TUTTOSCIENZE 14 giugno 95


IN BREVE Superconduttori primato italiano
ARGOMENTI: TECNOLOGIA, FISICA
ORGANIZZAZIONI: ANSALDO, BICC
LUOGHI: ITALIA

L'italiana Ansaldo e la britannica Bicc hanno realizzato un cavo superconduttore ad alta temperatura che ha oggi le migliori prestazioni al mondo per intensità di corrente trasportata (10 volte un cavo di rame da 1000 millimetri quadrati).


IN BREVE Tutti gli animali in cd-Rom
ARGOMENTI: INFORMATICA, ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: WWF, MICROSOFT HOME
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Animali da scoprire»

«Animali da scoprire» è il titolo del primo cd-Rom in italiano della Microsoft Home, realizzato con la consulenza del Wwf.


IN BREVE Acqua preziosa un libro a Grinzane
ARGOMENTI: ECOLOGIA, LIBRI, PRESENTAZIONE
NOMI: BOFFA CESARE, GROSSO GIUSEPPE
ORGANIZZAZIONI: ACQUEDOTTO DELLE LANGHE ED ALPI CUNEESI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Acqua oro blu»

Il volume «Acqua oro blu», realizzato dall'Acquedotto delle Langhe ed Alpi Cuneesi, verrà presentato sabato, ore 10, all'Enoteca del castello di Grinzane Cavour. Interverranno il vicepresidente dell'Enea Cesare Boffa e Giuseppe Grosso. Tra i temi: risorse idriche, legislazione, risparmio, acqua come bene prezioso e come cultura.


IN BREVE Numero blu per i non udenti
ARGOMENTI: COMUNICAZIONI, HANDICAP
LUOGHI: ITALIA

Quattro milioni di italiani soffrono di disturbi uditivi più o meno gravi. Per aiutare i non udenti a vivere una vita sociale normale è entrato in funzione un nuovo servizio chiamato «Numero blu» che mette a loro disposizione un numero telefonico riservato, una segreteria personale con il sistema di decodifica dts (dispositivo telefonico per sordi) e un teledrin alfanumerico vibro-sonoro. Per informazioni, 06-485.546, tutti i giorni in orario di ufficio.


IN BREVE Uccelli in Europa convegno Lipu
ARGOMENTI: ZOOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: LIPU
LUOGHI: ITALIA, MONTEPULCIANO (SI)

Domani e dopodomani a Montepulciano si terrà il primo convegno italiano sulla conservazione degli uccelli in Europa e nel nostro Paese. Per informazioni: 0521-233.414.


A CHI E' CONSIGLIABILE Arriva il vaccino dell'epatite A
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: PASINI WALTER
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Virus dell'epatite A, vaccino

IL vaccino anti-epatite A è ora disponibile, e la vaccinazione in alcuni casi che ci proponiamo di esaminare in questo articolo è senz'altro raccomandabile. L'epatite da virus A (come è noto si conoscono diversi tipi di virus dell'epatite, indicati con lettere dell'alfabeto, determinanti patologie diverse) è quella conosciuta da maggior tempo. Molte epidemie si ebbero nel secolo scorso e più avanti, dalla Jaunisse («itterizia») des champs della campagna d'Egitto a quelle della guerra di Secessione americana e della guerra anglo-boera. Nei vecchi testi di medicina militare era sempre citato l'«ittero castrense», ossia degli accampamenti. Terribili epidemie si ebbero anche durante le guerre del nostro tempo: 100 mila casi nelle truppe alleate fra il 1942 e il 1945, di cui 35 mila nel settore del Mediterraneo, 80 mila nei francesi durante il conflitto algerino. Oggi sappiamo che la causa di tutto questo era appunto il virus A. Il virus fu identificato soltanto verso la fine degli Anni 60 ad opera d'un gruppo di ricerca internazionale composto da virologi della Costa Rica e degli Stati Uniti, lavorando su scimmiette sudamericane, i marmoset. L'incubazione varia da 3 a 5 settimane. I sintomi sono febbre, mal di capo, stanchezza, inappetenza, poi di solito compare l'ittero. Nella grande maggioranza dei casi si ha guarigione dopo un decorso di 4-6 settimane. La A è dunque meno grave di altre forme di epatite e non lascia tracce; tuttavia possono anche aversi complicazioni ed esito infausto, più frequentemente negli adulti rispetto ai bambini. Il virus si trasmette per via orale, in genere tramite alimenti quali acqua, frutta, verdure, molluschi. Dicevamo che ora è disponibile nelle farmacie il vaccino anti-A, col nome commerciale Havrix. Esso contiene il virus inattivato con formaldeide, e lo si somministra con iniezioni intramuscolari, in due dosi, la seconda due settimane o un mese dopo la prima. Entro 15 giorni si ha una buona immunità. Una terza dose può essere data 6-12 mesi dopo la prima, per ottenere una immunità della durata di anni. La vaccinazione in genere è ben tollerata. L'epatite A è endemica in vaste regioni del Sud-est asiatico, Africa, Sud e Centro America, Est-Europa. Parliamo dunque a questo proposito dei viaggiatori a rischio per motivo di lavoro o di vacanze, come ha spiegato recentemente Walter Pasini, che nell'Organizzazione mondiale della sanità è responsabile d'un nuovo ramo della medicina, la medicina dei viaggi. Nei viaggiatori il rischio varia con la destinazione, la durata del soggiorno, l'incidenza dell'epatite A nella zona. E' alto specialmente nelle zone rurali o se si vive in stretto contatto con la popolazione locale, però ecco una sorpresa: le ricerche epidemiologiche dimostrano che la maggior parte dei casi si ha nelle persone soggiornanti nei luoghi turistici e negli alberghi di categoria medio-alta, probabilmente perché l'attenzione e le precauzioni sono meno attive. Anche il viaggiatore più avveduto può commettere qualche errore alimentare, per esempio bevendo un drink con ghiaccio (di quale provenienza?) in un hotel a 5 stelle. Raccomandabile dunque la vaccinazione a tutti coloro, bambini e adulti (per i bambini fino ai 10 anni d'età due dosi di mezza fiala), che si recano, per usare l'espressione di Pasini, in Paesi che non siano Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone ed Europa Occidentale. Ovviamente la vaccinazione è consigliabile non soltanto ai viaggiatori ma anche a quanti sono a contatto con generi alimentari e mense, o lavorano o vivono in comunità. Ulrico di Aichelburg


RICERCA NEGLI STATI UNITI La guerra di Hitler fa ancora vittime Uno studio sui danni psicologici agli americani sopravvissuti
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, CONFLITTO, MONDIALE
ORGANIZZAZIONI: AMERICAN JOURNAL OF PSYCHIATRY
LUOGHI: ITALIA

L'ECO delle celebrazioni della fine della seconda guerra mondiale non si è ancora spenta che già si parla di nuove vittime. E questa volta non parliamo di spoglie ritrovate nelle Ardenne ma di veterani morti a casa propria in Usa prematuramente a causa dello stress subito cinquant'anni prima. Nè si tratta di vittime dei campi di concentramento nazisti tra le quali la sindrome da stress è purtroppo assai comune ma di ex combattenti che sono sopravvissuti alle esperienze più crudeli, come la morte dei loro compagni. Tra le reazioni più comuni per chi è stato esposto ripetutamente a combattimenti su fronti particolarmente duri (come il fronte russo per i militari tedeschi o il Vietnam per quelli americani) c'è la famosa sindrome postraumatica da stress, una reazione psicologica che può durare anni o anche tutta la vita. Uno studio recentemente pubblicato sull'American Jour nal of Psychiatry da un gruppo di psichiatri della Harvard University (Vaillant et al 1995) conferma che la severità del trauma psicologico sofferto è determinante nella selezione delle vittime da sindrome da stress postraumatico, ma non è il solo fattore in causa. Questo studio è di particolare interesse e valore perché prende in esame gran parte della vita dei soggetti partendo dal periodo precedente l'esperienza bellica e seguendoli per molti anni dopo la fine della guerra. Selezionando un gruppo di 249 ex-studenti del secondo anno di università della Harvard, vengono a escludersi molti fattori di per sè predisponenti alla sindrome quale un basso livello socio-economico, un grado militare inferiore, un basso livello di istruzione e disturbi del comportamento anteriori all'arruolamento. Tali fattori hanno complicato notevolmente le analisi dei dati in studi precedenti compiute su reduci della campagna del Vietnam. Tra i soggetti selezionati, 152 avevano compiuto il loro servizio militare in gran parte al fronte, e sei erano morti in guerra. Si avevano a disposizione tutti i dati clinici, compresi gli esami psicologici per un periodo di cinque anni tra il 1939 e il 1944. Al ritorno alla vita civile, nel 1946, dopo la fine della guerra, i soggetti vennero riesaminati periodicamente ogni due mesi fino al 1988. Sin dal 1946, 17 individui presentavano sintomi caratteristici della sindrome postraumatica. Tra questi 12 erano reduci da zone di combattimento note per la crudezza del confronto e il numero altissimo di vittime. Tra i sintomi più comuni c'erano memorie ossessionanti delle esperienze vissute, disturbi gravi del sonno o sogni vividi accompagnati da incubi, estrema sensibilità a rumori improvvisi ed esagerata emotività. Due dei pazienti più gravi si erano suicidati non riuscendo a sopportare oltre il ricordo delle esperienze vissute al fronte. E' da notare come alcuni presentassero ancora sintomi gravi a più di quarant'anni dalla fine della guerra: una marcata analogia con le esperienze delle vittime dei campi di sterminio nazisti. E' anche importante ricordare che la maggior parte degli affetti da tale sintomatologia da stress non avesse precedenti di malattie psichiatriche e non avesse neppure sofferto particolarmente di episodi d'ansia nel periodo studentesco antecedente al servizio militare. Questo studio pone in rilievo un fatto nuovo. Trenta fra i 154 soggetti reduci dall'esperienza di durissimi combattimenti e sopravvissuti per molti anni (tra questi, alcuni sofferenti di sindrome post-traumatica) erano stati colpiti da una malattia a carattere cronico ed erano morti prematuramente a un'età media di 65 anni. Oltre a porre in rilievo fattori predisponenti, lo studio indica pure la presenza di fattori di protezione che giocavano a favore dei soggetti. Tra questi si nota una condizione stabile dal punto di vista emotivo. Tra i più resistenti e i meno soggetti a sviluppare disturbi psicologici da stress erano quelli dotati di una personalità più estroversa e i più atletici, meglio preparati ad affrontare strapazzi fisici e psicologici. Costoro, sebbene fossero i più inclini a partecipare attivamente ai combattimenti, risultavano in ultima analisi i meno colpiti da traumi psicologici da stress. Lo studio di Harvard, pur non essendo il primo ad associare disturbi cronici di comportamento a esperienze di guerra, è certamente il primo a dimostrare che episodi di guerra possono incidere notevolmente sulla lunghezza della vita dei soggetti in causa. Non abbiamo invece alcuna informazione circa le conseguenze a lungo termine nei superstiti di calamità naturali gravi come terremoti o allagamenti, di episodi di terrorismo o incidenti aeronautici. In tali circostanze è però possibile intervenire precocemente con terapie farmacologiche o con la psicoterapia. Chiaramente ciò non è possibile per chi si trova al fronte e tale differenza può essere determinante nell'insorgere di danni a lungo termine. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


BIOLOGIA Il timer delle cellule Una via promettente nella lotta al cancro
Autore: CALISSANO PIETRO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Tipi di cellule umane

IN autunno ciascuno di noi ha modo di assistere a un fenomeno di straodinaria grazia e levità: la caduta delle foglie. Ritengo che pochi, passeggiando tra gli alberi, siano sfiorati dal pensiero di assistere a un evento letale. Non si tratta naturalmente, della morte dell'intero organismo (l'albero), ma delle sue estreme appendici, che cadono per lasciare il posto ad altre foglie nella successiva primavera. Qualcosa di analogo si verifica, ad ogni istante, in quasi tutte le parti del nostro corpo, coinvolgendo le cellule che costituiscono i nostri organi e tessuti. Quando le cellule muoiono in seguito ad un trauma, ad un'ustione o a qualunque altra causa di origine esterna, l'evento letale è denominato necrosi. Ma se ciò non si verifica, la natura ha egualmente programmato la morte delle cellule dell'organismo cui appartengono. Per questo altro tipo di morte cellulare i biologi hanno coniato il termine di apoptosi, dal greco ap'o=da e ptosi=caduta, parola che nella lingua greca era impiegata, appunto, per la caduta delle foglie o dei petali dei fiori. L'apoptosi si verifica secondo una serie molto complessa di eventi che sono regolati da altrettanti geni. Dei geni identificati in un organismo particolarmente adatto per questo studio, il c.elegans, tre specificano quale cellula debba esprimere il programma di morte per apoptosi, tre attivano il processo vero e proprio della morte, uno attiva la digestione del loro Dna e ben sette regolano il successivo processo di fagocitosi per eliminare ogni residuo delle cellule decedute. Studi successivi hanno dimostrato che molti di questi geni sono presenti e svolgono mansioni simili nelle cellule dei vertebrati, uomo compreso. Un numero crescente di laboratori nel mondo si dedica allo studio delle cause e dei meccanismi che presiedono all'apoptosi perché i risultati ottenuti avranno nel futuro prossimo un sicuro impatto per la comprensione delle cause di molte malattie - prime fra tutte il cancro e le malattie del sistema nervoso - e, di conseguenza, permetteranno la messa a punto di nuove terapie più mirate ed efficaci di quelle attuali. Consideriamo il caso dei tumori. Una notizia di solito errata su questo flagello dell'umanità è che un tumore cresce a dismisura invadendo tutto l'organismo grazie alla sue capacità di moltiplicarsi a ritmo frenetico. Invece, di solito, la velocità di replicazione di queste cellule è simile a quella delle cellule normali. Basti considerare che non vi è tumore che si riproduca così velocemente come un embrione umano che, iniziando da una cellula uovo e da uno spermatozoo, in 9 mesi genera una massa di 3-4 chili di cellule. Ma essendo queste cellule «sane», la loro moltiplicazione obbedisce a programmi genetici eseguiti secondo una scansione temporale e spaziale di grande precisione. Il problema, nel caso dei tumori, non è tanto la loro velocità di replicazione, quanto il fatto che le cellule tumorali muoiono molto meno di quelle normali perché non obbediscono più ai segnali inviati dall'organismo; segnali che hanno la funzione di attivare il programma di morte programmata o apoptosi presente in ogni cellula. Scopo di questo programma è quello di mantenere un equilibrio fra cellule giovani e cellule vecchie, di permettere un continuo rimodellamento funzionale di ogni organo e tessuto eliminando le cellule superflue. In sostanza, mentre in un organismo sano il numero di cellule giovani è sempre strettamente bilanciato da un eguale numero di cellule vecchie che degenerano e muoiono tramite il meccanismo dell'apoptosi, nel caso delle cellule tumorali spesso questo programma è soppresso o alterato e il bilancio favorisce la crescita invece dello stato stazionario. Il lettore comprenderà, ora, l'interesse degli oncologi e di un crescente numero di industrie farmaceutiche per la comprensione dei meccanismi che presiedono all'apoptosi. Tramite questa conoscenza si cercherà di attivare i geni che presiedono a questo processo nelle cellule tumorali evitando, così, il ricorso a trattamenti chimici spesso devastanti anche per le cellule sane. Consideriamo ora il caso di malattie degenerative del sistema nervoso come la demenza senile, la sclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Huntington e altre malattie dalla connotazione letale. Si ritiene che in queste malattie i neuroni, di cui siamo dotati fin dalla più tenera età e che non possiamo sostituire con nuove generazioni di cellule come nel caso degli altri organi, attivino il proprio programma endogeno di morte per apoptosi che, nel giro di qualche anno, conduce l'individuo a una perdita della memoria, delle capacità motorie o di altre facoltà fondamentali per la sua vita di relazione. Al contrario dei tumori, che non obbediscono all'ordine di attivare i propri geni apoptotici, i neuroni compirebbero l'errore di attivarli perché vengono a mancare loro i segnali che, di norma, tengono repressi questi stessi geni. In queste cellule, come è comprensibile, il congegno ad orologeria che attiva questi geni dovrebbe essere bloccato per tutta la vita dell'organismo. Quando questo blocco viene a mancare, le cellule nervose si «suicidano» e, a seconda delle funzioni che esse svolgono nel cervello, vengono ad essere gravemente compromesse memoria, intelligenza, movimento e tutto quanto ci rende esseri umani capaci di provvedere a noi stessi. Penso che il lettore condivida l'opinione di numerosi biologi che la ricerca dei segnali (ormoni, fattori di crescita, molecole intracellulari di varia natura) che regolano l'apoptosi sia tra le sfide più degne di essere raccolte dalla comunità scientifica negli Anni Duemila. Pietro Calissano II Università di Roma a Tor Vergata


DATI STATISTICI Quando la valanga fa più paura E' italiano il primato degli incidenti (evitabili)
Autore: MINETTI GIORGIO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, VALANGHE, STATISTICHE
NOMI: ZUANON JEAN PAUL
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T.G. Dinamica dell'incidente al Colle dell'Agnello. Suddivisione delle persone coinvolte da valanghe fuori stagione (dal 1[ maggio al 15 dicembre) in funzione del tipo di attività svolta e della nazione

MENTRE a Chamonix il sole faceva capolino tra le nubi che incorniciavano il Monte Bianco, al Colle dell'Agnello sopra Pontechianale un'abbondante nevicata, pioggia e diverse valanghe rischiavano di trasformare il 79I' Giro ciclistico d'Italia in una tragedia. In quel giorno, proprio nella stazione invernale savoiarda di Chamonix, 130 specialisti della neve erano riuniti all'Hotel Magistic: l'Anena (Associazione nazionale francese per lo studio della neve e delle valanghe) aveva convocato gli studiosi di una quindicina di Paesi per un simposio sul tema «Apporto della ricerca scientifica alla sicurezza su neve, ghiaccio e valanghe». L'incidente del Colle dell'Agnello non ha sorpreso i convegnisti, ed anzi è stato ricordato da un oratore, che ha citato analoghi incidenti di quest'anno avvenuti fuori stagione in Francia, con cinque morti. Non a caso la stazione automatica del Servizio Valanghe francese a quota 2630 sul versante di Briancon aveva segnalato via satellite la situazione sulla displuviale alpina in occasione della tappa del Giro d'Italia: 45 centimetri di neve fresca umida e pesante (100 chilogrammi per metro cubo), potenzialmente scorrevole per presenza di pioggia, poggiante su altri 55 centimetri di neve compatta al suolo con 0 gradi di temperatura, indice di notevole instabilità del manto nevoso. (Per inciso, oltre all'Anena, Grenoble ospita il Centro studi sulla neve del Meteo-France. Vari sono stati i temi affrontati dagli operatori e molteplici le proposte innovative presentate durante il simposio, mentre numerosi interventi hanno reso più vivo il dibattito). Le valanghe possono prodursi in qualsiasi stagione. Interessante in proposito la relazione di Jean Paul Zuanon, del Cai francese, che, prendendo in considerazione il periodo dal 1I' maggio al 15 dicembre, ha preso in considerazione la situazione dei Paesi più influenzati da questo fenomeno, e cioè Francia, Svizzera e Italia. E perché non Austria e Jugoslavia? Perché queste nazioni risentono meno dalle caratteristiche climatiche delle stagioni intermedie. Le prime invece sono direttamente interessate dalla situazione meteorologica che, innescandosi sulle coste atlantiche, investe il settore alpino occidentale. In Francia (con dati disponibili dopo il 1971) 135 valanghe hanno investito 447 persone facendo 131 morti; in Svizzera (in 18 anni) 81 valanghe hanno investito 327 persone con 95 morti; in Italia (un bilancio ancora più grave in 6 anni) si sono avuti 42 morti in 30 valanghe. Facendo un raffronto in percentuali tra gli incidenti mortali durante la stagione invernale e quelli avvenuti fuori stagione, abbiamo cifre che a parità di annate si approssimano tra una nazione e l'altra. In Francia 0,7 per cento d'inverno contro lo 0,98 per cento fuori stagione, in Svizzera 0,74 per cento contro 1,17 per cento, in Italia 0,60 per cento contro 1, 40 per cento fuori stagione. Un altro dato molto interessante è la ripartizione del numero di persone investite da valanghe nei tre Paesi considerati, in funzione del tipo di attività svolta durante il periodo 1I' maggio/15 dicembre '94. Facendo una analisi globale dell'insieme degli incidenti per valanga avvenuti fuori stagione abbiamo questi risultati abbastanza eloquenti: -Francia (23 anni): 135 incidenti con 131 morti; 5,7 morti per anno; -Svizzera (18 anni): 81 incidenti con 64 morti; 3,6 morti per anno; -Italia (6 anni): 30 incidenti con 42 morti; 5,7 morti per anno. Come rimediare? Occorre diffondere la convinzione circa la necessità di interpellare gli organi preposti (Soccorso Alpino, Protezione civile, l'A.I.Ne.Va. regionale, il Servizio Meteomont delle Truppe Alpine) non solo a livello di attività personale o di gruppo (gite, escursioni, ascensioni), ma anche per le attività con larga partecipazione di pubblico (per lo più inconsapevole dei rischi a cui può andare incontro). Solo quando si sarà compreso che il pericolo di valanghe è anche in funzione di certe condizioni meteorologiche, che le precauzioni adottate d'inverno (aprire rotabili solo con neve assestata, cercare itinerari alternativi, avere al seguito ricercatori elettronici, usare distanze di sicurezza e non ammassarsi in zone pericolose) non sono ridicole se prese a fine primavera, in estate e autunno, solo allora si sarà fatto un grande passo in avanti verso la sicurezza. Giorgio Minetti


AMBIENTE Avanza il golf cede la giungla
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, GOLF
ORGANIZZAZIONI: GLOBAL ANTI-GOLF MOVEMENT
LUOGHI: ITALIA

I campi da golf appaiono verdi ai nostri occhi, ma non lo sono. Non è una suggestione daltonica, ma ambientale. Secondo il Global Anti-Golf Move ment (fondato lo scorso anno a Kuala Lumpur, in Malesia, e diffusosi rapidamente in tutta l'Asia industrializzata), l'aristocratico sport britannico in Estremo Oriente si è trasformato in una mania dai disastrosi risvolti ecologici. Tutto è iniziato in Giappone, dove il golf è diventato uno status symbol: anche perché, a causa dell'affollamento e della mancanza di spazio, l'iscrizione a un club è una delle attività più esclusive. Dal Giappone la passione per il golf è dilagata in Corea del Sud, Thailandia, Malesia e Indonesia: Paesi che nell'ultimo decennio hanno avuto uno straordinario boom economico e hanno visto formarsi un numeroso ceto medio. Una classe di nuovi ricchi che guarda con ammirazione all'Occidente e ai suoi simboli di promozione sociale, compreso il golf. Il fenomeno ha raggiunto una dimensione tale da indurre il Global Anti-Golf Movement a proclamare il 1995 anno internazionale contro il golf. Una esagerazione? Lo è senza dubbio in Paesi anglosassoni come la Gran Bretagna, l'Irlanda, l'Australia e la Nuova Zelanda, dove il golf è uno sport tradizionale, nato sfruttando le caratteristiche collinose del territorio. Ma non nei sovraffollati Paesi asiatici dove la terra è scarsa ma si costruiscono più nuovi campi che in ogni altro luogo; in Malesia, Thailandia e Indonesia gran parte dei nuovi progetti di edilizia residenziale prevede un attiguo golf-course. Secondo gli antigolfisti, per costruire questi campi si taglia la giungla: nel 1993 il movimento è riuscito a impedire a una società giapponese di costruire un campo in cima alla collina di Penang, una delle pochissime aree vergini rimaste nell'isola malese. Nel Sud-Est Asiatico i fitofarmaci impiegati per far crescere l'erba ordinatamente sugli impeccabili greens hanno provocato l'inquinamento di alcuni fiumi e falde acquifere con relative morie di pesci e avvelenamento degli impianti idrici destinati ad alimentare la popolazione. E la manutenzione dei campi da golf toglie acqua ai progetti di irrigazione di nuove colture, in Paesi in via di sviluppo dove parte della popolazione rurale ha una dieta ancora basata fondamentalmente sul riso. Il fabbisogno d'acqua di un campo da golf è uguale a quello di duemila persone, considerando uno standard di consumo individuale di tipo europeo. Il fenomeno più paradossale e preoccupante è la realizzazione di centinaia di campi su terreni assolutamente non idonei. In Corea del Sud negli ultimi due anni sono state costruite 96 nuove strutture, spostando milioni di tonnellate di terreno per creare le colline artificiali necessarie al gioco: oltre all'indubbio danno paesaggistico, un'operazione così massiccia innesca processi d'erosione del terreno, con probabili smottamenti. Nello stesso Paese asiatico, nel 1992, i lavori di scavo per la creazione di un green hanno causato una frana che ha sepolto e ucciso 54 persone. Si capisce dunque perché sia sempre più numeroso il numero di asiatici che odia il golf. A Seul manifestanti antigolfisti si sono scontrati con la polizia. In Indonesia il sindaco di un villaggio ha trascorso sette mesi in prigione per essersi opposto alla costruzione di un campo da golf su di un terreno che la sua comunità coltivava da 40 anni. Ma in meno di due anni il Global Anti- Golf Movement è riuscito a bloccare in Giappone la costruzione di 720 nuovi campi: una massa di progetti che avrebbe completamente alterato il paesaggio nipponico, circondando Tokyo di un'improbabile atmosfera scozzese. Marco Moretti


GRACCHI Ti rapisco e ti faccio schiavo Guerre tra clan per procurarsi aiutanti al nido
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
NOMI: HEINSOHN ROBERT
LUOGHI: ESTERO, AUSTRALIA

I rapimenti non sono di moda solo tra gli uomini. Il naturalista Robert Heinsohn ha scoperto che abbondano anche tra i gracchi dalle ali bianco-nere d'Australia. Però tra questi uccelli dagli occhi rossi, che vivono in gruppi sociali, oggetto del rapimento sono soltanto i giovanissimi della stessa specie appartenenti ad altri clan. E' un comportamento che incuriosisce perché i rapimenti sono molto rari nel mondo animale. Ancora più strano è il fatto che vengano presi di mira i piccoli. E ci si chiede quale interesse possa spingere i rapitori a impadronirsi di un uccellino che ha ancora bisogno di tante cure per crescere e non è nemmeno loro consanguineo. Mentre nella maggior parte degli uccelli i pulcini diventano adulti nel giro di pochi mesi e sono in grado di riprodursi al più tardi al secondo anno di età, tra i gracchi le cose vanno assai più a rilento. Ci vogliono quattro o cinque anni prima che raggiungano la maturità sessuale e diventino autosufficienti, in grado cioè di procurarsi il cibo da soli. Questo è il motivo per cui i genitori non ce la fanno a tirar su un piccolo se non sono adeguatamente aiutati. E allora i giovani che hanno imparato a volare, anziché andarsene per i fatti loro e crearsi una famiglia, si sacrificano. Rinunciano a mettere al mondo figli propri e danno una mano ai genitori nell'allevare gli ultimi nati. E' una forma di altruismo, diciamo così, egoistico. In quanto, concorrendo all'allevamento dei fratelli minori, i giovani gracchi, anche se non trasmettono direttamente i loro geni alla generazione successiva, consentono tuttavia il perpetuarsi dei geni che hanno in comune con i fratellini. In tal modo contribuiscono al successo riproduttivo del gruppo. Ma la ricerca del cibo è lunga e laboriosa per i gracchi australiani. Per procurarsi insetti, vermi e altre prede in quantità sufficiente a sfamare i cercatori e i piccoli rimasti nel nido, i gracchi passano l'ottanta per cento del loro tempo o addirittura l'intera giornata a cacciare e compiono tragitti di chilometri nelle foreste di eucalipti dove la specie vive. Molte larve si nascondono nel sottosuolo e solo con l'esperienza si impara dove convenga scavare il terreno con il becco per snidarle. I membri più giovani del gruppo fanno sempre cilecca, quando scavano il terreno. Ci vogliono almeno tre anni prima che riescano a diventare esperti nella ricerca del cibo. Data la difficoltà dell'approvvigionamento viveri, specialmente durante l'autunno e l'inverno australi quando gli insetti e le altre prede scarseggiano, per tirar su un piccolo dallo stadio di uovo fino alla successiva stagione riproduttiva, occorrono gli sforzi congiunti di sette gracchi in media, che lavorino a tempo pieno alla ricerca delle prede. Ecco quindi la necessità assoluta di reclutare raccoglitori negli altri gruppi sociali. Si assiste così a guerre furibonde tra clan vicini per disputarsi i giovanissimi che dovranno diventare preziosi collaboratori del clan vincente. Protagonista del raid è di solito uno stormo di quattordici, quindici o più individui. Agitando le ali, lampeggiando con gli occhi rossi che sembrano iniettati di sangue, lanciando fischi striduli simili a grida di battaglia, lo stormo si avventa rasoterra contro il clan nemico scelto tra quelli meno numerosi. Mettiamo che questo sia composto da soli quattro individui adulti e da un piccolo. Una forza impari, dunque, che fa presagire facilmente quale sarà l'esito del duello. I due gruppi si sollevano entrambi ad ali spiegate, mettendo in risalto le macchie bianche delle ali nere, mentre il piccolo rimane a terra. Non appena però si delinea la sconfitta del gruppo minoritario, alcuni gracchi del gruppo preponderante scendono al suolo e rapiscono il piccolo indifeso. I suoi compagni di gruppo non tentano nemmeno di venire in suo aiuto, data la superiorità numerica dell'avversario. Si rassegnano alla mala sorte e se ne volano via. Combattimenti di questo genere avvengono tutti i giorni nelle foreste di eucalipti australiane. E siccome l'entità numerica dei gruppi varia da quattro a venti membri, i gruppi più piccoli debbono lottare con tutte le loro forze per salvarsi dall'aggressività dei gruppi più numerosi e riuscire a proteggere i loro piccoli. Durante la sua ricerca durata quattro anni, Heinsohn è testimone di 14 rapimenti. E si accorge che spesso gli attacchi non sono rivolti soltanto ai gruppi sociali concorrenti. Si direbbe che in certi casi i gracchi vogliano impedire addirittura al nemico di riprodursi. Allora cosa fanno? Cercano di distruggere le uova o, cosa ancora più radicale, i nidi. Bisogna dire che questi uccelli dalle ali bianco- nere incominciano a nidificare nel tardo inverno australe. Impiegano tre o quattro giorni per costruire un elaborato nido di fango che viene sistemato nella parte alta degli eucalipti. Va da sè che per procurarsi la materia prima, cioè il fango, l'operazione può aver inizio solo dopo un violento acquazzone. Quando il fango si rassoda asciugandosi, il nido, perfettamente tondo come fosse stato modellato al tornio, ha un diametro di una trentina di centimetri e pesa più di due chili e mezzo. Soltanto quando il nido è terminato, la femmina può incominciare a deporvi le uova. Distruggere un nido avversario significa quindi posporre o addirittura impedire la deposizione delle uova. Bisogna infatti che sopravvenga un'altra violenta pioggia e si renda così disponibile il fango necessario alla costruzione perché i gracchi possano nidificare nuovamente. Siccome i nidi sorgono l'uno abbastanza vicino all'altro, c'è inevitabilmente una forte concorrenza tra i rispettivi occupanti per procurarsi il cibo. Due sono quindi le strategie messe in atto dai gracchi per eliminare i concorrenti: evitare che riescano a nidificare nello stesso territorio o rubar loro parte della forza lavoro. Isabella Lattes Coifmann


TECNOLOGIA Più energia, tascabile e pulita Le pile al titanio sono (per ora) l'ultima frontiera
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ENERGIA
LUOGHI: ITALIA

ENERGIA portatile e maneggevole, una «magia» iniziata verso la fine del Settecento, quando Alessandro Volta la imprigionò in uno strumento un po' ingombrante che denominò «pila», il cui originale è in mostra al Museo voltiano di Como. Un oggetto che per la sua utilità fu sempre più perfezionato e dal quale dipende il funzionamento di una miriade di strumenti, fra i quali i medicali: auricolari per i sordi, batterie per stimolare il muscolo cardiaco. Pile che inevitabilmente si esauriscono con l'uso e che diventano così rifiuto speciale urbano per il contenuto seppur minimo di metalli pesanti dannosi per l'ambiente (zinco, carbone, cloruro, cadmio, manganese, mercurio). Da qui la necessità di una raccolta differenziata in appositi contenitori, obbligatoria per legge, per l'eventuale riciclaggio o lo smaltimento intelligente delle stesse. Nella corsa alla fabbricazione di una pila pulita per ora è in testa la Duracell, azienda leader di mercato in novanta Paesi del mondo, che recentemente ha prodotto una pila completamente compatibile con l'ambiente. Il metallo non inquinante è il titanio che permette molte più prestazioni rispetto alle alcaline tradizionali. I principi sono i medesimi di quelle alcaline: un polo negativo (anodo) di zinco e un polo positivo (o catodo) di biossido di titanio micronizzato in forma cristallina di anatasio. Questa composizione consente una durata maggiore della pila. La funzione del biossido di titanio è quella di rendere la reazione di scarica più omogenea in tutta la massa catodica, anche nelle parti più esterne. L'evoluzione della pila, che negli ultimi anni ha sempre tenuto conto del problema ambientale, è partita dal 1975 con lo zinco- carbone che è stato sostituito nel 1991 con lo zinco-cloruro che ha permesso l'eliminazione totale del cadmio e del mercurio dall'anodo. Sono pile alcaline. Le pile al litio prodotte all'inizio degli Anni Ottanta hanno consentito la miniaturizzazione dell'oggetto e l'eliminazione dei metalli pesanti. Le pile specialistiche a zinco- ossido di mercurio in cui il mercurio, essendo materiale attivo, risulta fondamentale, saranno sostituite totalmente entro 5- 10 anni dato che sono soprattutto utilizzate in apparecchiature mediche il cui processo di sostituzione è di tale durata.Pia Bassi


JET DEL FUTURO Nasce l'aereo a idrogeno Niente fumi, emetterà solo vapore
Autore: BOFFETTA GIAN CARLO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: FARINELLI UGO
ORGANIZZAZIONI: GENERAL ELECTRIC, FIAT AVIO, DAIMLER BENZ
LUOGHI: ITALIA

UGO Farinelli, membro del Club di Mosca per l'Energia, mi raccontava tempo fa che i colleghi russi gli avevano illustrato un grande progetto di installazione di moderni impianti di degasolinaggio, cioè di estrazione di benzina dal gas naturale, nel Nord della Siberia. Qui esistono immense disponibilità di gas naturale, che tuttavia è molto difficile trasportare considerando la situazione ambientale e le condizioni dei gasdotti, mentre è gravissima la carenza dei prodotti liquidi, kerosene, gasolio e soprattutto benzina per autotrazione. Memore di quanto avveniva in Italia nel dopoguerra (e ancora molti anni dopo) aveva suggerito una semplice soluzione: far funzionare direttamente a gas le auto mettendo un paio di bombole sul tetto delle vetture. Fortunatamente i motori a combustione interna si adattano facilmente ai due tipi di alimentazione e anche i reattori degli aerei funzionano benissimo con il gas naturale: anzi, questo combustibile ne allunga la vita. Una dimostrazione è data dai motori L2500, sviluppati da General Electric e Fiat Avio, derivati dal motore del Dc10, che sono installati lungo la Trans Alaska Pipe Line. Qui azionano dei compressori per spingere i gas dai giacimenti dell'Alaska alla rete degli Stati Uniti, spillando dalla tubazione un po' dello stesso gas per il loro funzionamento. Non so quanto possa avere influito il suggerimento di Farinelli. Rimane il fatto che la Tupolev ha in volo da un pò di mesi un Tu155 sperimentale che brucia gas naturale ed ora, dati i positivi risultati ottenuti, si è accordato con Daimler Benz per due progetti ambiziosi. Il primo prevede di far volare dei Tu156 trireattori sulle rotte verso il Nord della Siberia bruciando kerosene all'andata e gas naturale, che lì abbonda, al ritorno. Non vi sono particolari difficoltà e alla Tupolev prevedono che fra tre anni inizieranno i voli regolari, dapprima di aerei solamente cargo e subito dopo con passeggeri. Il secondo progetto, molto più impegnativo e interessante, riguarda lo sviluppo di un aereo funzionante a idrogeno, e Daimler Benz, che possiede le tecnologie motoristiche attraverso la sua Mtu di Monaco di Baviera e quelle velivolistiche con la partecipazione ad Airbus Industrie, ritiene di poter far volare un prototipo già nel 2002. Si tratta di un Airbus A310 con la fusoliera rialzata per far posto ai serbatoi dell'idrogeno, cilindri di 3 metri e mezzo di diametro, posti sopra la normale carlinga e separati da questa tramite una robusta paratia in materiale composito. L'idrogeno possiede maggior energia per chilogrammo di massa e quindi a parità di peso al decollo l'A310 ad idrogeno trasporterà 70 passeggeri in più (e per questo motivo verrà allungata la fusoliera) su rotte di cinquemila chilometri anziché di tremila, come nella normale versione funzionante a kerosene. Il volume del combustibile è invece quattro volte maggiore e ciò procura all'aereo la forma di una balena, molto più piccola comunque del gigantesco prototipo del cargo A300-600 in prova a Tolosa che ha raggiunto in questi giorni il traguardo delle 150 ore di volo delle 300 previste per l'omologazione. Proprio il buon comportamento nelle varie prove di quest'ultimo aereo giustifica l'ottimismo in Daimler Benz. Anche in questo caso i motori a reazione si mostrano molto adattabili, gli studi e le prove alla Mtu hanno concluso che non vi sono problemi gravissimi da superare. Il principale è costituito dalla temperatura della combustione che è più elevata e dalla necessità di integrare nel motore uno scambiatore di calore. L'aereo a idrogeno offre altri due grandi vantaggi. Il primo è l'inquinamento quasi nullo perché la combustione dell'idrogeno genera essenzialmente vapore acqueo. Il secondo consiste nel fatto che l'idrogeno non proviene dai giacimenti di petrolio, destinati prima o poi ad esaurirsi, ma è prodotto utilizzando l'energia elettrica che a sua volta potrà essere generata dai futuri reattori intrinsecamente sicuri ed anche dalle fonti di energia idroelettrica ancora non sfruttate. L'appuntamento per il primo volo per l'aereo criogenico con a bordo i passeggeri è fissato - assicurano alla Daimler Benz - per il 2010. Gian Carlo Boffetta


SPECIALE PACEMAKER Con un walkman contro il dolore
Autore: PREDAZZI FRANCESCA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA
NOMI: KREBS DIETER, KRAINIK JOERG ULRICH
LUOGHI: ITALIA

UN «pacemaker» per la schiena aiuta i pazienti che soffrono di ernia del disco a sopportare il dolore. E' un apparecchio - esternamente simile a un walkman - in grado di mandare uno stimolo al cervello per reprimere i segnali di dolore, trasformandoli in un innocuo formicolio. In Germania il pacemaker per i nervi è adottato ormai da circa 60 specialisti, che lo considerano la soluzione ideale per aiutare i pazienti che soffrono di dolori cronici che non si riescono a curare con le terapie tradizionali. Dall'ernia al disco, ai mal di schiena, fino al «dolore fantasma» per un arto mancante, ma anche nei casi di angina pectoris, lo stimolo nervoso emanato dall'apparecchio allevia la sofferenza. Il principio è simile nei diversi casi: i cavi del pacemaker vengono collegati direttamente con la zona colpita dal dolore, nel caso di ernia al disco, direttamente con il midollo spinale. Dieter Krebs, di 35 anni è uno dei pazienti al quale il professore di neurochirurgia di Kiel, Joerg-Ulrich Krainik, ha impiantato l'apparecchio ammazza-dolore. Dal 1980 l'ex muratore ha avuto problemi con la schiena. Una prima operazione di ernia al disco, alla quale ne sono seguite altre. Invano, perché non c'era nessuna posizione in cui i dolori cessassero. «Non potevo stare in piedi, non potevo stare seduto e di notte non riuscivo a dormire», dice Krebs. Solo in bicicletta, quando il peso del corpo non gravava sulle gambe e sulla schiena, il paziente trovava un poco di tranquillità. Per puro caso Krebs è venuto a sapere del pacemaker per la schiena, che gli ha reso la vita di nuovo sopportabile. Quando il dolore è troppo forte, preme un bottone dell'apparecchio e la fitta acuta si trasforma in un leggero formicolio. Lo stimolatore del pacemaker produce infatti una leggera corrente che dal midollo spinale inibisce il segnale di dolore al cervello. L'apparecchio, 12-15 milioni, in Germania viene pagato dalla mutua. Lo stimolatore si attacca alla cintura come un walkman. Francesca Predazzi


SCAFFALE Framarin Francesco e Genero Fulvio, «Il gipeto e le Alpi: storia di un ritorno», Musumeci Editore
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

La fortuna del gipeto è la sua propensione a vivere sulle montagne più aspre e spettacolari, tutte strapiombi e anfratti e dunque assai poco appetibili per l'uomo. Per questo, tra i giganti dell'aria, è uno dei meno minacciati. Eppure si è estinto proprio sulle Alpi, le montagne più alte e più aspre dell'Europa, mentre resiste indisturbato su rilievi minori, come quelli dell'Andalusia e della Macedonia. Francesco Framarin, che è stato uno dei responsabili del Parco del Gran Paradiso, racconta la storia di una scomparsa ecologicamente incomprensibile, ma anche del recente ritorno della specie, grazie a un progetto avviato nel '78, che sta dando i suoi frutti.


SCAFFALE Cavallo Giorgio, «Le origini de gli organismi viventi», Edizioni Minerva Medica
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: BIOLOGIA, CHIMICA
LUOGHI: ITALIA

Sull'origine della vita, per molti secoli si sono scontrate due idee diametralmente opposte: la biogenesi, cioè la formazione di esseri viventi a partire da altri esseri viventi, e la generazione spontanea, cioè la formazione di questi stessi organismi direttamente da sostanze inorganiche o da composti contenuti in organismi vegetali e animali in via di degradazione. Il professor Giorgio Cavallo, nel suo libro «Origini degli organismi viventi», fa il punto e la sintesi su quanto sappiamo, dalla costituzione chimica della superficie della Terra alla formazione dei primi esseri, fino alla comparsa di organismi sempre più complessi.


SCAFFALE De Chiara Anna Maria, Galletti Laura, «Io e il futuro», Liguori Editore
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

Ecco due bellissimi libri per ragazzi, che non guardano al passato ma al futuro e ruotano intorno alle loro aspettative su alcune questioni fondamentali, come il proprio quartiere, la scuola, l'esplorazione dello spazio, la distinzione tra ricchi e poveri. «Io e il futuro», suddiviso in due volumi, è stato ideato da Anna Maria De Chiara e Laura Galletti a partire dai pensieri e dai disegni forniti dai loro allievi. Come contorno, articoli di giornale, saggi, racconti, poesie d'autore. E per finire, l'invito «Adesso tocca a te»: una guida a lavorare in classe con ricerche, schemi e giochi di parole.


SCAFFALE Oliverio Ferraris Anna, «Zone d'ombra», Giunti
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

SEMBRANO racconti gialli, in realtà sono sei dolenti storie di vita, che la psicologa Anna Oliverio Ferraris ha raccolto sotto il titolo «Zone d'ombra». C'è l'adolescente che inscena improbabili emergenze (un mal di pancia spacciato per appendicite acuta, ad esempio) per far passare in seconda linea i litigi familiari e vedere padre e madre riconciliati almeno per qualche ora. C'è la giovane donna felicemente sposata che ha rimosso l'uccisione della madre, accoltellata dal padre davanti a lei bambina, ma si ritrova con un coltello alzato contro il marito quando costui sbatte le uova in cucina esattamente come sua madre il giorno del delitto, vent'anni prima. C'è la coppia modello che si vive come perfetta e fuori dal comune finché il desiderio di un figlio non mette in crisi il matrimonio bianco. E poi: la giovane sportiva che prova un inspiegabile piacere nello strozzare il fidanzato, l'uomo che s'inventa un fratellastro di successo per giustificare i suoi fallimenti, l'ufficiale che non accetta un figlio tanto diverso da sè e preferisce immaginarlo illegittimo. Strutturate come gialli, dove l'assassino non è un uomo ma un evento devastante, le sei storie hanno un ritmo incalzante e una bella morale: le crisi personali sono un'occasione di crescita e di autorealizzazione, che sarebbe un peccato lasciar cadere.


FISICA Particelle atomiche senza un perché
Autore: BILENKY SAMOIL, DE ALFARO VITTORIO

ARGOMENTI: FISICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: RABI ISIDOR, PONTECORVO BRUNO
LUOGHI: ITALIA

PARLANDO del muone Isidor Rabi esclamò: «Ma chi l'ha ordinato?», esprimendo così la sua perplessità nel trovare una copia dell'elettrone (il muone), diversa solo perché 200 volte più pesante. Ma come, diranno i lettori: il muone è simile a un elettrone? Allora avremo la musica muonica e la laurea in ingegneria muonica? Sì, sarebbe così, se non fosse per un particolare importante: il muone pesa molto più dell'elettrone e quindi rapidamente si trasforma in elettrone emettendo la massa superflua sotto forma di due neutrini e un po' di energia. Ma se non esistesse l'elettrone? Eh, sì, allora tutto sarebbe fatto coi muoni al posto degli elettroni: gli atomi, i circuiti, gli ingegneri e tutto il mondo. Solo che sarebbe un mondo assai diverso, per via della massa così più pesante: le dimensioni degli atomi sarebbero molto più piccole, e così via. Non so se la vita sarebbe possibile. A tutt'oggi, a 60 anni dalla scoperta del muone e a 50 dall'identificazione delle sue proprietà, non sappiamo perché ci sia il muone, questa copia infedele dell'elettrone. Anche altre particelle hanno copie quasi identiche. Prendiamo per esempio il neutrino, una particella di massa assai piccola rispetto a quella dell'elettrone, priva di carica elettrica, che interagisce solo debolmente con la materia. Nelle reazioni nucleari e particellari il neutrino viene sempre emesso (o assorbito) in presenza di un elettrone o di un muone. Bruno Pontecorvo suggerì l'esistenza di due copie anche per i neutrini, una associata all'elettrone (lo chiameremo nu/e) e una al muone (nu/mu). Bene, è così: per questa scoperta del '62 Lederman, Schwartz e Steinberg ebbero il Premio Nobel nel 1988. Si cominciano a vedere due famiglie: la prima famiglia, elettrone e il suo neutrino, e la seconda, muone e il suo neutrino. Due famiglie con le stesse proprietà. Ma una più pesante, quella del muone (sarà l'età? o la dieta?). E' bello vedere queste configurazioni equivalenti; solo che si vorrebbe anche sapere perché compaiono proprio quelle famiglie con quelle masse e non altre. Si ritorna alla domanda di Rabi. Non basta. Altri due componenti vanno ad aggiungersi alla famiglia dell'elettrone: due quark, chiamati u e d, di carica elettrica 2/3 e -1/3 (in unità di carica del protone). Questi formano, a gruppi di 3, le particelle pesanti dei nuclei atomici: protone, neutrone e altre particelle instabili. A differenza dei precedenti (elettroni, muoni e neutrini) la loro forza di attrazione reciproca è molto intensa: ecco perché formano i protoni e non si trovano quark isolati. Ma ecco, capita che anche i quark hanno le copie pesanti. La prima copia ad essere trovata, negli Anni 50 e 60, fu la replica del d, chiamata s. L'identificazione fu faticosa perché il concetto di quark come componente si affermò solo nel 1964. Il quark s ha tutte le proprietà del d, ma è più pesante. E il quark c (copia dell'u ma più pesante) fu visto nel 1974, con meraviglia di molti ma con soddisfazione di Glashow, Illiopoulos e del nostro Maiani che in un lavoro comune ne avevano previsto l'esistenza. Due famiglie parallele, dunque: la prima (u, d, elettrone, nu/e) e la seconda, più pesante, (c, s, muone, nu/mu). I teorici erano contenti: sostengono che una famiglia perfetta ha 4 componenti perché altrimenti la teoria quantistica non sarebbe possibile (hanno buone ragioni per questo). Ma perché due famiglie? E' ancora valida la domanda di Rabi. C'è di più. Nel 1975 la sorpresa del muone si ripeté. Si trovò un terzo «elettrone», chiamato tau, pesante quanto 3500 elettroni o 170 muoni. Naturalmente ha il suo neutrino. Dunque, l'inizio di una terza famiglia. E più tardi un quinto quark, detto b, simile a d e a c ma assai più pesante. La terza famiglia, dunque, quasi completa. Ci sarà allora il quark t, simile all'u e al c a completare la quaterna della terza famiglia? Stavolta i fisici ne sapevano molto di più; erano sicuri della sua esistenza, per la similitudine e per via delle necessità della teoria. E sono riusciti anche ad avere un'dea della massa di questo quark mancante: doveva essere molto ma molto più pesante di tutti (la famiglia n. 3 è affetta da elefantiasi). Ma la ricerca del quark t è difficilissima; quando due protoni si urtano alle energie necessarie per la sua produzione, avvengono moltissimi eventi complicati, e in mezzo a questo mare di particelle prodotte è difficile identificare il t; il quale, a complicare le cose, decade istantaneamente in altri quark. La scoperta del t, annunciata quest'anno al FermiLab presso Chicago dal gruppo Usa-Italia-Giappone che ha fatto l'esperimento, è un trionfo in fatto di macchine acceleratrici, rivelatori e metodi di analisi. Bene, così abbiamo 3 famiglie; la seconda e la terza sono copie più pesanti di quella di cui è costituita la materia che ci circonda. Ma il perché di queste tre famiglie non lo sappiamo. Ce ne sono altre? Qui sappiamo di più. Intanto si sa che di neutrini di massa piccola ce ne sono tre e non di più. L'abbiamo scoperto per mezzo dell'astrofisica e della cosmologia. Negli Anni 70 un gruppo di astrofisici ha calcolato con precisione le percentuali dei nuclei che si sono formati all'inizio dell'evoluzione dell'universo (quanto idrogeno, quanto elio, quanto deuterio...). Il risultato dipende dal numero di neutrini leggeri esistenti: con tre neutrini la teoria fornisce proprio la distribuzione osservata degli elementi primordiali. Questo importante risultato è confermato dagli esperimenti all'acceleratore Lep del Cern di Ginevra: i neutrini leggeri sono solo tre. Dunque le famiglie sono tre, e ne conosciamo i componenti, ma non le ragioni. La domanda di Rabi è ancora pertinente. Possiamo fantasticare su come sarebbe fatto il mondo senza una delle famiglie. Senza la famiglia dell'elettrone sarebbe completamente diverso, e la vita non si sarebbe organizzata nel modo che conosciamo. Ma perfino se fosse mancata la sola famiglia pesante (t, b, tau, nu/tau) il mondo sarebbe molto diverso. E forse non saremmo qui, noi a preoccuparci delle tre famiglie, e voi a preoccuparvi di come pagare le tasse per sostenere la ricerca scientifica. Che sia l'unico mondo che permette che l'umanità si sviluppi e trovi tre famiglie di particelle? Questo «principio antropico» non ci basta come spiegazione. Può anche darsi che sia così, e allora? Dovremmo pensare che si formino tutti gli universi possibili, con diverse leggi fisiche e diverse combinazioni di famiglie e di componenti, e che noi stiamo solo in quell'universo che ha permesso il nostro sviluppo? Sarà, ma da buoni scienziati vorremmo un metodo per calcolare le nostre buone probabilità e per sapere quanti altri universi, in cui le leggi fisiche non hanno permesso che qualcuno scrivesse e che qualcuno leggesse, si formano ogni anno (se la domanda ha un senso). Altrimenti, il solo principio antropico non ci sta bene. La domanda di Rabi è ancora senza risposta. Samoil Bilenky Vittorio de Alfaro Infn e Università di Torino


INTERVISTA Sì all'Italia nello spazio, ma in economia Il ministro Salvini: dovremo rivedere i programmi europei
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, RICERCA SCIENTIFICA
PERSONE: SALVINI GIORGIO
NOMI: SALVINI GIORGIO
ORGANIZZAZIONI: ASI (AGENZIA SPAZIALE ITALIANA)
LUOGHI: ITALIA

GIORGIO Salvini, successore di Edoardo Amaldi alla cattedra di fisica dell'Università di Roma, è prima di tutto uno scienziato. Classe 1920, per anni ha fatto ricerca negli Stati Uniti, ha partecipato ad alcune scoperte fondamentali in fisica delle particelle, è stato presidente dell'Accademia dei Lincei. Incidentalmente, chiamato da Dini in un governo di tecnici, è anche ministro dell'Università e della ricerca. Per ironia della sorte, proprio a lui tocca governare in un momento di tagli economici alla scienza e di crisi dell'Agenzia spaziale italiana, nata per essere palestra di tecnologie avanzate del nostro Paese e subito paralizzata da contrasti interni. Che ne sarà dell'Italia nello spazio? Ecco come il ministro Salvini ha risposto alle nostre domande. L'Italia spende in attività spaziali 800 miliardi l'anno, cioè lo 0,05 per cento del prodotto nazionale lordo. Le pare una cifra adeguata? «In linea di massima, sì. L'importante, comunque, non è quanto si spende, ma come. Le attuali difficoltà finanziarie del settore sono da attribuire al fatto che, stabilito anni fa un programma e valutati i suoi costi, non si è provveduto, di anno in anno, con le varie leggi finanziarie, a introdurre i correttivi richiesti dalla inevitabile crescita della spesa dovuta sia a fattori interni, tipici dei programmi avanzati, sia a fattori esterni come l'inflazione e, più recentemente, il deprezzamento della nostra moneta rispetto alle principali valute europee che costituiscono le unità di conto con cui si misurano i nostri impegni nazionali. Al momento non posso precisare i futuri programmi ma ritengo che una somma intorno ai 1000 miliardi l'anno sia un investimento adeguato». Pensa che l'impegno italiano nella ricerca spaziale debba rimanere costante, crescere o diminuire? «Recentemente il governo ha confermato che l'impegno italiano nella ricerca spaziale non potrà diminuire. Nel Consiglio dei ministri del 2 giugno è stata riconosciuta l'importanza strategica delle attività spaziali e della ricerca di base nel settore, convenendo sul fatto che la politica dello spazio è di grande rilievo per l'industria, la ricerca e l'occupazione. Una conferma si è avuta alla prima riunione interministeriale di coordinamento presso la presidenza del Consiglio. Se si pensa agli sviluppi futuri dell'attività spaziale in Europa e nel mondo, si deve concludere che probabilmente l'impegno italiano è destinato ad aumentare». In gran parte i nostri fondi vanno all'Agenzia spaziale europea (700 miliardi su 800). E' equilibrata questa ripartizione? «E' vero, questi fondi vanno in larga misura all'Esa. Non giudico equilibrata questa ripartizione soprattutto perché si è troppo sacrificata l'attività di ricerca di base in sede nazionale. E' necessario ripristinare un equilibrio fisiologico tra gli investimenti dedicati alla ricerca fondamentale, i programmi nazionali e la partecipazione ai programmi dell'Esa. In ottobre a Siviglia, alla Conferenza ministeriale europea, dovremmo presentarci con una chiara posizione negoziale nei confronti dei partner comunitari». Cioè? «Dovremo dire cosa possiamo fare e cosa dobbiamo tagliare. Presenteremo i nostri piani di ricerca di base. C'è da dire che gli altri Paesi industrializzati hanno difeso, più dell'Italia, la loro attività in questo settore». L'Agenzia spaziale italiana, che tante speranze aveva suscitato nella comunità scientifica, in pratica non ha mai funzionato. Ora una legge si propone di rimettere ordine nella nostra politica spaziale. Quale ruolo dovrebbe svolgere l'Agenzia nazionale rispetto a quella europea? «L'affermazione che l'Asi non ha mai funzionato è certo eccessiva. L'evoluzione dell'Asi, dal commissariamento alla legge da poco approvata, conferma i difetti storici dell'agenzia. Ritengo che l'Asi, se conserverà questo nome, debba svolgere un ruolo analogo a quello già svolto ma con un'attenzione maggiore ai nostri interessi rispetto all'Europa e più rigore nei rapporti con l'industria». Il commissariamento dell'Asi non preluderà alla sua liquidazione? «No, non prelude affatto alla sua liquidazione. Ho avuto assicurazione di questo dal Consiglio dei ministri. Anzi, questo impegno del governo ci consentirà di individuare, come prevede la legge, un amministratore straordinario dell'agenzia di riconosciuta autorevolezza, alta capacità manageriale e competenza scientifica». Si è parlato di un trasferimento dell'Asi a Torino. E' un'idea realistica? «Pur non vedendo nessuna difficoltà di principio, non mi pare che sia questa oggi una questione prioritaria. Anzi, costituirebbe una inutile complicazione. Con ciò non voglio dire che nel futuro il trasferimento dell'Asi a Torino non possa avere persino dei vantaggi» . Riccardo Giacconi recentemente ha scritto che dagli indubbi successi scientifici dell'Agenzia spaziale europea l'Italia ha saputo trarre poco profitto. E' una indiretta accusa alla qualità della nostra ricerca. Concorda con questa valutazione? «Giacconi è un ottimo scienziato e contiamo sul suo aiuto. Condivido la sua opinione sul fatto che i frutti dell'Esa per l'Italia sono stati relativamente scarsi, ma se con questa affermazione ritiene di condannare la ricerca italiana in generale, allora dissento. Per la ricerca spaziale si dovrà in futuro cercare di fare di più, specie nei laboratori italiani, prevedendo la costituzione di un Istituto nazionale dello Spazio (come in altri Paesi industrializzati) dedicato alla ricerca fondamentale. E' un pensiero ben vivo in Giacconi, in me e nell'attuale presidente dell'Asi, Giorgio Fiocco». Alcune ricerche di fisica fondamentale in futuro si sposteranno nello spazio: per esempio gli studi sulle onde gravitazionali e la verifica della coincidenza tra massa inerziale e massa gravitazionale postulata da Einstein sono nei programmi dell'Esa. Si può pensare a finanziamenti alla ricerca spaziale che vengano dall'Infn? «Si pensa che oggi le forze dell'universo si possano distinguere in 4 categorie: elettromagnetiche, deboli, forti, gravitazionali. L'Infn è già da tempo impegnato in ricerche gravitazionali. Non posso escludere che in futuro esso contribuisca più ampiamente ad attività legate oggi alla ricerca spaziale». Piero Bianucci


Helios ci guarda Un satellite per la sicurezza militare da luglio tutelerà Italia, Francia e Spagna
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

UN satellite-spia a guardia del Mediterraneo. Si chiama «Helios» e sarà messo in orbita ai primi di luglio da un razzo «Ariane». E' una cooperazione tra Italia (14 per cento) Francia (79 per cento) e Spagna (7 per cento). L'Italia decise di dotarsi di un satellite per osservazione militare all'indomani di un episodio inquietante avvenuto nell'86 durante la crisi libica, quando due missili balistici «Scud» lanciati dai militari di Gheddafi caddero in mare vicino all'isola di Lampedusa senza che la nostra difesa avesse potuto individuarli nè, tantomeno, prendere misure difensive. In quel momento la Francia stava già lavorando a «Helios» e fu facile trovare un accordo. Il satellite, che sarà collocato su un'orbita bassa (800 chilometri di quota) e polare, copre l'intero pianeta ma è particolarmente adatto alla sorveglianza del Mediterraneo e del suo entroterra. Punto di partenza per «Helios» è stato il satellite francese Spot per l'osservazione terrestre, in funzione ormai dall'86; e infatti la costruzione è prevalentemente «made in France» , in particolare di Matra Marconi Space e di Aerospatiale, mentre per l'Italia hanno lavorato Alenia Spazio, Cisi, Fiar, Datamat, Intecs, Nuova Telespazio, Siemens Italia e Vitrociset. Costo per il nostro Paese, 340 miliardi compreso il lancio. L'«occhio» di «Helios» è costituito da un sensore (una telecamera) costruito da Aerospatiale, di tipo ottico con una risoluzione da uno a tre metri (il dato è coperto da segreto) contro i 10 metri dei satelliti Spot. Le immagini, in forma digitale, sono immagazzinate in un registratore che le invia a terra, immediatamente o in differita, nel momento in cui passa su una delle stazioni di ricezione. La stazione di controllo centrale è a Tolosa; da qui ogni notte, sulla base delle richieste delle forze armate dei tre Paesi, saranno assegnati al satellite i siti- obiettivo da sorvegliare durante il giorno. Le immagini, in forma crittografica, saranno inviate ai centri di ricezione situati a Lecce, a Colmar per la Francia e a Maspalomas, nelle Isole Canarie, per la Spagna. I centri di elaborazione delle immagini sono a Pratica di Mare, a Creil presso Parigi e a Torrejon presso Madrid. Il satellite dovrebbe restare attivo per cinque anni e ha un gemello (Helios 1B) che per ora resta a terra come riserva ma è destinato a sostituirlo in orbita quando il primo sarà esaurito. Frattanto si pensa a un «Helios 2», che dovrebbe partire nel 2001; a differenza dei primi due, incapaci di «vedere» attraverso le nubi, avrà un sensore all'infrarosso per la visione con cielo coperto e notturna. Per il 2010, infine, si pensa a un nuovo modello, «Osiris», con sensori radar. Vittorio Ravizza


Mediterraneo Facciamone un parco blu
Autore: GRANDE CARLO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, MARE
NOMI: CONTE GIULIO, ANGELA PIERO, ANGELA ALBERTO, SQUITIERI GIANNI
ORGANIZZAZIONI: ECOMED
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C., D. Le rotte delle petroliere nel Mediterraneo, i maggiori centri abitati che premono sull'ambiente marino con i loro inquinamenti e le coste più a rischio

DUE guerre del merluzzo, una disfida del tonno, una dell'ipoglosso e una terza del gambero. Infine, un assalto delle vongole: i mari sono sempre più un campo di battaglia, la «guerra all'ultimo pesce» è iniziata. Sono in corso almeno una ventina di conflitti, e non solo su oceani lontani: a Venezia, ad esempio, la capitaneria di porto è stata recentemente assaltata dai pescatori di vongole, infuriati per il sequestro di un peschereccio che razziava i fondali della Laguna con i «turbosoffianti», apparecchiature vietate perché dannose e inquinanti. A fine maggio, l'Inghilterra si preparava a scortare con una nave da guerra e un aereo da ricognizione i pescherecci nel golfo di Biscaglia, vista l'accesa competizione con Francia, Spagna e Irlanda per accaparrarsi gli ultimi tonni in circolazione. I pescatori marocchini; invece, protestavano contro il «barbaro» comportamento della «lobby del pesce» spagnola, colpevole di danneggiare le partite di gamberi in arrivo ad Algeciras, nodo cruciale per l'esportazione marocchina in Europa. Il Canada, intanto, pagherà per 5 anni i contributi a 40 mila pescatori disoccupati, perché la pesca al merluzzo è stata bloccata: bisognerà aspettare almeno 10 anni prima che il mare si ripopoli. Per intanto, viene difeso strenuamente: i pescherecci spagnoli sono stati accolti a colpi di mitra e con una multa di 500 mila dollari. Negli abissi le risorse ittiche rischiano il collasso. La cause, naturalmente, stanno in superficie. Molti pescherecci, collegandosi ai satelliti meteorologici, mappano le correnti seguite dai branchi, poi li scovano con i sonar e calano le reti a colpo sicuro. Ci sono reti, come le spadare autorizzate l'anno scorso dall'allora ministro Poli Bortone, lunghe nove chilometri, alle cui maglie non sfugge praticamente nulla, delfini compresi: 8 mila ogni anno. L'Unione europea ha imposto alle spadare un limite di due chilometri e mezzo, ma l'attuale ministro delle Risorse agricole Walter Lucchetti ha deciso di rinviare il piano per riconvertire i micidiali attrezzi. Ci sono altre reti, come il tipo «Gloria», che hanno una «boccia» da 18 mila e 700 metri quadri: potrebbero pescare 12 jumbo contemporaneamente. Milioni di tonnellate di pesce, intanto, vengono ributtate in mare, perché non soddisfano esteticamente il mercato. Di fronte a simili tecniche e attrezzature, non stupisce il terribile monito della Fao: «Il completo sfruttamento ed esaurimento delle rimanenti risorse mondiali può essere raggiunto praticamente subito». Insomma, si pesca troppo e associazioni ambientaliste come Greenpeace chiedono a gran voce un «trattato globale della pesca». Le nazioni si devono mettere attorno a un tavolo e, piaccia o no, decidere di ridurre le flotte. A Barcellona, pochi giorni fa, i 19 Paesi rivieraschi riuniti per discutere un «protocollo» per la difesa del Mediterraneo hanno finalmente capito che l'inquinamento maggiore arriva dalle coste, dai rifiuti tossici riversati da industrie e 400 milioni di abitanti. Speriamo che l'impegno di ridurre «quanto più possibile» l'inquinamento si traduca presto in azioni concrete, ad esempio istituire decine di aree protette. Il ministro dell'Ambiente e dei Lavori pubblici Baratta ha intanto promesso per l'Italia 19 «oasi blu»: 7 riserve sono già deliberate (Miramare, Ustica, Tremiti, Ciclopi, Egadi, Torre Guaceto, Capo Rizzuto); 12 sono in cantiere: Porto Cesareo, penisola Simis, Portofino, Punta Campanella, Tavolara, Cinque Terre, isole Pontine, golfo di Orosei, Capo Caccia, Secche della Meloria, Eolie, isole Telage. Che il Mare Nostrum corra gravissimi rischi ambientali lo conferma anche il recentissimo «Rapporto sullo stato dell'ambiente nel bacino del Mediterraneo» dell'Ecomed, agenzia per lo sviluppo sostenibile del Mediterraneo. Si tratta, spiegano i curatori Giulio Conte e Gianni Squitieri (già responsabile di Greenpeace Italia), di un mare piccolo e con un ricambio lento, sul quale gravano una popolazione in continua crescita e un quinto del traffico petrolifero mondiale. Il Mediterraneo ha anche gravissimi problemi d'acqua e un turismo minaccioso, in continua crescita: gli ecosistemi terrestri sono fra le aree più «disturbate» del mondo. La popolazione urbana, che rappresenta il 66% del totale del bacino, raggiungerà nel 2025 oltre l'80 per cento. I limiti del Mare Nostrum sono illustrati con la consueta precisione da Piero e Alberto Angela, in un volume appena pubblicato da Mondadori, intitolato «Dentro il Mediterraneo». Presentando, con bellissime immagini di Alberto Luca Recchi, le straordinarie forme di vita che nuotano, ondeggiano e strisciano tra Europa e Africa, gli Angela spiegano i meccanismi che rendono così fragile il Mediterraneo: è un piccolo mare (con una profondità media di 1500 metri, ma contiene solo l'uno per cento dell'acqua del pianeta), sempre «in deficit» idrografico. Ogni anno evaporano 4 mila chilometri cubi di acqua, di cui solo un decimo viene (a malapena) rimpiazzato da enormi fiumi come il Nilo, il Po, il Rodano. I restanti 9/10 dell'acqua vengono forniti dall'Oceano Atlantico, attraverso lo Stretto di Gibilterra: senza tali apporti, il Mediterraneo avrebbe da tempo fatto la fine del del Mare d'Aral, che si sta prosciugando. Le colonne d'Ercole, dunque, sono la chiave dell'ecosistema: una piccola apertura, ampia appena 14 chilometri e profonda poche centinaia di metri, sola entrata e sola uscita. Suez, da questo punto di vista, è trascurabile. Lo scambio di acqua nuova dall'Atlantico e di acqua vecchia (più calda), dal Mediterraneo, è perfettamente regolato: il flusso in entrata scorre in superficie, quello in uscita a 150 metri di profondità. I Fenici avevano scoperto il doppio sistema di correnti e lo sfruttavano per oltrepassare le Colonne d'Ercole: lo stretto di Gibilterra non è mai stato un passaggio facile perché bisogna navigare controcorrente e controvento. I fenici, sembra, usavano una vela subacquea calata sul fondo: una volta raggiunta la corrente in uscita, la vela si «gonfiava» e la nave prendeva il largo. Il punto debole dell'ecosistema è dunque la lentezza del ricambio: ci vuole un secolo perché tutta l'acqua si rinnovi completamente. Ecco perché non è consentito compiere trivellazioni petrolifere in molte aree, neppure in quelle più promettenti: una qualsiasi fuoriuscita di petrolio avrebbe ripercussioni devastanti. Eppure, quanto a idrocarburi, il rapporto dell'Ecomed individua nel Mediterraneo il bacino più inquinato del pianeta: ogni anno oltre 600 mila tonnellate di petrolio finiscono in mare, senza contare i composti tossici del cloro: nei pesci ci sono percentuali di Pcb («policlorobifenili», sottoprodotto molto tossico della lavorazione del cloro) e Ddt centinaia di volte superiori ai valori registrati nell'Oceano Atlantico. La concentrazione di idrocarburi, nei sedimenti che circondano le piattaforme petrolifere dell'Adriatico, è superiore a quella riscontrata in alcune zone colpite dal disastro della super petroliera Haven. Carlo Grande


SCAFFALE Autori vari: «Fisiologia e psicologia degli sport», Zanichelli
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: SPORT, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Come scegliere lo sport più adatto a stimolare il proprio organismo, a far lavorare i muscoli che più ne hanno bisogno? «Fisiologia e psicologia degli sport» analizza tutte le attività fisiche dal punto di vista degli adattamenti che generano nel corpo umano e dei segreti che portano all'eccellenza. Marina Verna


IN BREVE Trapianto di capelli
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: SOCIETA' ITALIANA PER LA CURA DELLA CALVIZIE
LUOGHI: ITALIA

Si è svolto a Roma il 9-10 giugno un convegno internazionale sul trapianto dei capelli: nell'occasione è stata annunciata la nascita della Società italiana per la cura della calvizie.




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