TUTTOSCIENZE 28 giugno 95


ESPERIMENTI NEGLI STATI UNITI Non gettate il cordone ombelicale! Le sue cellule sono utili nei trapianti di midollo
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA, GENETICA
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DEL MINNESOTA
LUOGHI: ITALIA

LA ricerca di un donatore immunologicamente compatibile per un trapianto di midollo osseo è molto difficile e può risultare vana anche quando esiste un consanguineo a disposizione perché la corrispondenza tipologica dal punto di vista genetico non è perfetta neppure tra fratelli. Per aggirare questa difficoltà stanno sorgendo negli Stati Uniti banche di tessuti umani di un tipo inusuale. In queste banche viene conservato un «materiale umano» che è stato finora scartato perché ritenuto inutilizzabile: il cordone ombelicale dei neonati. Centri di ematologia come quello dell'Università del Minnesota hanno lanciato una campagna per raccoglierne diecimila esemplari. Il valore del cordone ombelicale sta nel fatto che esso contiene un gran numero di cellule progenitrici dei corpuscoli sanguigni di ogni tipo. Una specie di midollo osseo esposto e immediatamente utilizzabile perché ricco delle cellule tecnicamente denominate «CD34». Queste cellule hanno la particolarità di rigenerarsi continuamente e differenziarsi in cellule del sangue adulte risultando così utilissime per trapianti di midollo particolarmente nel caso di certe anemie dei bambini. Un altro vantaggio consiste nel fatto che il cordone può essere conservato praticamente per un tempo indefinito a basse temperature e utilizzato come materiale di trapianto nello stesso individuo o donato ad un altro paziente. Pare anche che le cellule del cordone abbiano una immunoreatttività assai bassa riducendo il pericolo di un rigetto. Sono stati compiuti fino a oggi solamente settantacinque trapianti utilizzando cellule tratte dal cordone ombelicale dello stesso individuo o di altri individui. In futuro si pensa di estendere l'uso alla cosiddetta geno-terapia. Questa tecnica, come è noto, consiste nel modificare prima il patrimonio genetico di cellule di un tessuto particolare e poi trapiantarle. In tale modo si può introdurre o un gene mancante o sostituire un gene malato con un gene sano. Uno dei grossi problemi che sorgono usando una tecnica del genere è la necessità di avere a disposizione un numero sufficientemente grande di cellule tale da garantire la sopravvivenza di un certo numero di cellule modificate nell'organismo di chi le riceve. I primi tentativi sono già stati compiuti in tre bambini sofferenti della deficienza ereditaria di un enzima particolare chiamato adenosindeaminasi. Questo difetto genetico può essere scoperto già prima della nascita. Usando un retrovirus come portatore del gene mancante si sono appunto utilizzate le cellule CD34 del cordone ombelicale. Dopo l'introduzione del gene mancante, le cellule vennero direttamente trasfuse al paziente. Il trattamento sperimentale è stato realizzato per la prima volta all'Università del Sud California due anni fa su tre piccoli pazienti. Si è poi constatato che il gene impiantato era presente nell'un per cento delle cellule sopravvissute al trapianto. Malgrado questo limitato successo il trapianto era stato sufficientemente attivo per evitare la paralisi del sistema immunitario che porta generalmente al decesso in pochi mesi o che condanna il bambino a vivere in una camera sterile per tutta la vita. I prossimi candidati sono giovani affetti da anemie gravi o da talassemia (un difetto dei globuli rossi di origine genetica). Qualcuno pensa anche al trattamento di bambini colpiti dall'Aids introducendo nelle cellule del cordone un agente anti-Hiv che ha il potere di tagliare l'acido nucleico (RNA) responsabile della riproduzione dell'infezione. I primi tentativi di questi esperimenti sono in progetto per il prossimo anno. Le banche di cordoni ombelicali esistenti già da qualche anno, come quella dell'Università dell'Arizona, ricevono attualmente una media di dieci cordoni ombelicali al giorno. Le donazioni sono volontarie e gratuite, per 100 dollari la banca si incarica di preservare il cordone per un possibile uso in futuro. Si tratta certamente di un buon investimento nel caso di una malaugurata leucemia. Dagli Stati Uniti l'uso di questi centri si è esteso anche all'Europa dove sono generalmente abbinati a centri per trapianto di organi. Uno dei materiali umani meno apprezzati e fino a poco fa scartato si è rivelato molto prezioso. Dovremmo pensarci su due volte prima di eliminarlo. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


CON IL TELESCOPIO SPAZIALE Scoperte tracce di ossigeno su Europa Il satellite di Giove potrebbe ospitare la vita?
Autore: COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

IL satellite di Giove chiamato Europa è uno dei corpi più anomali del sistema solare. Con un diametro di 3000 chilometri, paragonabile a quello della nostra Luna, ha una superficie chiara e liscia percorsa da un complesso sistema di crepe scure e la sua temperatura si aggira sui -145 °C. La superficie è principalmente costituita da ghiaccio di acqua, benché la densità del satellite (2,97 grammi/centimetro cubo) indichi una predominanza di silicati. I calcoli indicano la possibilità che Europa abbia un oceano di acqua liquida a una profondità di circa 100 chilometri sotto la superficie solida: le forze di marea e il decadimento radioattivo potrebbero fornire l'energia necessaria per mantenerla liquida. La presenza di questo oceano sotterraneo è favorita dalla quasi mancanza di crateri, fenomeno che caratterizza invece gli altri satelliti di Giove. L'acqua può evaporare dalle crepe superficiali, levigare la superficie e poi ricondensarsi su di essa. Il materiale scuro associato a queste crepe mostra caratteristiche spettroscopiche simili a quelle delle meteoriti carbonacee, caratteristiche che fanno pensare a una possibile chimica organica sotto la superficie. Recentemente astronomi americani con il telescopio spaziale Hubble hanno rivelato la presenza di ossigeno molecolare derivandola dall'emissione ultravioletta delle linee dell'ossigeno atomico a lunghezze d'onda di 130,4 e 135,6 nanometri. Negli altri tre satelliti del sistema solare che hanno una atmosfera (Io, Titano e Tritone) non vi è invece traccia di ossigeno. I calcoli fanno risalire a una pressione dell'ossigeno nell'atmosfera di Europa di appena un centomiliardesimo di quella terrestre: alla pressione atmosferica terrestre, tutto l'ossigeno di Europa basterebbe a malapena per riempire 12 stadi olimpici! Tuttavia la scoperta dell'ossigeno può essere determinante per le ricerche sulla vita extraterrestre. In quasi tutti gli ambienti planetari conosciuti l'ossigeno molecolare non potrebbe sopravvivere in equilibrio termodinamico se presente in quantità minime in quanto esso, allo stato libero, si combinerebbe con gas contenenti carbonio per formare l'anidride carbonica. Sulla Terra la sintesi biologica (essenzialmente fotosintesi) mantiene la percentuale di ossigeno della nostra atmosfera intorno al 21 per cento. Ora la domanda cruciale è: può una percentuale così bassa, come quella scoperta su Europa, essere un indicatore di presenza biologica? Noi sappiamo che esistono microorganismi nei ghiacci dell'Antartide che producono ossigeno per fotosintesi e un ambiente simile potrebbe trovarsi sia nel sottosuolo di Marte sia in quello di Europa, ma mentre Marte potrebbe ricevere sufficiente energia solare per la fotosintesi, su Europa dovrebbe prevalere un sistema di chemiosintesi (privo di ossigeno) perché si possa innescare un processo biologico (si ricordino le specie sconosciute di crostacei rinvenute in Romania, sopravvissute nel sottosuolo per 5 milioni di anni, senza luce e senza ossigeno, in un ambiente solforoso). L'ossigeno molecolare planetario può però derivare anche da sorgenti non biologiche; per esempio l'acqua può dissociarsi in idrogeno molecolare e ossigeno, meccanismo che sembra il più probabile su Europa. La presenza di ossigeno può essere da una parte un fattore positivo per la chimica organica prebiotica, ma potrebbe essere anche un fattore negativo. Se l'atmosfera è abbastanza densa, si può formare uno strato stratosferico di ozono originato dalla fotolisi dell'ossigeno il quale proteggerebbe le molecole prebiotiche dalla fotodissociazione ultra-violetta. Ma se, come nel caso di Europa, l'atmosfera è molto tenue e l'ossigeno si forma nelle vicinanze della superficie, esso può inibire la chimica prebiotica data la sua capacità di reagire velocemente e in maniera distruttiva con i composti organici fondamentali per lo sviluppo della vita: aminoacidi, zuccheri, proteine e acidi nucleici. Nella ricerca di una chimica extraterrestre prebiotica l'ossigeno può essere un indicatore prezioso, ma soltanto se esaminato nel contesto globale della composizione atmosferica del pianeta. Per la ricerca della vita evoluta, capace cioè di fotosintesi, esso è invece un punto di riferimento fondamentale che potrà essere rivelato in futuro grazie alle nuove missioni spaziali e allo sviluppo di sempre più sofisticate osservazioni astronomiche da Terra e dallo spazio. Cristiano B. Cosmovici Cnr, Istituto di fisica dello spazio


UNIVERSITA' Corsa a cattedre Uscire dalla provincia
Autore: STRATA PIERGIORGIO

ARGOMENTI: DIDATTICA, DISEGNO DI LEGGE, CONCORSI, INSEGNANTI, UNIVERSITA'
LUOGHI: ITALIA

IL disegno di legge sui concorsi per professori universitari approvato dal Consiglio dei ministri e ora in discussione al Parlamento è un tentativo di migliorare un aspetto del mondo accademico dal quale dipenderà in maniera sostanziale il futuro della nostra competitività. Il disegno di legge, motivato «dall'esigenza da più parti avvertita di un sistema di reclutamento più trasparente ed efficiente», dovrebbe fornire migliori garanzie per la selezione dei più meritevoli. Ma temo che invece, se approvato nell'attuale contesto universitario, e senza altri provvedimenti, otterrà gli effetti opposti. L'aspetto più innovativo della riforma sta nell'istituzione di un concorso articolato in due fasi: 1) una commissione giudicatrice nazionale formulerà, unicamente sulla base del merito, un elenco di idonei in numero fino al 50 per cento superiore a quello dei posti messi a concorso; 2) le Facoltà, coadiuvate da una commissione locale, sceglieranno uno degli idonei «in relazione alle esigenze didattiche e scientifiche della Facoltà e dei Dipartimenti interessati». Si dovrebbe così da una parte aumentare la probabilità che nella lista nazionale entrino i migliori e dall'altra lasciare una più ampia scelta nella seconda fase del concorso per soddisfare meglio le esigenze locali. Per quanto riguarda la commissione nazionale, non si ripara ai vecchi difetti. Il male dei concorsi universitari sta nel fatto che vi è la tendenza da parte dei professori a sistemare i propri allievi. Questa tendenza non è di per sè negativa, in quanto in molti casi essa è frutto di una selezione a monte e premia gli allievi migliori. Ciò avviene soprattutto dove si fa della buona ricerca. Ma purtroppo talvolta la protezione dell'allievo avviene indipendentemente dal merito. E quindi sarà inevitabile, come in passato, che per raccogliere voti al fine di far parte della commissione giudicatrice, si creino alleanze che non sempre garantiscono una coalizione tra le persone con gli allievi più qualificati. In queste condizioni, per i commissari che volessero operare correttamente, la cosa più difficile sta nel riuscire a inserire nella graduatoria coloro che sono bravi, ma non hanno una cattedra bandita in sede o che si trovano all'estero. Il disegno di legge, proponendo la possibilità di una lista allargata, vuole in teoria favorire l'ingresso di questi ultimi, ma di fatto favorisce anche i meno meritevoli. Se con la lista non allargata una commissione animata da buoni propositi riusciva a promuovere anche soltanto un piccolo gruppo di aspiranti eccellenti, questi avevano la cattedra garantita, mentre con la nuova proposta di legge la commissione locale favorirebbe il proprio candidato. Inoltre, una sede con un candidato locale debole che non volesse rischiare di vedersi costretta ad accettare un estraneo, magari altamente qualificato, non chiederà di mettere una cattedra a concorso, ma tenterà di far inserire nella lista degli idonei il proprio candidato mediocre. Se vi riuscirà, questa sede chiederà la cattedra dopo il concorso e vi chiamerà il suo candidato. Un altro grave male che affligge i nostri concorsi sta nel fatto che questi, di principio, vengono concepiti come un premio di promozione per chi è bravo senza che nessuno si preoccupi se costui potrà continuare a svolgere le proprie ricerche in un'eventuale nuova sede. In realtà, il concorso dovrebbe essere considerato come un impegno reciproco fra il vincitore verso la sede che lo chiama e l'università che, oltre alla cattedra, deve offrirgli condizioni di lavoro adeguate. Di fatto, un eccellente vincitore, chiamato in una sede nuova, spesso si trova costretto, se vuole continuare a lavorare, a fare il pendolare tra la vecchia e la nuova sede, dove rimarrà il minimo richiesto per l'attività didattica. Sarebbe una svolta positiva se la chiamata del vincitore fosse vincolata all'accettazione di un contratto che lo obblighi, non soltanto formalmente, a risiedere nella nuova sede, una volta accettate le condizioni offerte. Senza una più vasta riforma, ogni tentativo di cambiare le regole dei concorsi non porterà a risultati e la formulazione di una lista allargata andrà a scapito dei migliori. Il punto cruciale da risolvere è quello di mettere in opera meccanismi per creare un libero mercato di giovani ricercatori non vincolati a rimanere nella sede dove hanno iniziato la loro carriera formativa. Ci sono due modi per farlo. 1) Riformare urgentemente i metodi di assegnazione dei pochi fondi per la ricerca (da incrementare appena possibile) e distribuirli a professori ad alta qualificazione i quali verseranno all'università una quota di quanto ricevuto. In questo modo, ogni università avrà interesse ad accaparrarsi i professori migliori, perché attraverso di essi otterrà aiuti economici per il suo sviluppo. 2) Istituire stipendi a termine per ricercatori postdottorato da pagare anche con questi fondi per la ricerca. I professori potranno così reclutare a termine, senza legami duraturi e spesso irreversibili con gli allievi. Saranno poi i migliori di questi ad essere reclutati come professori dalle università. Il problema dei concorsi verrà così automaticamente risolto. Basta copiare dai paesi all'avanguardia in questo settore che, guarda caso, sono quelli ad economia più sviluppata. In attesa di questi cambiamenti è meglio non allargare la lista dei vincitori oltre il numero delle cattedre disponibili. Piergiorgio Strata Università di Torino


FENOMENI CAOTICI Vortici inafferrabili Le ardue ricerche sulla turbolenza
Autore: CANUTO VITTORIO

ARGOMENTI: FISICA, ASTRONOMIA, ATMOSFERA
LUOGHI: ITALIA

FORSE Isocrate la definì meglio di tutti: «la turbolenza in cui viviamo». Infatti, l'uomo nasce e vive in quella parte dell'atmosfera terrestre (chiamata strato limite) che è quasi permanentemente in stato turbolento. Il fumo di una sigaretta, lo zampillo di una fontana, l'acqua dei fiumi (eccetto il placido Don!), tutti i miliardi di miliardi di stelle dell'universo, sono turbolenti. Se non ci fosse turbolenza, non ci sarebbe inquinamento, o per meglio dire, starebbe dov'è prodotto invece di essere trasportato così rapidamente altrove (e forse ne saremmo più coscienti). Data l'ubiquità di questo fenomeno fisico, dovremmo conoscerlo benissimo. Invece no. Il grande fisico americano Feynman disse che si tratta del più importante problema non risolto della fisica classica. Chi lo studia? Andate alla Boeing e troverete che la preoccupazione degli ingegneri aerodinamici è di «descrivere» la turbolenza facendo tanti esperimenti quanti bastano nelle gallerie di vento, un approccio empirico dal quale è difficile trarre leggi di carattere universale. Una cosa è descrivere, un'altra prevedere. Gli astrofisici? Dalle stelle ai dischi di accrescimento attorno ai buchi neri, alle stesse galassie, che Gamow propose fossero vortici congelati nello spazio, relitti di un giovane universo turbolento, essi devono affrontare la turbolenza. Marcus ha impietosamente scritto che gli astrofisici trattano la turbolenza nel modo più disinvolto: come se non ci fosse. Poco caritatevole come giudizio ma è certo che un miglioramento nel trattamento della turbolenza in astrofisica non guasterebbe. Visitiamo gli oceanografi che devono modellare i primi 200 metri di mare. Sotto l'azione dei venti, mostrano chiari fenomeni di turbolenza. Il lavoro è parzialmente aiutato dal fatto che le esplosioni atomiche (prima che venissero abolite nel 1963) producevano del trizio che si diffonde negli oceani e dalle misure fatte si può ricavare qualcuna delle proprietà di trasposto e diffusione causate dalla turbolenza. Anche qui però non è una teoria o un modello: si tratta di qualche dato, ma tutto fa brodo. Andiamo dai fisici teorici. Finora, essi hanno brillato per la loro assenza eppure la loro preparazione è quanto mai adatta a capire o per lo meno a vedere tali fenomeni sotto una luce diversa. Nel 1974, Heisenberg, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, in un seminario alla Colombia University di New York citò la turbolenza come uno dei grandi problemi non risolti della fisica moderna. Quando gli chiesi cosa potevo leggere su questo tema mi disse di cominciare con la sua tesi di laurea che io erroneamente credevo fosse di meccanica quantistica e invece trattava e risolveva un classico problema di stabilità idrodinamica posto da Rayleigh. Mi disse anche del suo lavoro del '45 quando, contemporaneamente e indipendentemente dal russo Kolmogorov, introdusse uno dei modelli più fondamentali ancora in uso oggi. Heisenberg disse chiaramente che la non-linearità dei fenomeni naturali è la regola e che la linearità (o laminarità in idrodinamica) è l'eccezione. Eppure, le equazioni più usate in fisica sono quelle lineari, a cominciare da quelle di Max well. La turbolenza è l'apoteosi della non-linearità con un'aggravante in più, come se ce ne fosse bisogno: non esiste un parametro piccolo che permetta un trattamento perturbativo, come invece esiste in meccanica celeste e in fisica atomica. Heisenberg fu il profeta inascoltato della non-linearità, propose persino una equazione di Dirac non-lineare, ma non ebbe grande seguito: troppo avanti sul tempo. Ora le cose incominciano a cambiare grazie al caos. La turbolenza esibisce non solo una acuta dipendenza dalle condizioni iniziali, come i sistemi caotici, ma è anche una struttura fatta di un numero grandissimo di gradi di libertà o di vortici, grandi, mediani e piccoli che interagiscono in modo non- lineare. I fisici del caos sono i primi a riconoscere che le loro equazioni sono ancora ben lontane dalle equazioni dell'idrodinamica alla base di ogni fenomeno turbolento, di cui vorremmo conoscere le soluzioni. Quindi, per il momento, il caos non ci aiuta, nel senso pratico, a descrivere la turbolenza dentro una stella, attorno all'ala di un aereo o nell'atmosfera. Ci aiuta però a capire come un fenomeno laminare diventi prima caotico e poi turbolento, problema concettualmente molto importante. Chiudo con due esempi presi dall'astrofisica e dalla climatologia (effetto serra). Un gruppo di astrofisici dei laboratori di Frascati, Mazzitelli, D'Antona e Caloi, ha dimostrato che il miglior trattamento della turbolenza stellare riduce l'età degli ammassi globulari, dai canonici 14-18 miliardi di anni, a un'età attorno ai 12-13 miliardi, una riduzione che per sè non dice molto (eccetto per un po' di invidia!) ma che invece può essere quanto mai importante. Infatti, il telescopio spaziale «Hubble» ha recentemente indicato un'età dell'universo tra gli 8 e i 12 miliardi di anni. Ma come è possibile avere stelle con un'età di 15-18 miliardi di anni, cioè più vecchie dell'universo? Il gruppo di Frascati può aver brillantemente risolto questo dilemma non buttando a mare il Big Bang, come alcuni hanno suggerito, ma calcolando meglio l'età delle stelle più vecchie. Nel campo climatico sappiamo che si immettono annualmente nell'atmosfera circa 7 miliardi di tonnellate di carbonio di origine antropogenica: la metà rimane nell'atmosfera, mentre il rimanente viene assorbito dagli oceani e dalla vegetazione. Se l'effetto serra dovesse veramente avvenire, ci si domanda: un oceano più caldo assorbe più CO2 o meno CO2 ? Servirebbe cioè a smorzare l'effetto serra o a retroalimentarlo portandoci così a una situazione invivibile come su Venere? Senza un modello credibile della turbolenza oceanica non possiamo rispondere (i dati sul trizio non ci aiutano perché lo scenario oceanico sarebbe diverso). Non è una domanda retorica perché ne può dipendere il destino di tutti noi. Dall'età dell'universo, alle stelle, agli oceani: la turbolenza è un cimento per tutti. Vittorio M. Canuto Nasa, Goddard Institute for Space Studies New York, N. Y.


LE PROVOCAZIONI DI NEGROPONTE Che succede se i bit sostituiscono gli atomi Sopravviverà la nuova specie, l'Homo sapiens numericus?
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, TECNOLOGIA, COMUNICAZIONI, LIBRI
PERSONE: NEGROPONTE NICHOLAS
NOMI: NEGROPONTE NICHOLAS
ORGANIZZAZIONI: MASSACHUSETTS INSTITUTE OF TECHNOLOGY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Essere digitali»

CI sono varie cose che colpiscono nel libro «Essere digitali» di Nicholas Negroponte, direttore del Media Lab del mitico Massachusetts Institute of Technology. La prima è che l'autore sente il bisogno di giustificarsi perché scrive un libro: cioè ricorre a carta e inchiostro invece che a mezzi elettronici, peraltro usati nella stesura. Lui non lo dice così brutalmente, ma il fatto è che per parlare ai dinosauri bisogna usare il dinosaurese. E questo è già un motivo di meditazione. E' vero, però, che un libro si può leggere in tram più comodamente che un computer. Poi c'è l'idea - ovvia ma mai così ben espressa - che l'uomo per inviare messaggi ha sempre spostato «cose» (Negroponte dice «atomi») mentre ora sposta bit, cioè informazioni elementari (0 e 1) del tutto immateriali. E spostare bit costerà sempre meno, per non dire nulla: una fibra ottica dalle dimensioni di un capello presto potrà trasmettere 1000 miliardi di bit al secondo. Cioè un milione di canali televisivi, vari milioni di libri o, se volete, l'intera raccolta della «Stampa». Il telegrafo Morse, per capirci, viaggiava a 16 bit al secondo, velocità ridicola, eppure bastò a dare al mondo il dono della simultaneità. Una pallottola di Negroponte coglie poi in pieno la Tv ad alta definizione, tecnologia nella quale giapponesi, europei e americani hanno speso cifre da capogiro. Ma voi, domanda Negroponte, di fronte a una trasmissione televisiva, vi siete mai lamentati perché l'immagine non era abbastanza nitida? E invece quante volte avete trovato il programma stupido, noioso, fazioso? Insomma: bisogna investire in intelligenza piuttosto che in tecnologia superflua. Anche la qualità delle immagini, tuttavia, con il passaggio dal sistema analogico a quello digitale, avrà grandi vantaggi, e senza troppa spesa. Il segnale digitale, infatti, può essere «compresso» e «restaurato». Cioè si può con un solo bit inviare un messaggio equivalente a milioni di bit un po' come, tra amici, una complice strizzata d'occhio riassume un lungo discorso. E si può rimediare un errore di trasmissione digitale applicando algoritmi correttivi al segnale in arrivo. Alla fine, paradossalmente, l'immagine restaurata sarà migliore di quella originale. Il discorso di Negroponte è importante anche per ciò che non dice ma fa venire in mente. Dunque: la grande mutazione in corso riguarda la capacità di trasmettere informazioni. Questa capacità sarà presto quasi illimitata e quasi a costo zero, mentre fino a ieri i canali trasmissivi e i loro costi erano un collo di bottiglia. La svolta tecnologica ha due formidabili conseguenze sociali: 1) il consumo di informazione e di intrattenimento diventerà enorme, spostando il problema dal collo di bottiglia dei mezzi trasmissivi al collo di bottiglia delle capacità creative di chi lavora nelle comunicazioni; 2) la comunicazione di massa nel prossimo millennio non sarà più a senso unico dall'emittente centralizzata a una periferia passiva ma diventerà gradualmente a doppio senso, cioè interattiva. E' ormai chiara la convergenza di televisione, informatica e reti di telecomunicazione. Televisore e computer saranno presto lo stesso elettrodomestico. E se Internet già oggi offre la possibilità di contatti personali a distanze intercontinentali come poteva avvenire nelle piazze dei villaggi della società preindustriale, presto il televisore-computer trasformerà lo spettatore in attore. In ogni campo: culturale, sociale, politico. Un'altra cosa ormai è chiara: le frequenze via etere (al suolo o su satellite), sono relativamente limitate, e quindi bisognerà riservarle alle comunicazioni con riceventi mobili: navi, auto, aerei o anche persone che passeggiano con il telefonino. Sarebbe sciocco usarle per alimentare televisori che sono fermi nel vostro salotto, a un metro da una presa per fibre ottiche dalla quale sgorgheranno milioni di canali personalizzati sulle vostre esigenze (notizie, film, quiz, videogiochi, arte, pornografia, prediche religiose...). Da questo punto di vista si incomincia a vedere bene l'anomalia italiana: abbiamo un duopolio Rai-Fininvest e si è lottato a colpi di referendum sulla spartizione di poche reti televisive via etere tra servizio pubblico e Tv commerciale, mentre dietro l'angolo ci sono cambiamenti tecnologici che fanno apparire anacronistico lo scontro in atto. Certo, il problema delle regole esiste, ma sono ormai altre le regole che servono: occorre pensare in termini di «democrazia elettronica», con un parlamento virtuale costituito da tutti i cittadini. Inoltre, la disponibilità di un numero enorme di canali su fibra e via satellite apre il discorso dei «canali tematici», specializzati per fasce di utenza, con tutte le conseguenze che ciò comporta anche per gli investimenti pubblicitari e per le trasformazioni che subiranno altri strumenti di comunicazione, come i giornali e la radio (vedi, in proposito, il saggio «Tecnologie di libertà» di Ithiel de Sola Pool edito dalla Utet). Per finire, vorrei insinuare un dubbio quasi fantascientifico. L'animale uomo si evolve verso la sottospecie digitale (Homo sapiens numericus). Questa ha come protesi un computer-tv collegato a Internet, telelavora, telecompra, telegioca, teleama (o quasi). Ma intanto numerosi esemplari della specie arcaica nel Terzo Mondo faranno ancora lavori manuali, sesso non virtuale e altre cose non a base di bit ma di atomi. Chi vincerà nella lotta darwiniana per la sopravvivenza? Piero Bianucci


METEORITI I proiettili dello spazio Piovono dal cielo 9000 pietre all'anno
AUTORE: DI MARTINO MARIO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C., D. I grandi impatti meteoritici fino ad oggi documentati nel mondo. L'area che sarebbe devastata dall'impatto di un asteroide dal diametro di 1 chilometro

I meteoriti sono pezzi di roccia o metallo provenienti dallo spazio che, resistendo all'attraversamento dell'atmosfera, raggiungono la superficie terrestre. Il sistema solare è affollato di questi piccoli corpi, le cui dimensioni vanno da quelle di un granello di polvere fino ad alcuni chilometri. La loro origine è legata alle comete e alle collisioni che talvolta coinvolgono asteroidi appartenenti alla «fascia principale», tra le orbite di Marte e di Giove. Nel primo caso, quando una cometa passa nelle vicinanze del Sole, il nucleo costituito da ghiaccio sporco viene sottoposto a un intenso riscaldamento a seguito del quale, per sublimazione, vengono liberate nello spazio abbondanti quantità di gas che trascinano particelle solide composte principalmente da silicio e carbonio. Questi corpuscoli rimangono in orbita attorno al Sole e quando la Terra incrocia l'orbita di comete periodiche si può assistere allo spettacolare fenomeno degli sciami meteorici (come le Perseidi di agosto), cioè un notevole incremento del numero di «stelle cadenti». Nel secondo caso invece alcuni frammenti prodotti in collisioni tra asteroidi possono essere «iniettati» nelle regioni interne del sistema solare. Se queste «schegge» assumono orbite circumsolari che incrociano quella del nostro pianeta, può accadere che avvenga l'incontro fatale. Buona parte di questi piccoli corpi, la cui velocità rispetto alla Terra varia dai 15 ai 60 chilometri al secondo, si frammenta e dissolve nell'atmosfera a causa delle elevatissime temperature provocate dall'attrito con l'aria, generando il fenomeno delle stelle cadenti, le effimere scie luminose che talvolta solcano il cielo notturno. Se però il corpo è di grosse dimensioni o costituito da materiale con un'alta concentrazione di metalli, la barriera frapposta dall'atmosfera viene superata e questi corpi possono raggiungere la superficie terrestre. La caduta di meteoriti è un fenomeno più comune di quanto si creda, ogni anno diverse persone sono testimoni di eventi di questo genere e stime attendibili valutano in circa 60 per anno su un'area di un milione di chilometri quadrati (circa tre volte la superficie dell'Italia) il numero medio di meteoriti di peso superiore ai 100 grammi che cadono sulla superficie terrestre, per un totale di circa 9000 su tutte le terre emerse del nostro pianeta. E' mai successo che la caduta di un meteorite abbia causato la morte di qualcuno? Recentemente alcuni colleghi americani del JPL di Pasadena (California), grazie a un paziente esame di antichi e più recenti documenti, hanno ricavato un quadro abbastanza completo sulla caduta di questi oggetti in Cina nel periodo compreso tra il 700 a.C. e il 1920. La prima registrazione è stata trovata in «Ch'un- ch'iu» (Annali di primavera e autunno), un lavoro attribuito a Confucio. Alla data del 24 dicembre del 645 a.C. risulta che «cinque pietre sono cadute a Sung» (una delle regioni cinesi dell'epoca). Da allora all'inizio di questo secolo nei testi cinesi sono state rintracciate più di 300 annotazioni relative a testimonianze di piogge di meteoriti. Di questi eventi sette, in un periodo di 13 secoli, causarono la morte di numerose persone. Il primo è riportato in «Sui-shu» (Storia della dinastia Sui, 581-618). Il 14 gennaio del 614 un grosso meteorite si abbatté sull'accampamento dei ribelli di Lu Ming- yueh, distruggendo una torre da assedio e uccidendo più di dieci guerrieri. Nel 1341 un vasto sciame di meteoriti metallici cadde nello Yunnan su di un'area di almeno 250X100 chilometri, causando la distruzione di molte case e l'uccisione di un numero imprecisato di uomini e animali. Nel febbraio-marzo del 1490 un'intensa pioggia di meteoriti rocciosi, del peso di 1-1,5 chilogrammi, cadde sul distretto di Ch'ing-yang nella provincia di Shansi, provocando la morte di oltre 10 mila persone. Nel 1639 una grossa pietra finì su un mercato distruggendo alcune case circostanti e uccidendo diverse decine di persone. Il 30 giugno 1874 durante un temporale un meteorite uccise nel suo letto un bambino a Chin-kuei Shan nel distretto di Ming-tung Li. Il 5 settembre 1907 a Hsin- p'ai un'intera famiglia fu sterminata da un grosso meteorite. Infine il 25 aprile 1915 una donna, colpita a una spalla da un meteorite, dovette subire l'amputazione del braccio. Esistono notizie, anche se meno circostanziate di quelle cinesi, su eventi simili verificatisi in altre parti del mondo. Verso la metà del XVII secolo non lontano dal centro di Milano un frate francescano fu colpito a una gamba da un meteorite e morì forse a causa della rottura dell'arteria femorale. Due marinai nel 1648 furono uccisi a bordo della loro nave in rotta verso Giava, mentre un contadino perse la vita nel Kentucky il 14 gennaio 1879. Ma sono notizie che lasciano un notevole margine di dubbio. Eventi più certi, verificatisi in anni meno lontani, riguardano una donna che a Sylacauga (Alabama) il 30 novembre 1954 fu raggiunta al braccio sinistro da un meteorite del peso di circa 4 chilogrammi. Questo prima di colpirla trapassò il tetto e rimbalzò su di una grossa radio. Tra gli eventi più recenti possiamo ricordare lo sciame di meteoriti che bersagliò la periferia Ovest di Torino il 18 maggio 1988. Il più grosso di questi, del peso di 800 grammi, cadde, mentre impiegati e operai stavano riprendendo il lavoro dopo la pausa pranzo, in un parcheggio dello stabilimento torinese dell'ex Aeritalia, a pochi metri di distanza dal capannone in cui era in corso l'assemblaggio del satellite astronomico «Hipparcos». Tre frammenti, che appartenevano sicuramente allo stesso corpo disintegratosi a causa dell'attrito con l'atmosfera, furono rinvenuti rispettivamente a Pianezza, Collegno e Borgata Leumann. Il 9 ottobre 1992 migliaia di persone nella costa Est degli Stati Uniti furono testimoni del passaggio di un bolide (una stella cadente di particolare luminosità), più brillante della Luna piena, che si frammentò durante il suo cammino nell'atmosfera. Uno dei pezzi, del peso di 12 chilogrammi, si abbatté sul cofano posteriore di un'auto parcheggiata lungo una strada di Peekskill (New York). Come consolazione per la semidistruzione dell'auto il proprietario poté ricavare circa 70.000 dollari dalla vendita del meteorite. Un'altra pioggia di questi piccoli corpi celesti interessò la regione di Montreal (Canada) il 14 giugno dello scorso anno. Un contadino che stava accudendo i suoi animali osservò in cielo una palla di fuoco e pensò all'esplosione in volo di un aereo. Subito dopo udì un fortissimo «bang» seguito da un sibilo e da un tonfo sordo. Poco più distante un ragazzo, che stava percorrendo una strada di campagna in bicicletta, notò che qualcosa aveva colpito il prato a pochi metri da lui. Dopo un attimo di smarrimento si avvicinò a un piccolo cratere che si era formato nel terreno e notò al suo interno una pietra molto scura ancora fumante, il cui peso risultò poi essere di 3 chili. Era di uno degli 11 meteoriti che quel giorno colpirono il suolo canadese. Il 26 febbraio di quest'anno nella cittadina di Neagari-cho, in Giappone, un meteorite di 300 grammi ha sfondato il tettuccio di una macchina parcheggiata. Ma qual è la probabilità di essere colpiti da un meteorite di peso superiore ai 100 grammi? La risposta è tutto sommato rassicurante. Considerando il flusso indicato all'inizio, una popolazione mondiale di 5 miliardi e la superficie proiettata del corpo umano pari a 0,25 metri quadrati, la previsione è che su tutto il pianeta venga colpita una persona ogni 14 anni. Mario Di Martino Osservatorio Astronomico di Torino


FALCO PESCATORE Vi sorvolo veloce schivando gli spari
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA
NOMI: PULESTON DENNIS
LUOGHI: ITALIA

DA un pezzo il bellissimo falco pescatore (Pandion haliaetus) ha cancellato l'Italia dalle sue località di nidificazione. Ha imparato a sue spese che è troppo rischioso riprodursi e allevare i piccoli in un Paese dove abbondano i cacciatori. Ragion per cui i falchi pescatori sono solo di transito sulla nostra penisola nella loro lunga migrazione, un volo di circa quattromila chilometri, che li porta dalle regioni africane a Sud del Sahara all'Europa centrale. La località più vicina dove ancora nidificano poche coppie è la Corsica. Il passaggio sull'Italia è tutt'altro che indolore. Vi lasciano le penne un migliaio di individui l'anno, secondo le stime fatte alcuni anni fa dalla britannica Royal Society for the Protection of Birds, l'equivalente della nostra Lipu, la Lega italiana per la protezione degli uccelli. Non c'è da stupirsi se il rapace preferisca metter su casa in luoghi meno pericolosi. La notorietà del Pandion haliaetus si deve specialmente alla sua spettacolare bravura di pescatore. L'uccello è equipaggiato di tutto punto per la pesca. Ha artigli lunghissimi fortemente arcuati ed è capace di ruotare le dita esterne per meglio acchiappare la preda. Volteggia a lungo sui fiumi o sui laghi e dall'alto scandaglia con lo sguardo le acque. Ha una vista acutissima, sei volte più potente della nostra. Non appena adocchia un pesce, artigli protesi, ali semipiegate, si lascia cadere in picchiata. Penetra nell'acqua a tutta velocità con uno splash rumoroso, in un gran ribollire di spruzzi. L'uccello scompare, ma di lì a poco riemerge con la preda tra gli artigli. E a vigorosi colpi d'ala riprende quota. Non sempre però gli va bene. A volte la preda è troppo grossa: in questo caso la porta in superficie, poi se la trascina dietro fino a riva. Ma il finale è sempre lo stesso. Il falco divora avidamente il frutto della pesca. Solo quando ha i piccoli che l'attendono, porta la preda in volo fino al nido. Un nido gigante largo un metro e mezzo e profondo un metro circa, ma non certo di manifattura raffinata. E' un ammasso disordinato di rami e sterpi, ugualmente idoneo a fare da nursery per le uova e per i piccoli. In Europa il maschio arriva dalla sua zona di svernamento africana verso la fine di febbraio o i primi di marzo. Precede di una quindicina di giorni la comparsa della femmina. E questo periodo è per lui una lunga, impaziente attesa della compagna. Quando finalmente lei giunge ad ali spiegate, il maschio diventa nervoso e aggressivo, pronto a menar le mani e a scacciare qualunque intruso si affacci sul suo territorio. Si forma la coppia e il primo pensiero dei partner è quello di sistemare il nido, riattando la vecchia struttura con l'aggiunta di nuovi materiali, soprattutto rami secchi. Appena tutto è pronto, incomincia la girandola degli accoppiamenti. Sono sempre esercizi di alta acrobazia. Le due aperture genitali debbono combaciare perfettamente perché nemmeno una goccia di sperma vada perduta. C'è qualcosa di volutamente tenero nel comportamento del maschio che, salito sul dorso della femmina, bada a tener gli artigli ben ripiegati per non ferire la partner. In un solo giorno si possono susseguire anche quattordici tentativi di accoppiamento perché tre soltanto abbiano successo. Ma la giornata non è dedicata interamente all'amore. Anche lo stomaco ha i suoi diritti. Sicché, almeno un paio di volte, il maschio lascia la compagna per fare un giro d'ispezione sul corso d'acqua più vicino, a caccia di pesce. Il bello è che quando riesce a catturarne uno, non si sogna affatto di dividerlo con la sposa. Egoisticamente se lo mangia tutto lui. Lei, se ha fame, deve procurarsi il cibo da sola. Si direbbe che non c'è cavalleria nel mondo dei falchi pescatori. Ma, con il passar del tempo, le cose cambiano, si susseguono gli accoppiamenti e si rafforza il legame di coppia. Poi giunge il momento in cui la femmina depone le uova. Tre o quattro, maculate di marrone rossiccio. Ci vogliono 30-40 giorni di incubazione e altri 60 per l'allevamento dei piccoli. Ma in questo periodo critico il maschio non si tira indietro. Sente profondamente il suo compito di padre e provvede lui a sfamare tutta la famiglia. Il falco pescatore è anche uno straordinario indicatore dell'inquinamento. In presenza di certi veleni non riesce a riprodursi. Significativo in proposito l'esempio della piccola isola Gardiner, che si trova all'estremità orientale di Long Island, a Est di New York. Negli Anni 30 e 40 c'era in quest'isola la maggior concentrazione di falchi pescatori del mondo. Nel l948 l'ornitologo Dennis Puleston vi contò più di trecento nidi, in ciascuno dei quali nascevano regolarmente due o tre piccoli. L'isola rappresentava un luogo ideale di nidificazione perché non solo vi abbondavano laghetti ricchi di pesci, ma non vi era nessuno dei nemici naturali dei falchi, nè procioni, nè volpi, nè donnole, nè opossum, nè ratti. E nemmeno interferenza umana, perché era vietato sbarcare nell'isola senza uno speciale permesso, proprio per non disturbare la quiete degli uccelli nidificanti. Le cose incominciarono a cambiare dagli Anni 50 in poi. Il numero dei nidi attivi diminuiva in maniera allarmante. L'esame delle uova rivelò la presenza di l3,8 parti per milione di Ddt, insieme con 0,28 parti per milione di dieldrina, altro famigerato pesticida. Per la presenza di questi due veleni, sia pure in dose minima, la femmina dell'uccello non riusciva ad assorbire la quantità di calcio necessaria allo sviluppo regolare del guscio. E le uova troppo fragili si frantumavano sotto il peso della madre accovacciata nella cova. Era il risultato della disinfestazione praticata in grande stile in quella zona per combattere bruchi nocivi all'agricoltura. Nel '66 Ddt e dieldrina furono messi al bando e lentamente il falco pescatore riprese vitalità. Oggi è specie protetta. Ma l'uomo continua a bonificare le zone palustri senza rendersi conto che sono proprio queste l'ambiente più favorevole per la sopravvivenza dello splendido rapace. Le solite incongruenze umane. Isabella Lattes Coifmann


NEL 2000 A SYDNEY Olimpiadi ecologiche
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, ARCHITETTURA
NOMI: SIMPSON RODERICK, WILSON ANDREA, MALIN RODMAN DAVID, LENSSEN NICHOLAS
ORGANIZZAZIONI: GREENPEACE, WOLDWATCH INSTITUTE
LUOGHI: ESTERO, AUSTRALIA, SYDNEY

UN quartiere per 6000 abitanti interamente concepito e costruito secondo i principi della compatibilità ambientale, in cui materiali, uso dell'energia, sistema di trasporti dovranno obbedire a un imperativo categorico: non danneggiare l'ecosistema. Questo sarà il villaggio olimpico di Sydney per i Giochi del 2000. Il progetto è stato fatto dagli architetti Roderick Simpson e Andrea Wilson per conto di Greenpeace; per la prima volta la combattiva organizzazione ambientalista mondiale scende sul terreno dei problemi concreti. I materiali saranno scelti tra i meno inquinanti e meno distruttivi dell'ambiente (bandito il legname delle foreste tropicali, vietato il Pvc e in generale i prodotti a base di cloro); il riscaldamento sarà ottenuto utilizzando al massimo il sole (l'orientamento delle costruzioni è stato deciso in questa ottica) e coibentando gli edifici; il consumo di acqua sarà ridotto del 50 per cento utilizzando per le toilette acqua proveniente da altri usi, adottando rubinetti e docce «a getto gonfiato», sfruttando l'acqua piovana e in generale trattando tutte le acque utilizzate con un procedimento fito-biologico. Una centrale solare, integrata al 25 per cento da gas metano (che sarà in parte biogas proveniente dal trattamento dei rifiuti), fornirà l'elettricità al villaggio riducendo del 95 per cento la produzione di anidride carbonica. Saranno adottate esclusivamente lampadine a basso consumo e tutti i frigoriferi impiegheranno prodotti sostitutivi dei Cfc per non danneggiare lo strato di ozono. I trasporti saranno basati su treno, metrò leggero di superficie, minibus e taxi collettivi, e su biciclette disponibili ad ogni fermata dei mezzi pubblici. Il villaggio delle olimpiadi australiane sarà, in sostanza, una sorta di prova generale, o di dimostrazione di fattibilità, per un'architettura meno distruttiva e sprecona di quella attuale. Secondo un recente studio del Worldwatch Institute, l'autorevole centro americano di studi ecologici, l'industria delle costruzioni consuma il 55 per cento del legname mondiale non destinato a combustibile, il 40 per cento dei materiali e dell'energia, oltre un decimo dell'economia globale ruota intorno alla costruzione di case, edifici collettivi, fabbricati industriali e commerciali; ogni anno 3 miliardi di tonnellate di materie prime, ferro, rame, alluminio, derivati dal petrolio, finiscono nei muri delle nuove costruzioni, nelle tubazioni, nei rivestimenti. E queste cifre sono destinate a salire vertiginosamente non solo perché nei Paesi sviluppati le abitazioni e gli edifici in genere sono sempre più grandi (negli Usa la superficie media degli appartamenti è passata da 102 a 187 metri quadrati dal '49 a oggi) ma perché nei Paesi in via di sviluppo vengono via via abbandonate le antiche e poco distruttive tecniche costruttive per passare all'edilizia industriale. Secondo gli autori dello studio, David Malin Roodman e Nicholas Lenssen, i circa due miliardi di persone che oggi vivono in edifici ad alto assorbimento di risorse diventeranno 8 miliardi entro cinquant'anni. Infine va ricordato che nei Paesi avanzati la vita media degli edifici è sempre più breve: nell'area di Tokyo a partire dagli Anni 80 si è ridotta ad appena 17 anni, poi c'è l'abbattimento per far posto a edifici più alti. Il problema è ingigantito dal fatto che, una volta costruiti, gli edifici attuali continuano a incidere pesantemente per il loro funzionamento: alti consumi di energia, dispersione di calore, inquinamento dell'aria e così via. Una trentina di anni fa, sottolinea lo studio del World watch Institute, l'opinione pubblica si rese conto che le fabbriche e le auto inquinavano l'ambiente e la reazione che ne è seguita ha provocato un enorme miglioramento in questi due settori. Invece non è mai stata fatta una riflessione analoga a proposito dell'edilizia, se si esclude la passeggera attenzione dedicata agli sprechi di energia negli anni (presto dimenticati) della crisi petrolifera. «Oggi in tutto il mondo - dicono Roodman e Lenssen - l'industria delle costruzioni comincia a riconoscere le manchevolezze dei propri prodotti, e a scoprire che esistono soluzioni alternative a portata di mano e con costi inferiori ai benefici». Tre sono le strade principali indicate dallo studio per affrontare questa inversione di tendenza: sfruttare le forze naturali, come il sole e il vento per riscaldare o raffreddare, puntare su elettrodomestici e sistemi di condizionamento più efficienti, usare migliori materiali da costruzione. Insomma, un bilanciato compromesso fra tecnologie di avanguardia (energia fotovoltaica, vetri «intelligenti», riciclaggio dei materiali e dell'acqua) e un accorto recupero di tecniche e materiali tradizionali, dal corretto orientamento degli edifici per catturare il sole all'uso delle correnti d'aria per raffreddare gli interni. Vittorio Ravizza


RIFLESSIONI DI UNA ETOLOGA Care scimmie, cuginette mie I problemi etici di chi studia animali in cattività
Autore: VISALBERGHI ELISABETTA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
NOMI: GOODALL JANE, FOSSEY DIAN, GALDIKAS BIRUTE'
ORGANIZZAZIONI: EDIZIONI LA STAMPA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Storie di scimmie»

Elisabetta Visalberghi ha appena pubblicato «Storie di scimmie» per le Edizioni La Stampa (180 pagine, 30 mila lire). Ne presentiamo qui le ultime pagine, particolarmente interessanti per le questioni bioetiche che sollevano. Collaboratrice di «Tuttoscienze», la Visalberghi è presidente dell'Associazione primatologica italiana e dal 1978 lavora all'Istituto di psicologia del Cnr a Roma. E' segretaria della società italiana di etologia. Il comportamento delle scimmie antropomorfe è il suo principale tema di ricerca. In «Storie di scimmie» con una scrittura elegante e piacevole fonde riflessioni personali e risultati scientifici nello studio dei primati. CHI, come me, studia il comportamento delle scimmie sa come riesca talvolta difficile trovare il giusto equilibrio fra il necessario distacco scientifico e l'attaccamento affettivo suscitato, direi quasi inevitabilmente, dalla frequentazione assidua di questi animali. Non è del tutto un caso, credo, se le persone che più a lungo hanno studiato in condizioni naturali le scimmie antropomorfe sono, o sono state, donne: Jane Goodall gli scimpanzè, Dian Fossey i gorilla e Biruté Galdikas gli oranghi. Così come da donne sono stati scritti molti dei libri di divulgazione scientifica sui Primati (anche nel panorama dei libri tradotti in lingua italiana esiste una predominanza femminile). Sono libri da cui traspare un grande trasporto emotivo e una tenerezza quasi infantile verso queste creature. E da cui si manifesta a chiare lettere una energica combattività verso chiunque ne minacci la sopravvivenza. Bracconieri, allevatori di bestiame, commercianti di animali esotici, autorità corrotte, vengono additati come infami personaggi da estirpare dalla faccia della Terra. Questi libri li hanno scritti persone che hanno fatto dello studio in natura la loro ragione di vita, e che non hanno nulla da rimproverarsi. Per chi studia le scimmie in laboratorio il caso è diverso: farsi paladini è ben più difficile e contraddittorio. Come si fa a voler bene a un animale e al tempo stesso tenerlo in gabbia? Quali compromessi si devono accettare? Quali responsabilità è doveroso assumersi? Rispondere a queste domande non è facile. E i tentativi, per quanto mi riguarda, mi sembrano spesso scuse, argomentazioni non autentiche. Scuse che non sempre reggono alla prova dei fatti: la realtà in cui mi trovo a operare. Il mio lavoro con le scimmie consiste nel guardarle vivere, o al massimo nello studiarne le reazioni di fronte a qualche marchingegno ideato per metterne alla prova queste o quelle capacità. Mi ritengo molto fortunata di non dover intervenire con procedure che possono causare loro dolore fisico e psicologico. Certo, anche se io non lo faccio, so benissimo che al mondo ci sono altri studiosi che usano gli animali per la sperimentazione biomedica. Noi tutti ne siamo in diverso modo e misura responsabili e, tutti, dobbiamo perciò dare il contributo che ci compete affinché questo genere di sperimentazione venga in un prossimo futuro abolito, e oggi contenuto entro il minimo indispensabile, riducendo in ogni caso le sofferenze fisiche e psichiche degli animali (e l'area del possibile diventa ogni giorno più ampia, basta impegnarsi e volerlo). Ogni volta che qualcuno di noi entra in una farmacia per acquistare una medicina, dovrebbe pensare che qualcun altro in un laboratorio ha lavorato per creare quella medicina, magari facendo soffrire non pochi animali. Il solo «lusso» che io, come altri etologi, mi sono concessa è quello di aver scelto di non lavorare in quel laboratorio, di non fare io quel tipo di sperimentazione. Che fare quindi? Bisogna andare per gradi attraverso domande, risposte e scelte che coinvolgono tutti, non solamente gli scienziati. E' giusto cercare di sapere di più sul mondo che ci circonda, anche a costo di interventi potenzialmente dannosi e di manipolazioni sicuramente dolorose per altri esseri viventi? Siamo proprio sicuri che il progresso scientifico, la conoscenza, anche fine a se stessa, sia uno dei massimi valori da perseguire? Oggi siamo ancora troppo pochi a porci tali dubbi. Ma penso anche che la crescita malsana di questo nostro mondo, il disagio crescente che sentiamo, i rischi sempre maggiori che molti di noi non sono più disposti a correre, siano tutti elementi che concorrono sempre più a imporre questi interrogativi e a far maturare la convinzione che è necessario arrivare a un drastico ridimensionamento della nostra «volontà di potenza». Per agire, per «far qualcosa», non si può, nè è necessario, mirare subito a cambiamenti su larga scala. E' sufficiente proporci obiettivi più limitati e cominciare a cambiare alcune cose che sono indice di rispetto per le esigenze degli altri, animali inclusi. Cerchiamo per esempio di ridurre - come è già ora possibile - il numero degli esperimenti in cui vengono utilizzati animali. E quando tale pratica sia indispensabile per studi di alto e provato valore scientifico, vediamo di ridurre al minimo i soggetti, cerchiamo di finanziare progetti per la messa a punto di tecniche alternative; e trattiamo i nostri animali da esperimento in modo che, finché vivono, almeno vivano «felici». L'ultimo punto cui ho accennato credo costituisca il motivo per cui il mio lavoro non mi pone eccessivi problemi etici, la ragione per cui entrando in laboratorio non mi sento troppo a disagio. Quando mi avvicino alle gabbie c'è un'allegra animazione, un cocktail di gridolini emessi non appena i cebi si accorgono del mio arrivo. E vedo con piacere che giocano divertiti, fracassano oggetti, spiluccano gioiosi, e vocalizzano proprio come i cebi che vivono liberi in Sud America. E' anche per conoscere meglio la biologia di questi ultimi che studio i cebi in laboratorio. Tuttavia, se si decidesse di fermare il progresso e di tornare a vivere come tanto tempo fa, credo che sia io sia i miei cebi non avremmo nulla da obiettare. Elisabetta Visalberghi


OSPITA 12 MILA SPECIE Culla di piante esotiche L'Orto botanico di Palermo compie due secoli
AUTORE: GRANDE CARLO
ARGOMENTI: BOTANICA, ECOLOGIA, AMBIENTE
NOMI: FERDINANDO III, TODARO AGOSTINO
ORGANIZZAZIONI: ORTO BOTANICO DI PALERMO, DIPARTIMENTO DI SCIENZE BOTANICHE
LUOGHI: ITALIA, PALERMO (PA)
NOTE: I DUECENTO ANNI DELL'ORTO BOTANICO DI PALERMO TEMA: I DUECENTO ANNI DELL'ORTO BOTANICO DI PALERMO

NEL 1820, quando i moti carbonari ne distrussero biblioteca ed erbario, i Borboni lo consideravano solo un covo di ribelli. Ma era stato uno di loro, Ferdinando III, a volerlo e ben presto con l'aiuto di studiosi siciliani, tedeschi, francesi e inglesi, l'Orto botanico di Palermo ridiventò il paradiso tropicale amato da Goethe, meta ambita dai viaggiatori di tutto il mondo. Un «labirinto fiorito» in cui vegetano rigogliose migliaia di piante esotiche. Lungo i suoi viali, di gran lunga più tranquilli dell'Hotel des Palmes in cui alloggiava, nel 1881 Wagner terminò il Parsifal. E' un anno importante per gli Orti botanici italiani: il più antico, quello di Padova, compie 450 anni e fino a venerdì ospiterà un convegno dedicato ai Giardini botanici della penisola. Quello di Palermo festeggia invece i due secoli di vita: le manifestazioni in corso (escursioni, convegni e una dozzina di mostre) culmineranno in dicembre con il novantesimo congresso della Società botanica italiana e l'incontro degli esperti botanici europei appartenenti al Cites (Convenzione sul commercio internazionale di specie minacciate). In ottobre si terrà un importante convegno sul verde nelle città mediterranee. L'Orto è una delle istituzioni scientifiche più prestigiose d'Italia: ha diffuso nel Mediterraneo e in Europa specie esotiche importantissime, dal mandarino al nespolo del Giappone; ha avviato i primi esperimenti per coltivare nei nostri climi il cotone, la soia, il tabacco, l'avocado, il banano, e recentemente il sorgo zuccherino. Il primo nucleo dell'Orto, dedicato alla coltivazione dei «semplici», cioè delle piante medicinali utili all'insegnamento, risale al 1779. Quell'anno era sorta a Palermo una specie di università, l'Accademia dei Regi Studi, e alla cattedra di Botanica e Materia medica venne assegnato il vecchio baluardo di Porta Carini, più il modesto appezzamento di terreno circostante. Pochi anni dopo, nel 1786, quegli spazi non bastavano più. L'Orto fu trasferito e ampliato in località Vigna del Gallo, vicino a villa Giulia, la dimora con parco intitolata alla moglie del Vicerè Marcantonio Colonna, che diventerà uno dei primi giardini pubblici d'Italia. Il tutto venne solennemente inaugurato nel 1795. Oggi l'Orto viene visitato da 30 mila persone ogni anno: sui suoi 10 ettari vegetano 12 mila specie di tutti i continenti. La biblioteca dispone di quasi 20 mila titoli, nell'erbario ci sono mezzo milione di campioni. La parte pù antica del Giardino botanico è quella prossima al «Gymnasium», edificio neoclassico dove le piante sono disposte secondo la classificazione di Linneo. La parte più moderna prossima all'edificio dove ci sono i laboratori e le aule del Dipartimento di Scienze botaniche, diretto da Francesco Raimondo, rispecchia l'ordinamento sistematico di Engler, secondo i rapporti filogenetici tra le famiglie rappresentate. I viali offrono un colpo d'occhio straordinario, con piante tropicali e subtropicali che non hanno eguali in Italia: si possono ad esempio ammirare un monumentale viale di palme, una giungla di Ficus rubiginosa, una splendida Euphorbia ingens e un gigantesco esemplare di Fi cus magnolioides. Le sue colossali radici serpeggiano quasi come braccia umane, impressionante esempio della vitalità tropicale nel cuore del Mediterraneo. Senza contare sorprendenti curiosità botaniche come l'albero del sapone (Sapindus mukorossi), la falsa cannella (Pimenta acris), il caffè (Coffea arabica), la canna da zucchero (Saccharum officinarum), la papaya (Carica papaya), la manioca (Manihot utilissima) o l'albero bottiglia (Chorisia insignis, noto anche come falso kapok), pianta con la base del tronco tondeggiante, proprio come un fiasco, di cui esiste un'intera «allea». Nella grande vasca al fondo del viale centrale (tre bacini concentrici di diversa profondità), trionfano numerose piante acquatiche. Le vasche, divise in 24 sezioni, accolgono varie ninfee e il loto indiano. Attorno, un boschetto intricatissimo di bambù, una piccola palude con papiri egiziani e piante dei fiumi tropicali, più una collinetta dominata da un gigantesco esemplare di sangue di drago (Dracaena draco), inserito in una ricostruzione di ambiente esotico sub-arido. Le serre sono un affascinante «mondo a parte» di felci, succulente, orchidee e bougainvillee: dieci in tutto, coprono una superficie di 1300 metri quadri. La più bella, dono della regina Maria Carolina, era originariamente in legno e ferro. Venne ricostruita in ghisa nella seconda metà dell'Ottocento dall'allora direttore Agostino Todaro, studioso che riuscì a sventare un progetto del piano regolatore che stava per devastare l'Orto con due nuove strade. Il Dipartimento di Scienze botaniche svolge ricerche di alto livello scientifico: tra i progetti in corso c'è l'istituzione di un grande erbario della flora mediterranea (una preziosa banca botanica in grado di fornire dati culturali, ecologici e scientifici) e quello sul fungo di basilisco (Pleurotus nebrodensis), che può costituire un'interessante risorsa economica per le aree montane della Sicilia. Carlo Grande


ESAMI & MEMORIA Niente pillole per la maturità
Autore: LA PIRA ROBERTO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BIOLOGIA, CHIMICA, ESAMI, MATURITA', STUDENTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Rendimento mentale, affaticamento psicofisico

DIFFICOLTA' nel memorizzare i concetti, scarso rendimento mentale, affaticamento psicofisico: sono le indicazioni riportate sulle confezioni di farmaci molto usati in queste settimane: affezionati consumatori sono gli studenti, che, soprattutto prima degli esami, cominciano una cura intensa, sperando di rinforzare la memoria. Questi medicinali si possono acquistare in farmacia senza ricetta e, il più delle volte, contengono miscele di aminoacidi, vitamine e fosfolipidi che dovrebbero penetrare nelle cellule celebrali e tonificarle. Il principio ispiratore è semplice: il cervello ha bisogno di nutrimento; se forniamo all'organismo sostanze già pronte per essere metabolizzate dal cervello ci sono buone probabilità di migliorarne le prestazioni. Il discorso ricorda le credenze popolari secondo cui certi alimenti, ad esempio il pesce, aiutano ad attivare la memoria per il contenuto di fosforo. C'è un particolare da ricordare: principi attivi come gli aminoacidi, i lipidi, i sali di calcio, il fosforo e i fosfolipidi utilizzati in gran quantità dalle cellule cerebrali, sono già presenti a sufficienza nella razione di una persona alimentata correttamente. La sintesi dei fosfolipidi è una fase fondamentale per le cellule del cervello ed è garantita dall'apporto di fosforo contenuto in moltissimi alimenti di origine animale e vegetale e dalle catene di acidi grassi presenti negli oli. Insomma, registrare carenze importanti è davvero difficile per una popolazione come la nostra caratterizzata da un apporto di principi nutritivi quasi sempre eccedente. Oltre a queste sostanze il cervello ha bisogno di ossigeno e di glucosio. Il primo arriva in grande quantità veicolato dal sangue. Per il glucosio non ci sono problemi, la scissione nella fase digestiva di alimenti come il pane, la pasta, le patate, i cereali e gli zuccheri ne libera in grande quantità. C'è di più: un eccesso di aminoacidi, fosfolipidi e vitamine non serve certo a migliorare le prestazioni della memoria. I farmaci per aiutare la memoria, se vengono assunti per qualche settimana, rispettando le dosi indicate, non danneggiano la salute ma non apportano nulla di più. La sola funzione ipotizzabile è quella di rassicurare lo studente in crisi, attraverso una sorta di effetto placebo. Considerato che il fatturato annuale di questi prodotti è intorno ai 50 miliardi, pari a circa 5 milioni di pezzi, c'è da ipotizzare un grande effetto placebo. Non ci sono invece correlazioni significative tra prezzo e attività. Il costo di una capsula o di una fiala varia da 300 a 3000 lire e per un mese di cura occorre preventivare una spesa variabile da 4600 a 180.000 lire. In assenza di una documentazione scientifica seria, in grado di dimostrare il rallentamento dell'invecchiamento cerebrale o il miglioramento della memoria, è facile trarre le logiche conclusioni. Prima di intraprendere una cura vale la pena chiedersi perché la Food and Drug Administration negli Usa non ha mai riconosciuto l'attività di questi preparati. Ma cosa si può fare veramente per migliorare la capacità di memorizzare parole o concetti? Poco, rispondono gli esperti, almeno a livello farmacologico. La memoria è un processo dinamico e il modo migliore per apprendere è usare un metodo di studio, fare continuamente connessioni tra i nuovi concetti e quelli già noti e ricorrere a piccoli espedienti come l'impiego di evidenziatori per sottolineare gli aspetti salienti di un testo. Ai non studenti ricordiamo che i disturbi della memoria sono un episodio normalissimo che comincia verso i 30-40 anni. In questa fase diminuisce la capacità di immagazzinare nuovi dati e di ricordare certi particolari, ma non bisogna allarmarsi perché aumenta l'abilità nell'elaborazione dei dati. Quando si è stanchi fisicamente o anche solo a livello intellettivo, una buona dormita è la soluzione migliore per ritemprare l'organismo e consolidare le informazioni acquisite durante il giorno. A volte un caffè o una bevanda come il té sono in grado di fornire un piccolo contributo per via della caffeina. Attenzione a non esagerare, si otterrebbe l'effetto inverso. Anche la notte in bianco in attesa dell'esame è poco consigliabile: si arriva alla prova stanchi e mentalmente affaticati. La cosa migliore è fare una dormita tranquilla, cercando di rispettare le consuetudini quotidiane. Roberto La Pira


Fiorisce anche l'aloe Avrebbe proprietà anticancro
AUTORE: C_G
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BOTANICA, ECOLOGIA
NOMI: AIELLO ENRICO
ORGANIZZAZIONI: ORTO BOTANICO DI PALERMO, DIPARTIMENTO DI SCIENZE BOTANICHE
LUOGHI: ITALIA, PALERMO (PA)
NOTE: I DUECENTO ANNI DELL'ORTO BOTANICO DI PALERMO TEMA: I DUECENTO ANNI DELL'ORTO BOTANICO DI PALERMO

HA lunghe foglie ricadenti e carnose, e una fioritura rossa che accende molti viali delle città siciliane. L'aloe è una protagonista del bicentenario di Palermo, non solo perché l'orto botanico ne possiede una delle collezioni più grandi d'Italia: ad essa è stata dedicata una tavola rotonda in cui botanici, fitochimici e farmacologi hanno discusso le sue conclamate virtù purganti, antiinfiammatorie, cicatrizzanti ed emollienti, ma soprattutto le singolari proprietà dimostrate recentemente contro i tumori. Centinaia di persone stanno facendo la coda all'Orto botanico per averne le foglie: mescolate a miele e alcol secondo la ricetta di un frate sudamericano che vive in Terra Santa, parrebbero (il condizionale è d'obbligo) avere qualche efficacia. Molte richieste sono giunte anche da altri Giardini botanici italiani. Il direttore dell'Orto palermitano ha detto che un dossier completo è a disposizione degli studiosi per approfondire il caso. Alla tavola rotonda hanno partecipato ricercatori di tutta Italia ed Europa. «Sarebbe falso affermare che l'aloe sia un toccasana nelle terapie antitumorali - ha detto il preside della facoltà di Farmacia di Palermo Enrico Aiello - ma è certo che i principi attivi contenuti nella droga sono ben noti e inseriti nella farmacopea ufficiale». Secondo Ali Said Faqi, dell'Istituto di farmacologia dell'Università di Lipsia, esistono già studi e sperimentazioni su animali che tentano di isolare il sarcoma 180 «sufficienti a incoraggiare la ricerca».[c. g.]




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