TUTTOSCIENZE 18 gennaio 95


SCARPONI DA SCI Allaccia stretto e vai! I nuovi modelli: perfetti nella trasmissione del movimento
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Tipi di scarponi da sci

LO scarpone da sci deve essere abbastanza robusto da reggere e proteggere piedi e caviglie nella discesa, ma anche abbastanza stretto da trasferire compiutamente i movimenti del piede allo sci. E' quindi essenziale una perfetta aderenza, ma anche una ragionevole comodità e velocità nel metterlo e toglierlo. Il sistema di aggancio dev'essere dunque perfettamente regolabile e sicuro. Per la comodità del piede, soprattutto se questo presenta qualche problema, esistono dei modelli che hanno una seconda scarpa all'interno, che si estrae e si modella su misura, in qualunque punto, una volta per tutte. Con lo scarpone, vengono venduti infatti due piccoli tubi e un miscelatore che contiene due sostanze chimiche le quali, mescolate, danno una schiuma di poliuretano che solidifica in pochi minuti sopra la forma desiderata.


STRIZZACERVELLO Venti pagine al giorno
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

Decidiamo di leggere l'ultimo romanzo di Umberto Eco, L'iso la del giorno prima e ci proponiamo di leggerne 20 pagine al giorno. Ma ad un certo punto, quando l'autore abbandona il racconto per proporci le sue considerazioni «filosofiche» sul romanzo, incontriamo qualche difficoltà e la lettura rallenta. In tal modo arriviamo a metà romanzo avendone letto, in media, 10 pagine al giorno. Per ricuperare, proseguiamo più velocemente nella lettura. Leggiamo la seconda metà del romanzo a una media di 30 pagine al giorno. Siamo riusciti in tal modo a mantenere i nostri propositi iniziali di leggere in media 20 pagine al giorno? E' la stessa cosa leggere 20 pagine al giorno di un libro oppure leggerne la prima metà a 10 pagine al giorno e la seconda metà a 30 pagine al giorno? La soluzione domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI Anche Pitagora aveva i suoi maestri
LUOGHI: ITALIA

E' vero che Pitagora ha copiato il suo teorema da un sistema egi zio per misurare i terreni? Effettivamente Pitagora aveva alle spalle un'antichissima sapienza matematica, appresa in anni di studi e viaggi in un percorso di autentica «iniziazione», probabilmente non solo presso le rive del Nilo e all'ombra delle piramidi, ma anche in Oriente. Questa antichissima sapienza matematica (babilonese, egiziana, cinese, indiana) non è riducibile all'agrimensura nè al semplice calcolo: l'origine della matematica non è semplicemente empirica, in quanto anche per semplici conteggi e misurazioni già presuppone predisposizioni mentali logico- astrattive. In realtà, l'antica sapienza matematica pre-greca era una sapienza simbolica ed esoterica, di cui agrimensura e calcolo costituivano solo la parte esteriore e per così dire profana. Nella fattispecie sembra che il Teorema di Pitagora sia nato non solo in modo empirico dall'agrimensura, quanto anzitutto da deduzioni logiche. Infatti se ne parla già nel Tcheou pei (trattato cinese di numerologia del IV secolo a.C., che riprende un sapere molto più antico). E il problema della duplicazione del quadrato e l'enigma di Delo circa la duplicazione del cubo che ancora interessò Fermat nel celebre «ultimo teorema», sono stati affrontati da Platone nel Menone. Marco de Paoli, Torino Gli egizi non conoscevano il cosiddetto Teorema di Pitagora nella sua formulazione generale bensì sapevano - per verifica diretta nella misurazione di appezzamenti di terreno - che triangoli con lati di lunghezza 3-4-5 posseggono un angolo retto. Perciò verificavano solamente la validità del teorema in un caso particolare, senza darne mai dimostrazione per il caso generale (forse, senza sapere che potesse esistere un caso generale). A Pitagora, o meglio ai pitagorici, va il merito di aver ripreso i termini del problema, dimostrando la proprietà dei triangoli rettangoli nel caso generale. A noi, comunque, non è giunta una dimostrazione dovuta specificamente a Pitagora, ma gli antichi erano unanimi nell'attribuire a lui l'importante scoperta logica. Alessandro Allemano Moncalvo (AT) Alcune tavolette che risalgono al periodo babilonese antico mostrano che, in Mesopotamia, il teorema era noto e veniva largamente usato. Un testo babilonese antico contiene il seguente problema: una trave di lunghezza 0,30 unità è appoggiata a una parete. Si chiede di quanto si allontanerebbe dalla parete l'estremo inferiore se l'estremo superiore scivolasse giù per una distanza di 0,60 unità. La risposta viene trovata facendo uso del teorema di Pitagora. Marina Michelatti Albiano d'Ivrea (TO) Se più del 90 per cento delle spe cie che hanno abitato la Terra si è estinto, che senso ha preoccuparsi delle attuali estinzioni? Le estinzioni del passato si sono verificate nel corso di intere ere geologiche e hanno perciò consentito la graduale sostituzione delle vecchie specie con le nuove. Quindi l'ecosistema, pur modificandosi continuamente nel quadro dell'evoluzione biologica e geologica, si è mantenuto intatto fino a ieri nella sua varietà e ricchezza di forme viventi. Rispetto a quelle naturali, le attuali estinzioni sono un fenomeno brutale e catastrofico provocato dall'uomo, non si verificano nell'arco di ere geologiche ma di pochi decenni, non hanno nulla a che fare con l'evoluzione biologica e non possono quindi consentire la comparsa di nuove specie, ma costituiscono piuttosto il preludio alla cancellazione definitiva dell'ecosistema. Arturo Foglia, Torino Oggi in generale è aumentato il grado di sensibilità verso le specie che rischiano di estinguersi e gli uomini si sono resi conto che la Terra si regge su un delicato equilibrio tra le varie componenti, ognuna delle quali svolge una funzione importante. L'alterazione di questo equilibrio si ripercuote negativamente su tutto il resto, come in una società in cui venissero a mancare gli idraulici o i medici. E il colpevole del fenomeno è l'uomo, con l'inquinamento terrestre e atmosferico. Inoltre oggi le estinzioni sono accelerate e diffuse su larga scala, con uno spaventoso effetto a catena che, se non frenato, porterebbe al degrado di interi ecosistemi, determinando la scomparsa del 90 per cento delle specie viventi. Classe 2 B T.P. Scuola media «Dalla Chiesa» Nizza Monferrato (AT)


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

QQual è il gioco d'azzardo con le maggiori probabilità di vincere? QPerché la randa moderna delle barche a vela si chiama Marconi? QQuando un mezzo in movimento, auto, tram o treno, arresta la sua corsa, si nota una percettibile ed evidente risposta in senso inverso al movimento che aveva. Come si spiega? _______ Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011-65.68.688


LA MATEMATICA NELL'URNA Che succede con due poli e tre forze politiche
Autore: PETROZZI ALAN

ARGOMENTI: MATEMATICA, POLITICA, ELEZIONI
NOMI: ARROW KENNETH J.
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Maggioranze cicliche

IL contratto sociale di una democrazia si basa essenzialmente sul semplice concetto matematico di maggioranza, per cui in una votazione, tra due possibilità, una delle due riceve più della metà delle preferenze. Quando però fossero poste ai voti tre o più alternative, è probabile che non si giunga a una decisione di netta maggioranza. E' in questo frequentissimo caso che si presenta, in base a un banale ragionamento matematico, questa trappola elettorale: non esiste posizione presa in una competizione a due che non possa essere proficuamente attaccata da un terzo candidato. Sulla veridicità di questo enunciato e sui differenti esiti cui può portare l'adozione di un sistema elettorale piuttosto che un altro, testimoniano le recenti vicende del nostro Paese. Ed ecco il ragionamento. Se, in un'elezione con due candidati, per ogni punto del programma elettorale viene fatto un calcolo delle preferenze e la somma di tali preferenze viene rappresentata su un grafico unidimensionale, la posizione più vantaggiosa che ciascun candidato cercherà di occupare è quella «mediana» e cioè quella che divide l'elettorato in due parti uguali. In questa posizione, il candidato si garantirebbe tutti i voti della metà lasciata libera dall'avversario più, molto probabilmente, la metà dei votanti che si trovano, nell'altra direzione, tra la sua posizione e quella del concorrente. Facciamo un esempio aiutandoci con la figura 1, che ripropone un modello abbastanza credibilmente ispirato all'Italia del marzo scorso. Supponiamo che, in rapporto al gradimento da parte degli elettori delle soluzioni proposte ai vari problemi sociali, la distribuzione risultante sia rappresentata dalla curva disegnata. Immaginiamo che in questa condizione la linea mediana coincida con la posizione politica del candidato A, mentre l'altro vada a occupare la posizione B. In una competizione a 2, il candidato A si garantisce il voto di tutti gli elettori schierati alla sua destra più, prevedibilmente, la metà degli elettori compresi tra le 2 posizioni. Il risultato è la vittoria certa di A. Immaginiamo ora che nella competizione elettorale si inserisca un terzo candidato e che questi, a ragion veduta, vada a occupare la posizione C. Forse questa posizione sarebbe perdente, in un confronto a due, sia con A che con B, ma la stessa posizione risulterà vincente in termini di maggioranza relativa nel caso della presenza dei tre candidati. E' conseguenza di questi ragionamenti il fatto che allestire una piattaforma programmatica risulti affare particolarmente complesso; la si può infatti anche costruire partendo da principi minoritari, con il sottile intento di compattare una maggioranza come somma di minoranze. Il discorso induce alla seguente osservazione: quando in un'elezione si creano delle «maggioranze cicliche» del tipo «A batte B, B batte C e C batte A», nessun insieme di posizioni relative alle questioni poste risulta inattaccabile da una nuova coalizione di minoranze. Questo fenomeno delle maggioranze cicliche ha portato alla formulazione del famoso paradosso elettorale elaborato nel 1951 da Kenneth J. Arrow, economista dell'università di Stanford, Nobel per l'economia nel '72. L'opera di Arrow partiva dai lavori degli studiosi del XVIII secolo, i quali si erano preoccupati di tradurre in pratica gli ideali democratici della rivoluzione francese, in particolare da quelli del marchese di Condorcet, autore intorno al 1785 del celebre «paradosso della votazione». Arrow prima propone cinque assiomi che qualsiasi procedura ideata per aggregare in giudizi collettivi le preferenze individuali deve soddisfare, poi dimostra che le uniche procedure che obbediscono a tutti e cinque in realtà concentrano il potere nelle mani di un singolo individuo. Arrow ha in seguito riformulato il proprio paradosso aggiungendo un sesto assioma, quello della «non dittatura», ma dopo questo intervento il suo teorema è in pratica divenuto un «teorema di impossibilità». A questo punto i teorici dei sistemi di votazione hanno fatto di tutto per riesaminare gli assiomi cercando di evitare la infelice conclusione di Arrow. La strategia più comune è consistita nel concentrarsi su una singola procedura, quella della regola della maggioranza, e di cercare restrizioni che permettessero di eliminare i suoi più gravi inconvenienti. La più famosa di queste restrizioni si deve a Duncan Black, un economista gallese che negli Anni 40 la teorizzò in una monumentale opera sui comitati dotati di potere decisionale. Si tratta dell'assunzione di «preferenze con una sola cima», cioè della situazione in cui tutti gli individui valutano le alternative e votano ciascuno per quella più vicina alla propria posizione. Purtroppo all'atto pratico la gente ordina le alternative disponibili in base a una tale molteplicità di criteri che la soluzione di Black viene resa puramente teorica. Dopo tutte queste riflessioni viene spontaneo chiedersi: ma esiste un metodo ideale di voto capace di esprimere veramente i desideri «composti» degli elettori? Probabilmente no. Consideriamo infatti i due estremi possibili nella modalità di espressione del voto: la scelta di un unico nome e l'ordinamento in ordine di preferenza di tutti i candidati. L'indicazione di un unico candidato significa in realtà negare l'appoggio a un altro candidato accettabile, per così dire «di compromesso», e quindi di fatto rischia di far vincere proprio uno dei candidati indesiderati. Il completo ordinamento delle preferenze in ordine di gradimento si trascina invece una complessità, anche matematica, tale da renderlo praticamente inutile in qualsiasi soluzione pratica. Quale valido compromesso tra questi due estremi si va affermando nelle tendenze più moderne il principio dello «Approval Voting», definito efficamente da Stephen J. Brams della New York University con l'esplicito slogan «Un uomo, enne voti». Secondo questo metodo, ogni elettore indica tutti i candidati che riscuotono la sua approvazione e il candidato che riceve più «voti di approvazione» è il vincitore. Il principio che informa questa modalità di voto è quello dell'espressione della «accettabilità» dei vari candidati e comporta, tra le altre modifiche, quella delle campagne elettorali, le quali non dovrebbero più tendere al convincimento del corpo elettorale circa la supremazia del promotore ma piuttosto della sua «approvabilità». Trasposto nella realtà italiana, l'«approval voting» diverrebbe una specie di ritorno al voto multiplo, il quale però consentirebbe, al contrario di quanto avveniva prima dell'introduzione del collegio uninominale, di indicare più candidati anche se appartenenti a schieramenti politici differenti. Non è questa, per nostra fortuna, la sede per valutare gli effetti di una simile rivoluzione, per cui ci limitiamo, a conclusione delle riflessioni fatte, a mettere a confronto, in un'ipotetica competizione elettorale fra tre candidati, i vari sistemi di voto. Immaginiamo che nelle preferenze dell'elettorato fra i candidati A, B e C, le sei possibili graduatorie di merito riscuotano i voti indicati nella colonna «Totale Voti» della tabella pubblicata sopra il titolo. Nel caso di una votazione che tenga semplicemente conto di un unico voto espresso (ovviamente assegnato al candidato preferito per primo), la maggioranza relativa va al candidato C, il quale ottiene 38 voti, contro i 35 di A ed i 27 di B. Se poi il metodo prevede un ballottaggio tra i due candidati più votati e ogni elettore esprime la preferenza in base all'ordine di preferenza indicato, allora vince lo spareggio A in quanto ottiene 57 voti (i 35 del primo turno più i 22 che lo vedevano secondo dietro a B) contro i 43 del rivale. Se infine si applica l'«approval voting», immaginando che nessun elettore voti per tutti e tre i candidati e che ciascuno indichi invece come «accettabili» i primi due candidati della propria classifica di preferenza, allora si ha il successo del candidato B, il quale ottiene 82 voti di approvazione contro i 69 di A e i 49 di C. Da queste considerazioni deriva, oltre all'amara conclusione indicata da Arrow, la spiegazione delle estenuanti battaglie parlamentari che si sono combattute, ma non ancora concluse, sulla scelta delle modalità di elezione dei nostri parlamentari. Alan Petrozzi


PROSPERA NEL CAOS CITTADINO E l'urbanesimo creò il colombo metropolitano Una specie a sè: vive in simbiosi con l'uomo ma può anche minacciare la nostra salute
Autore: ANSALDO LUCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ETOLOGIA, AMBIENTE, ANIMALI
NOMI: GALLO MARIA GRAZIA
LUOGHI: ITALIA

CI capita spesso di sbirciarli con noncuranza, come se la loro presenza fosse scontata. Alzando lo sguardo mentre percorriamo le nostre caotiche strade cittadine possiamo scorgerne a centinaia anche con un solo colpo d'occhio. E' sconcertante come il cemento non abbia spinto i colombi dalla città alle campagne circostanti. Pare anzi che i piccioni stiano bene proprio nelle metropoli, tanto che il loro numero aumenta in modo preoccupante. Sono colombi domestici sfuggiti alla cattività oppure colombi viaggiatori che si sono persi e che, rinselvatichiti, si sono completamente adattati alla vita urbana. La loro diffusione ha subito un incremento all'inizio del secolo con l'ampliamento degli agglomerati urbani. Si può dunque parlare di colombo metropolitano, vera e propria creatura della urbanizzazione. Le origini del colombo domestico risalgono a 5000 anni fa, quando iniziò l'allevamento dell'eurasiatico piccione selvatico. L'uomo lo utilizzò inizialmente per la sua buona carne, poi per spedire messaggi, data la sua capacità nell'orientarsi in volo verso casa. Nel corso dei secoli l'addomesticamento ha determinato il differenziarsi di circa 200 varietà che vanno dai piccoli, variopinti piccioni ornamentali ai poderosi uccelli da carne. Il colombo di città ha ormai poco a che fare con quello selvatico. Rispetto a quest'ultimo ha modificato il suo ciclo riproduttivo, che è divenuto ininterrotto. Ciò giustifica in parte l'espansione delle popolazioni urbane. Per capire come mai i piccioni si siano specializzati nella convivenza con il caos metropolitano, è necessario porsi nell'ottica del volatile, per il quale l'ambiente urbano è un'oasi di tranquillità di cui ha imparato a sfruttare ogni risorsa. In primo luogo la completa assenza dei predatori, che in natura ne controllano la moltiplicazione, porta a un incremento demografico vertiginoso. La presenza dell'uomo garantisce abbondanza di cibo, anche se sotto forma di rifiuto maleodorante. Inoltre le strutture architettoniche dei centri cittadini, in particolare dei centri storici, forniscono un gran numero di nicchie protette, ideali per la nidificazione. L'accumulo di materiale organico che si viene a creare col tempo in questi rifugi comporta per la popolazione un problema igienico-sanitario non indifferente. Per esempio, determina il richiamo di parassiti potenzialmente patogeni per l'uomo. E' il caso della zecca del piccione appartenente al genere Argas, in grado di trasmettere all'uomo la borrelliosi. Si tratta di una malattia non molto frequente, ma diffusa in tutto il mondo, provocata da un microrganismo responsabile di attacchi febbrili, emorragie cutanee e talvolta ittero. I primi casi di borrelliosi umana che si erano verificati a Bolzano alcuni anni fa, avevano suscitato una certa apprensione soprattutto perché in precedenza l'Organizzazione Mondiale della Sanità aveva negato la possibilità da parte degli uccelli di trasmettere la malattia. Invece ci si è trovati di fronte al piccione come potenziale serbatoio d'infezione per l'uomo, e alla zecca Argas come inedito vettore della malattia. Infatti la borrelliosi viene normalmente trasmessa da zecche del genere Ornithodorus. I piccioni sono inoltre i principali diffusori della criptococcosi, una micosi profonda il cui agente responsabile, Cryptococcus neoformans, soggiorna nel tratto digerente dei volatili. Questo fungo determina nell'uomo affezioni cutanee, polmonari e meningoencefaliche di notevole gravità. Solo i soggetti immunodepressi vengono colpiti, per cui chi ha un sistema immunitario sano non ha nulla da temere. La cerchia dei soggetti a rischio va dai malati di Aids ai tossicodipendenti e ai pazienti sottoposti a trattamenti antitumorali che inducono immunodepressione. La criptococcosi insorge sempre come malattia secondaria e la sua frequenza è in preoccupante ascesa. Il Criptococcus viene disseminato dai piccioni nell'ambiente con le deiezioni. Le particelle infette, in seguito alla disidratazione delle feci, possono venire trasportate dal vento ed essere inalate. I colombi risultano diffusori fin da piccoli in quanto contraggono l'infezione, senza ammalarsi, ingerendo il latte del gozzo, una secrezione ricca di proteine e grassi che assumono direttamente dai genitori. Indagini svolte da Maria Grazia Gallo, incaricata di micologia alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino, dimostrano come la percentuale di piccioni capaci di diffondere il Criptococ cus nel capoluogo piemontese vari, a seconda dei quartieri, dal due al sette per cento. La situazione è preoccupante: basti pensare che Torino viene quotidianamente imbrattata da una tonnellata di deiezioni di uccelli. Il piccione costituisce quindi un rischio sanitario da tamponare. A Bolzano la chiusura degli accessi ai cornicioni e la bonifica dei nidi ha portato qualche risultato. La farmacologia ha fornito un contributo con la messa a punto di sostanze ormonali prive di impatto ambientale in grado di limitare la fecondità degli uccelli. Ma la soluzione è lontana e il piccione urbano continua imperterrito a colonizzare i tetti delle nostre città. Luca Ansaldo


IMBROGLI ASTRONOMICI Mercanti di stelle I nomi in vendita: non cascateci
Autore: PRESTINENZA LUIGI

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
ORGANIZZAZIONI: INTERNATIONAL STAR REGISTRY, UNIONE ASTRONOMICA INTERNAZIONALE
LUOGHI: ITALIA

LE vie dell'autoglorificazione sono infinite. Ne fanno testimonianza persino i cimiteri, con i monumentini che dovrebbero eternare la vita e le passioni di tanti quibusdam. Ma il colmo è stato raggiunto nella società del consumismo: che ieri offriva l'ibernazione dei cadaveri in attesa di un'improbabile resurrezione, adesso la possibilità di intitolare una stella al primo mortale che sia disposto a pagare una somma appropriata. L'offerta, pubblicizzata in varie città, viene dall'International Star Registry, che si dice pronto ad attribuire a una stella il nome di una persona qualunque, che da quel momento resterà immortalata nell'infinità degli spazi, in attesa che, magari nel 3000, si avventuri da quelle parti un'astronave che viaggi a velocità prossima a quella della luce per trasmettercene migliori e più ampie notizie. E allora soltanto il nome dello Smith o del Brambilla che a suo tempo aveva pagato si spanderà per l'universo mondo. Altre difficoltà non ci sono. Gli uomini sono meno di 6 miliardi, le stelle circa 200 miliardi nella sola Galassia che abitiamo: cioè tante da consentire abbondanti intitolazioni. Il guaio è, ma questo gran parte del pubblico non lo sa, che quelle visibili ad occhio nudo sono poche migliaia per ogni emisfero e le più brillanti recano già nomi storici, che risalgono agli astronomi greci o ai loro continuatori arabi. Perciò è più che probabile che il nome del sottoscrittore venga dato a una stellina da cercare col catalogo e col telescopio, cosa molto difficile per chi non ha dimestichezza con gli oggetti del cielo. Non sappiamo se esistano opzioni per la scelta e se costerà di più intitolarsi una stella di ottava piuttosto che una di decima grandezza; nè se, a seconda dei gusti, sarà possibile scegliere una calda stella bianco-azzurra o una gigante rossa o addirittura una rara «nana bianca». Aspettando chiarimenti, va detto che l'Unione Astronomica Internazionale, che è la sola autorità competente in queste cose, rifiuta ogni intitolazione del genere; ultimamente ha addirittura deciso di riconsiderare l'attribuzione ulteriore di nomi ai nuovi pianetini che si vanno scoprendo, e qui si trattava di nomi rispettabili, scelti per ricordare cultori di scienza o anniversari astronomici, e attribuiti su proposta dello scopritore, con ben altro diritto del sedicente International Star Registry. C'è bisogno di concludere che proposte simili, ancor più delle prenotazioni di terreni sulla Luna o su Marte, sono «drittate» che - in un campo sconosciuto ai più - sfruttano la credulità del pubblico? Siamo sullo stesso terreno degli oroscopi, la pretesa di leggere nel futuro di una singola persona chiamando in causa pianeti e stelle: e non mancano mai ingenui che ci credono. Luigi Prestinenza


Lassù c'è Chiara Così è stato chiamato un asteroide «donato» da un astronomo a sua moglie
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: FALETTI CHIARA MARIA, FERRERI WALTER
ORGANIZZAZIONI: UNIONE ASTRONOMICA INTERNAZIONALE
LUOGHI: ITALIA

CI sono donne che ricevono in dono gioielli e abiti firmati. Chiara Maria Faletti è ancora più fortunata: in dono ha ricevuto un pianetino. Più esattamente, un pianetino è stato battezzato «Chiara» in suo onore dalla Commissione dell'Unione Astronomica Internazionale che ha l'incarico di tenere aggiornata l'anagrafe degli asteroidi via via che vengono scoperti. Ma c'è un particolare che rende la notizia ancora più curiosa, trasformandola in una romantica fiaba moderna: il pianetino è stato scoperto da suo marito, Walter Ferreri, il quale, avvalendosi del diritto dello scopritore, ha proposto il nome della moglie alla Commissione competente (che ha sede negli Stati Uniti), ottenendo una risposta positiva. Ferreri, che lavora all'Osservatorio di Torino, ha individuato «Chiara» il 23 aprile 1984 con un telescopio fotografico dell'Osservatorio Australe Europeo, sulle Ande del Cile. Provvisoriamente il pianetino ha ricevuto la sigla «1984 HC2» e poi il numero d'ordine 4398. In precedenza era già stato osservato tre volte (nel 1929, 1977 e 1980) ma non in modo sufficiente per precisarne l'orbita. «Chiara» appartiene alla fascia principale degli asteroidi posta tra Marte e Giove, compie in 3 anni e sette mesi un giro intorno al Sole, rispetto al quale la distanza varia tra 354 e 376 milioni di chilometri. Il pianetino ha un diametro stimabile intorno ai 15-20 chilometri. Probabilmente è di tipo roccioso ma potrebbe essere anche del tipo carbonaceo. In questo caso, trattandosi di corpi molto scuri, il diametro salirebbe a 20-25 chilometri. Al momento della scoperta appariva diecimila volte più debole di Nettuno e 15 volte più fioco di Plutone. Solo nel 1990 si è giunti alla definizione dell'orbita e quindi alla convalida della scoperta. Abbiamo voluto raccontare la complessa vicenda del battesimo di «Chiara» accanto alla denuncia dei falsi nomi delle stelle per far comprendere quali sono le procedure con cui un corpo celeste acquista una identità ufficiale. Sono già troppi gli speculatori dell'astrologia per lasciare spazio ad altri profittatori che «vendono» stelle come Totò in un film famoso vendeva a un turista americano la fontana di Trevi. Ricordiamo ancora che ormai i soli corpi celesti che possono ricevere nomi di persona sono le nuove comete e gli asteroidi. L'ultima edizione del «Dictionary of Minor Planet Names» di Lutz D. Schmadel registra 5655 asteroidi. Tra questi, 2066 portano nomi di persona, 512 nomi mitologici, 219 nomi di Paesi, province, isole. I nomi che in qualche modo hanno a che fare con l'Italia sono 85, mentre il primato è dell'ex Urss (577) seguita dagli Stati Uniti (549). Tra i nomi imparentati con l'Italia c'è anche quello di chi scrive questo articolo, grazie alla generosa proposta dello stesso Walter Ferreri, il quale, oltre ad essere autore di molti libri divulgativi di astronomia e direttore della rivista «Orione», ha già scoperto una quarantina di pianetini, otto dei quali catalogati ufficialmente. Piero Bianucci


IN SPERIMENTAZIONE Sordo-ciechi al telefono Un apparecchio contro l'handicap
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ELETTRONICA, MEDICINA E FISIOLOGIA, COMUNICAZIONI
NOMI: GUDERZO LUCIA
ORGANIZZAZIONI: TIFLOSYSTEM
LUOGHI: ITALIA

SE il telefono per sordi desta ancora meraviglia malgrado una certa diffusione, parlare di un telefono per sordo-ciechi ha dell'irreale. Eppure ne esistono vari prototipi, e uno sta per essere sperimentato presso la Lega del Filo d'Oro di Osimo, attiva da anni nell'accoglienza e nell'educazione dei sordo-ciechi. L'idea è di far lavorare insieme Dts (dispositivo telefonico per sordi) e un display tattile Braille, con la prospettiva di abbattere barriere che stringono nel silenzio e nel buio più o meno fitto un considerevole numero di persone in tutto il mondo: in Italia si stima che i sordo-ciechi siano oltre cinquemila, fra cui mille casi molto gravi. Il prototipo è stato realizzato con materiali già esistenti: si sono collegati tra loro vari componenti con opportune interfacce hardware e software; tutto il sistema è controllato da un personal computer. Al posto dello squillo del telefono nell'apparecchio per sordo-ciechi c'è una specie di birillo che muovendosi trasmette delle vibrazioni. La conversazione può avvenire tramite tastiera, barra Braille (su cui si può sentire con i polpastrelli la risposta, poiché i puntini in rilievo si muovono per comporre la frase in caratteri Braille), visualizzazione del messaggio su display o lettura con voce sintetica, a seconda delle capacità dell'utente. Non è un limite che tutta l'applicazione esista solo in stretta dipendenza dal computer? Al contrario, questo potrebbe rivelarsi il suo punto di forza, risponde Lucia Guderzo, responsabile della valutazione dei prodotti per la Tiflosystem di Piombino Dese (Padova) che ha realizzato l'apparecchio: «Associare il telefono per sordo-ciechi ad altre applicazioni gestite da computer è un modo per sfruttare al massimo dispositivi piuttosto costosi. Il componente più caro è il display tattile Braille, prezzo minimo 7.500.000 lire se fabbricato in Italia (comprarlo all'estero significa spendere almeno 12 milioni): non sarebbe conveniente usarlo esclusivamente come dispositivo telefonico, e proprio per questo motivo in precedenza sono fallite analoghe esperienze. Invece in un sistema integrato questi dispositivi permettono non solo di telefonare ma anche di scrivere, leggere, accedere via computer al Televideo, a banche dati». Per chi soffre di gravi deficit uditivi e visivi si apre una finestra sul mondo dell'informazione. Occorreranno mesi prima di passare dalla fase sperimentale a quella commerciale. L'apparecchio potrà rientrare nel tariffario degli ausili e quindi essere acquistato con contributo delle Ussl, ma rimarrà il problema del costo del servizio, ossia della bolletta del telefono: con un handicap legato alla comunicazione il tempo necessario per un qualsiasi scambio di informazioni si allunga, ma gli scatti sono inesorabilmente uguali per tutti. Rosalba Giorcelli


UN FOSSILE ECCEZIONALE Trovato il «nonno» di tutti gli uomini
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, RITROVAMENTO
NOMI: WHITE TIM
ORGANIZZAZIONI: MIDDLE AWASH RESEARCH PROJECT
LUOGHI: ITALIA

FINALMENTE abbiamo l'identikit del nostro più antico antenato. Dai sedimenti sabbiosi dell'Etiopia è emerso lo scheletro di quello che si potrebbe definire «l'anello mancante», cioè l'antenato più lontano, quello che abbiamo in comune con gli scimpanzè. Non si era mai trovato uno scheletro così antico: ha quasi 4 milioni e mezzo di anni. Cioè, è oltre un milione di anni più vecchio di «Lucy», il famoso ominide trovato in Etiopia oltre vent'anni fa, la cui specie (Au stralopithecus afarensis) era fino a poco tempo fa considerata il primo gradino del genere umano. Non solo: i resti appena scoperti sono ancora più completi di quelli di «Lucy». Già a settembre dello scorso anno si era avuta la notizia di una scoperta importante: il ritrovamento dei frammenti di ossa e denti di vari individui (17) più antichi di «Lucy», per i quali era stata battezzata una nuova specie, l'Australopithe cus ramidus. Ma erano pezzi sparsi, pochi tasselli di un mosaico ancora incompleto, rinvenuti in varie campagne di ricerca da parte di un team internazionale di studiosi. Ora si è trovato quello che tutti aspettavano: i resti quasi completi di un solo individuo, in modo da poter ricostruire l'aspetto e per quanto possibile il comportamento di questi nostri antichissimi progenitori. La scoperta è avvenuta a novembre, ma solo ora che i ricercatori sono ritornati dalla spedizione e che lo scavo si è concluso, se ne è avuta la notizia. Si tratta di ben 90 frammenti, estremamente delicati, di un individuo adulto, vissuto 4 milioni e 400 mila anni fa, in quella che oggi è la Valle del fiume Awash, nella depressione semidesertica dell'Afar, in Etiopia. Le ossa rinvenute corrispondono alla base del cranio, alla mandibola, alla clavicola, a molte vertebre, a numerose costole, all'avambraccio, alla mano, al bacino (completo), alla tibia e al piede. Un vero miracolo per i ricercatori, perché per epoche così antiche è già una fortuna trovare un dente o un piccolo frammento di osso. Ancora una volta l'Etiopia si rivela cruciale per la ricerca sulle nostre origini. Da anni i responsabili etiopici del Middle Awash Research Project, effettuano innumerevoli perlustrazioni sui terreni fossiliferi, con importanti ritrovamenti. Questo è soltanto l'ultimo di una lunga serie. Ci vorranno mesi per restaurare e pulire queste ossa fossili. E anni per analizzare l'incredibile quantità di dati scientifici che racchiudono: «E' una valanga di informazioni sulle nostre origini», mi dice Tim White, dell'Università di Berkeley, in California, telefonandomi per annunciare l'eccezionale scoperta. Tim White, membro della spedizione, ed uno dei massimi paleoantropologi a livello mondiale, è anche uno dei «padri» di «Lucy». Dall'analisi delle ossa delle mani e dei piedi, si potrà finalmente capire quali fossero le abitudini di questi nostri lontani antenati: nei frammenti di Australopithecus ramidus annunciati a settembre mancavano infatti i pezzi «chiave», quelli che avrebbero potuto indicarci quanto questi ominidi fossero ancora legati alla vita arboricola, e in quale misura invece fossero diventati bipedi permanenti. Il loro aspetto doveva essere molto scimmiesco. A prima vista li avremmo scambiati più per degli scimpanzè che per dei nostri antenati. Secondo White, la loro altezza si aggirava intorno a 1,20-1,40 metri. Il peso, invece, tra i venti ed i trenta chili. La fronte era molto sfuggente, con forti arcate ossee sopra gli occhi. Gli zigomi sporgenti e le mascelle prominenti. I denti però avevano già dei caratteri umani. Vivevano in una regione di foresta aperta, abitata da elefanti primitivi, giraffe, ippopotami, iene, sciacalli, enormi facoceri, rinoceronti, pipistrelli oltre alle temibili tigri dai denti a sciabola. Tutti animali con i quali i piccoli gruppi di questi nostri progenitori dovevano fare i conti. E non sempre andava bene: molte delle loro ossa infatti recano profondi solchi lasciati dai denti di carnivori... Questo ritrovamento prelude probabilmente a nuove campagne di scavo nella zona, ma già sin d'ora le informazioni che lo scheletro sembra poterci dare illuminano una zona delle nostre origini rimasta in ombra. Con il rinvenimento di queste ossa fossili si è probabilmente compiuto un passo decisivo per la scoperta di quegli «anelli mancanti» lungo la catena evolutiva che ha portato alla nascita dell'umanità. Alberto Angela


NUOVA IPOTESI Gli ingegneri delle piramidi Un «dondolo» permise di fare le ciclopiche costruzioni
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: ARCHEOLOGIA
NOMI: FALESIEDI OSVALDO
LUOGHI: ITALIA

L'ICONOGRAFIA tradizionale ci mostra un esercito di schiavi sotto la minaccia delle fruste dei sorveglianti intenti a trascinare, spingere, sollevare con l'aiuto di funi, leve e cunei enormi blocchi di pietra sotto il cielo infuocato della valle del Nilo. Un'enorme e gratuita forza-lavoro, sfruttata senza pietà per sopperire alla mancanza di mezzi tecnici per costruire le piramidi. Ma gli studi più recenti ci dicono che le piramidi molto probabilmente non furono costruite così ma, al contrario, furono opera di tecnici e operai specializzati e regolarmente retribuiti. Resta però da spiegare come sia stato possibile sollevare migliaia e migliaia di blocchi di granito, pesanti da 15 a 30 tonnellate, fino ai quasi 150 metri delle costruzioni maggiori in un'epoca in cui erano sconosciuti carrucole e argani e non era ancora stata inventata la ruota. Un problema che ha sempre tormentato gli studiosi di egittologia e che diventa fondamentale se si accetta l'ipotesi che le maestranze non fossero, o almeno non fossero prevalentemente schiavi. Ad un convegno organizzato qualche tempo fa a Torino al Museo Egizio è stata presentata una ipotesi di soluzione che ha incontrato il consenso di molti studiosi. L'ha illustrata Osvaldo Falesiedi, un autodidatta che da anni studia il problema. Essa parte da uno strumento ritrovato in tombe del Nuovo Regno, chiamato «dondolo» o «elevatore oscillante», che potrebbe essere la «macchinetta formata da legni corti» che, secondo il racconto dello storico Erodoto, sarebbe servita appunto per costruire le piramidi. Sull'uso di questo strumento sono state fatte fin dall'inizio del secolo varie teorie nessuna delle quali, tuttavia, è esente da contraddizioni. Ora Falesiedi ha presentato un modellino di macchina che sembra superare tutte le obiezioni. Il dondolo recante il blocco da sollevare è appeso con 4 funi a un'incastellatura di travi. Imprimendo un'oscillazione al dondolo due delle corde (quelle poste nella direzione in cui viene spinto il dondolo) possono essere leggermente tirate e accorciate facendo forza su un palo trasversale sovrastante; in questo modo il dondolo e il blocco di granito sono saliti di un po'; ora la spinta viene data nella direzione opposta e vengono tirate le due corde corrispondenti, con un altro innalzamento del blocco. E così via fino all'altezza voluta. Un lavoro che, secondo Falesiedi, può essere eseguito da soli tre uomini. Una macchina analoga, posta a cavallo di una pista di travi, sarebbe servita anche per il trasporto dei blocchi dalla cava al Nilo e dal Nilo al cantiere. (v. rav.)


COLONIE DI SULE Intendersi nella bolgia Con il linguaggio del corpo
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA
NOMI: NELSON BRYAN
LUOGHI: ITALIA

UNO stormo di grandi uccelli bianco-neri giunge dal mare e si posa sulla costa rocciosa. Sono sule dal lungo becco robusto e appuntito che si affollano e schiamazzano in quella che a noi sembra una gran confusione, una situazione caotica. Ma in realtà ciascun individuo trasmette e riceve precisi messaggi che consentono il corretto funzionamento della colonia nidificante. Pochi uccelli posseggono un linguaggio sia acustico sia gestuale altrettanto efficace. E si comprende benissimo che uno studioso ne possa venir affascinato al punto da dedicarvi gran parte della sua vita. E' il caso di Bryan Nelson, che ha studiato per vent'anni lo straordinario vocabolario delle sule nell'isola di Santa Kilda, ad Occidente delle Ebridi. Dopo aver preso conoscenza della vita sociale delle sule settentrionali, lo studioso vuole indagare sulle colonie di sule che abitano l'emisfero australe per sapere se in un ambiente così diverso gli uccelli abbiano modificato il loro sistema di comunicazione. Detto fatto, si trasferisce a Capo Kidnappers sulla costa occidentale dell'isola settentrionale della Nuova Zelanda, dove vive una folta colonia di sule. Lì, armato di tutta la strumentazione necessaria, osserva giorno dopo giorno il comportamento degli uccelli. E scopre cose davvero interessanti. Lo stridente e acuto vocio delle sule che volano sui mari della Nuova Zelanda non somiglia affatto a quello rauco delle sule che volano sul mare del Nord. Ha toni diversi. Come diverso è il loro comportamento. Le sule settentrionali, che fabbricano i loro nidi sulle ripide scogliere a picco sul mare, sono molto aggressive e hanno un forte senso del territorio. Una volta occupata una posizione, la difendono con le unghie e con i denti, ingaggiando lotte furibonde con chiunque cerchi di impossessarsi del loro minuscolo territorio. Al contrario, le sule australi che nidificano sulla terraferma pianeggiante sono meno aggressive. E se anche oppongono resistenza al rivale che si intrufola nella loro zona, i duelli sono cosa di poco conto, si esauriscono nel giro di uno o due minuti. E si tratta quasi sempre, da parte dell'estraneo, di una violazione di frontiera involontaria. A ogni buon conto, le sule che si sono impossessate di un territorio hanno una strana maniera per dire ai compagni «state alla larga»: allungano il collo, dimenano la testa in su e in giù, da un lato e dall'altro, e contemporaneamente tengono ali e coda leggermente sollevate. Poi premono la punta del becco contro il petto e la tengono così premuta per uno o due secondi. Un rituale che è assai meno accentuato nelle sule neozelandesi. Altro singolare comportamento delle sule settentrionali è quello del maschio ogni volta che i partner di una coppia si incontrano. Non sboccia affatto un tenero idillio. Lui aggredisce selvaggiamente la compagna mentre lei, poverina, non reagisce affatto e cerca semmai di ammansire il violento, porgendo la nuca ai suoi morsi. Il fatto è che maschio e femmina sono fisicamente identici e di primo acchito il maschio scambia la femmina per un intruso da scacciare. Solo quando lei gli porge docilmente la nuca si rende conto del qui pro quo. Tutto questo avviene anche tra le sule australi, ma con intensità e frequenza decisamente minori. Nessuna differenza invece nel rituale dell'accoppiamento che dura in media ventisei secondi, cioè quattro o cinque volte di più che nella maggior parte degli uccelli marini, come cormorani o pellicani. Questo prolungato rapporto amoroso serve non soltanto per l'inseminazione vera e propria ma anche per rafforzare il legame tra i partner. Strana davvero l'incubazione dell'uovo. Invece di accucciarvisi sopra per covarlo, come fa la quasi totalità degli uccelli, la sula lo cova sotto la membrana interdigitale delle zampe. E prima di accingersi all'incubazione, l'uccello tasta accuratamente il fondo del nido per vedere se non vi siano sassi o altre asperità, che si affretta a gettar fuori con un violento colpo di testa. Quando però il neonato sguscia dall'uovo, la sula lo trasferisce sulla parte superiore della membrana interdigitale. A Capo Kidnappers i pulcini debbono essere nutriti dal genitore di turno due volte al giorno. Poi arriva il momento dell'ultima muta e dell'involo. E in questa fase della vita c'è una differenza fondamentale di comportamento tra le sule settentrionali e quelle meridionali. Nelle prime i genitori ignorano totalmente il loro nato una volta che questi ha abbandonato il nido. Il piccolo inesperto non sa volare. I suoi movimenti non sono ancora coordinati, con il risultato che molto spesso perde il controllo e si schianta miseramente sulle rocce. Ben diverso è invece l'atteggiamento delle sule meridionali: i loro piccoli imparano a volare gradualmente, facendo brevi voli di assaggio, dopo di che ciascuno torna al nido dove il vigile genitore lo nutre amorevolmente. Nelle specie australi, la cova spetta in ugual misura ai due genitori. Quando l'uno ritorna dal suo viaggio marino di approvvigionamento, che dura circa dodici ore, i coniugi si salutano con una straordinaria e toccante cerimonia. Petto contro petto, le ali aperte, i due partner strillano a gola spiegata, lisciandosi reciprocamente le penne con i rispettivi becchi. Ma forse uno degli atteggiamenti più eloquenti è quello che assume una sula che sta per prendere il volo. Quasi volesse informare delle sue intenzioni il partner - non può lasciare un uovo o un pulcino incustodito nella colonia sovraffollata - segnala la sua intenzione con una posa caratteristica: con le ali parzialmente aperte, solleva il collo e la testa puntando il becco contro il cielo. Come a dire «io parto, ma tu rimani a guardia del piccolo». Parlano dunque tra loro, le sule, esprimendosi anche con il linguaggio del corpo, ed è emozionante che un essere umano riesca a interpretarne i complessi significati. Isabella Lattes Coifmann


UNIVERSITA' Professori soltanto per anzianità
Autore: FRE' PIETRO

ARGOMENTI: DIDATTICA, UNIVERSITA', INSEGNANTI, PROGETTO, LEGGI
LUOGHI: ITALIA

NELL'OTTOBRE scorso, proprio su questo giornale ebbi gial'opportunità di sottolineare i gravi rischi corsi dalla cultura italiana a causa di un disegno di legge elaborato dal ministro Podestà. Si trattava allora della ventilata soppressione del ruolo intermedio dei professori associati e il titolo attribuito al mio pezzo dalla redazione di «Tuttoscienze» riassumeva perfettamente i timori miei e di innumerevoli altri docenti universitari: «L'Università rischia di diventare Liceo». Riflessioni analoghe alle mie, ma assai più articolate, approfondite e autorevoli furono allo stesso tempo sottoscritte in varie sedi da numerosi docenti e ricercatori e sottoposte all'attenzione, sia del ministro Podestà, sia del Parlamento, nella persona del presidente la competente commissione del Senato. Queste prese di posizione hanno ricevuto attenzione anche da alcuni quotidiani. La reazione del ministro dell'Università e della Ricerca scientifica agli appelli di tutto il mondo accademico è contenuta nel nuovo disegno di legge elaborato qualche giorno prima della caduta del governo. Essa sarebbe assolutamente incredibile e totalmente sorprendente, se la logica che la ispira non fosse in armonia con il populismo di convenienza che caratterizza la lotta per la sopravvivenza del governo dimissionario. Il nuovo disegno di legge di Podestà è facilmente descrivibile come «la madre di tutti gli ope legis». Esso semplicemente prevede una pressoché automatica conversione in professori ordinari dei più anziani tra i ricercatori universitari e di pressoché tutti i professori associati, fatta eccezione per quelli che in questo ruolo sono entrati per libero concorso, anziché per sanatoria precedente. Di fronte a simili proposte è inutile discutere degli svantaggi e illustrare gli sconquassi che ucciderebbero scienza e cultura per alcuni lustri. Giova solo mettere in evidenza la per altro fin troppo scoperta logica ispiratrice: 1) la selezione in base al merito non esiste; 2) coloro che hanno vinto due o tre gradi di libero concorso pubblico sulla base del proprio curriculum, sudato nell'agone internazionale, sono deplorevoli lobbisti della prima Repubblica; 3) i nuovi professori ordinari, promossi ope legis, senza verifica di merito, sarebbero, forse - ma chi può garantirlo? - una utile folla di clien tes della seconda Repubblica. Benché l'attenzione dell'opinione pubblica sia in questo momento focalizzata soprattutto su temi politici più generali, mantenere alta la guardia sui problemi dell'Università, della cultura e della ricerca, ritengo sia un dovere imprescindibile, in quanto è in questo campo che si giocano i destini a lungo termine della nostra società. Pietro Frè Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Trieste


BIBLIOGRAFIA SCIENTIFICA E tu, quante volte? Citazioni, indicatori di autorevolezza
Autore: COMBA VALENTINA, PISTOTTI VANNA

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, EDITORIA
ORGANIZZAZIONI: INSTITUTE OF SCIENTIFIC INFORMATION, JOURNAL CITATION REPORTS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Bibliometria

LA bibliometria è una discipina volta alla misurazione e alla valutazione della produzione libraria, e in particolare dell'editoria scientifica e tecnica. Poiché in quasi tutto il mondo il metro fondamentale di giudizio dell'attività scientifica e di ricerca è la quantità e la qualità delle pubblicazioni di un autore, la valutazione della letteratura scientifica sembra essere diventata uno degli strumenti necessari per l'attribuzione di fondi di ricerca, incarichi, responsabilità progettuali. Una particolare specializzazione nel campo della bibliometria è stata raggiunta dall'Institute of Scientific Information (Philadelphia, Usa), che elabora il Journal Citation Reports: questa rivista annuale riporta dati estratti dall'archivio dell'Isi, un gigantesco database che contiene citazioni bibliografiche da 6000 periodici internazionali di ogni disciplina scientifica. In questo database ogni singolo articolo viene messo in relazione con le citazioni bibliografiche che contiene; infatti nell'indice principale (citation index) veniamo a sapere se l'articolo di un dato autore è stato citato, da chi e dove nell'anno in questione. Ad esempio nel volume cumulativo del 1993 del citation index si legge che l'articolo di Albert Einstein pubblicato nel 1935 su Physical Review è stato citato nel corso del 1993 da 50 autori. Questi dati vengono immagazzinati automaticamente da lettori ottici; i dati vengono quindi trattati senza l'introduzione di valutazioni critiche umane: ad esempio, non si può capire se è stato citato per distrazione un autore di scarsa rilevanza piuttosto che uno di grande pertinenza, se si è citato un articolo per confutarlo, se addirittura si citano autori inventati o in modo scorretto. Bisogna inoltre tener conto che la gran maggioranza dei periodici citati e considerati è angloamericana: meno diffusi sono i periodici europei, men che meno quelli italiani. Sulla base di questa grande messe di dati ogni anno vengono elaborati alcuni indicatori di grande interesse per la bibliometria: tra questi l'«impact factor» e la «cited half-life». L'«impact factor» indica con quale frequenza un articolo (qualsiasi) pubblicato in un dato periodico viene citato: questo indicatore è una proporzione tra la citazione e gli articoli «citabili» (ovvero pubblicati) del periodico X; quindi l'«impact factor» viene calcolato dividendo il numero di tutte le citazioni di articoli pubblicati nella rivista X nei due anni precedenti al Journal Citation Report per il numero di articoli pubblicati sulla rivista X. L'«impact factor» è un buon indicatore per individuare i periodici più citati a prescindere dal numero di articoli che pubblicano e dalla loro periodicità, ovvero i periodici «in ascesa» rispetto a quelli che stanno perdendo importanza. La «cited half-life» (che si potrebbe tradurre con «emivita del periodico citato») indica il numero di anni a partire dal corrente in cui è concentrato il 50% delle citazioni degli articoli di quel periodico. E' un indicatore della stabilità e dell'autorevolezza di una rivista scientifica. Questi sono solo due degli indicatori presentati dal Journal Citation Reports: date le lievi variazioni che possono verificarsi ogni anno è sempre necessario essere precisi sull'edizione di Journal Citation Reports a cui ci si riferisce. Vista la metodologia con cui questi dati vengono raccolti ed elaborati, è estremamente difficile utilizzare questi indicatori per valutare la qualità di un singolo articolo scientifico: bisogna sempre ricordarsi che si tratta di parametri formulati automaticamente e che la letteratura americana è più letta - e quindi più citata - di quella di altri Paesi. Tuttavia si tratta dell'unico strumento di valutazione quantitativa disponibile: attenzione quindi a citare correttamente e a pubblicare articoli di qualità! Valentina Comba Università di Torino


CURARSI CON LE PIANTE Cercate nei codici medievali! La proposta di un epidemiologo americano
Autore: DRI PIETRO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BOTANICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: HOLLAND BART
LUOGHI: ITALIA

PER trovare una nuova terapia efficace contro il cancro basterà forse rileggere con maggiore attenzione i codici miniati medievali. In estrema sintesi, e forse con un po' di eccesso, è questa l'opinione di Bart Holland, epidemiologo della New Jersey Medical School, che da tempo ha questa idea in testa e ora ha trovato il tempo o il coraggio di renderla pubblica sulle pagine di Nature: «Un quarto dei farmaci prescritti ogni giorno nel nostro Paese sono stati scoperti cercando tra le piante. Le probabilità attuali di trovare un farmaco efficace rovistando a caso nella botanica sono però molto basse» sottolinea Holland. Gli esperti del National Cancer Institute si sono rimboccati le maniche, e hanno valutato l'efficacia contro il cancro di 114 mila estratti di 35 mila piante. Il risultato? Un pugno di mosche: nessuno dei preparati ha dimostrato alcuna azione contro le cellule cancerose. «E' il metodo sbagliato. Perché cercare a caso? Bisogna farsi guidare dalle conoscenze che già abbiamo» propone il ricercatore del New Jersey. «E queste conoscenze non sono altro che le credenze popolari e i rimedi empirici descritti da Ippocrate o Galeno e riportate nei codici medievali. Non si tratta di un'idea bizzarra: molte delle piante citate in questi volumi hanno dimostrato, alla prova dei fatti del nostro secolo, di contenere potenti principi attivi». E' il caso dell'Atropa bella donna, da cui deriva l'atropina, utilizzata ampiamente in medicina, o della Digitalis lanata, da cui deriva la digitale, indispensabile per tanti malati di cuore. Da un racconto o una leggenda potrebbe nascere una terapia rivoluzionaria: «Bisogna prestare maggior fede a quanto tentato in passato, guardando ovviamente ogni cosa con gli occhi di oggi. E questo non vale solo per la nostra cultura. In Ghana si usa nei villaggi, da tempi immemorabili, un'erba medicinale per l'asma. Nessun medico se n'era mai occupato, ma ora si è scoperto che contiene una sostanza molto attiva, capace di dilatare i bronchi e quindi di migliorare il respiro» spiega Holland. Secondo l'epidemiologo americano, non bisogna guardare alle cure alternative come a fole senza fondamento, e occorre sfogliare i volumi del passato non con l'occhio del curioso ma con quello del farmacologo: «I testi greci e latini sono un tesoro inesplorato da questo punto di vista. Occorre una maggior cooperazione tra farmacologi e storici, che potrà portare a inattesi risultati». Pietro Dri


ELETTRICITA' La bilancia di Coulomb
Autore: BO GIAN CARLO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, ENERGIA, FISICA
NOMI: DU FAY CISTERNAY, DE COULOMB CHARLES AUGUSTIN, EPINO ULRICH, PRIESTLEY JOSEPH, BECCARIA GIOVANNI BATTISTA, DALLA BELLA GIOVANNI ANTONIO
LUOGHI: ITALIA

FIN dai tempi del filosofo greco Talete (600 a. C.) si sapeva di una strana resina fossile diffusa sulle rive del Mediterraneo (e ancor più del Baltico) chiamata electron dai greci e ambra da noi: se strofinata con pezzo di pelliccia, attraeva batuffoli di lanuggine, piume o altro. Vennero poi scoperti altri materiali che acquistavano proprietà elettriche con lo strofinio, ma bisognò arrivare al 1733 perché il chimico francese Cisternay Du Fay si accorgesse che due bacchette di ambra, o vetro, elettrizzate per strofinio, si respingevano a vicenda. Però una bacchetta di vetro e una di ambra elettrizzate si attraevano. La disputa fu lunga. Franklin, Beccaria, Volta pensavano (e questa interpretazione valse fino a tutto il XIX secolo) che l'elettricità fosse un fluido unico, immateriale, contenuto nei corpi e che la manifestazione di due elettricità, una positiva e l'altra negativa, dipendesse dalla maggiore o minore elettrizzazione dei vari corpi: cioè che ci fosse su di essi elettricità in eccesso o in difetto, rispetto a una norma media. Charles Augustin de Coulomb entrò nella storia elettrica per colpa di Napoleone. Ingegnere militare, nato nel 1736 ad Angoul°eme in Francia, si occupava di attrito, di resistenza elastica dei materiali, di mulini a vento, soprattutto di elasticità di torsione. Grazie a questi ultimi studi, ideò una bilancia molto precisa, con la quale misurava forze piccolissime, come l'attrito tra solidi e liquidi. Tornato dalle Indie Occidentali per problemi di salute, s'era già ritirato a vita privata quando, nel 1802, Bonaparte lo nominò Ispettore dell'Istruzione. Così nella storia dell'elettricità entrò anche una bilancia. Appassionatosi dunque alle misteriose forze elettriche, adottò l'ipotesi del britannico Symmer sulla «fluidità vitrea» e la «fluidità resinosa» della corrente elettrica. Coulomb pensava che esistessero veramente due fluidi elettrici, uno positivo e l'altro negativo; che le particelle positive si respingessero e anche le negative, ma che i fluidi opposti si attraessero. Lo stesso pensava per i fluidi magnetici, con la differenza che i fluidi elettrici sono separabili (si può, ad esempio, avere un solo corpo caricato positivamente) e quelli magnetici no: non si può avere una calamita con il solo polo Nord o il solo polo Sud. Nel grande fervore elettrico del periodo, la legge di Coulomb era stata intuita da molti altri, come il fisico tedesco Ulrich Epino o lo scopritore dell'ossigeno, l'inglese Joseph Priestley, il piemontese Giovanni Battista Beccaria, e anche Giovanni Antonio Dalla Bella, che lavorava in Portogallo alla fine del Settecento. Merito del francese fu quello di misurare la forza delle azioni elettriche e magnetiche: oltre ad avere l'idea, era l'unico in grado di farlo, anche se Cavendish aveva una bilancia simile alla sua. In pochi anni di «pesate», tra il 1786 e il 1789, produsse una serie di Memorie per l'Accademia Reale delle Scienze con le leggi che portano il suo nome. Per le misurazioni dovette risolvere problemi non indifferenti. Come avviene che un corpo carico di elettricità a poco a poco si carichi? Come avviene che l'elettricità si porti in superficie? Da quale punto del corpo carico di elettricità partire per misurare le distanze? Osservò che un corpo elettrizzato viene lambito dalle molecole dell'aria che gli «rubano» un po' di elettricità, ma dato che è elettricità dello stesso segno, vengono respinte dal corpo stesso, lasciando posto ad altre molecole che si portano via altra elettricità, e così via. Con la sua bilancia Coulomb determinò la legge con cui diminuisce la carica di un corpo elettrizzato. E studiò il fenomeno per il quale l'elettricità tende a «navigare» in superficie. Si può immaginare una sfera, carica di elettricità, per esempio negativa, in tutto il suo volume interno. Dato che sono tutte dello stesso segno, le particelle, tendono ad allontanarsi le une dalle altre, si «spingono fuori». Se cercassero di rientrare, si avvicinerebbero a un maggior numero di particelle di segno uguale che, di comune accordo, le impedirebbero di proseguire. Grazie all supposizioni di Franklin e all'applicazione «industriale» del suo parafulmine, la ricerca sull'elettricità s'era messa a correre. E nel 1785 Charles Augustin si trovò nel momento giusto con l'apparecchio giusto: con le misurazioni quantitative sull'attrazione e repulsione elettriche, mostrò che esse erano «inversamente proporzionali al quadrato della distanza fra le cariche interessate». Dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo: la sua legge era del tutto simile a quella di Newton, mostrando analogia tra l'attrazione elettrica e l'attrazione gravitazionale. Per ricordare questa scoperta, l'unità di misura della quantità di carica elettrica è stata chiamata coulomb, cioè la carica che posta nel vuoto, alla distanza di un metro da una carica uguale, la respinge con la forza di 9 x 10 alla nona (9 miliardi) newton. Gian Carlo Bo




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