviluppano l'Alzheimer. Un passo nell'isolamento dei fattori genetici dell'Alzheimer è stata la dimostrazione, da parte del gruppo di John Hardy a Londra, dell'esistenza di mutazioni puntiformi nel gene per il precursore della beta-amiloide. Ma la causa della maggior parte dei casi di Alzheimer familiare rimaneva ancora ignota. Alla fine del 1992 diversi gruppi di ricerca segnalarono la presenza del gene Alzheimer sul cromosoma 14; il locus era in un segmento di Dna contenente a sua volta numerose sequenze geniche codificanti. E' nata, allora, un'appassionante gara scientifica per giungere all'isolamento del gene. La gara è stata vinta, come riporta Nature, da un gruppo misto, coordinato da Peter St. George-Hyslop. Ne fanno parte anche due gruppi italiani, il primo presso la Clinica neurologica dell'Università di Torino (Bergamini, Pinessi, Rainero, Vaula) e il secondo presso un istituto del Cnr di Lamezia Terme (Bruni, Montesi). La tecnica vincente per isolare il gene è stata quella di studiare un gruppo di famiglie con Alzheimer geneticamente omogenea. I ricercatori italiani hanno studiato a fondo 5 diversi pedigrees con Alzheimer tutti originari dalla Calabria. Il primo, denominato Nicastro family, è costituito da più di 11.000 persone geneticamente collegate. Il secondo pedigree, la «Torino family», comprende oggi circa 6500 persone. I pazienti di queste famiglie hanno ereditato il gene malato da un comune progenitore nato nel XV secolo. Studiando questi pazienti nella regione del cromosoma 14 coinvolta nella malattia è stato possibile isolare il gene dell'Alzheimer presenile, denominato S182. Questo gene codifica per una proteina sino ad oggi ignota che si trova nella membrana cellulare. Il gene è espresso in diversi tessuti ma principalmente nel cervello. In tutte le famiglie calabresi è stata trovata una comune mutazione puntiforme. In pedigrees di altra origine geografica sono state poi identificate altre mutazioni puntiformi. Una differente mutazione, sempre nello stesso gene, è stata in questi ultimi giorni evidenziata in un pedigree studiato dai ricercatori torinesi nella provincia di Novara. Si dovrà ora chiarire il ruolo della nuova proteina nei neuroni e valutare le possibili interazioni tra questa proteina e la beta- amiloide, in vista di una terapia. Lorenzo Pinessi Università di Torino


TERAPIE Il laser nelle vie urinarie
Autore: AMANDOLA GIAN PIERO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: MANTOVANI FRANCO
ORGANIZZAZIONI: CENTRO MEDICO AMBROSIANO
LUOGHI: ITALIA

IL laser forse non è il raggio magico che si pensava, ma almeno nelle patologie delle vie genito-urinarie sembra presentarsi come una specie di panacea o almeno come scudo totemico che salva dagli interventi chirurgici. Non c'è solo la recente e già segnalata tecnica per vaporizzare gli adenomi della prostata. Il laser, quello più diffuso, funzionante a raggi infrarossi, viene utilizzato anche contro le uretrocistiti non batteriche nelle donne e nelle prostatiti per gli uomini. In genere i fastidi dell'uretra e della vescica femminile vengono trattati con una vasta gamma di antisettici urinari, spesso anche se nelle urine non vengono riscontrati batteri. Il che rischia di ridurre le difese immunitarie locali e creare colonie di funghi, miceti. Un passo avanti è già quello di effettuare un'endoscopia vescicale che consente spesso di rilevare la cosiddetta leucoplasia cervico trigonale. Cioè le parti più funzionali della vescica si rivelano ricoperte da chiazze biancastre, rilevate granulari, sfrangiate. Sono delle croste cicatriziali di un'infiammazione subacuta o cronica che avrà avuto varie origini, ma adesso si perpetua in tali lesioni. Prima della scoperta di questo uso del laser si suggeriva di installare in loco nitrato d'argento o di effettuare la diatermocoagulazione, che però si dimostrano spesso inefficaci per l'alto numero di recidive. La nuova prospettiva terapeutica prevede infiltrazioni di estratti proteici sulla parte infiammata cui deve fare seguito l'applicazione del raggio laser, per mezzo di una sonda dal particolare design, studiato apposta per entrare a contatto con la sede di collo e trigono vescicale. Si usa un laser a cinque diodi, applicandolo per dieci minuti in un'unica seduta ambulatoriale. La sua efficacia è legata all'effetto antiflogistico e antiedemigeno del raggio. «Questo apparecchio - spiega Franco Mantovani del Centro Medico Ambrosiano - siamo stati i primi a usarlo, originariamente per il trattamento dei deficit erettili maschili dovuti a fibrosi dei corpi cavernosi del pene e adesso lo usiamo non solo per le leucoplasie uretrovescicali e infiammazioni delle ghiandole del setto uretrovaginale, ma anche per le prostatiti». Qui l'utilizzo della sonda laser è transrettale, dieci sedute di dieci minuti ciascuna. Il laser crea vasodilatazione arteriolare e capillare con miglioramento del flusso sanguigno locale e migliore utilizzazione dell'ossigeno da parte dei tessuti con regressioni degli edemi. Quindi la ghiandola prostatica si avvantaggia di un aumento del drenaggio linfatico, e riprende a funzionare. Con un miglioramento di tutti gli indici di funzionalità, dall'aumento del flusso urinario alla motilità degli spermatozoi. Gian Piero Amandola


MEDICINA ESTETICA Orecchie artificiali Le nuove colture di tessuti
Autore: PREDAZZI FRANCESCA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BIOLOGIA
NOMI: VACANTI JOSEPH, LANGER ROBERT, GOLDMAN STEVEN, MINUTH WILL
ORGANIZZAZIONI: HARVARD MEDICAL SCHOOL DI BOSTON
LUOGHI: ITALIA

LA prima orecchia umana fabbricata in provetta è un affarino poco più grande di un'unghia. Un'orecchietta completa in tutte le sue parti che è stata cucita sulla schiena di un topo da laboratorio. Un'orecchia sorda - bisogna aggiungere subito - e quindi con funzioni puramente estetiche, che però apre la strada ad un campo assolutamente nuovo della medicina: alcuni organi umani, infatti, si lasciano ricostruire a partire da cellule allevate in laboratorio. Siamo di fronte a una nuova era di trapianti, nella quale non sarà più necessario aspettare tutte le complicate procedure della donazione di organi, ma basterà commissionare la parte mancante a una ditta specializzata? Negli Stati Uniti e in Germania i pionieri degli organi in provetta sono alacremente al lavoro: lo ha rivelato poche settimane fa un'inchiesta del settimanale tedesco «Spiegel». «Ingegneria dei tessuti» è il nome della nuovissima disciplina che unisce medici, fisiologi e biologi nel tentativo di produrre dei veri e propri tessuti in grado di sostituire parti del corpo umano che si sono degenerate per malattia o incidente, a partire da una cultura di cellule. Nei bioreattori degli istituti scientifici stanno attualmente crescendo tutta una serie di componenti umane, dai lobi epatici ai seni femminili, dalle cornee per gli occhi, alla pelle per le vittime di ustioni, dalle cartilagini per le ginocchia fino alla piccola orecchia del medico americano Joseph Vacanti, chirurgo per l'infanzia alla Harvard Medical School di Boston. Vacanti, un pioniere nel campo della ricostruzione dei tessuti, ha formato un team con il chimico Robert Langer del Massachusetts Institute of Technology, ottenendo dei risultati rivoluzionari. A partire dalle tradizionali colture di cellule bidimensionali, i medici americani hanno pensato di costruire dei microscopici tralicci fatti di polimeri, dove le cellule si possono arrampicare con lo stesso principio delle piante rampicanti. Poco per volta le cellule della coltura riempiono gli spazi lasciati vuoti dallo scheletro di polimeri, fino a formare una massa di cellule compatta, che si lascia modellare piuttosto facilmente, come ha dimostrato l'esperimento con la piccola orecchia. Le strutture di polimeri si comportano come se conducessero le cellule al guinzaglio, inducendole ad assumere una determinata forma. La ricchezza di applicazioni che potrebbe derivare da colture di tessuti rigeneranti è immensa. E gli ingegneri dei tessuti stanno provando contemporaneamente su diversi fronti i loro esperimenti. Dalle cellule di pancreas in grado di produrre insulina per i diabetici, fino alla muscolatura liscia per le vittime di paralisi, come anche tentativi di ricostruire arterie, ureteri o laringi. Persino le cellule del cervello, sostiene il neurologo Steven Goldman della Corner University di New York, si possono riprodurre in laboratorio. Sono le cellule di una particolare zona del cervello, ha scoperto il medico americano, che riescono a raggiungere in provetta la piena maturità: un giorno potrebbero essere determinanti per le persone che soffrono di degenerazione cerebrale, come le vittime del morbo di Parkinson, del morbo di Alzheimer o di un ictus. L'ostacolo principale delle colture di tessuti è il problema del sistema immunitario. I tessuti trapiantati verranno accettati dal corpo del paziente? Per il momento i tessuti creati in laboratorio, anche se hanno l'aspetto dei tessuti originari, nella maggior parte dei casi non sono in grado di assumerne pienamente le funzioni. Il tessuto in provetta infatti non dispone di vasi sanguigni o di un sistema di assunzione e espulsione di sostanze esterne. Per ovviare a questo inconveniente il patologo tedesco Will Minuth, dell'Università di Regensburg, ha ideato dei contenitori di cellule dotati di finissimi tubicini che provvedono all'apporto di sostanze nutritive, ormoni e enzimi e portano via le scorie metaboliche. Un altro metodo è di incapsulare le cellule in un muro di polimeri che non permetta agli anticorpi del sistema immunitario di entrare. Con questo sistema dei ricercatori dell'Università di Minneapolis stanno costruento un fegato dotato di 13.500 tubicini. Anche l'industria privata ha colto sentore delle nuove possibilità di guadagno. Un esempio è la ditta californiana Advanced Tissu Sciences (ATS) che produce colture di pelle, e presto anche di cartilagini. Francesca Predazzi


VICINO AD ALBENGA E Internet salva l'ambiente Elettronica d'avanguardia in un borgo medievale
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, COMUNICAZIONI, ARCHITETTURA
NOMI: DE CARLO GIANCARLO
LUOGHI: ITALIA

COLLETTA di Castelbianco, minuscolo borgo medioevale affacciato sul mare di Albenga, Riviera ligure di Ponente, abbandonato dai suoi abitanti alla fine del secolo scorso, ha dormito un sonno di pietra per più di cent'anni. In questi mesi, come la Bella Addormentata, si risveglia e, di colpo, entra da protagonista nell'era della telematica. Una società immobiliare piemontese, la Sivim di Alessandria (con esperienza nella ristrutturazione di edifici antichi e in costruzioni di avanguardia), lo ha acquistato, l'architetto Giancarlo De Carlo (autore del recupero di preziosi complessi architettonici come la Cittadella universitaria di Urbino, l'Università di Pavia, il collegio dei Gesuiti di Alessandria, piazza Federico II di Iesi) ha firmato il piano dei lavori. Obiettivo: conservare integralmente le caratteristiche del borgo, rimasto miracolosamente integro (l'abbandono degli abitanti, emigrati in massa nella vicina Costa Azzurra, ha evitato le brutte innovazioni che hanno deturpato molti paesini della stessa zona), ricavarne unità abitative a misura d'uomo, e dotarle di infrastrutture che consentano ai futuri abitanti di comunicare con tutto il mondo in tempo reale, con la stessa facilità che se si trovassero a Milano, a Parigi o a New York. Insomma, «dalla pietra al bit», come diceva il titolo del convegno con il quale è stata annunciata l'inedita operazione. Il cervello telematico di Colletta di Castelbianco sarà costituito da una centrale telefonica privata collegata alla rete Isdn. Si tratta della rete numerica integrata dei servizi costituita dalle più importanti società di telecomunicazioni europee per la trasmissione di voce, dati, testi, immagini (telefono digitale, videotelefono, fax ad alta velocità, trasmissione di dati a pacchetto e altro). Essa è destinata ad affiancarsi alle reti telefoniche attuali; in Italia diventerà gradualmente disponibile nei capoluoghi di provincia mentre sono già stati attivati i collegamenti internazionali con quasi tutti i Paesi europei, con il Giappone, gli Usa, Singapore; a Colletta di Castelbianco, grazie all'interesse di Telecom per questa iniziativa pilota, sarà disponibile con grande anticipo rispetto agli altri piccoli centri. Alla centrale telefonica sarà affiancato un servizio di voice mail che fornirà servizi avanzati di segreteria telefonica. Accanto alla centrale telefonica sarà installato un terminale (server) collegato alla rete mondiale di Internet; in questo modo ogni abitante del borgo potrà raggiungere, da casa propria e con il suo personal, tutti i servizi della rete e inserirsi su tutte le «autostrade dell'informazione» di tutto il mondo. Per evitare di dover cablare tutte le abitazioni di Colletta con pesanti interventi sulle antiche strutture architettoniche in pietra, tutti i collegamenti tra centrale, server e personal computer degli abitanti vengono eseguiti utilizzando le onde radio: quindi niente fili e prese, ma piccole ricetrasmittenti inserite sui personal; questo sistema, oltretutto, consente all'utente di spostarsi liberamente nelle varie stanze dell'abitazione o nelle varie abitazioni del borgo senza bisogno di andare a cercare un punto di collegamento. L'obiettivo del progetto è quello di consentire a chi abiterà a Colletta di Castelbianco di restarsene nella quiete del vecchio paese, digradante verso la valle (quella del torrente Pennavaira, interamente coltivata a piccoli campi di salvia, rosmarino, basilico, timo) e di essere nello stesso tempo al centro del mondo del lavoro e dell'informazione, di avere a portata di computer la banca dati di Boston, l'archivio del grande giornale e il proprio ufficio a Milano o a Zurigo. Colletta di Castelbianco dovrà dunque essere, nelle intenzioni dei suoi ideatori, un crocevia del villaggio globale elettronico, un luogo specificamente attrezzato per il telelavoro. Chi potrebbe essere, quindi, l'abitante-tipo del borgo? Una persona che aspira a una vita più autentica di quella consentita dai ritmi frenetici imposti dai grandi centri urbani, che sente ad un certo momento della vita il bisogno di una riflessione e di un rapporto più stretto con l'ambiente naturale, che avverte la necessità di appartarsi per un periodo più o meno lungo restando contemporaneamente impegnato nelle proprie attività professionali grazie ai mezzi (in continua crescita) della telematica. Per i promotori dell'iniziativa una grossa sfida (anche finanziaria); più in generale un esperimento di notevole interesse tecnologico e sociologico. Vittorio Ravizza


UCCELLI «TECNOLOGI» I tacchini con l'incubatrice Una specie cova le uova in sostanze fermentate
Autore: BENEDETTI GIUSTO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA cova, cioè l'incubazione delle uova mediante il calore corporeo, è un momento critico per la maggior parte degli uccelli. E' difatti un periodo in cui la femmina (o il maschio, nelle specie in cui è lui a covare le uova) si trovano particolarmente esposti alle insidie dei predatori, dal momento che sono costretti all'immobilità forzata e, se minacciati, devono scegliere fra l'incolumità personale e la continuazione della specie. Due pulsioni istintive ugualmente «forti», e conflittuali: salvare la pelle, (con relative penne) o salvare la progenie? La selezione naturale ha premiato le soluzioni di compromesso: ha favorito le specie che covano in luoghi difficilmente accessibili come le chiome degli alberi o le scogliere; quelle in cui la femmina ha una colorazione dimessa e mimetica (tipica di tutti gli uccelli che covano sul terreno); quelle che realizzano nidi chiusi e pressoché impenetrabili (gli Uccelli tessitori o i Pendolini). Esistono però anche altre soluzioni, come quella adottata dai cuculi, che fanno covare ad altri le loro uova o come quella, senz'altro più originale, adottata dai Megapodidi: si tratta di uccelli che vivono in Australia, in Nuova Guinea e in alcuni isolotti dell'Oceania. L'aspetto non è molto dissimile da quello di un pollo, le dimensioni sono abbastanza varie (piccole le specie insulari, grandi quanto un tacchino quelle dell'Australia e della Nuova Guinea), la colorazione del piumaggio non è particolarmente vistosa: non ci sarebbe motivo per dedicare a questi animali particolare attenzione, se non fosse per il loro straordinario modo di incubare le uova. In realtà, pur nell'ambito di una medesima strategia, i nodi sono molteplici: alcune specie depongono le uova in semplici buche scavate in riva al mare e affidano la loro incubazione al calore solare, altre le depongono nei pressi delle sorgenti termali, altre ancora vicino alle colate laviche. Il Tacchino di boscaglia australiano (Alectura lathami) costruisce invece enormi cumuli di terriccio e di foglie: il termine «enormi» è decisamente appropriato, dal momento che i cumuli possono avere un diametro di 12 metri e un'altezza di 5. La femmina depone le uova al loro interno e poi si disinteressa della covata: il calore prodotto dalla fermentazione delle foglie provvederà all'incubazione. Il controllo dell'«incubatrice» è compito del maschio: a intervalli regolari, esso scava dei fori nel cumulo e ci infila la testa. Si pensa che nel becco abbiano sede recettori termici, che gli consentono di controllare se la temperatura è quella giusta. In caso contrario, toglie un po' di materiale o ne aggiunge di nuovo. Il tutto per la durata di 7/12 settimane, in capo alle quali nascono i pulcini. Molto più complicata è la vita del Fagiano australiano (Lei poa ocellata): vive difatti in zone semidesertiche, dove la vegetazione è molto scarsa e dove quel po' che riesce ad accumulare viene spazzato via dal vento o mangiato dalle termiti. Lui però non si perde d'animo: scava una grossa buca nel terreno (un metro di profondità per due di larghezza) e la riempie di detriti vegetali. L'operazione avviene durante l'inverno, quando le piogge sono più probabili: non appena la prima pioggia ha inzuppato i detriti, il fagiano li copre con la sabbia, fino a costruire un monticello alto poco più di un metro e largo 5. Nel monticello, i detriti cominciano a fermentare e a sviluppare calore: dopo 3-4 mesi, la temperatura raggiunge il giusto livello (34-36 °C) e la femmina depone le uova in una cavità scavata al centro della montagnola. Ma i veri problemi cominciano adesso: la durata dello sviluppo embrionale è difatti di 7- 8 mesi, il che significa che le uova devono essere mantenute a temperatura costante per tutta la primavera, tutta l'estate e buona parte dell'autunno. E la cosa non è facile in un ambiente desertico, dove l'escursione termica è notevole. Per tutto il periodo dell'incubazione, il maschio deve continuamente fare fori nel cumulo per disperdere il calore, aggiungere sabbia, togliere sabbia, sostituire la sabbia troppo calda con sabbia pià fresca o viceversa. Insomma, un lavoraccio. Certo gli sforzi del Fagiano australiano sono premiati quando, alla fine dell'autunno, i piccoli escono dalle uova. Ma, ahilui, la nascita dei piccoli significa che è quasi ora di ricominciare daccapo. Giusto Benedetti


CHIROTTERI GIGANTI Adottate un pipistrello! Succede in Australia, ecco come si fa
Autore: GABETTI FELICITA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

COME allattare il vostro pipistrello: è il titolo di un opuscolo esposto alla «Bat House», un centro di ricerca nel cuore della foresta pluviale del Nord Queensland australiano. L'opuscolo spesso è macchiato dal «ricordino» di Suky, che pende capovolta sopra la vostra testa. Suky è una volpe volante (Pteropus conspicillatus), specie ristretta alla fascia costiera del Nord Queens land (che ospita altre due specie del genere Pteropus: P. alecto, P. scapulatus). Le volpi volanti sono megachirotteri, mammiferi alati con apertura alare fino a 106 centimetri. Coperti da folta pelliccia, sono forniti di un patagio che unisce quattro lunghe dita degli arti anteriori, da cui sporge un primo corto dito a uncino usato per gli spostamenti arborei quadrupedi, e di un uropatagio ridotto lungo gli arti posteriori muniti di robuste unghie con cui si tengono appesi ai rami. Sono soprattutto frugivori con bocca chiusa lateralmente e lingua a papille centrali cornee atta a raspare i frutti. Vivono sugli alberi in campi permanenti il cui perimetro è difeso da maschi adulti contro i predatori: pitoni e aquile. Hanno un complesso sistema sociale usando più di venti diversi richiami per comunicare. Diffusi nella fascia tropicale afro-asiatico-australiana, c'è chi li arrostisce come in Madagascar e chi li avvolge in pannolini come in Australia, dove studi approfonditi sul comportamento giovanile in natura dello P. conspicillatus sono alla base di un «programma di adozioni», nato per compensare le stragi continue dei megachirotteri, spiegato nell'opuscolo. E' una vera lista di allevamento comparato che illustra le tappe di crescita in natura, e propone alle «madri adottive» altrettante tappe, settimana per settimana, di alimentazione e alloggiamento, vere cure parentali in rapporto all'età dei cuccioli orfani fino alla loro indipendenza e al rilascio in natura. L'età dei cuccioli si può valutare in base alla lunghezza degli arti rapportata a una tabella che stabilisce anche le dosi del cibo, cioè latte artificiale a formula appropriata, da fornire. Nasce un solo piccolo, peloso con occhi aperti. Per le prime 4 settimane non può regolare la sua temperatura corporea, resta attaccato alla madre assorbendone il calore; a testa in giù avvolto dalle sue ali nel dormitorio, e tramite 4 piccole zanne ricurve che si bloccano attorno al capezzolo quando è in volo. «Per le prime 4 settimane dovrà essere avvolto in panni che lo terranno caldo e fermo, e posto a testa più bassa delle zampe in un cesto con stracci di lana e nutrito con il latte-formula da una bottiglietta di non più di 100 ml munita di una tettarella, che terrà sempre azzannata poppando e dormendo». Verso le 6-8 settimane perde le zannette e la notte la madre lo lascia appeso al ramo-asilo, di giorno lo allatta e il piccolo comincia a sbattere le ali. «Così necessiterà di una rete sopra il cesto su cui aggrapparsi ed esercitare i muscoli alari». A 10-12 settimane si appende da solo e fa piccoli voli all'interno dell'albero-dormitorio, s'allatta e sorbisce il succo di frutti masticati dalla madre. «Al latte- formula si dovranno aggiungere pezzetti di frutta e si dovrà preparare un ambiente spazioso ma chiuso per il suo primo volo». Ormai dalle 14-16 settimane il cucciolo vola all'interno del campo-dormitorio, e fuori con la colonia in cerca di frutta, s'allatta occasionalmente. Verso la 24^ settimana, isolatosi in un'area della colonia (pesa 450 grammi), è indipendente dalla madre. «E' questo il momento in cui verrà posto con altri giovani, nella gabbia di liberazione, dove c'è frutta a volontà e lo sportello aperto. Così a 30 settimane le madri adottive saluteranno i giovani che sono andati via per formare una nuova colonia». Il momento più difficile è quando il cucciolo comincia a volare. I tappeti saranno i più bersagliati dai bombardamenti di scoloranti (urina, feci), i ventilatori dovranno essere spenti, il conto del veterinario potrebbe essere molto salato. I soprammobili tremeranno al motocross notturno. Ma soprattutto gli adorati cuccioli di notte si trasformeranno in veri «vampiri» assetati di profumo, shampoo, detersivi e lozioni che curiosissimi succhiano e leccano con conseguenze disastrose. Malgrado ciò alcune mamme adottive australiane si affezionano al punto da compromettere la vita in natura di questi mammiferi che di giorno s'appendono in un mondo alla rovescia, drizzandosi parzialmente per un momento di imbarazzante intimità. Di sera le volpi volanti lasciano i campi-dormitorio diurni, non come i trucidi esseri assetati di sangue delle paure ataviche, ma come veri pronubi di molte specie vegetali che aprono di notte i calici di colore chiaro offrendo il nettare come compenso al trasporto del loro polline sul palo. Impollinazione che garantisce la fecondazione di alberi rari in appezzamenti di rainforest isolati, infatti essi in una notte percorrono anche 50 chilometri. Si stima che il 70 per cento della frutta dei mercati del Sud- Est asiatico sia Bat-impollinazione dipendente. Non solo «api giganti» ma «bombardieri ecologici» diffondono i semi dei frutti che mangiano, defecandoli in volo su zone disboscate. Sono considerati veri «archi di volta» per la sopravvivenza e la diversità biologica delle foreste pluviali. Perseguitate e uccise dagli agricoltori come saccheggiatrici di raccolti, si è sperimentato che le volpi volanti scelgono sempre i frutti selvatici, quelli coltivati sono solo un ripiego alla rainforest che si sta riducendo disboscata per la coltivazione. Ma per le volpi volanti del Queensland c'è una speranza. Per quanti alberi-dormitorio siano abbattuti, per quante reti o pallottole uccidano le volpi volanti, ci sono altrettante coraggiose donne del Queens land pronte a prendere gli orfani nelle loro ali (si fa per dire) e restituirli alla foresta pluviale. Felicita Gabetti


I CARTONI ANIMATI DI EMMER Cinema e matematica, la strana coppia Spesso formule e figure geometriche sono protagoniste di film di successo
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: MATEMATICA, TECNOLOGIA, OTTICA E FOTOGRAFIA, CINEMA, FILM
NOMI: EMMER MICHELE, GREENWAY PETER, BILL MAX, ABBOTT EDWIN, BANCHOFF THOMAS, STRAUSS CHARLES
ORGANIZZAZIONI: RAI, FILM 7, WALT DISNEY
LUOGHI: ITALIA

CHE cosa hanno in comune Queneau, Paperino e Greenaway? Nulla, se non una certa passione per i numeri. Nel 1954, Raymond Queneau, l'eclettico autore di «Esercizi di stile», ha girato un film di 12 minuti su una surreale lezione di matematica. Qualche anno dopo Paperino è alle prese con numeri e magia in «Donald Duck in Mathmagic Land», uno degli ultimi cortometraggi di Walt Diseny. E infine, il regista Peter Greenaway ha disseminato cifre e formule matematiche in tutti i suoi film, dagli esordi di «1-100» al più noto «Drowning by Numbers» (Giochi nell'acqua). Questi tre esempi indicano che la via per la divulgazione della matematica al cinema passa necessariamente attraverso l'arte. Matematici e artisti sono da sempre impegnati sullo stesso fronte: rendere visibile l'invisibile. Lo dimostrano i 18 film di Michele Emmer dedicati ad arte e matematica, prodotti qualche anno fa dalla Rai e distribuiti in Italia dalla «Film 7» di Roma. Professore all'Istituto universitario di Architettura a Venezia e presidente dell'Associazione di Cinematografia Scientifica, Emmer ha percorso strade parallele che si incrociano, come in una geometria non euclidea del pensiero, dalla musica all'architettura, dalla biologia al fumetto, dalla moda all'arte. Senza perdere di vista la matematica, che resta il filo conduttore di tutti i film della serie. Così «Le bolle di sapone» diventa una scusa per spiegare i teoremi sulle superfici minime, mentre «Simmetria e tassellazione», oltre alla struttura del Dna, mostra i mosaici arabi dell'Alhambra di Granada. In questi film non ci sono barriere tra le due culture. «Il nastro di Moebius» esplora le proprietà della particolare superficie, il suo uso nell'industria, fino alle sculture di Max Bill. «Calcolatori» passa disinvoltamente dalla geometria differenziale ai computer che disegnano le maglie di Missoni, mentre «Figure geometriche» parte dei quadri di Kandiskij per finire con lo studio dei gruppi cristallografici. Tutti questi percorsi sembrano intrecciarsi nel film dedicato a Escher (un successo anche in America: seimila copie in sei mesi), il grafico olandese ideatore di mondi impossibili tanto amato dagli scienziati. Tra gli argomenti dei film di Emmer non poteva mancare un sempreverde della letteratura matematica come «Flatlandia» (edito in Italia da Adelphi). Il famoso romanzo del reverendo Edwin A. Abbott, contemporaneo di Lewis Carroll, racconta di un mondo piatto abitato da esseri a due dimensioni come quadrati, triangoli ed esagoni, immerso in una nebbia densissima, davvero londinese. La versione cinematografica di Emmer, con il quadrato che sogna un mondo tridimensionale, è uno dei primi esempi di compu ter animation applicati alla matematica. E qui sta la nuova frontiera della ricerca. Qualche anno prima, nel 1978, gli americani Thomas Banchoff e Charles Strauss avevano usato la computer gra phics per scoprire alcune proprietà geometriche delle superfici. Ne uscì un film, «Hyperube», che ha per protagonista l'ipercubo, uno dei solidi dello spazio a 4 dimensioni. Oltre che un classico della ricerca matematica, «Hypercube» è anche un precursore della moderna computer animation. Tanto che alcuni assistenti di Banchoff sono poi andati a lavorare alla Lucas Film per ideare gli effetti speciali di «Guerre stellari», passando dalle equazioni alle astronavi. Giovanni Valerio


L'AGGANCIO SHUTTLE-MIR Prima pietra della città spaziale Tanti esperimenti tra scienza e diplomazia
Autore: GUIDONI UMBERTO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, PROGETTO, RICERCA SCIENTIFICA, ASTRONOMIA
NOMI: GIBSON «HOOT», PRECOURT CHARLIE, HARBAUGH GREG, BAKER ELEN, DUMBAR BONNIE, SOLOVYEV ANATOLY, BUDARIN NIKOLAI
ORGANIZZAZIONI: NAVETTA ATLANTIS, MIR, KENNEDY SPACE CENTER
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. L'aggancio Shuttle-Mir

TUTTO bene per la storica missione che, per la prima volta ha portato la navetta «Atlantis» ad agganciarsi in orbita con la stazione spaziale russa «Mir». «Atlantis» ha avuto a disposizione una finestra di lancio di appena 7 minuti, quando il piano dell'orbita in cui si trova la «Mir» passava sulla perpendicolare del Kennedy Space Center, la base di lancio dello Shuttle in Florida. Una manovra di precisione ha inserito la navetta americana nella stessa orbita della stazione orbitante russa per consentire il rendez-vous e l'attracco nel quarto giorno di volo. L'equipaggio, composto dal comandante «Hoot» Gibson, il pilota Charlie Precourt, i «mission specialist» Greg Harbaugh, Elen Baker e Bonnie Dumbar, dal comandante della «Mir 19» Anatoly Solovyev e l'ingegnere di bordo Nikolai Budarin, è arrivato al «Kennedy Space Center» poco prima dell'inizio delle operazioni di lancio, che cominciano 4 giorni prima del lift-off. In orbita gli astronauti americani e i due cosmonauti russi hanno attivato il modulo «Spacelab», montato nella cargo bay della navetta «Atlantis» e hanno verificato il funzionamento delle apparecchiature da utilizzare durante il «rendez-vous». L'incontro con la stazione spaziale russa era previsto alla fine di un lungo inseguimento in orbita. Il comandante Gibson ha mosso gradualmente «Atlantis» verso la «Mir», un avvicinamento molto lento, con una velocità di appena qualche centimetro al secondo, fino al contatto. A questo punto il sistema di attracco montato sulla navetta, agganciandosi con l'equivalente meccanismo montato sul modulo «Kristall» della stazione spaziale, gararantisce la saldatura fra le due parti. «Mir» e «Atlantis» diventano un solo oggetto: la più grande struttura mai messa in orbita. Due ore dopo l'attracco, completati i controlli sulla tenuta del sistema di aggancio e sul livello di pressurizzazione, il comandante Gibson ha aperto il boccaporto che mette in comunicazione il modulo dove si trovano gli astronauti con la «cargo bay» della navetta e che, normalmente, è utilizzato per effettuare le passeggiate nello spazio. Questa volta, non c'è bisogno di indossare la voluminosa tuta spaziale, Gibson può galleggiare nel tunnel di collegamento e raggiungere l'ingresso della «Mir». Ad aspettarlo ha trovato Vladimir Dezhurov, comandante della missione «Mir 18», che è a bordo della stazione spaziale dal marzo scorso in compagnia dell'ingegnere di bordo Gennady Strekalov e dell'astronauta americano Norm Thagard. La storica stretta di mano avviene quasi venti anni dopo l'incontro in orbita tra Tom Stafford e Alexei Leonov, durante la missione Apollo-Soyuz. Dopo lo scambio di saluti è incominciato il lavoro previsto dalla missione. Durante i 5 giorni i cui lo Space Shuttle è rimasto attraccato alla stazione «Mir», l'equipaggio di otto uomini e due donne è stato il più numeroso nella storia dei voli umani. Il gruppo di astronauti e cosmonauti ha eseguito una fitta serie di esperimenti biomedici condotti utilizzando le attrezzature del modulo «Spacelab». Baker, che oltre a essere un astronauta è laureato in medicina, ha effettuato diversi test sull'equipaggio della «Mir 18». Lo scopo è di verificare la risposta del loro apparato cardio- vascolare, per approfondire la conoscenza dei meccanismi di adattamento dell'organismo alla lunga assenza di gravità. Gli astronauti, durante i voli orbitali, subiscono una diminuzione della pressione sanguigna e del battito cardiaco. Questa condizione, che permane anche al momento del ritorno a terra, rende difficile riadattarsi alla normale gravità. Persino movimenti semplici, come alzarsi dal seggiolino e camminare, possono essere molto difficili per i membri di un equipaggio appena rientrato da una lunga permanenza nello spazio. Gli esperimenti in volo sono mirati a studiare la risposta cardio-polmonare dei soggetti che sono sottoposti a particolari esercizi fisici, studiati per determinare il loro grado di «allenamento», dopo aver passato oltre tre mesi nello spazio. Ma la medicina non esaurisce le attività di bordo; uno spazio importante è riservato alla documentazione filmata di questa memorabile impresa: Imax, la speciale camera da ripresa da 70 millimetri, capace di registrare immagini ad alta risoluzione, ha ripreso le fasi più spettacolari dell'aggancio in orbita. Studenti americani e russi hanno avuto la possibilità di parlare in diretta con gli astronauti a bordo dello Shuttle utilizzando stazioni amatoriali e il satellite Amsat. Umberto Guidoni Astronauta dell'Agenzia Spaziale Italiana


SCAFFALE Maiocchi Roberto: «Storia della scienza in Occidente», La Nuova Italia; Popper Karl: «Logica della scoperta scientifica», Einaudi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Roberto Maiocchi (Università Cattolica di Milano) si è cimentato in una «Storia della scienza in Occidente» dove dimostra un'acuta capacità di sintesi, badando più che alle notizie alle idee che stanno dietro il progresso della ricerca. Una lettura da incrociare con il classico del filosofo Karl Popper «Logica della ricerca scientifica» ripresentato da Giulio Giorello. Piero Bianucci


SCAFFALE Ruberti Antonio e Andrè Michel: «Uno spazio europeo della ricerca», Giunti; Bernardini Carlo: «Idee per il governo. La ricerca scientifica», Laterza
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Quanta e quale ricerca scientifica? La domanda si pone a livello europeo e a livello nazionale. In due libri troviamo elementi utili per rispondere. Antonio Ruberti (già ministro dell'Università e della ricerca) e Michel Andrè guardano alla dimensione continentale, dove buoni risultati si sono già ottenuti (si pensi al Cern) e dove la ricerca scientifica acquista anche il ruolo di «colla politica» tra i Paesi dell'Unione. Al problema della collocazione dell'Italia nel contesto della ricerca internazionale risponde invece un volume a più voci coordinato da Carlo Bernardini, al quale si deve anche un'ampia e informatissima introduzione di carattere generale. Tra i contributi, quelli di Nicola Cabibbo, Luciano Maiani, Franco Prattico, Giorgio Careri, Felice Ippolito. Una «tavola rotonda» ricca di dati e suggerimenti. Per ricordare che l'Italia investe in ricerca solo l'1,3 per cento del prodotto interno lordo.


SCAFFALE Foresta Martin Franco: «Dall'ambra alla radio», Editoriale Scienza (Trieste)
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Tutto incominciò con la scoperta che un pezzetto di ambra strofinato sulla lana acquista il potere di attrarre polvere, capelli, pagliuzze. Qualcosa di invisibile agisce tra l'ambra e i corpuscoli catturati: l'elettricità. Di lì vengono la pila, il telegrafo, il telefono, i motori elettrici, la radio, la televisione, il computer. Per strano che possa sembrare, questo lungo percorso scientifico e tecnologico oggi può farlo anche un bambino con una serie di esperimenti semplicissimi, e anzi, tanto più istruttivi e divertenti quanto più sono semplici. All'insegna del «se faccio capisco», Franco Foresta Martin, uno dei più attenti giornalisti scientifici italiani, ha scritto un libro intelligente e senza limiti di età.


SCAFFALE Carotenuto Aldo: «Jung e la cultura del XX secolo», Bompiani
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: PSICOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

PARAFRASANDO una celebre espressione di Benedetto Croce riferita al cristianesimo, è lecito affermare che la cultura del nostro secolo non può non dirsi junghiana. Lo dimostra con efficacia l'ultimo libro di Aldo Carotenuto, analizzando come la nozione di «realtà psichica» elaborata da Jung abbia profondamente influito sugli ambiti disciplinari più diversi: dall'arte alla letteratura, dalla filosofia alle religioni, dal teatro al cinema alla danza; e persino sulle cosiddette «scienze esatte» (si pensi, per esempio, all'interazione intellettuale tra Jung e un grandissimo fisico teorico come Wolfgang Pauli); per non parlare del dialogo che il pensiero di Jung ha aperto tra cultura occidentale e cultura orientale, un dialogo della cui fecondità incominciamo soltanto oggi ad accorgerci e che sarà probabilmente uno dei segni caratterizzanti del prossimo secolo e di una cultura davvero planetaria. Professore all'Università di Roma «La Sapienza», tra i massimi conoscitori di Jung a livello internazionale, Aldo Carotenuto fa di ogni capitolo un saggio concluso, leggibile anche da parte dei non specialisti. Alla fine della lettura ci si rende conto di come il pensiero junghiano - tanto più flessibile, aperto ed evolutivo di quello freudiano - sia ormai una filigrana del nostro tempo, spesso inavvertita tanto è pervasiva.


COSMOLOGIA & RED SHIFT L'universo cresce (ma c'è chi dubita)
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Effetto Doppler acustico. Effetto Doppler sulla luce
NOTE: Modelli cosmologici

UNA delle domande che più frequentemente vengono poste dal pubblico interessato ai problemi della cosmologia riguarda il red-shift, cioè lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie, dovuto all'effetto Doppler. L'osservazione mostra senza ombra di dubbio che la luce delle galassie più lontane giunge a noi con una frequenza minore e quindi con una lunghezza d'onda maggiore di quella che aveva quando è stata emessa. La componente gialla giunge quindi virata verso il rosso di un ammontare che varia da galassia a galassia, di qui l'etichetta red- shift data al fenomeno. In casi estremi lo spostamento è così forte da convertire la luce visibile in radiazione infrarossa. Nell'interpretazione corrente il red-shift si deve all'altissima velocità di allontanamento della galassia e al conseguente effetto Doppler. In modo analogo il fischio di un treno che si allontana si sente con un tono più grave di quello originale e inversamente quello di un treno che si avvicina pare più acuto. Si può quindi dire che «acuto» e «grave» per il suono corrispondono a «blu» e «rosso» per la luce. La teoria della relatività conduce a modelli cosmologici in cui l'universo si espande e le galassie si allontanano l'una dall'altra. In questi modelli il red- shift ha una interpretazione quanto mai naturale. Va detto però che è anche diffusa l'opinione secondo cui l'universo non si espande, e il red- shift è invece causato dagli intensi campi gravitazionali delle galassie, un fenomeno previsto dalla teoria della relatività. Come un grave lanciato verso l'alto perde energia di movimento (cinetica) e rallenta, anche la luce perde energia risalendo lungo un campo gravitazionale. Dato l'enorme valore della velocità della luce (300.000 km/s) sulla Terra il red-shift è dell'ordine di una parte su di un miliardo e può essere rilevato solo con apparecchi di altissima precisione. Anche se piccolissimo l'effetto è di notevole interesse tecnologico: se ne deve tenere conto infatti nel sincronismo degli orologi atomici usati per il sistema globale di posizionamento sulla Terra tramite satelliti (Gps). Per la luce emessa dal Sole lo spostamento è di una parte su di un milione ed è stato osservato da tempo. In ogni caso il red-shift dipende dal valore della velocità di fuga, quella cioè che occorre imprimere a un grave per farlo uscire definitivamente dall'astro. Per la Terra questa velocità è 11 km/s, per il Sole 600, sulle pulsar giunge a 100 mila km/s. Per un osservatore all'esterno del sistema solare la luce che riceve sarebbe spostata verso il rosso di un ammontare che dipende dal punto in cui è stata emessa. Il valore massimo si registrerebbe per quella che proviene direttamente dalla fotosfera solare, minore sarebbe per la luce dei pianeti. All'effetto gravitazionale si sovrappone inoltre il consueto effetto Doppler dovuto al movimento dei pianeti lungo orbite circumsolari. In quanto segue è importante sapere che i due effetti sono confrontabili e che a volte si sommano e a volte si sottraggono: ambedue sono infatti manifestazioni dello stesso campo gravitazionale solare. Mi sono dilungato su questo punto per rendere più chiare le difficoltà che sorgono quando si attribuisce lo spostamento verso il rosso delle galassie esclusivamente al loro campo gravitazionale. Se questo fosse vero dovremmo osservare in sovrapposizione anche un effetto Doppler della stessa grandezza dovuto al movimento delle stelle entro la galassia e che varia a seconda di come è diretto. Quasi tutte le galassie ruotano infatti su se stesse come maestose polente cosmiche tenute insieme dall'attrazione gravitazionale; la nostra fa un giro in circa 250 milioni di anni. L'effetto Doppler dovuto a questa rotazione è ben documentato, ci dà informazioni di prima mano sulla distribuzione delle masse entro la galassia ma è trascurabile rispetto al red- shift globale della galassia. D'altra parte una galassia che riduca a metà l'energia dei fotoni (atomi di luce) uscenti sarebbe un oggetto ben strano in cui le stelle che la compongono dovrebbero muoversi a velocità di decine se non centinaia di km/s in modo tale da compensare con la forza centrifuga il mostruoso campo gravitazionale centrale. Certo la sua dinamica interna e quindi la sua immagine al telescopio sarebbe ben diversa da quella di una galassia la cui luce è spostata verso il rosso. Il red-shift di solito viene valutato osservando la riga H alfa dell'idrogeno e se dipendesse anche dalla direzione in cui si muove la stella che la emette, la riga spettrale apparirebbe sfrangiata e al limite dell'osservabilità. Infine quasi certamente un oggetto del genere sarebbe instabile e pericolosamente vicino al collasso gravitazionale e alla formazione di un grande buco nero. Permane inoltre la chiara correlazione tra distanza della galassia e red-shift la cui spiegazione è naturale nel modello standard ma tuttora inesistente se si continua ad attribuire l'effetto al campo gravitazionale. Balordissime sono invece le teorie che postulano l'esistenza di una debole conducibilità elettrica residua dello spazio cosmico. In questo caso la radiazione incidente perderebbe energia ma senza cambiare colore, lo spazio agirebbe semplicemente come un filtro neutro che attenua la luce e di red-shift non si vedrebbe traccia. Non è possibile parlare di cosmologia senza sentirsi richiedere una opinione sui mostri di Arp, un astrofisico che ha messo insieme una incredibile collezione di immagini di galassie formate da più componenti che appaiono legate fisicamente tra di loro ma mostrano un effetto Doppler ben diverso. Ricorderò come nel modello cosmologico standard dovrebbe esistere un legame univoco e assoluto tra l'effetto e la distanza della galassia: quindi la misura del red- shift viene sovente interpretata come misura diretta della distanza dimenticando che il valore così ottenuto dipende dal modello cosmologico. Di certo Arp è stato ingiustamente ostracizzato dalla comunità degli astrofisici ma questo non vuol dire che abbia ragione nel sostenere che i quasar, lungi dall'essere luminosissimi e lontanissimi, sono in realtà delle specie di palle di cannone velocissime sparate dai centri galattici. Invece di addentrarsi in dispute sterili meglio sarebbe sottoporre qualcuno o anche tutti i mostri di Arp ad un esame accurato con lo Space Telescope oppure con uno dei nuovi telescopi giganti della nuova generazione per vedere se i mostri sono dovuti ad un allineamento prospettico accidentale di galassie lontanissime tra di loro, come molti sospettano, oppure se sono oggetti reali. In questo ultimo caso Arp sarebbe eletto ad eroe e martire della scienza, si aprirebbe una crisi salutare nel modello standard, ormai vecchiotto, e i suoi sostenitori sarebbero additati al pubblico ludibrio. Io cambierò numero di telefono. Tullio Regge Politecnico di Torino


Quelle illusioni alla crema Le cure anti-cellulite non superano i test scientifici
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO NAZIONALE DEL CONSUMO, 50 MILLIONS DE CONSOMMATEUR
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Dermatologia

IL sogno di ridurre la cellulite spinge ogni anno milioni di ragazze e di signore ad acquistare una crema per attenuare gli antiestetici cuscinetti. La convinzione di riuscire è così forte che il fatturato annuale dei cosmetici «anti cellulite» raggiunge i 100 miliardi di lire. I dermatologi e gli esperti sanno che è una battaglia inutile, perché un cosmetico non può in nessun caso intaccare e ridurre lo strato di grasso responsabile del famoso effetto a buccia d'arancia. Per ribadire questo concetto la rivista francese 50 Millions de Consommateur, edita da un ente pubblico come l'Istituto Nazionale del Consumo, ha realizzato un test comparativo su 10 creme anticellulite (di cui 5 vendute anche in Italia). Le prime perplessità riguardano i foglietti allegati alle confezioni sui quali non compaiono elementi in grado di garantire la riduzione della cellulite. Anche l'elenco degli ingredienti è carente: solo due creme indicano i principi attivi con la relativa percentuale. Per valutare l'efficacia dei cosmetici, la rivista ha coinvolto 200 donne di età compresa tra i 18 e i 45 anni, selezionate da un dermatologo. Tutte le signore avevano problemi di cellulite e nei mesi precedenti non avevano seguito diete dimagranti nè cure specifiche. Prima della sperimentazione, le persone selezionate hanno fatto una visita medica per individuare le zone critiche, misurare la circonferenza della parte da sottoporre a trattamento e valutare con un'ecografia lo spessore delle cellule di grasso. Al gruppo è stato chiesto di spalmare per 28 giorni sulla coscia destra una crema placebo senza principi attivi, e sulla coscia sinistra una delle creme acquistate nei negozi. Alla fine del trattamento la visita medica è stata ripetuta e si è registrata una lieve riduzione della circonferenza - tre millimetri - che però riguardava entrambe le cosce. Gli esperti hanno messo in relazione la riduzione di circonferenza con il massaggio quotidiano. L'ecografia ha confermato questa teoria, in quanto in nessun soggetto si è notata una riduzione delle cellule di grasso. Il giudizio complessivo non lascia dubbi: «Molto insufficiente». La rivista, sulla base della sperimentazione, boccia pesantemente tutti campioni, compresi nomi eccellenti come Veet, Elancyl, Biotherm, Dior Svelte, Lierac, Yves Rocher e Percutafeine. Shiseido se la cava con un «insufficiente», perché la riduzione della circonferenza delle cosce è leggermente maggiore rispetto alla crema placebo, ma l'ecografia ha smentito eventuali riduzioni dello strato di grasso. Un flacone da 150 centimetri cubi costa sulle 50 mila lire: c'è da chiedersi se valga la pena investire tanti soldi in sogni irrealizzabili. Roberto La Pira


TENNIS UN FISICO AL TORNEO DI WIMBLEWDON
Autore: ROCCUZZO BRUNO

ARGOMENTI: SPORT, FISICA, TENNIS
NOMI: BRODY HOWARD
ORGANIZZAZIONI: PHYSICS TODAY
LUOGHI: ITALIA

QUALI sono le doti di un buon tennista? Un professore di educazione fisica direbbe certamente che è necessario avere molto fiato, sapersi muovere bene sul campo e possedere un buon gioco sia col diritto che col rovescio. Uno psicologo potrebbe aggiungere che è importante riuscire a mantenere alta la propria concentrazione e capire i punti deboli dell'avversario. Tutto vero. Ma mentre in Inghilterra sta concludendosi il famoso Torneo di Wimbledon, che possiamo considerare l'università del tennis mondiale, è interessante - e abbastanza divertente - provare a guardare questo sport anche da un altro punto di vista: il punto di vista dello studioso di fisica. In questo ci viene in aiuto la rivista americana Physics To day, che recentemente ha riassunto alcuni risultati delle ricerche compiute in questo campo da Howard Brody, un fisico dell'Università della Pennsylvania. Ricordiamo anzitutto che le norme ufficiali che definiscono un pallina da tennis regolamentare sono piuttosto rigide. In particolare, una palla lasciata cadere su una superficie di cemento all'altezza di 100 pollici (254 centimetri) deve rimbalzare a non meno di 53 e non più di 58 pollici, ossia deve perdere circa metà della sua energia. Questa esigenza influenza in maniera significativa il progetto della racchetta, per la quale non vi sono invece restrizioni nè sul peso e la forma, nè sul materiale del telaio e delle corde, nè sul numero di queste ultime. Esse hanno il compito di assorbire la maggior parte dell'energia cinetica della pallina per restituirle una certa frazione. In teoria una unica membrana elastica, tipo quella che si usa nel gioco del tamburello, andrebbe bene, ma provocherebbe una resistenza all'aria assai maggiore. Ve ne potete rendere conto da soli facendo roteare la vostra racchetta dopo aver messo un foglio di carta sulle corde; farete molta più fatica. Poiché la palla da tennis perde una notevole quantità di energia, conviene che nell'urto con la racchetta se ne immagazzini il più possibile nelle corde, che sono in grado di restituire fino al 95 per cento di quella ricevuta. Quindi, più le corde si deformano, maggiore sarà l'energia cinetica restituita alla palla, mentre corde troppo tese non sono in grado di imprimerle un'alta velocità. Vi è però una situazione limite, al di là della quale non è più conveniente usare corde troppo lente, perché entrano in gioco fenomeni dissipativi legati al loro movimento. Del resto non credo che sia mai venuto in mente a nessuno di giocare a tennis con una rete per acchiappare le farfalle! Il momento d'inerzia di una racchetta da tennis intorno agli assi principali influenza il modo di colpire della racchetta e la sensazione che si prova dopo ogni tiro. Consideriamo il classico esempio di una pattinatrice su ghiaccio che ruota attorno a se stessa. Se allarga le braccia verso l'esterno il suo momento d'inerzia attorno all'asse di rotazione aumenta e lei gira più lentamente. Questo è un tipico esempio pratico di un principio fondamentale della fisica, la «conservazione del momento angolare». Ora, se una pallina colpisce la racchetta in un punto al di fuori del suo asse polare, cioè della retta passante per il manico, tende a farla ruotare. Questa indesiderata rotazione risulta tanto minore quanto maggiore è il momento d'inerzia. Il quale momento di inerzia può essere aumentato o aggiungendo del materiale nella parte più esterna della racchetta, o aumentandone la larghezza. Poiché il momento d'inerzia è proporzionale alla massa e al quadrato della distanza risulta più conveniente la seconda scelta. Dunque maggiore è la larghezza della testa della racchetta e minore è la torsione che essa eserciterà sulla mano per un colpo fuori asse. Ecco di conseguenza spiegato il grande vantaggio nell'usare i «racchettoni», entrati nel mercato alla fine degli Anni Settanta. Il momento d'inerzia rispetto alla retta perpendicolare all'impugnatura e che giace nel piano della racchetta è una misura di quanto pesante un giocatore sente la racchetta quando la fa ruotare, per esempio in un tiro di diritto. Questo secondo momento d'inerzia non ha subito sostanziali modifiche nel corso degli anni. Infatti le racchette sono state rese più leggere grazie all'uso di moderni materiali e alla rimozione di peso dal manico. Il risultato finale è dunque quello di avere una racchetta senz'altro meno pesante, ma che raccoglie ancora quasi la stessa forza d'urto di un vecchio modello di legno. Il momento d'inerzia rispetto al terzo asse, quello perpendicolare al piano della racchetta, è invece importante nell'esecuzione dei tiri tagliati e delle «palle morte». Abbiamo visto solamente alcuni degli aspetti sotto i quali considerare il tennis in termini di fisica elementare. E' evidente che taluni accorgimenti tecnici devono adattarsi alle caratteristiche del singolo giocatore. Ad esempio, la cinematica dei processi a due corpi ci insegna che, a parità di velocità della testa della racchetta, una più pesante trasferirà alla palla una velocità maggiore cosa senz'altro auspicabile ma in contrasto con il desiderio di avere in mano un attrezzo leggero. Se è altamente improbabile diventare campioni grazie alla geniale trovata di un ipotetico inventore, è altrettanto vero che molto si può fare ancora per migliorare le prestazioni di una racchetta. Ad esempio si può pensare di costruire una racchetta asimmetrica, con il manico disallineato in modo tale che il suo asse la divida in due parti disuguali. In questo modo, colpendo la palla sempre al di sopra dell'asse, si avrebbe forse una compensazione per i tiri fuori asse. La prossima volta che giocate a tennis potete tornare a riflettere su quanto avete letto: ad esempio, colpendo la palla in diversi punti della racchetta, cercate di capire in quale posizione sentite uno sforzo maggiore. Ma non meditate troppo, altrimenti andrete incontro a una sconfitta sicura. Bruno Roccuzzo


ESTATE E BELLEZZA Perché il Sole invecchia la pelle La tintarella è una difesa del Dna cellulare
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BIOLOGIA, GENETICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Abbronzatura, raggi ultravioletti, melanina

MOLTI sono già sulle spiagge a farsi rosolare dal Sole. Che però i raggi solari non siano del tutto innocui, è indirettamente dimostrato dal fatto che la natura ha dotato la pelle umana di uno speciale scudo, la melanina, un pigmento scuro sintetizzato dai melanociti (cellule situate negli strati inferiori dell'epidermide) in quantità geneticamente proporzionata alle originarie situazioni ambientali di ognuno. Fra le varie radiazioni solari, sono gli ultravioletti A (UV-A) e B (UV-B) i maggiori responsabili dei più comuni effetti sulla pelle: l'eritema e l'abbronzatura. L'eritema, arrossamento dovuto a sostanze vasoattive che si liberano dalle cellule dell'epidermide danneggiate, compare 6-8 ore dopo l'esposizione al sole e regredisce in 24-36 ore, ma può trasformarsi nella classica scottatura con formazione di bolle (vera ustione) se l'esposizione si prolunga. L'abbronzatura avviene in due tempi: quella «immediata», che si verifica in poche ore, è indotta dai raggi UV-A ed è dovuta all'ossidazione e alla dispersione della melanina già esistente; quella «ritardata», che è la vera «tintarella», indotta dagli UV-B, è invece dovuta alla formazione di nuova melanina e si perfeziona in 2-3 settimane, con i limiti genetici ricordati. L'abbronzatura è quindi una reazione di difesa dell'organismo: la melanina prodotta dai melanociti viene trasferita nelle cellule dell'epidermide in via di maturazione, dove va a ricoprire, come un cappuccio, il nucleo per proteggerne il Dna dall'effetto dannoso (mutageno) dei raggi ultravioletti. Per chi non è adeguatamente protetto, i danni provocati da incontrollate esposizioni solari possono essere seri: il concorrere di due fattori, l'abbassamento delle difese immunitarie locali e il possibile danneggiamento del Dna delle cellule dell'epidermide, è un fattore di rischio per tumori della pelle. Deve far riflettere il fatto che il 30 per cento dei nuovi tumori diagnosticati in un anno sono cutanei: baso- e spino-cellulari, melanomi. E deve essere anche motivo di meditazione per coloro che ricercano nell'«abbronzatura continua» una gratificazione estetica, il fatto che un'insistita esposizione ai raggi Uv è responsabile di un precoce invecchiamento della pelle (il «photoaging» degli anglosassoni), con un ispessimento cutaneo (anche questa è una reazione di difesa) e un aggrovigliamento delle fibre elastiche del connettivo. Ma i danni possono essere molti altri (retinici, reazioni fototossiche e fotoallergiche). Ce n'è abbastanza per consigliare prudenza e misure protettive chimiche e comportamentali, che consentano di godere in tranquillità il sole «salvando la pelle». Fra le prime, l'applicazione sulla pelle di creme con un «fattore di protezione» commisurato alla dotazione di melanina individuale. Il fattore di protezione (Spf=Solar Protection Factor) è indicato da un numero (da 2 a 25) che esprime il tempo necessario a produrre un eritema rispetto al tempo occorrente per una pelle non protetta: un Spf di 15, per esempio, indica che occorre un tempo 15 volte superiore. I soggetti che devono maggiormente proteggersi (Spf oltre 15) sono quelli con i capelli rossi e molte lentiggini. Le «creme-barriera», ancora più schermanti, vanno applicate sulle parti più esposte: naso, labbra, zigomi, orecchie. Le precauzioni comportamentali prevederebbero di non esporsi quando il Sole è quasi allo zenit (dalle 11 alle 15), di portare un cappello e un abbigliamento chiaro, di alternare poco sole e tanta ombra (tenendo anche conto del riverbero, cioè dei raggi riflessi dalla sabbia e dall'acqua). Una recentissima ricerca ha messo a punto un analogo sintetico dell'alfa-melanotropina (alfa-MSH), l'ormone ipofisario che agisce stimolando i melanociti a produrre il pigmento cutaneo. Somministrato sottocute, consente l'abbronzatura senza esporsi ai raggi. Ma a questo punto, che fine farebbe il miraggio della tintarella? Antonio Tripodina




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