TUTTOSCIENZE 24 agosto 94

VACANZE AI TROPICI I disagi dell'esotismo Si ammala un italiano su tre
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, VIAGGI, TURISMO, SANITA', STATISTICHE, SONDAGGIO
ORGANIZZAZIONI: DOXA, OMS
LUOGHI: ITALIA

SOGNA le vacanze tutto l'anno, ma appena arriva in un Paese tropicale un italiano su tre si ammala. Perché? Il cambio di alimentazione e di clima, lo stress del viaggio e il mutamento dei ritmi biologici possono essere alcune delle ragioni fisiche. C'è però soprattutto una motivazione psicologica: agenzie e depliant turistici propongono regolarmente viaggi di sogno, lune di miele dorate e vacanze all'insegna della spensieratezza. Ma questo è un quadro edulcorato, che non sempre può corrispondere alla verità. All'ombra delle palme da cocco curvate dal vento, il turista quasi sempre trova una diversa realtà culturale, sociale e igienica. Il Tropico spesso coincide con il sottosviluppo, con scabrose condizioni di vita, con situazioni igienico-sanitarie precarie se non inesistenti e comunque con culture lontanissime dall'immagine proposta dai vari club vacanzieri. Lo choc culturale è una delle prime cause di disagio, soprattutto fra i poco avventurosi partecipanti ai viaggi organizzati: si trovano in mezzo alla folla indiana, grondanti per i 40 gradi di caldo umido, frastornati dal rumore, nauseati dall'odore dell'incenso che aleggia nell'aria, mescolato a quello degli escrementi e delle spezie; vedono la povertà e la sporcizia. Non riescono a interpretare la realtà che li circonda perché non sono quasi mai in grado di comunicare verbalmente: secondo una indagine Doxa, il 72 per cento degli italiani non è capace di sostenere una conversazione in una lingua straniera. Delusi nelle loro aspettative, si chiedono perché diavolo non sono andati a Rimini. Nasce la fobia per l'esotico tanto desiderato fino a qualche giorno prima. Ci si rifugia fra i comfort e l'aria condizionata di un hotel cinque stelle o di un villaggio turistico, ma il disagio contamina l'intestino: in Asia, come in Africa o in America Latina. Sono il 30 per cento i viaggiatori vittime della «vendetta di Montezuma», quell'infezione intestinale che colpisce i visitatori di Paesi tropicali, così chiamata perché i primi a esserne colpiti furono i conquistadores di Cortes dopo aver ucciso il sovrano azteco. Oltre che dello choc culturale, la dissenteria tropicale è soprattutto la conseguenza del trauma alimentare: chi non ama quel cibo è spesso il primo ad ammalarsi. Anche perché ogni tradizione gastronomica è il frutto di secoli di esperienze e compromessi per adeguare il palato alla situazione igienico-climatica del Paese: le spezie, ad esempio, usate massicciamente in tutte le regioni tropicali, permettono al cibo di non avariarsi nonostante le temperature molto alte, svolgono una funzione antibatterica e consentono di sopportare meglio la calura. Bevande e alimenti consumati durante il viaggio sono il principale veicolo dei virus che attentano all'intestino del turista. L'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha diffuso una serie di consigli in materia di igiene alimentare per chi viaggia nei Paesi esotici. Invita a mangiare cibi ben cotti: carni, pollame e latte possono essere contaminati da agenti patogeni; la cottura prolungata uccide invece i microbi. Evitare di assaggiare carni, pesci e molluschi crudi: dunque niente carpaccio, bistecca alla tartara o ostriche, nemmeno se serviti in un hotel a cinque stelle. E' molto importante anche la pulizia individuale: lavarsi sempre le mani. Ed evitare di mangiare tutto ciò che viene manipolato da altri. La frutta, ad esempio, deve sempre essere sbucciata. Un altro punto importante è quello dell'acqua. Soltanto in Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia e Nuova Zelanda si ha la certezza che il liquido che esce dai rubinetti è potabile. In tutti gli altri Paesi, l'acqua dev'essere bollita o disinfettata prima di essere impiegata in cucina o bevuta. Nei ristoranti e nei bar sono certamente sterili soltanto i prodotti imbottigliati. Neppure nei grandi alberghi c'è da fidarsi. In Brasile, ad esempio, all'acquedotto sono collegati abusivamente gli scarichi delle favelas: ciò, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, comporta il rischio di contrarre l'epatite A, oltre a più innocue diarree. Acqua, ricordiamolo, vuol dire anche ghiaccio: solo alcuni grandi alberghi disinfettano l'acqua prima di congelarla. Nelle aree più a rischio (India, Indonesia, Amazzonia, Perù, Bolivia e tutta l'Africa Nera) anche le insalate e le verdure crude sono potenzialmente veicoli di virus: perché lavate con acqua probabilmente contaminata. Colpiti dall'ira di Montezuma, molti turisti ricorrono ad antibiotici «intestinali» nel tentativo di recuperare le vacanze. Questi farmaci agiscono indiscriminatamente sulla flora batterica dell'intestino, ne alterano la composizione e compromettono il meccanismo di guarigione fisiologicamente predisposto dalla natura e quasi sempre efficace. La terapia più importante è compensare la perdita di liquido con bevande contenenti cloruro di sodio, cloruro di potassio, bicarbonato di sodio, glucosio, saccarosio: sono utili gli integratori salini usati abitualmente dagli alpinisti. Esistono anche alcuni efficaci rimedi locali: la dieta di papaia, ad esempio. E' impiegata in diversi Paesi latino- americani per combattere la dissenteria: dopo i primi sintomi, ci si alimenta per un paio di giorni unicamente della polpa di questo frutto, facilmente digeribile e con ottime proprietà antinfiammatorie. Marco Moretti


RICERCA USA I computer possono emozionarsi?
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
NOMI: BATES JOSEPH
LUOGHI: ESTERO, USA

LA critica più comune rivolta alle ricerche di intelligenza artificiale è quella che mai e poi mai, «ovviamente», sarà possibile che una macchina provi emozioni. Anche se riuscisse a superare brillantemente tutti i test di intelligenza possibili e immaginabili, rimarrebbe sempre un pezzo di materia inanimata. Fra i tanti che stanno studiando, invece, come dotare le macchine di emozioni c'è Joseph Bates, letterato della Carnegie Mellon University. Cosa c'entra un letterato con i computer? Si dà il caso che Bates studi come facciano i romanzieri a costruire personaggi «credibili». Non è una disciplina nuova, anzi, qualunque animatore di cartoni animati opera quotidianamente sulla base di una sua idea di cosa renda i disegni «credibili», in ultima analisi «umani». Bates ha però pensato di usare il computer per sperimentare le sue ipotesi: ha cioè programmato il computer per generare storie i cui personaggi siano «credibili». Proprio applicando i principi utilizzati dai disegnatori della Walt Disney, Bates e i suoi collaboratori costruirono nel 1992 il sistema Oz, capace di generare creature «autoanimate» (i «Woggles») che presentano i caratteri di personaggi umani. Quel software lambiva in realtà le discipline della «vita artificiale» (quella che si propone di far generare al computer una qualche forma di vita non biologica), della realtà virtuale (che si propone di costruire mondi «immaginari») e appunto dell'intelligenza artificiale. Oggi la ricerca di Bates si focalizza su un aspetto curioso: a causa di un errore di programmazione, una delle creature di Oz si comporta ogni tanto in maniera bizzarra, come se avesse un tic. Ebbene, è proprio questa creatura quella che il «pubblico» trova più umana, più reale, più credibile. Bates ha capito che è proprio la «stranezza» a trasformare un essere neutro in un personaggio, a dimostrare l'esistenza di una personalità. Insomma, se Einstein fosse stato soltanto il più grande scienziato del mondo non ci avrebbe impressionato più di tanto; meno male che aveva il vezzo di non indossare i calzini e di andare in giro spettinato. Piero Scaruffi


SICUREZZA NEI CIELI Attento pilota, c'è un altro aereo sulla tua rotta Si diffonde il dispositivo anticollisione: obbligatorio negli Usa, arriva sulla flotta Alitalia
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA, AEREI
ORGANIZZAZIONI: TCAS, ALITALIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Prevenzione incidenti

SI chiama Tcas - sigla tratta da «Traffic collision avoidance system» - e, come dice il nome, serve a evitare che due aerei si scontrino in volo. Dal primo gennaio di quest'anno è diventato obbligatorio su tutti gli aerei passeggeri americani con più di 30 posti e anche su quelli stranieri che operano negli Stati Uniti. Da parte sua, l'Alitalia lo ha già installato sui quadrimotori B-747 e sui trimotori Md-11. La decisione di rendere obbligatorio il Tcas è stata presa dal Congresso degli Stati Uniti nel 1987 dopo una impressionante serie di scontri, avvenuti o evitati per un soffio, in conseguenza del progressivo intasamento delle aerovie e delle zone di cielo prossime agli aeroporti. Il funzionamento si basa sul «transponder», o radar secondario, che i grandi aerei hanno a bordo per segnalare la loro presenza, insieme con una serie di dati come il numero di volo e la quota, ai controllori di volo a terra. Il Tcas (o meglio Tcas II, la versione perfezionata del sistema, quella oggi effettivamente usata) capta automaticamente le emissioni dei transponder dei vari aerei in volo nel cielo circostante e fa scattare in cabina una serie di avvertimenti se uno di questi aerei si avvicina in modo pericoloso. Gli avvertimenti sono prevalentemente visivi e consistono in una serie di simboli e numeri che compaiono su uno schermo apposito o su uno qualunque degli schermi che il pilota usa per il normale controllo della navigazione. I simboli (quadrati, triangoli, eccetera) che rappresentano gli aerei tenuti sotto controllo sono bianchi e blu se gli aerei stessi per il momento non rappresentano un pericolo, gialli se l'intruso si sta avvicinamdo pericolosamente, rossi quando il pericolo diventa reale. Al colore giallo corrisponde un «avviso di traffico», a quello rosso un «avviso di scampo» accompagnato dall'indicazione della manovra consigliata, che a seconda dei casi può essere una cabrata o una picchiata. Accanto ai simboli è indicata la distanza tra i due velivoli con il segno più se il «disturbatore» si trova più in alto, con il segno meno nel caso opposto. Una freccia puntata verso l'alto dice che il vicino sta salendo; se è puntata verso il basso indica che sta scendendo. Dall'avviso di scampo, mentre una voce sintetica ribadisce l'ordine di salire o di scendere, il pilota ha cinque secondi per eseguire la manovra. In sostanza possiamo dire che il Tcas fornisce al pilota la rappresentazione dinamica e in tempo reale della situazione intorno a lui. Sembrerebbe una soluzione radicale, sicura e poco costosa del problema sempre più assillante rappresentato da quelli che i tecnici chiamano asetticamente «conflitti di traffico»; in realtà non è così e questo spiega perché il sistema, benché disponibile ormai da parecchi anni, sia stato adottato solo da pochi mesi, soltanto negli Stati Uniti, e anche là non senza resistenze e contrasti. I motivi di dubbio sono molteplici. Intanto il Tcas non serve a nulla contro i piccoli velivoli da turismo privi di trasponder, che sono quelli che più spesso, per inesperienza o leggerezza dei piloti, vanno a interferire con il traffico di linea e che hanno causato gli incidenti più gravi; in secondo luogo l'apparato ha una quota troppo alta di allarmi inutili (perché nel frattempo hanno già provveduto i piloti o i controllori del traffico a terra) o addirittura falsi; e il succedersi di allarmi falsi «può indurre a una scarsa fiducia e conseguentemente ritardi nell'esecuzione delle manovre evasive», come sostiene Roberto Princisgh su «Pegaso», la rivista dell'Anpac; l'Ifalpa, l'associazione mondiale dei piloti, lo contrasta apertamente perché, spiega Princisgh, «tende a trasferire nel cockpit la responsabilità delle separazioni proprio in quelle realtà operative nelle quali il carico operazionale dei piloti è più elevato», cioè nelle aree vicine agli aeroporti. I controllori di volo, infine, sono decisamente contrari perché le manovre imposte automaticamente dal Tcas possono interferire pericolosamente con le istruzioni impartite da terra sulla base dei dati forniti dal radar. E' improbabile, tuttavia, che si torni indietro. Sta ormai facendo i primi passi la realizzazione del Fans, o Future air navigation system, un programma lanciato dall'agenzia dell'Onu per l'aviazione civile, l'Oaci; si tratterà di un sistema di controllo del traffico basato prevalentemente su satelliti, con una forte quota di procedure automatiche, nel quale il sistema anticollisione, in continua evoluzione, sembra destinato ad avere un ruolo importante; esso, tra l'altro, potrebbe consentire di far volare gli aerei più vicini l'uno all'altro in piena sicurezza contribuendo così a risolvere il grave problema dell'intasamento dei cieli. Vittorio Ravizza


A UN MESE DAL BOMBARDAMENTO Le cicatrici di Giove Sconvolta l'atmosfera planetaria
Autore: PRESTINENZA LUIGI

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Dopo lo scontro con la cometa Schoemaker-Levy

IL fuoco pirotecnico dei 23 frammenti della cometa Shoemaker-Levy entrati come siluri nell'atmosfera di Giove dal 17 al 23 luglio non ha esaurito i suoi effetti. Il pianeta ne reca ancora le tracce: enormi macchie oscure, visibili anche con telescopi da amatore, «stirate» dai venti che la rapida rotazione gioviana provoca a tutte le latitudini. Le dimensioni di queste macchie sono impressionanti, sicuramente superiori al diametro terrestre (che non raggiunge i 13 mila chilometri) e in qualche caso superano persino la celebre «Macchia Rossa», il vortice che dalla metà del Seicento è una delle caratteristiche più note di Giove. La Macchia Rossa, un'ellissi rosata o arancione, misura 40 mila chilometri lungo l'asse maggiore, ossia lungo i paralleli (attualmente è molto scolorita e poco visibile). Una delle macchie apparse dopo gli impatti ad alta latitudine Sud, fra i 43 e i 45 gradi, è stata stimata sui 50 mila chilometri, anche se doveva trattarsi di più macchie collegate assieme, a formare una sorta di collana. Occorre qui rilevare che in maggioranza gli astronomi erano convinti della scarsa osservabilità su Giove sia degli impatti in se stessi (avvenivano oltre il lembo dell'emisfero visibile dalla Terra) sia delle loro tracce. Donde la ricerca di sofisticati effetti «secondari», come lampi di luce riflessi dai satelliti Io ed Europa (effettivamente osservati, ad esempio a Serra la Nave - Etna sud - da Blanco e dal suo gruppo), alterazioni di righe da rilevare spettrograficamente, perturbazioni nelle emissioni radio dal grande pianeta. Viceversa, non solo sono stati osservati gli effetti di molti impatti vicino al lembo del pianeta, come «macchie calde» evidentissime nell'infrarosso (Calar Alto, Sutherland, ESO, telescopio «Hubble») ma si sono visti e si vedono molto chiaramente anche i vortici di materiali scuri creatisi nell'atmosfera di Giove, come macchie che presto la rotazione ha trascinato nell'emisfero visibile, circondate in qualche caso da ampi aloni. Una immagine molto dettagliata ripresa dallo Space Telescope è stata diffusa fin dal 18 luglio. Quello stesso lunedì sono cominciate le segnalazioni degli astrofili, perché le macchie erano di tale evidenza da giungere a portata di telescopi amatoriali di 20 centimetri di obiettivo e anche meno, nel nostro Paese oggi diffusi a migliaia. Nè poteva sussistere equivoco perché le macchie si situavano tutte in una ristretta fascia alle alte latitudini Sud di Giove, dove normalmente non sono osservabili particolari molto significativi: e questa fascia corrispondeva alla zona degli impatti, tanto che alcune macchie hanno potuto essere associate al frammento «G» o ai due «Q», caduti in un breve intervallo di tempo. Alcune sono apparse recentemente in via di decolorazione, altre conservano il loro aspetto nerastro e sono state osservate da chi scrive ancora il 13 agosto. C'è e ci sarà molto da studiare e da apprendere sulla natura di queste formazioni, rilevate, oltre che per via fotografica come è stato fatto a livello professionale a Merate dal gruppo Guaita-Crippa, anche puntandovi la fenditura degli spettrografi, ad esempio di Loiano, la sede appenninica dell'Osservatorio di Bologna. Ma è evidente che, nel distruggersi per attrito creando una vera «torcia» a temperature di 30 mila gradi nell'atmosfera di Giove, il materiale dei frammenti cometari (in qualche caso 3-4 chilometri di diametro) si è dissolto in una nuvola densa di polveri minutissime, mescolatesi ai gas d'idrogeno che avviluppano il pianeta. Giove, si è detto, ha una circolazione atmosferica molto intensa, differenziata per velocità a seconda delle latitudini. Trascinati dai venti, i «vortici neri» hanno cominciato a fare il giro del pianeta, allungandosi per parallelo e modificando sostanzialmente l'aspetto tradizionale di quel mondo. Può darsi che, ripercorrendo attentamente la vasta letteratura scientifica che riguarda il pianeta e le immagini che ne vengono prese da più di tre secoli si riesca a trovare qualche «precedente», sotto forma di collane di macchie oscure a varie latitudini che possono far pensare a un'origine analoga. Per intanto abbiamo assistito per parecchie settimane a uno dei più vistosi fenomeni mai rilevati nel sistema planetario, documentandolo da una distanza di 800 milioni di chilometri. E se pure la Macchia Rossa fosse nata da una «botta» del genere? Luigi Prestinenza


FRACASTORO L'uomo che misurava le stelle
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
PERSONE: FRACASTORO MARIO GIROLAMO
NOMI: FRACASTORO MARIO GIROLAMO
LUOGHI: ITALIA

SCOMPARSO un mese fa all'età di ottant'anni, Mario Girolamo Fracastoro sopravvivrà a lungo nella sua eredità scientifica e per sempre - almeno fin là dove questa parola ha senso in un mondo che è fatto di fragili uomini - nell'asteroide che porta il suo nome e che Walter Ferreri, scopritore di quel pianetino, volle dedicargli. Ma Fracastoro sopravvivrà anche nel ricordo di molti lettori di «Tuttoscienze» e nella stima di quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Fiorentino, di spirito liberale e non conformista, si era laureato a 21 anni con il massimo dei voti a Firenze, alla scuola del grande Giorgio Abetti. Seguendo le tracce del maestro, all'Osservatorio di Arcetri aveva incominciato a occuparsi di fisica solare, compiendo studi originali sull'estensione della cromosfera. Margherita Hack lo ricorda quando, trentenne, nell'estate del '44, le assegnò la tesi di laurea sulle stelle variabili cefeidi, e le osservazioni si svolgevano sotto i lampi degli spari, con gli Alleati a Sud di Firenze e i tedeschi arroccati sulla collina di Fiesole. Nel 1954 divenne direttore dell'Osservatorio di Catania, che trovò in pessime condizioni. In pochi anni riuscì a rilanciarlo costruendo due nuove sedi, una sul Colle di Santa Sofia nella città universitaria e una a Serra La Nave, sui fianchi dell'Etna, con un telescopio di 90 centimetri. Ma ancora più importante fu la sua capacità di creare un gruppo di ricercatori brillanti, che tuttora tengono alta la bandiera di quell'Osservatorio. L'impegno organizzativo non gli impediva di avviare lo studio di una intrigante stella variabile irregolare, la RS nella costellazione dei Cani da caccia. Nel 1966 Fracastoro approda a Torino. Anche qui capitò in un Osservatorio poco attrezzato, con un pugno di ricercatori dediti esclusivamente all'astrometria, cioè alla misura il più possibile precisa delle posizioni delle stelle: un lavoro importante ma ormai un po' fuori moda. Quanto agli strumenti, il migliore era un rifrattore Merz da 30 centimetri di tecnologia ottocentesca. Con un gruzzolo di finanziamenti che Gino Cecchini, il direttore precedente, aveva accumulato, Fracastoro realizzò un telescopio riflettore da un metro di apertura progettato apposta per misure astrometriche e diede una montatura a un obiettivo da 42 centimetri offerto dall'Osservatorio di Merate, dotando così Pino Torinese del maggior rifrattore italiano. Inoltre fece sopraelevare tutte le cupole e avviò i sondaggi per fondare una succursale sotto cieli più favorevoli di quelli della collina, ormai inquinati dalle luci della città. Un centro informatico sostituì i vecchi calcolatori «a mano» . Anche in questo caso però gli strumenti contano poco se non ci sono gli uomini. E Fracastoro seppe aumentare da cinque a una trentina i ricercatori dell'Osservatorio, mantenendo la tradizione astrometrica ma anche inaugurando ricerche di astrofisica e favorendo la nascita di un gruppo di specialisti nello studio degli asteroidi e delle comete, gruppo che oggi è all'avanguardia nel mondo. La sua ultima avventura scientifica fu legata al satellite «Ipparco», che il 15 agosto dell'anno scorso ha concluso il suo lavoro misurando la posizione di centomila stelle con una precisione da 10 a 100 volte migliore di quella ottenibile con estenuanti osservazioni fatte dal suolo. Perché, nonostante l'estrazione astrofisica, Fracastoro aveva finito con l'appassionarsi all'astrometria, divenendo anche, dal 1982 al 1985, presidente della Commissione per lo studio delle stelle doppie dell'Unione Astronomica Internazionale. Nel 1986 dava il suo nome al pianetino 3625, scoperto da Ferreri all'Osservatorio australe europeo. Membro dell'Accademia dei Lincei e presidente dell'Accademia delle Scienze di Torino, Fracastoro di accademico non ebbe mai nulla se non la profonda conoscenza della sua materia. Per il resto, fu uomo semplice, cordiale, e soprattutto dotato di straordinario umorismo: un po' come Montanelli, non rinunciò mai a una battuta, senza risparmiare neppure se stesso. Piero Bianucci


TECNOLOGIE AVANZATE Piccoli satelliti, un mercato da non perdere L'Italia potrebbe lanciarli completando il razzo «Vega»
Autore: QUINTILLI FRANCO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: BPD DIFESA & SPAZIO, NASA, MOTOROLA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Il razzo «Vega»

LA domanda di piccoli razzi è in forte crescita. Multinazionali delle telecomunicazioni, università, enti di ricerca e organismi militari preferiscono satelliti leggeri che utilizzino piccoli lanciatori per la messa in orbita piuttosto che grandi satelliti per i quali sono necessari grossi vettori dai costi notevolmente più alti. Negli Stati Uniti, ad esempio, vi è la Lockheed in California, che con la sua famiglia di lanciatori «Llv 1», 2 e 3 è già sul mercato internazionale a costi molto competitivi; e la Orbital Science Corp. di Fairfax, Virginia, ha nei suoi vettori «Taurus» e «Pegasus» (anche se quest'ultimo recentemente ha fallito un ennesimo test) due alternative per acquisire contratti. E l'Italia? Il nostro Paese potrebbe essere validamente presente in questa competizione con un vettore chiamato «Vega» (Vettore europeo generazione avanzata) dell'industria nazionale più qualificata nel campo della propulsione aerospaziale: la Bpd Difesa & Spazio di Colleferro. Ma finora i responsabili del dicastero della ricerca scientifica e tecnologica hanno sempre cercato di defilarsi dal prendere decisioni in merito. Tutto questo nonostante che il Cipe, nell'agosto 1993, abbia insediato una commissione con precisi compiti per la valutazione della situazione in generale e le potenziali prospettive di mercato di questo razzo. Sergio Ristuccia, presidente della commissione, e i suoi collaboratori giunsero a queste conclusioni: 1) il progetto per un piccolo lanciatore ha una sua logica economica e tecnica; 2) lo sviluppo delle iniziative spaziali deve riuscire a far dialogare il mondo scientifico universitario e il mondo industriale; 3) le industrie devono essere credibili e precise quando pianificano i programmi. Se analizziamo, ad esempio, i tre vettori sopra citati possiamo vedere che: 1. Il «Taurus» è un lanciatore a quattro stadi a propellente solido. Può mettere in un'orbita bassa fino a 1250 kg e circa 448 kg in un'orbita geosincrona. 2. La famiglia dei vettori «Llv» della Lockheed è composta da lanciatori a tre stadi, a propellente solido, che possono mettere in orbita 1044 chilogrammi (Llv1), 2046 kg (Llv2), 4086 chilogrammi (Llv3). 3. Anche «Vega» è un lanciatore a tre stadi, a propellente solido, utilizzabile per mettere in orbita satelliti tra i 1000 e i 1500 chilogrammi di carico utile: può infatti avere diverse configurazioni a seconda del carico da portare. Nel maggio 1993 furono effettuate, nel poligono di Perdasdefogu, in Sardegna, le prove statiche del primo prototipo tecnologico. Il primo stadio del razzo «Vega» è costituito dal motore «Zefiro» (Zero and First stage Rocket motor). Agganciati alla sua struttura, vi sono i «booster» composti da altri 4 motori «Zefiro», con un diverso coefficiente di riempimento rispetto al singolo «Zefiro». Il secondo stadio (quello centrale) è costituito dal motore «Sesamo». Attualmente questo stadio, essendo l'elemento totalmente nuovo del vettore, è in fase di studio e profonda analisi. Il terzo stadio è costituito dal motore «Iris». Questo gioiello dell'ingegneria propulsiva Bpd, è stato provato con successo per la messa in orbita del satellite Italiano «Lageos 2» lanciato da Cape Canaveral nell'ottobre 1992. «Iris» è l'unico motore a propellente solido abilitato dalla Nasa all'imbarco sugli Shuttle. Sarebbe un macroscopico errore non poter mantenere fede a impegni già presi con l'americana Motorola per il programma Iridium. Infatti la Motorola ci ha chiesto di mettere in orbita con il «Vega» tre satelliti entro il 1997 più altri venti entro il 2001. Attraverso questo accordo con la Motorola e l'altro partner americano della Bpd, la Loral, si può fare una stima di quanti lanci si possono effettuare per i prossimi dieci anni: una media di cinque all'anno. Il valore di ogni lancio oscilla intorno ai venti miliardi di lire. Considerando che sono previsti al massimo 120 lanci nei prossimi 10 anni, si può avere una fotografia nitida dell'utilizzo di «Vega»: una grossa fetta di questo mercato potrebbe essere acquisita dall'Italia con ritorni economici e occupazionali. Franco Quintilli


SISMOLOGIA Che accade a 600 chilometri sotto la Bolivia? Il terremoto più profondo servirà a radiografare il nostro pianeta
Autore: TIBALDI ALESSANDRO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, TERREMOTI
LUOGHI: ESTERO, BOLIVIA

ALL'alba del 9 giugno scorso, tutte le amache di uno sperduto villaggio amazzonico sprofondato nell'afa della giungla boliviana si sono messe a oscillare. Addirittura, qualcuno degli occupanti è stato sbalzato a terra. Parecchi minuti dopo, la popolazione del resto del Sud America si è svegliata atterrita per un violento sussultare del terreno. Trascorsa una ventina di minuti, un terremoto è stato avvertito nei Caraibi, in Messico e negli Stati Uniti; infine i canadesi hanno subito la stessa sorte. Ma che cosa era effettivamente successo nel sottosuolo? Quel mattino del 9 giugno rimarrà negli annali della scienza come contrassegnato da un evento realmente eccezionale. All'incredibile profondità di 630 chilometri sotto la Bolivia si è verificato il più forte terremoto profondo mai registrato. La sua magnitudo, cioè l'equivalente di energia prodotta dal sisma, è di 8,3, un valore molto vicino al terremoto più forte mai avvenuto storicamente. Se il sisma boliviano si fosse originato a poche decine di chilometri di profondità sotto di una regione densamente popolata, avrebbe prodotto tanti e tali danni da poter essere classificato al dodicesimo grado della Scala Mercalli, cioè al massimo della scala basata sugli effetti del sisma. A paragone, il disastroso terremoto del Friuli avvenuto nella primavera del 1976 fu classificato al decimo grado Mercalli. Il periodo intercorso tra il terremoto in Bolivia e in zone via via più lontane corrisponde al tempo necessario alle onde sismiche per coprire queste distanze. In maggioranza i terremoti che scuotono in continuazione il nostro pianeta avvengono nelle prime decine di chilometri di profondità, cioè nell'involucro più fragile e superficiale suddiviso in tanti blocchi in movimento. I restanti terremoti avvengono a profondità dell'ordine di qualche centinaio di chilometri al massimo, confinati in certe regioni lungo giganteschi piani di scivolamento, conosciuti in geologia come «piani di subduzione», della crosta oceanica al di sotto di quella continentale. I terremoti superprofondi, come quello del 9 giugno, non si collocano su nessuna struttura geologica conosciuta e avvengono solo molto raramente, come eventi isolati nello spazio e nel tempo. I segnali di questo terremoto, eccezionale per intensità e profondità, sono stati registrati da strumenti geofisici sparsi su tutto il globo e sono destinati a diventare i più studiati nella storia della sismologia. Questi studi permetteranno, per esempio, di migliorare le conoscenze sui moti vibratori propri della Terra e sulle velocità di propagazione delle onde sismiche nei vari strati che costituiscono il nostro pianeta. In pratica, sarà possibile sfruttare le onde sismiche originatesi a causa di un superterremoto più o meno come si fa con le radiografie, o meglio le ecografie, per «vedere» l'interno di un corpo umano. E chissà che non si riesca anche a svelare quali siano gli immani movimenti in atto all'interno della Terra in grado di innescare terremoti nelle condizioni di pressione e temperatura altissime che regnano a più di seicento chilometri di profondità. Alessandro Tibaldi Università di Milano


IN UNA RISERVA AUSTRALIANA Insolito battesimo Ornitorinco... d'allevamento
Autore: GABETTI FELICITA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, BIOLOGIA, ANIMALI
NOMI: WAMSLEY JOHN
LUOGHI: ESTERO, AUSTRALIA

QUALCHE settimana fa John Wamsley, fondatore del Warrawong Sanctuary, una riserva nelle Adelaide Hills, ha presentato solennemente alla stampa del South Australia un ornitorinco nato nel lago del parco. Tanta importanza attribuita al lieto evento è dovuta agli insuccessi continui nell'allevamento di questo mammifero monotremo considerato, quando nel 1878 a Londra fu visto per la prima volta, una «chimera» di un impagliatore imbroglione. «Quando un'anatra disubbidiente lasciò la sua pozza, incontrò il solitario ratto d'acqua, che la rapì costringendola ad accoppiarsi con lui. Emarginata dalle compagne si allontanò con la sua prole, due cuccioli palmati ma a quattro zampe, con il becco e la pelliccia». Quella «chimera» era il Boonaburra della leggenda aborigena: l'Ornitorinco (Ornithorhynchus anatinus). Un mammifero altamente specializzato discendente da primitivi marsupiali, secondo una vecchia teoria ora riesumata; o un sopravvissuto, insieme all'echidna, di un ramo di mammiferi primitivi evolutosi separatamente dai marsupiali e placentati. Comunque un rompicapo biologico. Coperto da una folta pelliccia che mantiene i suoi 31,5 C anche nei torrenti ghiacciati, l'ornitorinco vive in una tana sotterranea lunga anche 30 metri, e nei corsi d'acqua in cui s'immerge per nutrirsi di gamberi e larve di insetti. Ha quattro zampe palmate. Le posteriori servono da timone. Le anteriori, a bracciate alternate, servono al nuoto, mentre a terra, arrotolata la membrana palmare, servono per scavare la tana con le unghie robuste. La coda fa da timone ed è una riserva di grasso, indice della salute dell'animale. Gli occhi e le orecchie, sensibilissimi a terra, sono in acqua ermeticamente chiusi da una piega cutanea. La percezione dell'ambiente è risolta dal becco ad anatra, che è coperto da due diversi tipi di piccoli pori: pori sensibili al tatto e pori elettrosensibili. Come affermò il naturalista Burrell nel 1927, che lo chiamò «Sesto senso», e come confermarono anche nell'85 ricercatori dell'Università di Canberra, questi pori sono capaci di rilevare le deboli scariche elettriche emesse dalle prede. Becco da uccello, pelliccia da mammifero, l'ornitorinco forse nasconde anche un rettile del Permiano (da cui deriva) nel suo cinto scapolare che, come in alcuni rettili odierni, presenta ossa in più per l'attacco di muscoli scavatori ad azione obliqua. Forse anche nelle ghiandole velenifere (molto rare tra i mammiferi) degli speroni tarsali del maschio, gonfie di veleno nella stagione riproduttiva. Per fare un mantello si usavano ben 72 pelli di ornitorinco, e si spera almeno che qualche cacciatore di pellicce abbia provato per 48 ore il dolore acutissimo, il gonfiore diffuso per 4 giorni e l'eruzione cutanea, a seguito di una speronata. Ormai quasi estinti nel Sud dell'Australia, nel 1940 gli ornitorinchi furono introdotti a Kangaroo Island. Su tutta la costa Est invece prosperavano in gran numero e tuttora si riproducono deponendo 2 o 3 uova gommose su un nido di foglie umide in fondo alla tana, chiusa da più tappi di terra. Queste uova sono covate in una pseudosacca, simil-marsupio, che l'animale forma arrotolando la grassa coda sotto la pancia. Alla schiusa, i nati si nutrono con il latte che esce da un'area capezzolare sotto il pelo, fino a 3, 4 mesi, quando escono dalla tana. Lo si può vedere nuotare all'alba e al tramonto o la notte. «Ma dove? Vedo solo cerchi nell'acqua». «Ovunque - mi rispondono gli australiani - sotto ogni cerchio d'acqua ce n'è uno. Solo i forestieri non li vedono». L'ornitorinco è un ospite molto ricercato dagli zoo, dove raccoglie una popolarità lampo perché, salvo eccezioni, la vita media di un ornitorinco in uno zoo è di tre giorni. Lo stress e l'ambiente costrittivo, anche se gli consentono la sopravvivenza, inibiscono la sua riproduttività. Ed è per questo che, dopo l'unica nascita in cattività (nel 1943 al Healswille Sanctuary) mi è parsa miracolosa la nascita di ben 3 ornitorinchi al Warrawong Sanctuary da John Wamsley. «Dopo aver costruito un lago nel Sanctuary, ho riportato sul continente da Kangaroo Island alcuni esemplari di ornitorinco sperando che le condizioni favorevoli del mio parco - un pezzetto di vera Australia - dessero dei frutti». Così nel febbraio 1991 sono stati scoperti due cuccioli maschi nel lago dopo una notte di pesca con le reti. Nel 1993 al tramonto fu estratto dal lago un maschio di circa 4 mesi, visitato, etichettato e rilasciato dopo l'arrivo di Tom Grant dell'Università del New South Wales, esperto mondiale di ornitorinchi, che ne ha accertato la nascita. «Non ce l'aspettavamo. Gli ornitorinchi si riproduconi ogni 3 anni. Però - ammicca John -, potrebbero essercene degli altri sotto i cerchi d'acqua». Felicita Gabetti


QUASI UNA FIABA BIOLOGICA Farfalla e formica una tragica beffa
Autore: BENEDETTI GIUSTO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, BOTANICA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA quasi una favola di Esopo: protagonisti, una Farfalla azzurra e una Formica rossa. La farfalla risponde al nome di Maculinea arion, appartiene alla famiglia dei Licenidi e vive in buona parte del continente europeo; frequenta i prati di montagna a 1000-2000 metri. L'altro protagonista è la Formica rufa, o Formica rossa, anch'essa assai diffusa in Europa: vive nei boschi di conifere, dove, con aghi di abete e di pino, costruisce grandi nidi, addossati a tronchi in decomposizione. Il nido della Formica rossa è una struttura notevole: non tanto per l'intrico di camere e gallerie da cui è costituito, quanto perché fatto in modo da mantenere al suo interno una temperatura costante di 25 C. Ma veniamo alla nostra storia. Sul finire dell'estate, la Ma culinea depone le sue uova sulle piante di Timo, e i bruchi che ne escono iniziano a cibarsi dei profumati fiori di questa pianta, non disdegnando, all'occasione, di praticare il cannibalismo nei confronti di qualche «fratellino» più piccolo. Arriva l'autunno: i bruchi, grassi e ben pasciuti, abbandonano le piante che li hanno nutriti e decidono di avventurarsi per il mondo. In essi stanno avvenendo dei cambiamenti, e uno, in particolare, si rivelerà determinante: lo sviluppo di particolari ghiandole che secernono un liquido denso e zuccherino. Per le formiche rosse, l'autunno è un periodo di grande attività: devono battere il territorio e recuperare scorte di cibo per l'inverno. E' inevitabile che, prima o poi, qualche formica incontri qualche bruco. Qualsiasi altro bruco verrebbe subito ucciso e trasformato in riserva di proteine per il formicaio, ma quello della Maculinea ha dalla sua la secrezione zuccherina: la formica la assaggia, ne rimane deliziata, e decide all'istante di portarsi a casa il bruco vivo, per poterlo «mungere» con comodo durante il lungo inverno. La poveretta non lo sa, ma ha appena fatto il peggior affare della sua vita: il bruco trascorrerà tutto l'inverno nel tepore del formicaio, mangiandosi allegramente le larve delle formiche senza che le formiche adulte, inebriate dalla secrezione zuccherina, se ne accorgano nemmeno. L'inverno volge ormai al termine e il bruco, passando per lo stato di crisalide, si accinge a divenire farfalla. Private della secrezione zuccherina, le formiche rinsaviscono di botto, e riconoscono come nemico l'essere alato che sta loro di fronte. La scena è da film western: i pellirosse, terminata l'«acqua di fuoco» fornita dai bianchi, si accorgono che, nel frattempo, questi hanno depredato l'oro dalle Montagne Nere. La vendetta è d'obbligo, e le formiche si lanciano all'assalto dell'intruso. Ma la Maculinea ha in serbo l'ultimo inganno: come un moderno aereo da guerra, lancia intorno a sè una nuvola di squame lanuginose che confonde le formiche e le dà il tempo di abbandonare il formicaio spiegando nel sole le azzurre ali. Il vecchio Esopo, a questo punto, avrebbe sicuramente tratto una morale da tutta la vicenda. Il moderno biologo non lo fa: si limita, ancora una volta, a rimanere stupefatto di fronte all'ennesimo esempio di strategia adattativa di una specie vivente. Giusto Benedetti


BOTANICA Piante in lotta per il territorio Emettono erbicidi naturali: perché non usarli?
Autore: MARCHESINI AUGUSTO, MALUSA' ELIGIO

ARGOMENTI: BOTANICA, ECOLOGIA, AMBIENTE
LUOGHI: ITALIA

LO sviluppo di una pianta in natura è influenzato dalle altre specie che crescono nello stesso ambiente e che competono per le risorse: acqua, nutrimento e luce. Questa competizione è particolarmente importante nelle coltivazioni dove l'ambiente naturale è stato rivoluzionato dall'attività dell'uomo. Tuttavia esiste un metodo di interazione tra le piante che non è basato sulla competizione, ma sulla produzione di alcune sostanze che inibiscono o rallentano lo sviluppo di altre specie vegetali nel terreno circostante. Queste sostanze chimiche sono prodotte dalle radici o nelle foglie di alcune piante e vengono disperse nel terreno, dove svolgono una azione tossica nei confronti di altre specie vegetali. Questa forma di inibizione è nota sotto il termine di «allelopatia». Esistono numerosi casi di questa forma di competizione tra le piante. Un esempio molto conosciuto è dato dal noce (Ju glans nigra), le cui foglie in decomposizione liberano diversi composti, tra cui lo juglone, che penetrando nel terreno inibiscono la crescita dei germogli di molte specie vegetali, tra cui il pomodoro e l'erba medica. Un altro esempio è fornito da molte specie del genere Salvia. I cespugli di tali piante sono spesso circondati da zone completamente spoglie di vegetazione che li separano dalle erbe circostanti. Si è dimostrato che alcuni terpeni prodotti dalle foglie (una categoria di composti organici che comprende anche la canfora), oltre alla funzione di attrarre gli insetti impollinatori e in particolare le api, possiedono una attività tossica nei confronti di altre specie, di cui limitano o addirittura impediscono l'accrescimento. Infine è interessante il caso dell'assenzio (Artemisia absin thium). Questa pianta officinale produce nei peli ghiandolari un composto, l'absintina, altamente tossico per alcune piante. La sostanza è trasportata dalla pioggia sul terreno e quindi la tossicità del terreno è costantemente rinnovata. La capacità naturale di difesa delle piante può essere sfruttata per ridurre la necessità di trattamenti erbicidi nelle colture. Il diserbo è infatti una pratica che ha sostituito altre pratiche agronomiche che avevano l'obiettivo di ridurre la competizione delle malerbe con la specie coltivata. Si è alla ricerca quindi di cultivar che, producendo sostanze allelopatiche, possano essere coltivate senza l'intervento del diserbo. Un esempio di questa azione è fornito da alcune varietà selezionate di avena che producono un essudato, la scopoletina, in quantità superiore alle normali varietà. Tale sostanza riduce l'accrescimento del rafano, una crucifera che spesso è infestante delle colture. Le ricerche hanno inoltre provato che composti contenuti nel fusto e nelle foglie del girasole hanno un'azione inibente contro le infestanti dicotiledoni e non contro le graminacee. Dopo alcuni anni la densità e il numero delle infestanti appare ridotto se nel campo si è coltivato il girasole. Naturalmente il passo successivo necessario ad un uso più ampio di questa tecnica è nell'individuazione chimica delle sostanze inibitrici, per poterle ottenere sinteticamente, e dei geni che ne codificano la produzione. Gli studi sono promettenti, anche se sono maggiormente indirizzati ad altri tipi di competizione, come quelli tra ospite e fungo parassita. L'obiettivo è quello di caratterizzare tali geni, magari ottenuti da specie selvatiche, che opportunamente manipolati potrebbero essere inseriti nelle specie coltivate per creare varietà resistenti alle malerbe. Questo risultato non sembra irraggiungibile e permetterebbe una notevole diminuzione del danno arrecato alle colture dallo sviluppo delle infestanti, stimato pari al 9 per cento della produzione mondiale, ma che diviene pari al 20-30 per cento se si considerano solo le colture di mais e frumento. Augusto Marchesini Eligio Malusà


TECNOLOGIA IN CAMPAGNA Metti un supercomputer nella tua azienda agricola Allevamento degli animali, climatizzazione delle serre, contabilità: tutto informatizzato
Autore: ANSELMINO ILARIA, CURTI RENATA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, INFORMATICA, AGRICOLTURA, ZOOTECNIA
LUOGHI: ITALIA

AL tempo in cui Berta filava le mucche pascolavano brade nei prati e il grano cresceva da solo nei campi (quando ci riusciva). Oggi le vacche sono allevate in fattorie modello, selezionate e programmate lungo l'intero ciclo produttivo (parto, lattazione, asciutta), perché anche il settore agricolo e quello ambientale sono stati toccati, e di sicuro non marginalmente, dalle innovazioni tecnologiche. Hanno contribuito a questo tutti i campi dell'ingegneria: meccanica, genetica, idraulica, nonché elettronica e informatica. Queste ultime, in particolare, sono quelle che più hanno rivoluzionato il concetto stesso di fattoria, facendola diventare azienda agricola, dotata di una gestione più moderna e altamente efficiente dei processi produttivi. Per aiutare il contadino a trasformarsi in un vero e proprio imprenditore agricolo, l'industria informatica ha messo sul mercato numerosi programmi mirati alle esigenze di questo settore: dalla contabilità alla pianificazione delle attività agricole e delle risorse produttive, dalle banche aggiornabili con i dati anagrafici e produttivi degli animali a quelle riguardanti i seminativi, dalla programmazione delle razioni alimentari alle fertilizzazioni. A questa vasta gamma di prodotti software offerti dal mercato si affiancano prodotti hardware, cioè macchinari che li utilizzano, più o meno complessi a seconda delle dimensioni dell'azienda-cliente e quindi del tipo di programma software più idoneo. Alcuni programmi «girano» su semplici personal computer. Altri, più complessi, hanno bisogno di calcolatori più potenti che nello stesso tempo svolgano compiti diversi, perché gestiscono contemporaneamente i diversi aspetti aziendali, dalla climatizzazione delle serre alla programmazione degli interventi in campo e alla registrazione dei costi di produzione. Tali macchine sono costituite da una rete di personal computer o da più terminali collegati a un computer centrale. Tutti i programmi, tuttavia, non sono altro che «quaderni elettronici» su cui scrivere, memorizzare, elaborare e leggere dati. I dati, che possono essere prezzi, costi, quantità di prodotto, dati meteorologici, variabili ambientali come temperatura e umidità, devono in qualche modo essere rilevati ed immessi, cioè «iscritti» nel programma. Allora il sistema programma-computer può essere visto come un'entità che riceve dati di ingresso (input) e restituisce dati elaborati in uscita (output). Nei casi più semplici è l'utente stesso a immettere i dati tramite la tastiera e a leggere i dati elaborati sul video e sulla carta stampata per usarli come «indicatori» decisionali. Nei casi più complessi, invece, l'entità programma-computer è una centralina elettronica inserita in una catena di controllo automatizzata da cui l'operatore può essere escluso e in cui sono invece presenti altre entità: il processo da regolare e i sensori come minimo. In questi casi i dati di input al programma sono rilevati per mezzo di sensori sul processo che si vuole automatizzare e regolare e sono trasformabili in segnali elettrici, confrontati con il segnale di riferimento che rappresenta il valore ottimale che si vuole raggiungere e trasmettere via cavo. Sempre via cavo il programma trasmetterà al processo i dati di output che saranno dei comandi per regolare il processo stesso. In questo modo è possibile per esempio climatizzare una serra, cioè fare in modo che alcune variabili caratteristiche del microclima come umidità e temperatura restino costanti a un valore imposto o varino con un andamento predefinito. Nei tempi e modi prestabiliti i sensori rilevano i valori di queste variabili e li confronteranno con i valori di riferimento. Se saranno registrate delle differenze la centralina provvederà ad emettere opportuni segnali di comando che azioneranno dispositivi di adeguamento termico e/o idrico in modo da annullare queste differenze. Ilaria Anselmino Renata Curti


MEDICINA Un parassita al S. Gottardo La storia segreta del «sangue annacquato»
AUTORE: PEDUZZI RAFFAELE
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Forma di anemia che colpiva i minatori al lavoro per il traforo del San Gottardo

TRADIZIONE orale: «I minatori avevano il sangue che si trasformava in acqua». Così si ricorda l'anemia provocata dal verme Ancylo stoma duodenale, insorta in forma epidemica durante il primo traforo del San Gottardo (scavato in dieci anni di lavoro, dal 1872 al 1882). Del fatto resta ancora oggi memoria tra le persone anziane della regione di Airolo, le quali, a loro volta, ne avevano sentito parlare dai genitori: una storia curiosa, che merita di essere raccontata. All'inizio del 1880 molti operai piemontesi, vista la gravità dell'anemia che li rendeva inabili al lavoro, rientrarono a casa. Le loro condizioni tuttavia non migliorarono e molti di essi morirono. Il professor Perroncito, durante l'autopsia di un minatore, rinveniva nel duodeno oltre 1500 vermi del genere Ancylostoma. Inoltre, il reperimento di uova dello stesso parassita nelle feci di altri operai del San Gottardo colpiti dall'anemia permise di fare la diagnosi d'anchilostomiasi. Gli ammalati riferivano che centinaia di loro compagni di lavoro in galleria presentavano analoghi sintomi. I risultati di queste osservazioni vennero comunicati alla Reale accademia dei Lincei e all'Accademia delle scienze di Parigi. Altri due medici torinesi, Bozzolo e Pagliani, recatisi ad Airolo, pur constatando la presenza di uova del parassita nelle feci di molti lavoratori della galleria, avanzarono riserve circa un eventuale nesso tra la parassitosi e quella che definivano «l'oligoemia perniciosa epidemica». Le radici del male venivano piuttosto individuate nelle pessime condizioni igieniche generali di vita e di lavoro. Dopo un intervento del governo italiano a Berna, il 18 marzo 1880, il Consiglio federale incaricò il dottor Sonderegger di eseguire una perizia. Questi, dopo un sopralluogo, concluse che la malattia del San Gottardo non era altro che una forma della «malattia del minatore», molto conosciuta e chiamata anche «cachessia montana», attribuita all'intossicazione da contatto o inalazione di sostanze nocive sconosciute presenti nell'aria delle miniere. Risulta emblematico che il quesito posto al perito era: «Anemia del minatore oppure An cylostoma?». La polemica tra assertori e negatori dell'origine parassitaria della malattia del Gottardo si fece sempre più aspra, anche in seno a riunioni di alto livello scientifico e politico. Il dottor Lombardi di Ginevra (sede dell'impresa del tunnel), convinto della generalità delle affezioni anemiche, scriveva negli Archives des Scien ces physiques et naturelles: «La presenza dell'Ancylostoma come causa della malattia degli operai del traforo è una pura ipotesi. I fatti sono così chiari da poter sfatare quella che io chiamo "la leggenda dell'An cylostoma"». Un elemento importante per capire le ragioni della controversia è il fatto che pur conoscendo abbastanza bene il ciclo biologico, l'embriologia e lo sviluppo del verme, vi era incertezza su come le larve potessero penetrare nell'organismo umano. Si pensava alla contaminazione per via orale. Questa lacuna venne sfruttata a fondo dagli avversari dell'eziologia parassitaria. Così, all'affermazione di Bozzolo e Pagliani che «è l'impurità dell'acqua che gli operai sono soliti bere in galleria che ha contribuito a diffondere l'An cylostoma», Lombardi poteva ribattere che «questi signori ignorano che... l'acqua potabile viene dalla Val Tremola, è trasportata da tubi metallici e arriva in fondo alla galleria senza aver alcuna comunicazione con essa. Gli operai si guardano bene dal dissetarsi con quella che scorre ai loro piedi, molto spesso mista a fango». Purtroppo era appunto attraverso la cute di piedi e mani immersi nell'acqua contaminata che gli operai si infettavano. Contemporaneamente alle ricerche cliniche, Perroncito si dedicò anche allo studio del ciclo biologico dell'Ancylostoma, riproducendo in laboratorio due stadi larvali ottenuti dalle uova provenienti dai minatori ammalati. Egli studiò l'effetto di trattamenti fisici e chimici più disparati su queste larve (derivati di mercurio e benzina) fino a ottenere i primi risultati terapeutici, usando estratti eterici di felce-maschio somministrati ad alte dosi. La scomparsa delle uova nelle feci dei pazienti corrispondeva al miglioramento netto e progressivo dello stato generale di salute, fino alla guarigione completa nello spazio di qualche mese. Risolto l'aspetto diagnostico e terapeutico, si doveva spiegare come una malattia tipica dei climi caldi potesse apparire in modo tanto clamoroso nel cuore della catena alpina. Già all'epoca il dottor Parona di Torino si era occupato del problema, riuscendo a fornire una spiegazione valida ancor oggi: «Riesce assai curiosa e strana l'apparizione e con tanta gravità dell'Ancylostoma duodenale in seno alla catena delle Alpi..., tra gli operai vi sono rappresentanti di quelle regioni italiane nelle quali è accertato prosperare l'Ancylostoma (in particolare nelle zone delle risaie) questo vale ad indicare la possibilità del trasporto del parassita in luoghi per lui nuovi». Gli escrementi degli operai venivano sparsi nel tunnel e le uova contenute nelle feci trovavano le condizioni ideali di umidità e temperatura per il loro sviluppo in larve infestanti. Parona concludeva: «Lo scolo delle acque è molto lento..., l'acqua arrivava al ginocchio degli operai che per tempo lunghissimo vi lavoravano quotidianamente. La temperatura elevatissima dell'ambiente (36- 38 C) rendeva la galleria paragonabile a una palude di Paese tropicale». Oltre all'enorme progresso in parassitologia, il fatto essenziale derivante dagli studi sull'episodio del San Gottardo è l'insegnamento di tipo preventivo che permise di risanare le miniere europee, in particolare nella regione della Ruhr. Ad esempio, sulla base dell'esperienza gottardiana, l'anchilostomiasi poté essere evitata durante il traforo del Sempione (1898-1906). Attualmente, secondo l'Oms, l'anchilostomiasi è una malattia tropicale in piena espansione. Secondo l'ultima valutazione (1993), si stima che nel mondo 900 milioni di persone siano colpite dall'Ancylostoma. L'Oms auspica il risanamento dell'ambiente, ma malgrado il decennio dell'acqua (1980- 1990) proclamato dalle Nazioni Unite, l'insegnamento del Gottardo non viene messo in pratica nei Paesi tropicali. Inoltre, persiste la possibilità di reintroduzione del ciclo biologico in microclima favorevole, anche alle nostre latitudini, come dimostra la risorgenza sporadica registrata nei cantieri per il traforo del Monte Bianco. Raffaele Peduzzi Università di Ginevra


TECNICA ORTOPEDICA Il femore allungato Si può crescere di 10 centimetri
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA
NOMI: ILIZAROV GRAVIL
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Com'è inserito l'impianto per allungare il femore

CAMMINATA sciolta e dinamica. La scienza ortopedica può assicurare ora a chi soffre di dismetria degli arti inferiori un incedere sicuro. Ma anche chi è piccolo di statura e si sente a disagio può «crescere» di 10 centimetri senza andare in orbita come l'astronauta Richard Hield, la cui spina dorsale in soli quattro giorni si è allungata di 4 centimetri per assenza di gravità. Questo allungamento straordinario avviene nel femore: un tubo telescopico coassiale di due parti, in titanio, di 13 millimetri di diametro, viene inserito nel canale midollare attraverso un taglietto di cinque centimetri dal gluteo, senza compromettere il periosteo, la pellicina che ricopre l'osso e che è responsabile della crescita del callo osseo che avviene dopo la frattura. Il fenomeno viene sollecitato con microrotazione ad allungarsi gradualmente di circa un millimetro e mezzo al giorno. La crescita dell'osso è dovuta alla fuoriuscita del chiodo programmata sulla misura stabilita e che trascina il femore distanziandolo. La compressione dinamica dell'osso stimola e trasforma il tessuto fibroso intermedio all'osso in tessuto osseo. A tre mesi dall'intervento si ha la crescita desiderata e con il femore si allungano la pelle, i muscoli, i nervi. Durante la crescita si prova un dolore che viene superato con la fisiokinesiterapia intensiva. Questo nuovo metodo di allungamento, chiamato Albizzia, (da una pianta orientale di rapida crescita) permette al paziente di camminare con le stampelle dopo dieci giorni dall'intervento. Inoltre, trattandosi di un chiodo interno senza alcuna struttura esterna come avviene invece nel metodo messo a punto nel 1951 dal russo Gravil Ilizarov, l'intervento può essere effettuato contemporaneamente in ambedue gli arti inferiori. E' il paziente stesso a fare i movimenti di autoallungamento con rotazione interna ed esterna della gamba rispetto all'anca di 10 gradi, quindici volte al giorno. Ad allungamento avvenuto il chiodo viene rimosso con uno speciale estrattore quando l'osso è ben consolidato. Nel vuoto lasciato dal chiodo l'osso si ricostruisce in maniera fisiologica. Si può crescere a qualsiasi età, anche in presenza di pseudoartrosi. Buoni risultati si hanno nel nanismo che oggigiorno si cura in giovanissima età con allungamenti che possono arrivare fino a 30- 35 centimetri. Il chiodo Albizzia è stato ideato nel 1986 negli Stati Uniti ed è in pratica il miglioramento della tecnica russa Ilizarov. In Europa è prodotto in Francia dalla Medinov di Roanne. In Italia viene applicato all'Università di Milano, soprattutto su accorciamenti da trauma in seguito a incidenti. Era da più di un secolo che si studiava il modo di diventare più alti anche da adulti: le prime ricerche cliniche furono fatte da Rizzoli nel 1847. Pia Bassi


UN CASO LEGALE SEMPRE PIU' COMUNE Età anagrafica o età biologica? Quando il medico sostituisce la carta d'identità
Autore: BENSO LODOVICO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, LEGGI
LUOGHI: ITALIA

QUALCHE giorno fa un articolo nella cronaca de La Stampa ha affrontato la questione della attribuzione dell'età anagrafica, che è emblematica dell'incompatibilità che spesso esiste tra l'impostazione legale e quella biologica nell'affrontare certi problemi. Per procedere, il giudice deve conoscere l'età anagrafica dei giovani colpevoli o sospetti di un dato crimine. Quando mancano documenti o registrazioni attendibili, come capita nel caso di nomadi o di extracomunitari, il giudice si rivolge a un perito (un medico legale o un auxologo, e cioè esperto di crescita e sviluppo) per ottenere una stima dell'età biologica, cioè del grado di maturazione fisica di quel soggetto e gli attribuisce un'età anagrafica corrispondente. Ma mentre dal punto di vista legale la richiesta del giudice è ben comprensibile, dal punto di vista biologico può essere accolta solo con molte riserve. Il metodo più usato per valutare il grado di maturazione di un individuo è quello dell'età ossea e cioè l'esame di certe caratteristiche di forma e di reciproca posizione delle ossa che si osservano in diversi gradi di sviluppo e quindi a età successive. E' ormai noto, tuttavia, che tra età ossea ed età anagrafica non vi è corrispondenza certa. Si preferisce attualmente l'esame della mano e del polso poiché queste parti non comportano problemi etici legati all'irradiazione e su di esse sono disponibili ricerche valide. Sono però metodi piuttosto grossolani e con scarsa sensibilità: 1/2-1 anno per il metodo dell'atlante di Greulich e Pyle, più diffuso e più preciso; qualche mese per quello di Tanner. Data la componente di soggettività nelle letture, inoltre, i referti possono essere piuttosto diversi. Un secondo tipo di problemi che rende poco attendibili queste valutazioni dipende dalle carte di riferimento impiegate per far corrispondere le caratteristiche delle ossa a una data età. Per i due metodi citati, le popolazioni di riferimento sono rispettivamente formate da ragazzi dello Iowa della prima metà di questo secolo e da giovani britannici dell'inizio della seconda metà del secolo. Non sappiamo con esattezza quale sia la corrispondenza con la popolazione italiana che, sulla base di dati preliminari del Centro di Auxologia di Torino, sembra un po' più precoce, e tantomeno sono disponibili dati attendibili sulla cronologia maturativa dei nomadi e della maggior parte dei gruppi di extracomunitari. Al metodo basato sull'età ossea possono affiancarsene altri, come l'età dentaria. L'epoca di eruzione dei denti è inattendibile, mentre è accettabile il sistema proposto da Demirjian, basato sulla radiografia panoramica e ancora poco usato in Italia. Molto utile è la valutazione degli stadi puberali secondo Tanner e cioè del grado di sviluppo dei genitali e della peluria pubica dei maschi e delle mammelle e della peluria pubica delle femmine. Queste valutazioni, che possono essere integrate da controlli ecografici dei genitali, orchidometria (volume dei testicoli) e valutazioni ormonali, migliorano discretamente le informazioni tratte dalla età ossea, ma non permettono di superare il problema legato al fatto che gli standard di riferimento si basano su popolazioni diverse da quelle in esame. Ma, anche se si disponesse di metodi precisi, di letture sicure e carte di riferimento adeguate, vi sarebbe sempre il problema della variabilità biologica del tempo di maturazione tra i diversi individui, specie in fase puberale. A tutte le età della vita esistono persone il cui corpo è più giovane o più vecchio dell'età anagrafica. Anche durante l'età evolutiva esistono i lenti e i precoci. La variabilità aumenta molto nel periodo della pubertà, così che a 12 anni e mezzo per le femmine e 14 e mezzo per i maschi esistono, nell'abito della più perfetta normalità, individui ancora infantili, in varie fasi della pubertà, e già completamente maturi. Le femmine, inoltre, sono di circa 2 anni più precoci dei maschi, per cui una femmina di 14 anni è di solito biologicamente molto più matura di un maschio della stessa età. Quando la maturazione si è conclusa queste differenze si annullano. La maturazione scheletrica segue approssimativamente questo andamento. Purtroppo l'età ossea che si attribuisce, nell'ipotesi migliore è quella del soggetto medio di quel gruppo di età anagrafica e di quel sesso e non tiene conto dell'ampia variabilità individuale. In sintesi, una perizia che stabilisce in 14 anni l'età di un soggetto senza documenti dovrebbe in realtà refertare nel seguente modo: «Se il soggetto in esame fosse un britannico degli Anni 50 avrebbe 94% probabilità di avere un'età compresa tra 12 e 16 anni, con maggiori probabilità attorno ai 14». Questo referto è biologicamente corretto ma non soddisfa il giudice. Anche quando il quesito si limita all'aver superato i 18 anni, il massimo che si può sapere è se un giovane ha una maturazione scheletrica e una pubertà complete, ma questa condizione, soprattutto nelle femmine, può essere raggiunta ben prima dei 18 anni, e per le età successive alla completa maturazione non vi sono ulteriori elementi discriminanti; altri soggetti, invece, per lo più maschi, a 18 anni non hanno completato lo sviluppo. A differenza di quanto comunemente si crede, quindi, l'esame dell'età maturativa permette una valutazione solo molto approssimativa dell'età anagrafica e ha maggiori difficoltà proprio alle età in cui viene più richiesta. Dovendosi peraltro decidere l'imputabilità o no di persone che, ora in buona ora in mala fede, sono prive di età anagrafica, si può proporre di utilizzare ben precisi criteri auxologici di sola età maturativa, senza pretendere di dedurne l'età anagrafica, anche perché l'essere in fase puberale iniziale o conclusa influenza in termini neuroormonali, intellettivi, emozionali e sociali il grado di responsabilità delle proprie azioni in modo parzialmente indipendente dall'età anagrafica. Lodovico Benso Università di Torino




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