TUTTOSCIENZE 5 ottobre 94


Ricerca tra i ghiacci Italiani al Polo Nord Trovate tracce lasciate dal Duca degli Abruzzi
AUTORE: SCAGLIOLA RENATO
ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, VIAGGI
NOMI: GIARDINI FRANCO, FORNO WALTER, GAY ENZO, BOSIO PAOLO, MILANESE PAOLO, VERDUCI SAVERIO, SEROV VIKTOR, SAVCHENKO EUGENE, IPPOLITOV VALERY
ORGANIZZAZIONI: ASSOCIAZIONE GRANDE NORD
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Terra di Francesco Giuseppe

QUASI cent'anni dopo la spedizione del Duca degli Abruzzi con la nave Stella Polare (1899-1900), gli italiani sono tornati nell'arcipelago di Francesco Giuseppe (che i russi chiamano Zemlja Frantsa Josifa), nel mare di Barents, all'estremo Nord artico dell'ex Unione Sovietica, tra 79 e 81 gradi di latitudine. Terre assediate dalla banchisa per quasi tutto l'anno, e deserte, se si eccettuano 4 piccole basi russe: una militare sull'isola di Graham, due meteorologiche a Bukta Tikaya (che vuol dire Baia Tranquilla), nell'isola di Hooker, e nell'isola Principe Rodolfo, una scientifica sull'isola di Hayes. Popolazione: una dozzina di anime in tutto. L'impresa (27 luglio-4 settembre) è stata portata a termine dai coriacei soci dell'associazione torinese Grande Nord, che da anni svolgono ricerche scientifiche in quei gelidi territori. I primi occidentali a metter piede sul pack russo in tempi moderni sono stati Franco Giardini sub e biologo, Walter Forno alpinista e radioamatore, Enzo Gay biologo e sub, Paolo Bosio medico e alpinista, Paolo Milanese e Saverio Verduci sub; e due russi: Victor Serov e Eugene Savchenko, ricercatori dell'Istituto Artico di San Pietroburgo. Gli obiettivi storici e scientifici sono stati raggiunti al 90 per cento; sono stati trovati molti resti di antiche spedizioni, parte inviati al Museo Polare di Fermo, nelle Marche, parte al Museo della Montagna di Torino, intitolato appunto al Duca degli Abruzzi; 4 scatoloni di licheni, muschi, fiori, sassifraghe, terra, molluschi e pesci sono finiti invece alle Università di Torino e Siena per le analisi, su inquinamento ed eventuali mutazioni ambientali. Sarà interessante conoscere la differenza tra le analisi del 1900 e quelle di oggi, ora che miasmi industriali e infezioni chimiche e biologiche hanno intossicato i più remoti angoli del globo. La partenza della spedizione è avvenuta, via S. Pietroburgo, da Murmansk, porto strategico sul Mar Bianco, al fondo di un fiordo lungo 200 chilometri, dove arrugginiscono per mancanza di fondi decine di sottomarini atomici e parte del naviglio da guerra della una volta poderosa flotta del Baltico. Di qui 7 giorni di navigazione sulla «Akademik Golitsyn», nave idrografica rompighiaccio incrostata di molluschi e rosa dalla salsedine. «A bordo l'incontro straordinario - racconta Giardini - con Valery Ippolitov, ultimo comandate della leggendaria Stazione Derivante NP31, chiusa nel '91, un uomo che ha passato tutta la vita sulla banchisa e che oggi lavora, con una piccola agenzia privata, la Vicar, per conto del Roscomgidromet, il ministero che sovrintende all'idrografia e alla logistica di tutto l'estremo Nord». Le stazioni derivanti erano piccole basi scientifiche (furono appunto 31 in tutto, a partire dal 1937), montate sul pack, che potevano derivare in mare per centinaia di chilometri spinte dalle correnti. Gli uomini rimanevano isolati per mesi e qualche volta sparivano tra le bufere. A causa delle difficoltà economiche, una alla volta, sono state soppresse. A Capo Flora, primo campo del Duca degli Abruzzi, sull'isola di Northbrook, è stato sbarcato il materiale: 1, 7 tonnellate, tra viveri, carburante, quattro gommoni, tende. Già lo sbarco è stato difficile e, a riva, è stato necessario scendere in acqua per approdare, gli uomini chiusi nelle tute da sopravvivenza norvegesi. Montato il campo e l'antenna radio per i collegamenti con la nave, sono cominciate le escursioni a piedi e in gommone. Navigazione difficile, pericolosa, per la gran quantità di ghiacci in mare. Di notte intorno alle tende veniva montato un recinto per tenere a bada gli orsi bianchi: un sistema di paletti, collegati da un fil di ferro, con ognuno un razzo, che si accende a strappo: un sistema infallibile per scacciare l'orso, meglio delle fucilate, è sparargli un fumogeno. Abituato all'aria pulita, non sopporta il puzzo e sparisce. A Capo Flora è stata sistemata una targa in ricordo dei caduti italiani (furono tre), e rinvenuti i resti dell'accampamento dell'esploratore inglese Jackson (1894). Tempo variabilissimo: in cinque minuti d'orologio passaggio dal sereno alla bufera di neve, temperatura sempre a meno dieci, vento fortissimo, umidità alta. Ambiente di montagne a cime piatte, in continuità orografica e geologica con l'arcipelago delle Svalbard, lontano 1400 chilometri. Dopo alcune osservazioni sulle bird cliffs (scogliere a picco, piene di uccelli artici: urie, fulmari, Little Auks, i rarissimi gabbiani avorio) e immersioni nella baia, il gruppo è stato prelevato da un elicottero (un grosso Mil, di quelli che ogni tanto cadono), e portato alla nave, per trasferirsi a Capo Tegethoff, 150 chilometri a Est. Tegethoff era il nome del veliero dell'austriaco Payer, scopritore dell'arcipelago nel 1873. E' curioso notare che, in seguito alla diversa nazionalità dei primi esploratori, la toponomastica delle 191 isole ha nomi inglesi, austriaci e italiani. Ci sono lo scoglio Rubini (famoso tenore del '900), l'isola Querini (uno dei dispersi della Stella Polare), capo Trieste, il Canale degli Italiani, la punta Ollier (guida alpina valdostana, altro disperso). Tra le baracche in legno del campo dell'esploratore Ziegler sono stati trovati scatole di fiammiferi, e fasci di «erba carice», una specie di fieno usata nel secolo scorso per coibentare le calzature. Sulle rive sassose grandi quantità di legno spiaggiato, tronchi grigi e levigati dalle onde, provenienti dalla foce del fiume Yenissey (lontana tremila chilometri), prezioso legname che servì ai viaggiatori artici per costruire ricoveri. Dopo alcune perigliose immersioni nelle acque dell'isola di Mathilda, insidiati da branchi di trichechi, gli uomini del Grande Nord sono arrivati alla baia di Teplitz, nell'isola di Rudolpha (Principe Rodolfo) la più a Nord, altro luogo storico nelle esplorazioni polari, accolti con gioia dai due specialisti, russi, responsabili della stazione meteorologica, che da un anno non vedevano anima viva. Qui, con un pennone della Stella Polare (che svernò per un anno nel 1899, durante il tentativo di raggiunge il Polo in slitta), rinvenuto fortunosamente, è stato costruito un piccolo monumento (un cairn, voce gaelica, che significa cumulo di pietre usato un tempo per contenere messaggi) e sistemata un'altra targa ricordo. Nella zona sono stati trovati reperti di quella lontana spedizione, partita proprio da Torino, rimasti dimenticati per quasi un secolo: zoccoli da marinaio, cucchiaini, un piatto di porcellana finissima (il Duca aveva a bordo ogni comodità, compresi servizi di vasellame e bicchieri di cristallo), pezzi di vela, una fiaschetta di metallo, frammenti di bottigliette colorate, un barattolo col marchio «Carciofini Angelo Valiani, Orbetello», brocche di metallo smaltato, un lanternino a petrolio, vecchie Finsko, calzature polari in pelle di foca piene di erba carice, pezzi di slitta, proiettili di epoche diverse, due frammenti di legno con la scritta «Stella Polare». E ancora parti di casse da imballaggio con le scritte «Ziegler Polar Expedition» e «Wellman Polar Expedition». Roba del 1905. In tutto sono stati montati 5 campi; il tempo è stato quasi sempre cattivo (in tutto, due giorni di sole), più del previsto; ogni componente la spedizione ha perso dai 4 agli 8 chili di peso, salvo Giardini (capo spedizione), che ne ha persi 12. Meno problematico l'adattamento dei ritmi circadiani (il nostro orologio biologico che ci dice quando mangiare e quando dormire), alle situazioni estreme, e alle 24 ore al giorno di luce. Molti, invece, i problemi di salute: tosse e febbre a 40 per un'infezione virale ai polmoni. Renato Scagliola


INFORMATICA & FUTURO Così il computer imparerà a imparare A colloquio con Faggin, l'inventore dei microprocessori
AUTORE: RAVIZZA VITTORIO
ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
PERSONE: FAGGIN FEDERICO
NOMI: FAGGIN FEDERICO
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)
NOTE: «Microneuro '94»

NEGLI Anni 70 Federico Faggin, 53 anni, vicentino trapiantato in Usa, inventò i microprocessori che rivoluzionarono l'industria dei computer e crearono il mito della Sylicon Valley: il 4004, l'8008, l'8080, che contribuirono alle fortune della Intel, poi l'AZ 80 costruito da una società da lui stesso fondata, la Zilog, di cui sono già stati prodotti oltre un miliardo di pezzi. Oggi è considerato il padre delle reti neurali, la frontiera più avanzata della microelettronica. Il calcolatore tradizionale basato sul microprocessore lavora su grandezze espresse in forma numerica e procede «a salti», le reti neurali utilizzano il procedimento analogico e lavorano in modo da percepire variazioni anche infinitesime. Una tecnologia più raffinata e flessibile, con applicazioni pratiche in gran parte ancora da esplorare, e che sembra mettere a portata di mano il sogno dell'intelligenza artificiale. Faggin era a Torino nei giorni scorsi per Microneuro '94, quarta conferenza internazionale sulle reti neurali organizzata quest'anno dal dipartimento di elettronica del Politecnico di Torino. Lo abbiamo intervistato. Nell'86 lei ha fondato a San Josè, California, la Syna ptics. Con quale obiettivo? «Sviluppare la tecnologia e commercializzare le reti neurali, che nell'86 erano ancora un sogno, una visione. Da due anni le reti neurali hanno cominciato a risolvere problemi complessi». Andiamo verso qualcosa che imita il cervello umano? «Effettivamente noi usiamo la neurobiologia per ispirarci; dopotutto le uniche macchine che conosciamo in grado di risolvere problemi di apprendimento e di controllo complesso sono macchine biologiche, con principi di funzionamento molto diversi dalle macchine che noi facciamo. Stiamo imparando a come trasportare questi principi di funzionamento da macchine naturali a macchine artificiali. Le reti neurali sono la strada per arrivare all'intelligenza artificiale perché sono le più simili all'intelligenza naturale». Qual è la differenza tra mi croprocessore e rete neura le? «Il microprocessore si basa sull'idea di programma; il problema da risolvere, che è sempre di natura logica, matematica, è spezzettato in tanti passi, a ciascuno dei quali corrisponde un'istruzione del computer; mettendo insieme le soluzioni dei vari passi si risolve il problema complessivo. Con le reti neurali possiamo risolvere problemi di natura diversa, che hanno a che fare con la sopravvivenza dell'animale in un mondo molto più imprevedibile e molto meno astratto di quello della matematica, il mondo reale della natura. Nelle reti neurali, come in natura, non c'è il programmatore e l'unico modo per sopravvivere è imparare. Nel computer c'è il programma, nella rete neurale c'è l'apprendimento. L'apprendimento nell'uomo si trasforma in autoprogrammazione. Noi abbiamo un cervello così sosfisticato che riusciamo ad autoprogrammarci; il cervello si è evoluto in modo da essere un computer universale, cioè in grado di risolvere qualsiasi problema, che però si programma anziché essere programmato. Questo è l'obiettivo finale: capire come il cervello si autoprogramma». Quali sono i campi di appli cazione delle reti neurali? «Tutti quelli in cui occorre fare operazioni di pattern recogni tion, cioè riconoscimento di modelli o riconoscimento di scene; un problema classico, per esempio, è il riconoscere una faccia umana, che è un oggetto molto complesso, che cambia in continuazione; il cervello prende un'immagine molto complessa come quella di una faccia e la riduce a elementi essenziali, che poi confronta con gli elementi presenti nella memoria, e che infine associa a un nome. La rete neurale fa la stessa cosa». Le reti neurali sono già im piegate nel riconoscimento delle immagini, della voce, della scrittura manuale, o in certe macchine capaci di riconoscere «scene». Il mi croprocessore innescò un'autentica rivoluzione; faranno qualcosa di simile le reti neurali? «Il microprocessore si era arricchito dell'esperienza accumulata in precedenza dal computer, che esso non aveva creato ma migliorato. Nel caso delle reti neurali stiamo inventando la macchina intelligente e siamo molto più indietro. Il fatto che non abbiamo ancora trovato la strada non significa che la strada non ci sia; anzi, sono convinto che c'è, però bisogna continuare a lavorare. Dopotutto l'idea del computer risale alla fine degli Anni 40. Può darsi che occorrano ancora vent'anni per avere componenti da usare in modo generalizzato per risolvere il passaggio dalla programmazione all'apprendimento. Ma si fa un passo alla volta». Lei, studioso e creatore di imprese, si sente più scien ziato o più industriale? «Quello che mi interessa è creare qualcosa, qualcosa che funziona e la gente usa; per fare qualcosa di nuovo uno si deve mettere in campo e il modo in cui mi sono messo in campo è stato di creare delle imprese dedicate a queste cose; questo è l'unico modo di avere nel mondo l'impatto che voglio avere. Naturalmente, siccome mi piace molto fare cose nuove, ha grande importanza lo scienziato, l'inventore. Per me è naturale combinare le due cose. Questo mi diverte; perché, alla fine, se uno non si diverte nella vita, che cosa stiamo qui a fare?». Vittorio Ravizza


STUDI SULLA MINILUNA L'enigma di Ida Un satellite «ricostruito»?
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

IL 28 agosto dell'anno scorso la sonda Galileo in rotta verso Giove, che raggiungerà il 7 dicembre 1995 dopo sei anni di volo interplanetario, è passata ad appena 2400 chilometri dall'asteroide 243 Ida, ottenendo numerose immagini di un corpo dalla forma di ellissoide irregolare delle dimensioni di 56 per 24 per 21 chilometri. Il piccolo pianeta ha molti crateri e interessanti formazioni geologiche: scanalature, forti pendii, blocchi di roccia e file di craterini. A causa del guasto che ha impedito la completa apertura dell'antenna principale della sonda, sono state necessarie alcune settimane perché le prime immagini di Ida fossero inviate a terra tramite la piccola antenna di riserva, mentre i dati rimanenti sono stati lentamente trasmessi nel periodo compreso tra febbraio e giugno di quest'anno. Ida è uno delle decine di migliaia di piccoli pianeti, il maggiore dei quali - Cerere - ha dimensioni di poco inferiori ai mille chilometri, che formano la «fascia degli asteroidi», un enorme anello della larghezza di circa 200 milioni di chilometri (la distanza Terra-Sole è di circa 150 milioni di chilometri), che è localizzato tra le orbite di Marte e Saturno. La cosa certamente più interessante e per certi versi clamorosa per gli studiosi del sistema solare è stata la scoperta, in una delle ultime immagini trasmesse, di un piccolo satellite di forma grosso modo circolare del diametro di circa 1,4 chilometri, che in un primo momento era stato scambiato per una delle tante stelle di fondo. Si sospettava da tempo che alcuni tra i maggiori asteroidi possedessero dei satelliti naturali, ma non si immaginava che il fenomeno fosse così comune e interessasse anche oggetti di piccole dimensioni come Ida. La sonda ha osservato, oltre a Ida, un altro asteroide, Gaspra, e se su due oggetti, la cui scelta è stata effettuata in maniera casuale, uno ha attorno a sè un satellite, ciò fa supporre che molti altri piccoli pianeti possiedano una o più lune. Il satellite di Ida, che al momento in cui fu ottenuta l'immagine nella quale è stato scoperto si trovava a una distanza dal centro di Ida di 80 chilometri, è stato denominato provvisoriamente 1993 (243) 1 e ha caratteristiche superficiali simili a quelli del fratello maggiore attorno a cui orbita in senso orario con un periodo di 20 ore. Dal numero di crateri presenti su Ida si valuta che la sua età deve essere di circa 1 miliardo di anni, ma il suo compagno sembra essere troppo piccolo per poter essere sopravvissuto per un periodo superiore ai 100 milioni di anni al continuo bombardamento da parte della miriade di frammenti di tutte le dimensioni che sono presenti nella fascia degli asteroidi. Ed è in queste valutazioni cronologiche che sta il paradosso. La comunità scientifica è concorde nel ritenere che sia Ida sia il suo satellite ebbero origine da un impatto catastrofico, avvenuto a una velocità di circa 5 chilometri al secondo, tra un asteroide delle dimensioni di 200-300 chilometri e un altro asteroide più piccolo. I frammenti di questa remota catastrofe cosmica costituiscono adesso la «famiglia di Koronis», un insieme di diverse decine di asteroidi, tra cui Ida e il suo satellite, che hanno elementi orbitali (semiasse maggiore, eccentricità, inclinazione) molto simili e che hanno analoghe proprietà fisiche. Ma questo apparente paradosso potrebbe essere spiegato se il compagno di Ida avesse avuto più di una vita, essendo stato frammentato in minuscoli pezzi, forse più volte, per poi riaggregarsi sotto l'azione della seppur debole azione gravitazionale di un frammento più grosso. L'informazione più interessante è però data dalla forma praticamente sferica del piccolo satellite. In genere più un oggetto del sistema solare è piccolo più la sua forma è irregolare. Ad esempio il nucleo ghiacciato della cometa di Halley, i satelliti minori dei pianeti giganti e i piccoli asteroidi, come appunto Ida, hanno forme molto irregolari, segno evidente che la gravità di questi corpi delle dimensioni di alcune decine di chilometri è troppo debole per far loro assumere una forma di equilibrio sferica. Ma il satellite di Ida, il più piccolo oggetto del sistema solare di cui si abbia un'immagine così dettagliata, ha una forma che è tipica di oggetti che hanno dimensioni di qualche centinaio di chilometri. L'ipotesi più probabile è quindi che non si tratti di un blocco unico, ma dell'agglomerato di detriti rocciosi e polveri, che, rimasti gravitazionalmente legati a Ida dopo che l'impatto catastrofico distrusse il corpo progenitore, col tempo si sono riaggregati per formare il piccolo satellite. Ovviamente si tratterebbe di un corpo dalla struttura molto debole, che, a seguito di ulteriori impatti anche poco energetici, potrebbe subire un'altra frammentazione ed una nuova riaggregazione. Questi processi, a causa della relativa abbondanza di «proiettili» di piccole dimensioni, possono essersi verificati più di una volta nel periodo di tempo trascorso dalla formazione della famiglia di Koronis. Per confermare questo quadro sarà necessario analizzare bene la geologia del satellite, come ad esempio la sua forma precisa, la struttura superficiale e la profondità ed età dei crateri, in modo da ricostruire per quanto possibile la storia di questo piccolo corpo. Un particolare molto interessante e che potrebbe essere la traccia recente di un evento di accrescimento è la presenza di una catena di piccoli crateri relativamente recenti nelle vicinanze del più grande cratere osservato (circa 350 metri di diametro). Una raffica di frammenti eiettati dall'impatto sulla superficie di Ida di un piccolo oggetto asteroidale potrebbe essere la causa più probabile di questa catena di crateri. Se questa piccolissima luna si confermerà un oggetto formatosi dall'agglomerazione di un gran numero di detriti, essa potrà far compagnia a due dei 17 satelliti di Saturno, Janus ed Epimetheus. La bassa densità di queste due lune, di dimensioni comprese tra 100 e 200 km e che si trovano sul bordo esterno degli anelli di Saturno, suggerisce che si tratti di oggetti originatisi dall'aggregazione di particelle che precedentemente appartenevano all'anello, che a loro volta potevano essere i detriti di un'antica luna distrutta da un impatto catastrofico. Distruzione e riformazione sembrano essere quindi fenomeni comuni per i piccoli corpi del nostro sistema planetario. Mario Di Martino Osservatorio astronomico, Torino


SCAFFALE Tinbergen Nikolaas: «Lo studio dell'istinto», Adelphi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

FONDATORE - con Lorenz e von Frisch, suoi compagni di premio Nobel - dell'etologia comparata, Nikolaas Tinbergen pubblicò questo suo testo fondamentale nel 1951. Grazie ad Adelphi ora finalmente compare anche in traduzione italiana. E' qui che sono descritti i classici esperimenti con le vespe, i pesci spinarelli e i gabbiani, tante volte citati anche nella nostra letteratura divulgativa ma quasi mai per conoscenza diretta. La loro importanza sta nel fatto che grazie ad essi per la prima volta una accurata sperimentazione veniva a inserirsi nell'annoso dibattito sul rapporto tra comportamenti appresi e comportamenti innati, cioè, in ultima analisi, tra cultura e natura. Il tutto nel quadro più ampio della biologia evolutiva.


SCAFFALE Weil Andrè: «Teoria dei numeri», Einaudi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MATEMATICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Ci sono due modi di leggere questo libro: badando alle formule, come sarebbe doveroso; oppure cogliendo solo gli aspetti aneddotici, storici, descrittivi. Il secondo modo ovviamente non è ortodosso. Ma è meglio di niente, e non esclude che talvolta si afferri almeno il concetto, se non proprio la tecnica matematica che esso nasconde. La teoria dei numeri è un ramo fondamentale della matematica, che si estende nel tempo dagli antichi egizi fino a quella «congettura di Fermat» che ancora oggi non ha trovato dimostrazione definitiva. Andrè Weil la espone da maestro: non a caso fu tra i fondatori del gruppo Bourbaki per poi approdare al celebre Institute for Advanced Study di Princeton.


SCAFFALE Venè Metello: «Attrazione bestiale», Sperling & Kupfer
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Un tempo dominio esclusivo della filosofia, dopo aver occupato ampi territori della matematica, oggi la logica è divenuta uno strumento essenziale per la linguistica, l'informatica, la semiologia. Questo ponderoso trattato affronta gli sviluppi della logica dal secolo scorso fino ai nostri giorni. Corrado Mangione insegna all'Università di Milano, Silvio Bozzi in quella di Urbino. Corrado Mangione: «Storia della logica», Garzanti, 960 pa gine, 90 mila lireLa fantasia della natura in fatto di sesso è (fortunatamente) illimitata. Metello Venè, appassionato studioso del comportamento animale e brillante giornalista, ce ne dà una prova in questo suo libro piacevole e pieno di curiose informazioni che spaziano dagli accoppiamenti acrobatici delle libellule a quelli inevitabilmente tentacolari dei polipi.


SCAFFALE Cossard Guido: «Nove strade per la Luna», Musumeci; Lacroux e Berthier: «Astronomia», Zanichelli
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Il frontespizio di questo libro di Guido Cossard presentato da Walter Ferreri riporta una domanda che tutti dovremmo farci quando ci capita di alzare lo sguardo verso il cielo: «Senza il nostro satellite, lo sviluppo culturale dell'uomo sarebbe stato lo stesso?». Sono proprio gli aspetti culturali a orientare la prospettiva del volume, dove troviamo in breve tutte le informazioni essenziali sul nostro satellite (origine, geologia, consigli per l'osservazione) ma poi si approfondiscono in modo particolare gli aspetti archeo- astronomici (i megaliti Stonehenge, per esempio, ma anche quelli di Saint-Martin-de-Corleans ad Aosta, alla cui scoperta lo stesso Cossard ha dato un contributo importante). Nè meno rilievo è dato ai rapporti tra le lunazioni, il calendario e il culto di cui la Luna fu oggetto nell'antichità, fino alle vicende della conquista da parte degli astronauti americani. Ancora per gli astrofili, è da segnalare il buon manuale di Lacroux e Berthier, ricco di consigli pratici per l'osservazione e la fotografia di stelle e pianeti. La traduzione di Sergio Baldinelli è stata revisionata da Luigi Baldinelli, uno dei più noti tra i dilettanti di astronomia.


ALIMENTAZIONE Quando la carta riciclata è pericolosa Confezioni per pasta e riso talvolta contengono veleni
Autore: STURARO ALBERTO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, ECOLOGIA, MINACCE, INTOSSICAZIONE, INCHIESTA
NOMI: PARVOLI GIORGIO, RELLA ROCCO, DORETTI LUCIO
ORGANIZZAZIONI: CNR, INTERNATIONAL JOURNAL OF FOOD AND TECHNOLOGY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Carta chimica, contenitori per alimenti

LA nostra società affronta ogni giorno i problemi legati alla diminuzione delle materie prime, al proliferare dei rifiuti e all'inquinamento generato da urbanizzazione, agricoltura e industria. Il riciclaggio di carta, plastica e altri prodotti può essere un'interessante soluzione ad alcuni di questi problemi. Ma può anche nascondere rischi di inquinamento derivanti da componenti chimici presenti nei materiali riciclati. Uno studio pubblicato su «International Journal of Food Science and Technology» e condotto da ricercatori del Cnr (oltre a chi scrive, Giorgio Parvoli, Rocco Rella e Lucio Doretti, direttore dell'Ufficio sicurezza e prevenzione del Cnr), ha messo in luce alcuni aspetti interessanti: con tecniche analitiche avanzate, come la spettrometria di massa accoppiata alla gascromatografia, sono stati individuati, in prodotti alimentari di largo consumo (riso e pasta) venduti in scatole di cartone, una serie di idrocarburi aromatici estranei fra i quali alcuni isomeri del disopropilnaftalene. Gli studi hanno permesso di individuare nel contenitore il responsabile della contaminazione. Attualmente il 90 per cento del cartone utilizzato è prodotto con carta riciclata. Partendo da questo dato è stato possibile risalire alla carta copiativa chimica e termica come principale fonte dell'inquinamento. Questa carta speciale viene riutilizzata in quanto, essendo costituita da ottima cellulosa, dà al cartone buone caratteristiche meccaniche. Quantità modeste di questa carta usata comunemente per fatture, bolle di accompagnamento, moduli bancari, scontrini di cassa, sono in grado di contaminare, in maniera apprezzabile, grossi quantitativi di cartone. La carta chimica si ottiene facendo aderire alla superficie inferiore del primo foglio uno strato sottile di microcapsule contenenti un cromogeno ed un solvente costituito appunto dai diisopropilnaftaleni. La pressione della penna rompe le microcapsule inducendo una reazione chimica con lo sviluppatore (caolino) stratificato sulla superficie superiore del foglio sottostante e formazione della traccia colorata. L'uso di tale solvente è stato introdotto recentemente per sostituire i policlorobifenili (pcb), noti come prodotti molto inquinanti e il cui uso è stato praticamente impedito da una normativa molto severa. La determinazione analitica e la caratterizzazione tossicologica dei disopropinaftaleni sono state poco studiate, pur essendo questi composti largamente usati su scala industriale. Il processo di riciclaggio della carta non prevede alcun trattamento specifico per l'eliminazione di tali composti e pertanto un'aliquota rimane nel prodotto finito. Il cartone, quando è utilizzato come contenitore, può cedere queste sostanze agli alimenti. Riso e pasta risultano contaminati mentre nel sale e nello zucchero non è stata rilevata alcuna traccia d'inquinamento. Il trasferimento dei disopropilnaftaleni probabilmente è favorito dalla struttura amorfa e dal contenuto lipidico dell'alimento. Quindi anche i prodotti alimentari coltivati biologicamente, se confezionati direttamente in scatole di cartone possono presentare gli stessi omposti estranei. Il fenomeno non è stato finora messo in evidenzia poiché la legislazione italiana (Decreto ministeriale del 21 marzo 1973 e seguenti) suddivise gli alimenti in cinque tipi in funzione delle prove di cessione da effettuare sui materiali a contatto con gli stessi. Alimenti come cereali e derivati rientrano nel Tipo V che «per il loro stato fisico, per la loro forma e consistenza determinano un contatto discontinuo, per punti, incapace di provocare un'azione estrattiva significativa». In questa ottica, non è contemplata la possibilità di trasferimento di un composto da solido a solido e quindi non sono previsti controlli di alcun tipo. La ricerca ha messo in evidenza alcuni aspetti che andrebbero considerati con maggiore attenzione: 1) il riutilizzo della carta chimica produce un diffuso e crescente inquinamento ambientale, soprattutto a causa della scarsa biodegradabilità dei disopropilnaftaleni; 2) Il cartone costituito parzialmente da carta chimica non dovrebbe essere usato per alimenti o, in alternativa, questi dovrebbero essere protetti da un sacchetto interno; 3) Dovrebbero essere effettuati studi approfonditi al fine di definire la rilevanza tossicologica dei disopropilnaftaleni; 4) Sarebbe auspicabile una revisione delle norme sugli imballaggi per alimenti che tenesse conto della possibilità di inquinamento ora individuate. Alberto Sturaro Cnr, Padova


GIUSEPPE MERCALLI Il sacerdote dei terremoti Moriva 80 anni fa, la sua «scala» sopravvive
AUTORE: GABICI FRANCO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, TERREMOTI
PERSONE: MERCALLI GIUSEPPE
NOMI: STOPPANI ANTONIO, MERCALLI GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA

OTTANT'ANNI fa, cioè nel 1914, moriva a Napoli il sacerdote, vulcanologo e studioso dei terremoti Giuseppe Mercalli, che ha legato il suo nome alla famosa «scala sismica» ancora oggi usata, accanto alla più recente Scala Richter. Aveva 64 anni (era nato a Milano nel 1850) e la sua morte fu causata da un incendio che devastò il suo appartamento durante la notte. Mercalli fu allievo dell'abate Antonio Stoppani, notissimo autore de «Il bel paese», e fu probabilmente quel geniale sacerdote a trasmettergli la passione per le scienze. Dopo aver conseguito la laurea in scienze naturali, infatti, Mercalli si dedicò interamente alla geologia e in particolare allo studio dei terremoti. In particolare, fu in cattedra presso le Università di Catania e di Napoli, e dal 1911 divenne direttore dell'Osservatorio astronomico napoletano. La «scala Mercalli» non fu una sua invenzione, ma una riebolazione di altre scale precedentemente in uso che propose nel 1902. Originariamente la «Scala Mercalli» comprendeva dieci gradi, dalla «scossa strumentale» (1 grado) fino alla «scossa disastrosissima» (10 grado). Dopo il terremoto di Messina del 1908, Mercalli aggiunse alla sua scala la «scossa catastrofica» (11 grado). Ovviamente una scala di questo genere, basata empiricamente sugli effetti dei sismi, deve essere continuamente aggiornata soprattutto tenendo conto dell'evoluzione delle tecniche di costruzione. Oggi questa scala, nota come «scala Mercalli- Cancani- Sieberg», è suddivisa in 12 gradi, l'ultimo dei quali corrisponde alla «scossa ultracatastrofica» . Mercalli, su proposta del suo maestro Stoppani, ha scritto il terzo volume dell'opera «Geologia d'Italia» (edito da Vallardi), considerato «la prima sintesi scientifica dei fenomeni endogeni del nostro paese». Nella redazione di questo volume, che ha come titolo «Vulcani e fenomeni vulcanici in Italia», Mercalli ebbe come prezioso collaboratore Achille Ratti, un giovane sacerdote che più avanti negli anni, nel 1922, sarebbe stato eletto pontefice. Achille Ratti (Papa Pio XI) ancora oggi è ricordato come esperto alpinista e appassionato di scienza. Ma non tutti sanno che il futuro pontefice scrisse per Mercalli il XII capitolo della sua opera, «I terremoti storici italiani», un prezioso catalogo che descrive più di mille sismi avvenuti fra il 1450 avanti Cristo e il 1881. Franco Gabici Direttore del Planetario di Ravenna


GLI STUDI DI UN'ETOLOGA Un genio incompreso L'intelligenza del rinoceronte
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: MERZ ANNA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C.T. I NUMERI DEL RINOCERONTE =================================== Numero di esemplari: circa 4.800 in Africa meridionale, circa 30 in Africa centrale ----------------------------------- Distribuzione attuale: Sud Africa, Botswana, Namibia, Kenya, Zimbabwe, Zaire ----------------------------------- Altezza al garrese: 1 metro e 75 Peso: 2.500 chili ===================================

FORSE perché ci vede poco con quei due occhietti inespressivi spostati all'indietro nella testa mastodontica, forse perché non ha reazioni molto rapide agli stimoli esterni, fatto sta che il rinoceronte dà l'impressione di essere un animale tardo, ottuso, poco intelligente. Ma c'è chi l'ha studiato a lungo ed è giunto a ben diverse conclusioni. Si tratta di Anna Merz, fondatrice e sponsor del Santuario dei Rinoceronti Ngare Sergoi, nel Kenya. La Merz ha scoperto che questo bestione di tre tonnellate, secondo per grandezza soltanto all'elefante, intrattiene vivaci rapporti sociali con i suoi simili, usando non solo una larga gamma di vocalizzazioni, ma anche quello che si chiama comunemente «linguaggio del corpo». La cosa più interessante è che il rinoceronte si serve per comunicare di una sorta di codice Morse a base di respiri. E non basta. La Merz ha avuto un'esperienza molto rara. Ha allevato un piccolo rinoceronte nero femmina, ripudiato dalla madre alla nascita, e ha potuto seguirne passo passo per otto anni e mezzo lo sviluppo corporeo e mentale. Diventato quasi un animale domestico, il rinoceronte ha dimostrato una sorprendente capacità di apprendimento. Ha imparato in tempi brevissimi ad aprire le maniglie delle porte, a spalancare i cancelli, ad aggirare un filo elettrico messo nel giardino proprio per impedirgli di entrare in casa, e soprattutto a seguire come un cagnolino la padrona dovunque andasse. E il giorno in cui il giovane rinoceronte scivola malamente, rimanendo con una zampa incastrata sotto un cumulo di legname, pur lanciando grida di dolore e tremando come una foglia, l'animale trova la forza di controllarsi, di non cadere in preda al nervosismo che rischierebbe di spezzargli la zampa. Lentamente, facendo leva sulle altre tre zampe, riesce a risollevarsi e a liberare la zampa imprigionata. Un simile comportamento, secondo Anna Merz, non può essere considerato come istintivo. Per lei il rinoceronte è un animale intelligente. Lo conferma un episodio di cui è stata testimone nel santuario kenyota, protagonista questa volta un rinoceronte bianco che, non avendo mai avuto contatto con i cacciatori, non ha timore degli uomini. L'animale un giorno rimane intrappolato in una rete. La studiosa sta compiendo un giro di perlustrazione con un suo aiutante e si trova faccia a faccia con la povera bestia che la riconosce e sembra quasi chiederle aiuto con lo sguardo implorante. La Merz, non avendo con sè gli attrezzi per tagliare la rete, fa quel che può. Interpone il suo fazzoletto tra l'occhio del rinoceronte e la rete che rischia di accecarlo, si toglie la camicetta e ne fa un cuscinetto tra il pene del bestione e la rete che lo comprime pericolosamente. Il rinoceronte, benché scosso da tremiti, non batte ciglio. Lascia fare, anche se è evidente che sente dolore e soffre. Finalmente si riesce a tagliare la rete-trappola e a liberare il pachiderma che, dopo aver lanciato uno sguardo di riconoscenza alla sua liberatrice, si avvia lentamente verso la boscaglia. Sono passati quindici anni dal 1979, l'Anno del Rinoceronte proclamato solennemente dal Wwf e dall'Uicn, l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Le due massime istituzioni protezionistiche avevano inteso lanciare una compagna internazionale per salvare dall'estinzione le cinque specie di rinoceronte esistenti nel mondo: il rinoceronte bianco e quello nero in Africa, il rinoceronte indiano, quelli di Giava e di Sumatra in Asia. Quali i risultati? Deludenti su tutta la linea, se si pensa che nei primi Anni Settanta c'erano ancora in Africa sessantamila rinoceronti neri e oggi ne rimangono sì e no due o tremila. La causa? Principalmente i corni, ritenuti a torto afrodisiaci e venduti a peso d'oro sui mercati orientali, richiestissimi anche nello Yemen per i manici dei pugnali che i giovani portano alla cintola a simbolo della raggiunta maturità. In Asia poi il rinoceronte è considerato una farmacia ambulante. Non solo i corni, ma ogni parte del suo corpo è usata come rimedio nella medicina tradizionale. Si cerca in tutti i modi di combattere il crescente bracconaggio. Nella Namibia e nello Zimbabwe si è ricorsi recentemente al taglio dei corni, con la speranza di scoraggiare così i bracconieri. Ma sembra che l'operazione dia origine ad altri inconvenienti. A parte il costo eccessivo (la decornificazione va ripetuta ogni anno con una spesa di oltre due milioni a capo), è emerso da una ricerca fatta in Namibia che le madri scornate non riescono a difendere efficacemente i loro figlioletti dai predatori e quasi tutti i piccoli muoiono senza raggiungere il primo anno di età. Inoltre, nella rarefazione dei rinoceronti, ha il suo peso la progressiva trasformazione della savana in campi coltivati e non va dimenticata l'influenza nefasta delle guerre che divampano in molte zone «calde» del continente nero. Come al solito, stiamo sterminando una specie animale, prima ancora di conoscerla a fondo. L'esperienza di Anna Merz non è l'unica del genere. Nel Parco Nazionale Meru, sempre nel Kenya, un altro caso mostra chiaramente come si possa stabilire un rapporto amichevole tra l'uomo e il rinoceronte. Cinque esemplari di rinoceronte bianco vivono qui a contatto quotidiano con gli uomini incaricati della loro protezione. Ogni mattina questi ultimi li accompagnano all'abbeverata, li conducono al pascolo, poi li chiamano per nome per radunarli e li riconducono al loro recinto per la siesta diurna. Al pomeriggio si ripete la stessa sequenza. Il rinoceronte bianco obbedisce ai comandi dell'uomo comportandosi come un docile agnellino. Gli si può dare persino un'affettuosa pacca sul sedere. Lui non se l'ha a male. O forse non se ne accorge nemmeno, con quella pelle corazzata che ha... Isabella Lattes Coifmann


AMBIENTE & SALUTE L'acqua è fuori legge Nessun test di tossicità adeguato
Autore: ODDO NICOLA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ACQUA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Test inquinamento fiumi e falde acquifere

NOVE agosto '94: uccisa ogni forma vivente in cinque chilometri del fiume Lambro per l'immissione di cianuro da parte di un'azienda artigiana, che ha approfittato di un temporale per eseguire lo scarico; 30 agosto '94: presenza di arsenico nelle acque impiegate per la potabilizzazione tra Cremona e Mantova; 30 agosto '94: presenza di sostanze tossiche di varia origine nell'Oglio e nel Mella; 10 settembre '94: 120 mila litri di acetoncianidrina sono stati dispersi nel terreno da una ditta di Rho; a rischio la falda idrica da cui si preleva l'acqua per i comuni circostanti; 10 settembre '94: nella cava abbandonata Ronchi a Baranzate di Bollate si scoprono fusti sotterrati pieni di sostanze sconosciute. Queste notizie, tutte relative ad una regione, sono comparse sui quotidiani con notevole rilievo e in un intervallo di tempo abbastanza breve. C'era da aspettarsi che popolazione e amministratori esigessero a furor di popolo provvedimenti severissimi, invece non è successo nulla; gli unici che si sono agitati sono stati i carabinieri e qualche pretore. Quanti hanno fatto la considerazione che una sostanza, una volta immessa nel terreno prima o poi entrerà nella catena alimentare, e che nonostante il consumo di acqua minerale, continuiamo a irrigare, abbeverare gli animali allevati, cucinare con acque di falda o di fiume come quelle delle notizie citate? Se questa considerazione è stata fatta, è stata consciamente o inconsciamente rimossa. Quanti sono i milanesi che sanno che l'acqua con la quale cucinano è prelevata sotto i loro piedi, che a Milano manca un depuratore, e che lo spurgo dei pozzi di prelievo fuori norma per l'acqua potabile va semplicemente a diluire l'acqua di fogna? I meccanismi di accumulo nei tessuti di un essere vivente delle sostanze presenti nell'ambiente sono i seguenti: bioconcentrazione: assorbimento passivo od attivo da parte degli organismi ed accumulo nei loro tessuti; biomagnificazione: assunzione tramite l'alimentazione e concentrazione attraverso i successivi anelli della catena alimentare. Ad esempio: una graminacea attraverso le radici può assorbire e accumulare una data sostanza disciolta nell'acqua che imbeve il terreno; un erbivoro, alimentandosi con quella graminacea (eventualmente per tutta la vita) compie un secondo stadio di accumulo e concentrazione; un carnivoro, alimentandosi a spese dell'erbivoro, compie un ulteriore accumulo. Nel caso dell'uomo, che è onnivoro, una serie di eventi di questo genere si traduce in una intossicazione cronica di origine alimentare. La legge italiana non prevede alcun test di tossicità nè per le acque minerali, nè per le acque potabili, nè per le acque per uso irriguo, e prevede un saggio di tossicità sulla trota solo per le acque di scarico; alcune regioni inoltre fanno eseguire un test di fitotossicità sui fanghi usati per fertilizzare. Si definisce test di tossicità un test in cui si valuta l'effetto di danno generato da una o più sostanze su di un essere vivente scelto come cavia. Il test sulla trota generalmente non viene eseguito per la sua scomodità (è necessario avere a disposizione un allevamento di trote), per la discutibile attendibilità statistica (la popolazione su cui eseguire il test generalmente è poco omogenea dal punto di vista genetico), per la durata del test (24 ore) e per il suo costo (l'allevamento deve essere strutturato e organizzato in modo da poter eseguire test tossicologici su gruppi consistenti di individui). In pratica ci si limita all'esecuzione di controlli chimici, i quali tuttavia non possono assolutamente essere ritenuti esaurienti per i seguenti motivi: 1) una analisi chimica segnala la presenza e la concentrazione di una sostanza preselezionata, ma nulla dice su sostanze differenti da quelle preselezionate; 2) anche ammesso di aver identificato tutte le sostanze inquinanti presenti nel campione, nulla si può dire sulla sua tossicità globale causa il crearsi di eventuali sinergie tossicologiche. Ad esempio: alcuni tensioattivi di comunissimo impiego incrementano la permeabilità cellulare e quindi la velocità di assorbimento degli organismi alle altre sostanze inquinanti; 3) in ogni caso gli effetti tossici che una immissione può determinare in un corpo idrico recettore non sono, in conseguenza del fenomeno dell'accumulo, deducibili da pure misure di concentrazione quali quelle richieste dalla legge 319. Nicola Oddo


RICERCA Le api guardie ecologiche Sono una spia dell'inquinamento
Autore: LEONCINI ANTONELLA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ZOOLOGIA, ETOLOGIA, ANIMALI, AMBIENTE, INQUINAMENTO
NOMI: CELLI GIORGIO, POLLINI CLAUDIO
LUOGHI: ITALIA

LE api attente sentinelle dell'inquinamento ambientale: alcune caratteristiche comportamentali di questi insetti si sono dimostrate adatte per il monitoraggio delle sostanze chimiche inquinanti, soprattutto in agricoltura. E' quanto emerge da una ricerca condotta da Giorgio Celli e Claudio Pollini dell'Università di Bologna, presentata dalla Provincia di Siena: contributo scientifico di un pool per lo sviluppo dell'apicoltura al quale con Siena partecipano province di Grecia, Polonia e Spagna; tra gli altri settori di ricerca, l'apiterapia e l'inseminazione artificiale nell'alveare. Gli indicatori ambientali, secondo Celli e Pollini, hanno il vantaggio di descrivere fenomeni non esprimibili in termini matematici e di svelare la presenza di sostanze immesse abusivamente nell'ambiente. La distinzione è fra indicatore biologico e organismo-test. L'indicatore indica una costellazione di emergenze correlandosi a differenti sostanze inquinanti; l'organismo-test, invece, è un rilevatore specifico. Dopo i licheni, altri elementi vegetali e animali sono stati impiegati come indicatori: i macro-invertebrati, le piante, gli insetti impollinatori selvatici. In particolare, l'ape è ritenuto un eccellente insetto-test. E' un sensore viaggiante: nei suoi spostamenti di andata e ritorno dall'alveare, in un'area di circa sette chilometri quadrati, raccoglie sostanze come nettare, polline, propoli, melata e acqua. In media in un alveare vivono 10 mila bottinatrici che singolarmente visitano ogni giorno un migliaio di fiori: una colonia di api, quindi, effettua quotidianamente dieci milioni di microprelievi, senza considerare il trasporto di acqua che nelle giornate calde raggiunge il mezzo litro. Con questo lavoro l'ape preleva anche molecole inquinanti: durante il volo, intercetta sul suo corpo peloso le particelle disperse nell'aria, assorbendole e rendendole disponibili all'analisi chimica. L'indagine è possibile nelle aree industriali e nelle città dove le api sopravvivono bottinando nei giardini, negli spartitraffico, sugli alberi dei viali e sui fiori dei balconi, consentendo contemporaneamente il rilevamento degli inquinanti. L'ape-test, attuato negli Anni 80 in differenti centri italiani, ha permesso di accertare differenti livelli di inquinamento. Le analisi condotte da Celli e Porrini hanno confermato gli effetti disastrosi dei pesticidi responsabili di una diffusa mortalità. Per i principi attivi non particolarmente pericolosi l'insetto, invece, funziona come indicatore indiretto. Questa strategia consente di individuare i principi attivi impiegati, la loro pericolosità, il giorno del loro impiego. Il numero di api morte raccolte con le gabbie di Gary applicate a due alveari, che rappresentano strumenti di monitoraggio, dipende dalla tossicità e dalla pericolosità del principio attivo impiegato. I fosforganici e i carbammati hanno un forte potere abbattente: i primi agiscono sul sistema nervoso inibendo l'acetilcolinesterasi, un enzima presente nella sinapsi la cui funzione è di idrolizzare l'acetilcolina, sostanza chimica secreta da vescicole che nelle api serve alla trasmissione dell'impulso nervoso. I fosforganici determinano un accumulo di acetilcolina nelle sinapsi e scatenano la sindrome di avvelenamento da blocco colinergico. Anche i carbammati inibiscono l'acetilcolinesterasi. I cloroderivati, a loro volta, sebbene con una tossicità meno immediata, agiscono sempre sul sistema nervoso; in questi casi, comunque, l'ape colpita da una molecola tossica generalmente torna all'alveare, dove, però, la sua sorte è molto incerta. La strategia dell'ape-test risulta valida soprattutto nei territori poveri di vegetazione selvatica: difatti, l'insetto è obbligato a bottinare sulle specie coltivate o nelle loro vicinanze, con un maggior rischio di venir a contatto con i principi attivi irrorati sulle colture. In una zona floristicamente ricca, invece, soprattutto se i trattamenti sono eseguiti correttamente, l'ape vive più tranquilla con segnali attenuati della compromissione chimica dell'ambiente. Delle ricerche in Italia sono state condotte dal gruppo di studio di Celli nelle province di Forli e Ferrara con l'elaborazione di mappe di pericolosità per le api attraverso la formulazione di curve di mortalità. Una verifica è stata condotta attraverso un confronto fra gli istogrammi e le vendite di fitofarmaci con una rispondenza fra le maggiori curve di mortalità e le vendite di prodotti letali per le api. Antonella Leoncini


IN BREVE Il radar X-Sar al lavoro
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

E' al lavoro per la seconda volta, in orbita sullo Shuttle, il radar X-Sar sviluppato dall'Italia (Asi, Alenia Spazio) in collaborazione con l'agenzia spaziale tedesca. X-Sar permette sofisticati rilievi ambientali al suolo. Tra gli obiettivi sul territorio italiano, fenomeni di erosione del suolo, fenomeni vulcanici (Vesuvio), condizioni del mare nel Golfo di Genova e rilievo della vegetazione nell'Oltrepo' pavese.


IN BREVE Biotecnologie contro l'Aids
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: SNIARICERCHE
LUOGHI: ITALIA

Un seminario alla Sniaricerche di Pisticci ha messo in evidenza il ruolo decisivo che le biotecnologie possono svolgere nella lotta contro l'Aids (15 milioni di infetti nel mondo, di cui tre milioni con la malattia conclamata, 30 milioni di infetti intorno al Duemila). Le biotecnologie hanno già fornito test diagnostici più rapidi e sensibili e promettono di aprire la strada al vaccino.


IN BREVE Concorso Eco-abitare
ARGOMENTI: ECOLOGIA, CONCORSI, EDILIZIA
LUOGHI: ITALIA

Si svolgerà domenica 9 ottobre a Nole la premiazione del concorso «Eco-abitare» riservato agli studenti di architettura della Cee, e bandito allo scopo di promuovere rispetto della natura e qualità della vita.


IN BREVE Riciclaggio degli imballaggi
ARGOMENTI: ECOLOGIA, RICICLAGGIO, RIFIUTI
ORGANIZZAZIONI: FEDERAMBIENTE
LUOGHI: ITALIA

Gli imballaggi costituiscono il 35 per cento in peso e il 45 per cento in volume del totale dei rifiuti solidi urbani. Bastano queste cifre per dire quanto sia importante provvedere al loro riciclaggio. Se ne è parlato a Roma in un convegno promosso da Federambiente con il fine distabilire un dialogo tra istituzioni, operatori del settore e ambientalisti.


IN BREVE Amici in Barrett
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: AMICI DI BARRETT
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)

E' nata a Torino l'associazione A.I.BA, «Amici in Barrett» che accoglie i pazienti affetti da questa malattia, i loro parenti e chiunque sia interessato al problema. Tel. 011-537.288.


UN LABORATORIO VIVENTE Reni, superfiltro del sangue Sessanta chilometri di minuscoli tubi
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

PIU' di due milioni di nefroni costituiscono i reni. I nefroni (parola tratta dal greco nephros, che significa appunto rene) sono le unità microscopiche alle quali spetta la funzione depuratrice, carta d'identità dei reni. Nel nostro organismo, in seguito al ricambio, si formano di continuo e in grande quantità prodotti di rifiuto che devono essere prontamente eliminati, senza di che si avrebbe un'intossicazione incompatibile con la vita (nei casi di insufficienza renale si deve ricorrere al rene artificiale o al trapianto). Rifiuti vengono allontanati attraverso la pelle, l'intestino, i polmoni, ma i reni sono a questo riguardo gli organi di gran lunga più importanti. Detto molto sinteticamente, il nefrone è formato da una specie di scodella, il glomerulo, contenente un gomitolo di vasi sanguigni capillari, sottili come un capello, derivanti dalle arterie renali che portano il sangue ai reni. Il glomerulo continua in un canaletto tortuoso, il tubolo renale, lungo 20-40 millimetri. Mettendo in fila i tuboli dei due reni in maniera da formare un solo canale avremmo un condotto di circa 60 chilometri. Le cellule sostituenti la parete del tubolo hanno un tipico orletto a spazzola. Col microscopio elettronico si è visto che l'aspetto è dovuto ad una fitta e regolare sequenza di villi lunghi circa un millimicron. Il sangue, scorrendo nei capillari, deposita nei glomeruli buona parte del suo liquido, filtrato attraverso la sottile parete dei capillari. In 24 ore passano nei capillari 1600 litri di sangue, e da essi sgorgano circa 180 litri di liquido formato da sostanze inorganiche semplici (acqua, ioni salini) e da sostanze organiche più o meno complesse risultanti dal catabolismo, ossia dalla fase demolitrice delle trasformazioni biochimiche ed energetiche che costituiscono il «ricambio» (o metabolismo). Le scorie, insomma. Il liquido passa nei tuboli e, percorrendoli, subisce molte modificazioni, dopo di che rientra in gran parte là donde era venuto, ossia dal sangue. Quello che rimane alla fine del viaggio nei tuboli è appena un litro e mezzo in media, e costituisce l'urina che viene eliminata. C'è dunque una filtrazione selettiva da parte dei capillari, indi un riassorbimento selettivo da parte dei tuboli. Questo doppio meccanismo può sembrare illogico, ma la filtrazione dai capillari deve essere molto abbondante al fine di permettere una sufficiente eliminazione dele scorie azotate (il prodotto ultimo del catabolismo azotato è l'urea), e con queste scorie è inevitabile anche il passaggio d'una grande quantità d'acqua, di ioni salini e di altre sostanze di piccole dimensioni, che non possono fare a meno di essere filtrate insieme con le scorie azotate ma che non possono andare perdute e devono essere recuperate dal sangue. E' un sistema complicato, ma non potrebbe essere diversamente. I reni non si limitano a filtrare meccanicamente dal sangue le sostanze tossiche ma trasformano molte di queste in altre utili, e le restituiscono. Effettuando una scelta oculata sono i vigili custodi della composizione chimica del sangue e fanno sì che questa sia adatta in ogni momento ed in ogni circostanza alle esigenze delle cellule. Per esempio il glucosio, filtrato per le sue piccole dimensioni molecolari, viene tutto riassorbito, e infatti l'urina ne è priva (è presente nel diabetico). Se non fosse riassorbito si perderebbero moltissime calorie, la metà di quelle basali per la vita. Altrettanto si dica per il sodio, riassorbito perché essenziale per mantenere costante il volume dei liquidi extracellulari e del sangue. Viceversa il potassio viene eliminato in buona parte, e anche di ciò vi è un motivo fisiologico. Ma come avviene tutto questo con tanta precisione? C'è un'autoregolazione del flusso di sangue circolante nei reni. La filtrazione dai capillari è indipendente dalle variazioni della pressione del sangue. Con esperimenti sugli animali si è visto che aumentando del 100 per cento la pressione arteriosa l'entità del flusso sanguigno nei reni e la filtrazione glomerulare aumentano appena del 10 per cento. Questa capacità di autoregolazione è qualcosa di insito nei reni. Anche i tubuli si autoregolano, adeguano automaticamente la loro capacità di riassorbimento del liquido alle modalità con le quali avviene la filtrazione. A tutt'oggi non si conosce con certezza il mediatore della trasmissione di queste informazioni, ma si pensa che dipenda dall'apparato iuxtaglomerulare. Di questa struttura, un insieme di cellule contigue ai glomeruli, si conosce una funzione precisa. Nelle sue cellule vi sono grossi granuli i quali fabbricano un enzima. la renina. La renina entra nel sangue e trasforma una sostanza in esso presente, l'angiotensinogeno, in angiotensina I, da cui si origina l'angiotensina II, il più attivo restringitore di arterie che si conosca. E' evidente dunque che i reni con la renina partecipano alla regolazione della pressione arteriosa, e su questo fatto è fondato l'uso di certi farmaci contro l'ipertensione. Organi polivalenti, insomma, codesti reni. Ulrico di Aichelburg


ALTRE FUNZIONI Tra globuli e vitamine
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Reni

Più si conoscono i reni, più si scoprono altri compiti oltre alla depurazione del sangue. Vi è, per esempio, quello dell'eritropoietina. Questa glicoproteina complessa è il fattore più importante della fabbricazione degli eritrociti (globuli rossi) del sangue. I reni producono un attivatore enzimatico, l'eritrogenina, che trasforma una proteina del sangue in eritropoietina. Fu la coesistenza di malattie renali croniche e di gravi anemie a far sospettare il ruolo dei reni nell'eritropoiesi. Non è certo che i reni siano l'unica sede di produzione dell'attivatore, ma ne sono la sede prevalente. Ancora, i reni partecipano alla produzione di vitamina D (antirachitica) costituita da una miscela di composti. Uno di questi, il calciferolo, nei reni si trasforma in calcitriolo, la forma attiva della vitamina.


NEURITE Se il nervo ottico perde la mielina Un segnale per prevenire la sclerosi multipla
Autore: DURELLI LUCA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Dove e come colpisce la malattia

LA neurite ottica è una malattia che colpisce gravemente la funzione visiva, in genere di un solo occhio, talora di entrambi, causando un grave calo della vista fino alla cecità. La forma più frequente è la neurite ottica acuta demielinizzante, causata da un'infiammazione della guaina mielinica delle fibre del nervo ottico, fibre che nel giro di poche ore o di qualche giorno cessano di condurre gli impulsi nervosi generati dalle immagini luminose, con grave danno della funzione visiva. Il paziente ha dolore nell'occhio colpito, specie quando guarda di lato, offuscamento della vista, difficoltà a distinguere i colori. Questa forma di neurite ottica, tipica della donna tra 18 e 40 anni, è una malattia abbastanza frequente (30-50 casi ogni anno in una città come Torino, di circa un milione di abitanti). Nonostante la rapida e spesso totale cecità che determina, la successiva evoluzione della malattia è quasi sempre benigna, essendo caratterizzata da un lento recupero della funzione visiva, spesso con ritorno alla normalità. A differenza della neurite ottica, spesso preoccupante al suo esordio e poi con un'evoluzione benigna, la sclerosi multipla inizia in modo subdolo per poi evolvere, spesso, in una grave malattia invalidante. Il paziente (per lo più donne di 20-45 anni) può avere all'inizio un calo della forza di un braccio o di una gamba, disturbi dell'equilibrio e della vista, alterazioni della sensibilità della faccia, lingua, parte del torace o degli arti. Il disturbo, più o meno grave, quasi sempre regredisce spontaneamente nel giro di qualche giorno o settimana, ma tende a ripresentarsi dopo alcuni mesi. La ricaduta, spesso più grave e con sintomi diversi rispetto alla prima volta, sovente non scompare del tutto. Alle successive ricadute, i sintomi residui si sommano a quelli nuovi e il paziente peggiora sempre più: cammina con difficoltà e deve ricorrere al bastone o alla carrozzina, la coordinazione motoria delle braccia compromette la capacità di scrivere o lavorare anche da seduto, la vista confusa rende difficile leggere e usare il computer. La sclerosi multipla è una delle malattie neurologiche più frequenti (si calcola che circa 50 mila individui ne siano affetti in Italia) e può condurre a una grave invalidità. E' un'infiammazione della mielina, la guaina delle fibre nervose, diffusa nel cervello e midollo spinale, la cui causa è ancora sconosciuta e per cui, purtroppo, non esistono terapie sicuramente in grado di fermare o anche solo rallentare la drammatica progressività. Perché parliamo nello stesso articolo di due malattie apparentemente così diverse e lontane tra loro? Come abbiamo detto, si tratta, in entrambi i casi, di un processo infiammatorio della mielina che colpisce individui di età e sesso con una frequenza quasi identica. In circa un terzo dei casi la sclerosi multipla inizia proprio con una neurite ottica e oltre la metà dei pazienti affetti da neurite ottica demielinizzante sviluppa la sclerosi multipla entro due-cinque anni. La neurite ottica rappresenta quindi spesso il primo campanello d'allarme della ben più grave sclerosi multipla. Se non siamo ancora in grado di curare la sclerosi multipla, perché allora non provare a prevenirla, bloccandola sul nascere con una corretta terapia delle neurite ottiche? Questa è proprio l'importantissima conclusione di un vasto studio condotto in Nord America, dove decine di neurologi e oculisti hanno seguito oltre 450 pazienti. Roy W. Beck, dell'Università di Tampa, Florida, e i suoi collaboratori hanno dimostrato che trattando con cortisone endovena ad alte dosi i pazienti affetti da neurite ottica appena insorta, si può ottenere non solo un rapido recupero della vista, ma anche una prevenzione della sclerosi multipla. La probabilità di evoluzione in sclerosi multipla è stata più che dimezzata nei pazienti trattati con cortisone endovena, specie in quelli a maggior rischio per questa malattia, il cui cervello con l'esame della risonanza magnetica rivelava lesioni della mielina. Il cortisone è un farmaco potente, che ad alte dosi blocca le risposte immunitarie, e un'eccessiva reattività immunitaria sarebbe alla base della sclerosi multipla. Una precocissima terapia immunodepressiva potrebbe perciò bloccare all'inizio la serie di eventi, ancora in gran parte sconosciuti, che portano alla malattia. La prima clinica oculistica dell'Università di Torino sta già da alcuni anni curando, in collaborazione con i neurologi e con ottimi risultati, le neuriti ottiche demielinizzanti con il cortisone endovena. Fondamentale è una corretta diagnosi della neurite ottica insieme all'identificazione dei pazienti a maggior rischio di evoluzione verso la sclerosi multipla, utilizzando vari esami, tra cui, prima fra tutti, la risonanza magnetica cerebrale. Se la corretta e precoce terapia di un primo sintomo oculare può prevenire la sclerosi multipla, ci si può aspettare che una precoce e potente terapia immunodepressiva somministrata anche nei casi, ancora più frequanti, in qui la sclerosi multipla inizia con altri sintomi, possa ridurre le successive ricadute e quindi l'evoluzione verso la malattia cronica inarrestabile. Luca Durelli Università di Torino


IDENTITA' Impronte digitali? Meglio quella dell'orecchio In Francia si studia una nuova e più sicura tecnica di riconoscimento
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, GENETICA
NOMI: VUCETICH JUAN
LUOGHI: ESTERO, FRANCIA

E' passato quasi un secolo da quando Scotland Yard riuscì a smascherare i primi assassini con il sistema delle impronte digitali. La tecnica, era stata inventata poco prima, nel 1888, da un semplice inpiegato della polizia argentina, Juan Vucetich, che aveva inconsapevolmente dato l'avvio a uno straordinario sistema di riconoscimento delle persone, tanto semplice quanto efficace. Col tempo la tecnica si è perfezionata, e le si sono affiancati altri metodi, sempre più sofisticati. L'ultimo dei quali, l'analisi del Dna, è persino capace di riconoscere un colpevole dalle tracce di saliva lasciate su di un mozzicone di sigaretta (è proprio con questa tecnica, sembra, che si sarebbero avuti pesanti indizi su alcuni esecutori della strage di Capaci). Le tecniche di riconoscimento in effetti sono in continua evoluzione anche perché trovano un crescente impiego in campi assai diversi da quelli delle indagini poliziesche. L'esigenza di identificare un individuo costituisce, infatti, il principale problema da risolvere per ambienti ad alta sicurezza, dove l'accesso è consentito solo a poche persone autorizzate. I sistemi attualmente utilizzati, come chiavi o badge magnetici, hanno un problema: non identificano la persona ma verificano semplicemente se possiede «l'autorizzazione» necessaria per entrare. Purtroppo un tesserino è facilmente falsificabile, e una chiave può essere duplicata o rubata, e un codice numerico d'accesso riprodotto... Si è così passati a sistemi molto sofisticati, basati sul riconoscimento della voce o del fondo dell'occhio (tecnica che verifica lo schema dei vasi sanguigni interni). Ma questi metodi funzionano più nei film di «007» che nella realtà: come fa una macchina a sapere se chi le parla è una persona autorizzata o la sua voce registrata da un ladro su di un nastro (o peggio ancora, una voce abilmente contraffatta)? I sistemi di riconoscimento del fondo dell'occhio, poi, sono tutt'altro che semplici: il loro uso su scala quotidiana è ancora prematuro. Persino le impronte digitali hanno i loro limiti: secondo la rivista scientifica francese «Science et Vie» basterebbe anche una piccola ferita o della semplice sporcizia a rendere difficile l'identificazione. Da qui l'idea di sfruttare un'altra parte del corpo. L'orecchio. Già, perché l'orecchio è come un'impronta digitale: la sua dimensione, la sua forma, la sua curvatura, cambiano da persona a persona e non si modificano col tempo. Inoltre il sistema è semplicissimo: basta che una persona appoggi l'orecchio ad uno strumento simile a una cornetta del telefono, perché la forma del padiglione auricolare venga «fotografata», e le sue caratteristiche principali paragonate a quelle in memoria. Il tutto in pochi secondi. Uno strumento di questo tipo è già in fase di studio in Francia, e sono molti a prevedere il suo uso in campi diversissimi. Come ad esempio verificare se il possessore di una carta di credito ne è anche l'effettivo titolare, oppure se un individuo che si collega con il suo computer a una banca dati è autorizzato a farlo, e così via. Il riconoscimento può essere fatto anche su distanze lunghissime, sfruttando le linee telefoniche o i satelliti, come per una normale chiamata telefonica. Basterà appoggiare l'orecchio alla cornetta e aspettare qualche secondo per avere tutto quello che si vuole. Sempre che si sia autorizzati a richiederlo... Alberto Angela


SCAFFALE Mangione Corrado: «Storia della logica», Garzanti
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Un tempo dominio esclusivo della filosofia, dopo aver occupato ampi territori della matematica, oggi la logica è diventata uno strumento essenziale per la linguistica, l'informatica e la semiologia. Questo ponderoso trattato affronta gli sviluppi della logica dal secolo scorso fino ai nostri giorni. Corrado Mangione insegna all'Università di Milano, Silvio Bozzi in quella di Urbino


IN BREVE Duecento pianetini scoperti in Italia
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

Il mensile «L'Astronomia» prossimamente in edicola annuncia un primato: la scoperta da parte di astrofili italiani di 200 asteroidi nell'ultimo anno grazie a una nuova tecnica di ricerca. Americani e giapponesi inseguono a distanza.




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