TUTTOSCIENZE 14 luglio 93


DNA MANIPOLATO Fidarsi dei cibi nati in provetta? Biotecnologie alimentari, nessun rischio
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, GENETICA, ECOLOGIA, BOTANICA, AGRICOLTURA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 008

ANCHE se noi che abitiamo in un paese economicamente sviluppato non sempre ce ne rendiamo conto, nel mondo il cibo scarseggia. Si calcola che fra quarant' anni la popolazione mondiale sarà raddoppiata. Dove troveremo da mangiare ogni giorno? Non preoccupatevi, ci sta pensando la biotecnologia, come ci spiega in un suo recente lavoro Chiara Tonelli, del Dipartimento di genetica e di biologia dei microorganismi dell' Università di Milano. Con l' avanzare delle conoscenze sul metabolismo delle piante, si sono messe in moto nuove strategie di miglioramento che interessano caratteri complessi della qualità e della quantità degli alimenti Si è visto che nel pomodoro, utilizzando un Rna antisenso, che blocca l' enzima della biosintesi dell' etilene, si è ottiene un ritardo nel processo di maturazione, aumentando così la conservabilità. Altre caratteristiche su cui la ricerca si sta attivamente muovendo sono i colori e gli aromi, ma un obiettivo di grande interesse dietetico nutrizionale è il valore nutritivo degli alimenti biotecnologici. Si sta studiando il modo di accrescere e modificare il contenuto di aminoacidi e carboidrati, riducendo invece i grassi. Si è già accertato, ad esempio, che l' espressione di un gene batterico, l' Adp glucosio fosforilasi, nei tuberi delle patate porta a un aumento del 20 40 per cento di amido mentre nel pomodoro, piante transgeniche per il gene della saccarosio fosfato sintasi, mostrano un aumento di zucchero e una riduzione di amido. Quanto ai semi, si è visto che è possibile migliorare il valore nutrizionale, facendo esprimere geni che producono proteine ricche di Metionina, un aminoacido essenziale (cioè non producibile dentro l' organismo) per l' uomo e per l' animale. Se si alterano alcune proteine, si può migliorare la qualità della panificazione della farina. Uno dei grandi obiettivi degli studiosi è la riduzione o l' eliminazione di determinati acidi grassi ritenuti nocivi per un' alimentazione equilibrata, ciò grazie ai programmi di miglioramento dei semi utilizzati per la produzione di olii. L' immissione sul mercato di prodotti alimentari derivati da piante transgeniche richiede un alto margine di sicurezza. Nella nostra dieta giornaliera consumiamo una grande quantità di sostanze chimiche, come i carboidrati, che sono mono, di e polisaccaridi; grassi, principalmente trigliceridi che contengono acidi grassi di varia lunghezza e con diverso grado di saturazione, enzimi, proteine, minerali Dna, Rna, olii essenziali, pigmenti e alcaloidi. Per avere dunque cibi sicuri possiamo suddividere il problema in tre parti: il costrutto genetico, la pianta ospite e il prodotto del transgene. Ogni giorno, mangiando, consumiamo non solo gli acidi nucleici di animali, piante e batteri ma anche i geni di contaminanti che casualmente possono essere associati ai prodotti alimentari. Qualunque Dna venga ingerito, viene degradato dagli enzimi digestivi presenti nel tratto gastro intestinale. Desossiribonucleasi e ribonucleasi presenti nelle secrezioni pancreatiche, fosfodiesterasi e nucleotidasi presenti sulle membrane delle cellule intestinali idrolizzano gli acidi nucleici a nucleosidi. La probabilità che una sequenza genica sopravviva alla digestione intracellulare e intestinale è praticamente uguale a zero, per cui non dovrebbero esserci dubbi sulla sicurezza alimentare dei cibi «transgenici»: i costrutti utilizzati per la trasformazione si perdono. Il problema che più frequentemente viene sollevato è appunto quello della sicurezza delle sostanze, principalmente zuccheri, grassi e proteine prodotte direttamente o indirettamente dal gene inserito. Proteine: costituiscono il più vasto gruppo di sostanze introdotte negli alimenti attraverso l' ingegneria genetica. I prodotti alimentari, già di per sè, contengono un enorme numero di proteine mutate e la loro sicurezza alimentare dà ampie garanzie che future mutazioni sulle stesse proteine daranno prodotti sicuri. Carboidrati: le modificazioni che riguarderanno queste sostanze avranno a che fare con il contenuto di amilosio e amilopectina. Queste sostanze modificate dovrebbero essere equivalenti a quelle normalmente contenute negli alimenti, che non provocano allarme. L' unico aspetto negativo potrebbe essere dato da una modificazione che aumenti il contenuto di carboidrati indigeribili. Olii e grassi: l ' alterazione del rapporto fra acidi grassi saturi e insaturi potrebbe avere conseguenze nutrizionali di una certa rilevanza, modificando anche la capacità di digerirle. A garanzia dei consumatori, negli Stati Uniti la Food and Drug Administration, il massimo ente di controllo sui cibi e sui farmaci, ha preparato un documento per la valutazione della sicurezza degli alimenti di derivazione biotecnologica. Giorgio Calabrese


NEL MEDITERRANEO Il ristorante delle balene Scoperto un triangolo di mare ricco di cibo
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI, ALIMENTAZIONE, MARE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. Cartina che indica la corrente ricca di cibo per le balene
NOTE: 005

DOVE vanno a mangiare le balene del Mediterraneo? Che cosa mangiano ? E come trovano l' enorme quantità di cibo per saziare una fame direttamente proporzionale alle dimensioni? Curiosità di profani ma anche di scienziati, intrigati da due dati che sembrano inconciliabili: l' apparente povertà del nostro mare e, in contrasto, la presenza di molti grandi cetacei (dai capodogli ai globicefali) e in particolare della balenottera comune, il più grande animale della Terra dopo la balenottera azzurra. Ebbene, a poco a poco, il rebus si chiarisce. Il mare corso ligure provenzale, un triangolo di centomila chilometri quadrati con i vertici all' isola Palmaria (La Spezia), Capo Corso e Isole di Hyeres, è un grande self service per cetacei, una mensa imbandita per migliaia di mammiferi marini. Qui la catena alimentare è molto più efficiente del resto del Mediterraneo e ovviamente i commensali sono più numerosi che altrove. Lentamente si sta decifrando il complesso meccanismo che spiega questa ricchezza biologica e che giustifica la decisione presa di recente dai governi italiano, francese e di Monaco di istituire qui un «santuario» marino. Il mare corso ligure provenzale è piuttosto profondo, in media 2300 metri. Esso è stato scavato quando Sardegna e Corsica si staccarono dalle coste provenzali e liguri e si allontanarono da esse compiendo un quarto di giro su se stesse in modo da assumere l' attuale posizione perpendicolare alla costa. Le correnti di origine atlantica che penetrano nel Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra, dopo aver lambito a Est e a Ovest le coste della Corsica, si uniscono nel Golfo di Genova dando origine alla corrente ligure. E' un «fiume» largo trenta chilometri e profondo 150 metri, che scorre verso Ovest (si parla di circolazione ciclonica, perché a somiglianza dei cicloni si muove in senso antiorario) fronteggiando la costa ligure di Ponente poi la Provenza fino affondare infine al margine del Golfo del Leone non lontano dalla costa francese. «Il bacino ligure provenzale costituisce una macchina termodinamica dove l' interazione oceano atmosfera genera un innalzamento della densità delle acque superficiali», ha spiegato al congresso dei biologi marini italiani svoltosi all' inizio di giugno a Sanremo, Guy Jacques dell' Observatoire Oceanologique di Banyuls sur Mer. L' acqua superficiale, più densa e quindi più pesante, tende a inabissarsi. «Questa formazione di acque profonde in inverno sotto l' azione dei forti venti secchi e freddi come il maestrale e la tramontana afferma lo studioso francese è stata ipotizzata come una delle possibili cause di azionamento della circolazione ciclonica». Il risultato di tutto questo è un immenso vortice con un diametro di circa cento chilometri, un poco staccato dalla costa, le cui acque alla fine dell' inverno raggiungono il fondo mentre acque più calde arrivano dal Tirreno a sostituirle. Occorreranno ancora molte ricerche per analizzare nei dettagli questo scenario. E' probabile comunque che anche nel mare corso ligure provenzale avvenga qualcosa di simile a ciò che avviene nei ricchi mari polari e in altre regioni oceaniche, come quelle che fronteggiano il Perù e il Cile: e cioè che le acque profonde in primavera risalgano verso la superficie portando grandi quantità di sali minerali e favorendo quindi la formazione del fitoplancton, cioè quell' insieme di piccoli organismi vegetali (in particolare diatomee, alghe unicellulari microscopiche riunite in estese colonie) che costituiscono la base della catena vivente del mare. Una gran parte dei minerali che «fertilizzano» questo bacino viene da terra, sotto forma di detriti portati dai fiumi (quindi anche scarichi industriali, agricoli e urbani) ma anche dal cielo, sotto forma di sabbia sahariana nei non rari episodi di «piogge rosse». Dove più è abbondante la cosidetta «produzione primaria» rappresentata dalla clorofilla del fitoplancton, è abbondante anche lo zooplancton, che se ne nutre. E dove si addensa lo zooplancton si fa più fitta la catena biologica dagli organismi più minuscoli fino ai più grandi, dal novellame di acciughe e sardine fino ai tonni e ai grandi cetacei. Nel Mar Ligure provenzale gran parte dello zooplancton è formato dai copepodi, crostacei grandi al massimo come un chicco di riso, e da «Meganictyphanes norvegica», minuscoli gamberetti appartenenti all ' ordine degli eufausiacei e parenti stretti della «Euphausia superba», il «krill» dei mari antartici. Ad essi si aggiungono uova e novellame di pesci, a completare il ricco banchetto al quale attingono in un modo o nell' altro tutti gli altri esseri viventi del mare. Vittorio Ravizza


UNA RICERCA Migliaia i cetacei «liguri»
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 005. Balene

FINO a pochi anni fa non si sapeva quasi nulla dei cetacei del Mediterraneo e solo di recente si sono intraprese campagne di ricerca per accertarne numero e abitudini. Giuseppe Notarbartolo di Sciara, animatore dell' Istituto Thetys, ha presentato a Sanremo i dati raccolti con l' università di Barcellona e con Greenpeace lo scorso anno. Nel solo bacino corso ligure provenzale vivono circa 25 mila stenelle e più di 1000 balenottere comuni (insieme rappresentano circa l' 83 per cento di tutti i cetacei). Molto diffuso è anche il tursiope, mentre torna a farsi vedere il delfino comune, che sembrava confinato nel mare di Alboran, sulle coste spagnole. Balenottere e globicefali restano generalmente a una trentina di chilometri dalla costa, più vicini arrivano capodogli e stenelle mentre i tursiopi soggiornano in una fascia intorno a cinque chilometri da riva. Si è accertato che i grampi si riproducono nella zona, che stenelle e tursiopi sono stanziali, mentre la balenottera si sposta a Sud in inverno e risale a Nord in primavera. Quando si parla di cetacei bisogna fare una distinzione si dividono in due sottordini, quello degli odontoceti e quello dei misticeti; i primi sono muniti di denti, i secondi ne sono privi. Sono invece provvisti di fanoni, lamine (oltre 400 per ogni lato della bocca) composte di cheratina (la sostanza di cui sono fatte anche le nostre unghie) e hanno una frangia di setole sul bordo interno; le lamine pendono dalla mascella all' interno della bocca formando una sorta di rete che filtra l' acqua e trattiene le prede. Tutti i cetacei del Mediterraneo sono odontoceti ad eccezione della balenottera comune. Gli odontoceti si nutrono soprattutto di cefalopodi. In una ricerca di due studiosi dell' università di Genova si stima che solo stenelle, grampi e globicefali ne mangino ogni anno nel solo bacino ligure 40 mila tonnellate; quanto al grande capodoglio è nota la sua abilità di compiere lunghissime immersioni a caccia di calamari sul fondo. La balenottera comune si nutre invece di copepodi, krill e di qualche piccolo pesce che resta preso nei fanoni. Ma come fa un animale così grande a riempire uno stomaco che può contenere quasi una tonnellata di cibo con organismi così piccoli dispersi in uno spazio molto esteso? Gli studiosi di cetacei hanno scoperto che le balenottere hanno una tecnica molto evoluta di caccia: più individui si dispongono in cerchio intorno alle concentrazioni di microrganismi e nuotando su un fianco li ammucchiano in un ammasso facile da assalire. Ancora più elaborato il comportamento della megattera: girando intorno al banco delle prede da sola o in gruppo emette in continuazione un getto d' acqua che sale verso la superficie formando migliaia di bollicine; per gli animaletti dello zooplancton è una barriera invalicabile, una sorta di rete che li costringe in una zona sempre più ristretta sulla quale infine il cetaceo si avventa a bocca aperta. (v. rav. )


LE STRAGI DI CETACEI Gli irriducibili dell' arpione Tutte le buone ragioni per non riprendere la caccia
Autore: CASTIGNONE SILVANA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ECOLOGIA, ANIMALI, CACCIA, MARE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 005. Balene

INCONTRARE una balena procura un' emozione profonda, quasi si riuscisse a entrare in contatto con la faccia più nascosta e più densa di significato della natura. Eppure continuano l' arpione, la caccia, il sangue. Sebbene la maggior parte degli Stati aderenti all' Iwc (The International Whaling Commission) abbia deciso di mantenere la moratoria stabilita nel 1985, alcuni Paesi come la Norvegia, l' Islanda e il Giappone hanno annunciato di voler riprendere tale attività, in nome dello «sviluppo sostenibile»: a loro avviso il numero dei vari tipi di balena sarebbe molto aumentato, per cui non sussisterebbe più il pericolo dell' estinzione della specie: di la possibilità di ricominciare il prelievo programmato di tale risorsa. Gran parte dell' opinione pubblica mondiale, Stati Uniti in testa, è insorta contro questa prospettiva: ma quali sono gli argomenti che si possono avanzare in favore delle balene e contro la loro uccisione? Perché le balene no e i merluzzi sì ? O ancora, perché le balene no e le mucche sì ? Questa è stata per esempio l' osservazione avanzata da Kazuoghima, il delegato giapponese presso l' Iwc, il quale ha detto: «Noi non impediamo agli americani di mangiare il roast beef... Quindi ci lascino mangiare le balene in pace! ». Le ragioni contro la caccia, anche controllata, si dividono in tre gruppi: il primo riguarda il pericolo della scomparsa della specie; il secondo, la particolare crudeltà dei metodi di uccisione; il terzo, l' aspetto etico vero e proprio. Innanzitutto non si può essere ragionevolmente certi dal punto di vista scientifico che il numero attuale delle balene, nonostante l' aumento che si è avuto negli anni della moratoria, sia sufficientemente elevato da scongiurare ogni pericolo per l' esistenza della specie; e questo vale ancora di più per le singole sottospecie, le cui caratteristiche peculiari non devono andare perdute. Inoltre, anche all' interno della stessa sottospecie, occorre un numero di individui molto superiore a quello richiesto dalla mera sopravvivenza, in modo che sia garantito un adeguato incrocio a livello genetico e si eviti il progressivo indebolimento della specie e il suo arresto evolutivo. Il che a sua volta causerebbe un abbassamento della capacità di adattamento delle balene alle mutazioni dell' ambiente in cui vivono. Insomma, il pericolo di estinzione è sempre in agguato e bisogna essere molto cauti. Quanto poi all' idea che sia indispensabile il controllo da parte del predatore uomo per impedire un aumento indiscriminato degli animali, cosa che si ritorcerebbe contro le loro stesse possibilità di sopravvivenza, è facile far notare come le balene, i più grandi mammiferi del pianeta, in realtà non abbiano mai avuto predatori naturali. E se il krill, quell' insieme di piccoli organismi marini di cui si nutrono, dovesse diminuire a causa della pesca, è ragionevole supporre che si verificherebbe un ' automatica regolazione delle nascite, come succede per molte altre specie animali. Per quanto riguarda i metodi di uccisione, tutti sanno che l' arma usata è l' arpione, nelle sue diverse realizzazioni. C' è l' arpione esplosivo, che viene sparato con un cannoncino e contiene appunto una granata esplosiva di tre chili. Questo viene usato per le balene più grandi ed è il sistema che uccide più rapidamente, anche se occorrono sempre parecchi minuti e di solito più di un arpione. E' chiaro che non si tratta di un metodo «umanitario». La situazione peggiora con gli animali di stazza minore, per i quali si usa l' arpione «freddo», senza esplosivo, soprattutto per non rovinare la carne: il che comporta un prolungamento dell' agonia. Non parliamo poi degli arpioni lanciati manualmente ancora oggi dagli Esquimesi e in genere dalle popolazioni artiche. I metodi prescritti dalle varie legislazioni per rendere indolore la macellazione degli animali, ad esempio lo stordimento, sono impraticabili in mare e con animali delle dimensioni delle balene. In definitiva, la loro uccisione rimane una attività molto crudele. Venendo all' aspetto propriamente etico, oltre all' obbligo generale di rispettare il più possibile la vita degli esseri non umani, nel caso delle balene esistono considerazioni aggiuntive. Le balene, pur essendo animali marini, sono, com' è noto, dei mammiferi, e il rapporto madre piccoli è particolarmente stretto e si prolunga anche dopo l' allattamento. Si tratta inoltre di animali sociali: vivono in gruppo e soprattutto sono in grado di comunicare tra loro. Gli studi sul canto e sul linguaggio delle balene sono numerosi e stanno dando dei risultati sorprendenti. Esistono anche molte testimonianze del fatto che, quando una balena viene arpionata e trascinata sulla spiaggia, le sue compagne rimangono ad attenderla al largo anche per giorni e giorni. Le balene hanno un cervello molto grosso in particolare è assai sviluppata quella parte che sovrintende alle emozioni e ai rapporti affettivi. Il sistema nervoso e l' apparato relativo alla percezione del dolore presentano notevoli somiglianze con i nostri. Infine, osservando i loro comportamenti e i loro giochi, è evidente che esse sono in grado di sperimentare la gioia e godere della vita I prodotti che si ricavano dalle balene sono ormai facilmente sostituibili con equivalenti artificiali: «trasformare animali magnifici, intelligenti e in pericolo di estinzione in lucido da scarpe, cera per automobili, margarina e olio lubrificante può essere a ragione considerato una delle assurdità del mondo moderno ». Anche a voler ragionare solo in termini economici, non bisogna poi dimenticare che il «whale watching», cioè l' osservazione delle balene effettuata con battelli appositi, è diventato un affare turistico per i Paesi che lo praticano. Resterebbe dunque a favore della caccia solo il fatto alimentare, il quale, se ha qualche giustificazione per le popolazioni esquimesi, diventa invece, per quelle dei Paesi sviluppati, una pura questione di gusto. Ma può la semplice predilezione per un bocconcino prelibato avere la meglio su tutte le considerazioni ecologiche e umanitarie appena esposte? Credo proprio di no. Silvana Castignone Università di Genova


Catastrofe su Giove
Autore: BATALLI COSMOVICI CRISTIANO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

NEL luglio del prossimo anno i frammenti di una cometa bombarderanno Giove, il pianeta gigante. Un simile evento di carattere catastrofico in media nel sistema solare avviene ogni 26 milioni di anni. Vediamo come si è giunti alla previsione di questo fenomeno dall' eccezionale interesse scientifico. Il 12 e 13 marzo 1976, utilizzando un piccolo telescopio da 20 centimetri, acquistato per la didattica dall' Istituto di fisica dell' Università di Lecce, abbiamo avuto la fortuna di fotografare per la prima volta lo «splitting», cioè la scissione, del nucleo di una cometa. La cometa «West 1975 n» si spaccò infatti in 4 frammenti, 3 dei quali sopravvissero, separandosi lentamente per formare poi tre distinte comete che hanno lasciato per sempre il sistema solare. Il 25 marzo 1993 i coniugi Shoemaker insieme a David Levy, hanno scoperto tramite lastre acquisite con il telescopio Schmidt da 46 centimetri di Monte Palomar una cometa ancora più peculiare. Infatti astronomi dell' Arizona e delle Hawaii, usando telescopi più potenti e dotati di rivelatori Ccd hanno constatato che la Cometa Shoemaker Levy (1993 e) si era spaccata in 17 o addirittura in 21 nuclei, che si erano poi disposti in fila come perle di una collana nelle immediate vicinanze di Giove. Si ritiene che questa cometa, nel passare a circa 100 mila chilometri dal pianeta nel luglio 1992, si sia spaccata per effetto di marea, essendo il nucleo cometario formato da ghiaccio frammisto a polvere e non da un nucleo roccioso compatto come nel caso degli asteroidi. Dovrebbe trattarsi di una cometa con un periodo di appena 11, 5 anni, la cui orbita dovrebbe intersecare il pianeta il 23 luglio 1994 a soli 61. 500 chilometri dal suo centro. Ora, poiché Giove ha un raggio di 72. 000 chilometri (11 volte quello terrestre), la cometa, o meglio il «treno cometario» dovrebbe scontrarsi con l' atmosfera del pianeta. In seguito a calcoli eseguiti da Andrea Carusi e G. B. Valsecchi dell' Istituto di Astrofisica del Cnr, si prevede una «finestra di collisione» di circa 4 mesi. Secondo i loro calcoli le collisioni dovrebbero aver luogo dalla parte di Giove opposta al Sole, invisibile dalla Terra. La collisione del nucleo più grande, con un diametro di almeno 5 chilometri, dovrebbe avvenire fra il 19 e il 24 luglio 1994, mentre 8 frammenti più picoli dovrebbero colpire Giove fra il 5 agosto ed il 9 novembre 1994. Vi è però la possibilità che alcuni frammenti con velocità relativa negativa sopravvivano mettendosi in orbita intorno a Giove. La velocità di collisione dovrebbe essere vicina a 60 chilometri al secondo e l' esplosione dovrebbe avvenire a circa 1000 km al disotto della coltre di nubi che coprono Giove. L' energia liberata dal frammento più grosso corrisponderebbe a un miliardo di megatoni di Tnt (trinitrotoluolo). Simili impatti catastrofici sono rarissimi nel nostro sistema solare. Sulla Terra, nel terziario, circa 60 milioni di anni fa, una o più comete hanno provocato l' estinzione dei dinosauri, ma sembra che vi sia una periodicità di circa 26 milioni di anni negli eventi catastrofici sul nostro pianeta, periodicità accertata nelle stratificazioni geologiche di Gubbio, ma non ancora chiarita dal punto di vista astrofisico. E' un vero peccato per la scienza terrestre che la collisione avvenga dalla parte opposta al Sole in quanto verrà a mancare l' effetto spettacolare, paragonabile a quello dell' esplosione di gigantesche bombe atomiche, ma le misure indirette potranno fornire lo stesso informazioni eccezionali circa la composizione chimica dell' atmosfera sottostante di Giove del quale noi possiamo osservare solo lo strato esterno. L' impatto provocherà la fuoriuscita di una enorme quantità di molecole organiche e dei loro prodotti di dissociazione. Atomi e molecole arricchiranno la ionosfera di Giove nonché quella dei satelliti gioviani. Vi dovrebbero essere vistosi effetti aurorali osservabili con i telescopi terrestri: non è escluso che la sonda spaziale Galileo, che si troverà a 150 milioni di chilometri da Giove possa malgrado l' antenna difettosa, trasmettere interessantissimi dati fotografici e spettrometrici. Non dimentichiamoci inoltre che la sonda «Voyager» che ha abbandonato il sistema solare dopo l' incontro con Nettuno nel 1989, è ancora in grado di fotografare Giove dalla parte dell' impatto. Dovremmo aspettarci un notevole aumento della luminosità di Giove subito dopo l' impatto, aumento misurabile e quindi rapportabile all' energia emessa durante l' urto. Nel frattempo anche gli astronomi italiani, specialmente nell' ambito del Progetto Bioastronomia, non devono lasciarsi sfuggire una simile opportunità cominciando già da ora a programmare osservazioni con i telescopi terrestri e spaziali (Iue e Space Telescope). Purtroppo non ci sarà ancora il satellite infrarosso Iso. Cristiano Batalli Cosmovici Cnr, Istituto di fisica dello spazio


LABORATORIO L' arte di far domande Polemica tra filosofi e scienziati
Autore: LOLLI GABRIELE

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, FILOSOFIA
NOMI: KANT IMMANUEL, GALILEI GALILEO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

SULLA Stampa del 22 giugno si dava notizia di una iniziativa di filosofi europei a favore dell' insegnamento della loro disciplina. Ognuno ha il diritto di tirare l' acqua al suo mulino, ma è controproducente, per far valere le proprie ragioni, affermare una superiorità culturale e denigrare il valore formativo delle altre discipline. Speravamo di non dover più ascoltare affermazioni diseducative e ridicole come quella di Ricoeur secondo cui «le scienze positive e le applicazioni tecniche tendono a cancellare lo stupore e lo spirito di interrogazione». Se non è con lo stupore e lo spirito di interrogazione, di grazia, con che cosa è andata avanti per secoli, e continua ad andare avanti, la conoscenza? Non parliamo delle innovazioni tecnologiche, che con il loro massiccio bombardamento guidato dall' economia possono anche indurre assuefazione; parliamo della conoscenza e della ricerca della verità, come si diceva una volta. Mentre Kant predicava che la geometria euclidea era la forma a priori dello spazio perché era rimasto a Newton , non erano i matematici che avevano il coraggio di inventare «geometrie immaginarie» ? Non era Cantor che di fronte allo studio dell' infinito, alla cui poesia stava sostituendo una scienza, confessava «lo vedo ma non lo credo» ? Dove le trova Ricoeur vicende intellettuali e appassionate come quelle della disputa sulla natura della luce, della decifrazione del codice della vita, delle macchine pensanti? La storia della scienza è costellata dalle esclamazioni di sorpresa e di incredulità dei suoi attori, dai loro abbagli anche, e dalle spiegazioni più spericolate. La conoscenza nasce innanzi tutto dalla capacità di stupirsi di cose ovvie, o naturali (la variazione dell' eclittica, la spinta ricevuta dal braccio in acqua, i pezzetti di carta attirati dall' ambra, la pressione del vapore, un qualsiasi «accidente in vero maraviglioso» come diceva Simplicio); la spiegazione è una scommessa che coinvolge cose che non si vedono, ma di cui si enunciano leggi che spiegano anche le apparenze. La matematica è la grande regista di questo procedimento, la matematica che è l' arte di trovare le risposte le incognite senza contare; di inventare forme. Allora «notino in grazia V. S. e ' l Sig. Simplicio nostro, quanto le conclusioni vere, benché nel primo aspetto sembrino improbabili, additate solamente qualche poco, depongono le vesti che le occultavano, e nude e semplici fanno dè lor segreti gioconda mostra» (Galileo, Discorsi e dimostrazioni). Meravigliosa capacità umana, questa di inventare conclusioni vere improbabili, che a sua volta genera legittimo stupore sulla sua possibilità, ed è infatti diventata oggetto delle ricerche su come funziona il pensiero. «Nella scoperta delle cose segrete e nell' indagine sulle cause nascoste, le ragioni più forti sono ottenute da esperimenti sicuri e argomenti dimostrati, piuttosto che da congetture autorevoli e opinioni di speculatori filosofici» (William Gilbert, De Magnete). Sarebbe bene che nella scuola si leggessero Galileo, e Gilbert, e tutti gli altri scienziati che sono stati capaci di stupirsi e di interrogare, e oltre al coraggio di rispondere hanno avuto la modestia di sottoporre le proprie risposte al vaglio delle esperienze e delle dimostrazioni; perché di stupori ce ne sono tanti, anche da allucinogeni, ma quello che si esprime nella scienza è utile al bene materiale e all' onore dello spirito umano. Gabriele Lolli Dipartimento di Informatica Università di Torino


Scaffale Adamson Joy: «Nata libera. La straordinaria storia della leonessa Elsa», Bompiani
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ETOLOGIA, ANIMALI, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

LA storia di una leonessa allevata in famiglia e restituita alla foresta, la vita quotidiana dei delfini (sempre minacciata), la comunità degli elefanti africani tra contrabbandieri ed ecologisti la storia della scoperta di un «fossile vivente», il celacanto, un pesce che abita al largo del Sud Africa, individuato dai biologi nel 1938 e fino ad allora creduto estinto da 80 milioni di anni. Sono i primi quattro libri di una neonata collana Bompiani, «Le Giraffe», testi in cui si intrecciano il racconto e il saggio scientifico di etologia o di biologia. Dei quattro titoli, «Nata libera», di Joy Adamson, è il più noto, perché sulla vicenda della leonessa Elsa è stato anche girato un film. «I giorni del delfino» porta la firma di uno dei maggiori studiosi del comportamento dei mammiferi marini, Kenneth S. Norris. «L' ultimo elefante» porta la firma di Jeremy Gavron, un giornalista inglese che fa il corrispondente dal Kenya. «La storia del celacanto», infine, è opera del biologo Keith S. Thomson, direttore dell' Accademia di scienze naturali di Filadelfia.


Scaffale Bocchi Gianluca e Ceruti Mauro: «Origini di storie», Feltrinelli
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

Lo studio dei fossili per ricostruire il passato remoto, l' osservazione delle più lontane galassie per comprendere l' evoluzione dell' universo, la «geometria naturale» offerta dai frattali per esplorare fenomeni difficilmente inquadrabili, inclusi quelli culturali e sociali. Sono alcuni dei percorsi esaminati in questi saggi di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, due epistemologhi molto attenti alla fenomenologia del lavoro scientifico, rispetto al quale, anziché applicare paradigmi pregiudiziali, tendono a mettersi in un atteggiamento di osservazione, per poi rintracciare il significato complessivo di conoscenze spesso non comunicanti tra di loro.


Scaffale Autori vari: «Moebius and his band», Oxford University Press
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

Vissuto dal 1790 al 1868, August Moebius è noto come topologo per aver ideato il celebre «nastro» che porta il suo nome. In questo libro sei autori in altrettanti saggi si occupano di un Moebius meno conosciuto: l' astronomo e il matematico sotto la cui inflenza hanno lavorato molti ricercatori del secolo scorso e del nostro. Una traduzione italiana sarebbe senz' altro utile.


Scaffale Moore Patrick: «The sky at night», John Wiley & Sons
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

Patrick Moore, è forse il più famoso divulgatore di astronomia al mondo: ha 70 anni e da 36 tiene alla Bbc una rubrica televisiva dedicata alla scienza del cielo. Questo volume è il decimo di una serie in cui sono stati raccolti i suoi reportages per la Bbc tra la fine del 1988 e l' estate del 1992. I temi sono tutti di grande interesse e trattati con chiarezza e competenza: si va dalla geologia di Marte agli asteroidi, dalle pulsar alle ultime novità cosmologiche. Piero Bianucci


BIOLOGIA Lucciole, amori a luce fredda Nuove ricerche sull' organo che lampeggia
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: BIOLOGIA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

IN Thailandia, in una notte senza luna, una canoa scivola silenziosa lungo un fiume. D' improvviso ecco il miracolo. Come per magia la scena si rischiara. Si arriva nella zona costeggiata dalle mangrovie, alberi alti da dieci a dodici metri dalla fitta chioma di piccole foglie ovoidali. Su ogni foglia è appoggiata una lucciola della specie Pteroptyx malaccae che lancia uno sprazzo di luce ogni mezzo secondo. Sono migliaia e migliaia di puntini luminosi che sincronicamente si accendono e si spengono, come se obbedissero al cenno di un invisibile direttore d' orchestra. Anche se non è così spettacolare, è altrettanto suggestivo lo spettacolo che ci offrono le lucciole nostrane, ahimè sempre più rare. E' quasi scomparsa la Luciola italica, lunga otto millimetri, che fino a qualche decennio fa punteggiava di luce palpitante i nostri prati e le nostre campagne. L' hanno sterminata gli antiparassitari con cui si irrorano i campi in maniera sempre più massiccia. Resiste ancora, per quanto sia meno frequente di una volta, la Lampyris noctiluca, lunga circa il doppio della Luciola italica. In questa specie maschio e femmina sono completamente diversi. Lui ha tutte le caratteristiche del coleottero, forma allungata, corpo un po' depresso e grandi ali anteriori indurite, le cosiddette «elitre», che gli ricoprono completamente l' addome, alla cui estremità c' è il piccolo faretto luminoso. Lei sembra più una larva che un adulto, ha un aspetto vermiforme, è completamente priva di ali. Per vedere i suoi organi fotogeni, bisogna rovesciarla a pancia in su. Sono macchiette chiare poste ai lati degli ultimi segmenti addominali. Con la luce, le lucciole si parlano d' amore. Ciascuna delle oltre duemila specie che popolano il mondo possiede un particolare codice luminoso, con una sua frequenza e una sua lunghezza d' onda. Guai a chi sgarra. Chi non si uniforma alle regole del gioco e risponde troppo presto o troppo tardi, rimane tagliato fuori dalle combinazioni amorose. Non riuscirà a riprodursi. E' la luce che fa da tramite tra maschio e femmina. Lei se ne sta nascosta tra l' erba e si sdraia supina per mostrare al maschio alato il segnale luminoso che fa da richiamo sessuale. Lui lo vede e risponde in codice, come se dicesse: «Ti ho vista, cara. Sono lo sposo che aspetti. Appartengo alla tua stessa specie». Così, appena lui atterra, si compiono le nozze. Di lì a poco la femmina depone un centinaio di piccole uova giallognole. Ne sgusciano fuori larvette tutto pepe, capaci di correre come indemoniate sul terreno o di infilarsi nelle fenditure. Cacciatrici formidabili, inseguono vermiciattoli e molluschi anche più grandi di loro. Non è certo la mole della vittima che le spaventa. Hanno un sistema brevettato per mangiarsele. Le infilzano con le mascelle scanalate come aghi da iniezione, inoculano nelle carni della vittima un liquido prodotto dalle ghiandole salivari capace di predigerire i tessuti. Una volta ridotta la preda in un brodino nutriente, se la succhiano fino all' ultima goccia. In contrasto con la larva così vorace, l' adulto vive soltanto d' aria e d' amore. L' aureola di mistero che ha sempre circondato le lucciole ha dato vita a molte leggende, come quella giapponese secondo cui questi insetti luminosi altro non sono che gli spiriti degli antichi samurai uccisi in guerra. Ma è il mistero della luce quello che incuriosisce maggiormente e fa da pungolo alla ricerca. Già alla fine del secolo scorso il biologo francese Raphael Dubois aveva scoperto le due sostanze chimiche protagoniste del fenomeno. Scomodando il re degli inferi, le battezzò rispettivamente «luciferina» e «luciferasi». La prima è una proteina cellulare, la seconda un enzima. Dalla interazione tra queste due sostanze, l' ossigeno dell' aria e l' adenosintrifosfato (Atp) si genera l' energia luminosa. La reazione svolge una quantità minima di calore che non supera il millesimo di grado. A differenza della luce artificiale, si tratta insomma di una luce fredda. L' organo luminoso delle lucciole, il fotoforo, è una struttura più unica che rara nel mondo animale. Sembra un faro di automobile. Al microscopio elettronico si rivela formato da tre strati: uno chitinizzato, sottile e trasparente come vetro, uno di forma parabolica formato da cellule che hanno la funzione di riflettori (il loro citoplasma è ricco di microscopici cristalli di acido urico che riflettono la luce all' esterno) e infine un terzo strato intermedio che fa in un certo senso da lampadina. Nelle diverse specie, la luce può avere colori vari, può essere gialla, verde, azzurra o arancione. Il mistero della luce delle lucciole non è completamente chiarito. Come si spiega ad esempio il fatto che l' individuo di una specie di Lampiridi (la famiglia a cui le lucciole appartengono) emetta segnali di durata e a intervalli diversi da quelli emessi dall' individuo di un' altra specie? Una cosa è certa. Grazie alla specificità dei codici, la natura assicura che non avvengano matrimoni misti che porterebbero fatalmente all' estinzione delle specie. Eppure qualche interferenza si verifica. Lo studioso americano James S. Lloyd dell' Università della Florida ha scoperto che certe grosse femmine del genere Photuris hanno imparato il codice luminoso di un' altra specie, quella delle piccole lucciole Photinus. Sicché, quando vogliono far l' amore, si servono del codice regolamentare per attirare i maschi della loro specie. Ma quando hanno fame, usano il codice della lucciola Photinus per attirare un maschietto di quella specie. Il poverino, vedendo il segnale di famiglia, accorre fiducioso, sicuro di convolare a nozze. E invece finisce nelle voraci fauci della megera imbrogliona. Isabella Lattes Coifmann


PRO E CONTRO E' possibile salvare insieme scimmie antropomorfe e sperimentazione medica
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOETICA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 007

DI tanto in tanto si leggono notizie allarmanti sul rischio di estinzione di alcuni primati, specialmente gorilla e scimpanzè. Le scimmie che rischiano di scomparire provengono dal continente africano. Certo con buone intenzioni ma purtroppo non ben informati gli autori di questi articoli puntano il dito verso la ricerca medica come colpevole di «spaventosi genocidi». Queste notizie accrescono la disinformazione del pubblico, distolgono l' attenzione dai veri pericoli di estinzione e danneggiano la ricerca di nuovi vaccini (Aids, malaria, epatite C, solo per citare alcuni esempi) o di nuove terapie per il Parkinson e la malattia di Alzheimer. L' affinità genetica con l' uomo (99 per cento per il Dna) rende i primati assolutamente indispensabili per alcuni studi. Senza la possibilità di usare tessuti in vitro di scimmie avremmo ancora oggi la poliomielite, mentre le vittime paralizzate per sempre e quelle destinate a vivere in un polmone d' acciaio sono ormai solo un ricordo. Malgrado tale necessità le scimmie e gli scimpanzè in particolare vengono usati molto raramente nella ricerca. Secondo le statistiche del National Institute of Health (1992), in Usa meno dell' 1% degli animali studiati nella ricerca biomedica e comportamentale sono scimpanzè. Essi sono strettamente riservati per studi come lo sviluppo del vaccino per l' Aids che non possono essere fatti su altre specie animali (il virus dell' Aids attacca solo i primati e ha avuto probabilmente origine dalle stesse scimmie africane). Il 99% degli animali usati in ricerca sono roditori (ratti e topi) allevati da generazioni in stabulari. Gli Stati Uniti, tutte le nazioni europee (Italia compresa) e molte asiatiche puniscono severamente «la rimozione di scimpanzè dal continente africano per scopi di ricerca e per gli zoo». Questi Paesi hanno aderito alla convenzione Cites (Convention on International Trade in Endangered Species) del 1973. Gli scimpanzè, in particolare, sono protetti da leggi molto severe che prevedono il carcere fino a tre anni per chi ne faccia commercio o li catturi a scopo di lucro. Come risultato, dal 1974 nessuno scimpanzè è stato importato legalmente negli Stati Uniti e gli animali usati per la ricerca medica sono tutti nati, cresciuti e vissuti in allevamenti locali. Nel 1988 l' Istituto Nazionale di Sanità (National Institute of Health) degli Stati Uniti ha avviato un programma particolare (The Chimpanzee Breeding and Research Program) per assicurare una popolazione di animali sufficiente per studi in Usa. Lo scopo principale del programma è quello di prevenire l' estinzione della specie e assicurare la riproduzione e il mantenimento di animali sani per le future generazioni. Le cinque colonie autorizzate all' allevamento contano in totale circa 600 animali, nati per il 95% in questi centri. Come risultato delle condizioni di allevamento particolarmente favorevoli, la vita media si è quasi raddoppiata. Poiché pochi sono gli animali che muoiono nei centri di ricerca si sta seriamente pensando a creare delle «case di riposo». Gamma, uno scimpanzè anziano morì l' anno scorso al Jerkes Regional Primate Research Center dell' Università Emory di Atlanta. Il patriarca degli scimpanzè era nato al Jerkes 59 anni fa. Benché siano usati molto raramente per la ricerca, gli scimpanzè godono di protezioni del tutto particolari per assicurare che il loro uso sia veramente motivato. Ogni ricercatore che intenda servirsene deve presentare una domanda molto dettagliata che verrà vagliata da un comitato nazionale costituito al proposito dal Nih di Washington. Nonostante queste limitazioni, la popolazione africana di questi animali è in pericolo di estinzione, non per l' uso fatto dagli scienziati ma a causa dell' esplosione della popolazione, che limita sempre di più il territorio a loro disposizione e le possibilità di alimentarsi. In casi estremi gli animali vengono usati come cibo dalle popolazioni locali. L' unica soluzione è istituire parchi nazionali, zone protette che permettano agli animali di vivere e riprodursi. Finora la maggioranza delle nazioni africane ha resistito a tali proposte con la risposta «o uomini o scimpanzè » Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


PREVENZIONE Per un pizzico di sale iodato Tre milioni di italiani afflitti dal gozzo
Autore: TRIPODINA ANTONIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 008. Tiroide

PARE che tutto sia iniziato circa diecimila anni fa, quando con il ritirarsi dei ghiacciai dopo l' ultima glaciazione è avvenuto una specie di «dilavaggio» dello iodio nelle regioni interessate da questo processo geologico. E pare che l' Italia, essendo in buona parte montuosa, sia stata particolarmente «dilavata», in quanto si riscontra una carenza iodica (facilmente rivelabile misurando lo iodio eliminato attraverso le urine nell' arco di 24 ore: fattore che viene chiamato «iodiuria» ) in quasi tutto il territorio nazionale. La scarsità di iodio nelle acque potabili e negli alimenti provenienti da terreni poveri di questo elemento è ormai universalmente riconosciuta come la causa principale del «gozzo endemico», una delle affezioni endocrinologiche più diffuse nel mondo. In Italia si calcola che siano affette da «gozzo endemico» circa tre milioni di persone (vale a dire il 5 6 per cento della popolazione complessiva). Si parla di «zona endemica» per il gozzo quando l' alterazione è dimostrabile in più del 10 per cento delle persone globalmente considerate o in più del 20 per cento della popolazione scolastica. Focolai di endemia sono stati riscontrati non solo nelle aree alpine e subalpine (Valle d' Aosta, Piemonte, Lombardia e Alto Adige) e sulla dorsale appenninica (Toscana, Lazio Puglia), ma anche in Calabria, Sicilia, Sardegna. In zone come la Lunigiana (bacino della Magra, fra Toscana e Liguria) e la regione di Troina in Sicilia, l' incidenza di gozzo raggiunge punte del 50 60 per cento. L' importanza dello iodio per la funzionalità tiroidea appare evidente se si considerano le formule dei due ormoni tiroidei, la tetra iodo tironina (o T4) e la tri iodo tironina (o T3). Se manca lo iodio la tiroide non è in grado di produrre la quantità di ormoni adeguata alle esigenze dell' organismo, cosa che determina un' esaltata e continua «sollecitazione» da parte dell' ipofisi, attraverso il suo ormone tireo stimolante o Tsh (thyroid stimulating hormone). Ciò produce un aumento di volume della tiroide, una «iperplasia compensatoria», prima fase nella formazione del gozzo. Per convenzione, si parla già di gozzo quando i lobi della tiroide superano le dimensioni dell' ultima falange del pollice dell' individuo in esame. Poiché non tutti gli individui di una zona endemica sono affetti da gozzo, è logico pensare alla coesistenza di altri fattori non ancora ben identificati che favoriscono la sua formazione: fattori genetici (per probabile maggiore sensibilità della cellula tiroidea allo stimolo del Tsh) fattori alimentari, quali l' eccessivo consumo di rape, di cavoli di semi di colza, di cassava (contenenti tio glicosidi e glicosidi cianogeni, che interferiscono col processo di ormono sintesi tiroidea); fattori di crescita epiteliali, quale l' Egf (Epidermal Growth Factor); fattori immunologici per meccanismo autoimmune. Il ruolo preminente della carenza iodica è tuttavia dimostrato dalla nettissima riduzione (fino all' 80 per cento) dell' insorgenza del gozzo in quei Paesi in cui è stata praticata una profilassi iodica (o arricchendo di iodio il sale da cucina, o le acque, o il pane, o con iniezioni di olio iodato, a seconda delle zone). Non è facile comprendere perché l' Italia sia ancora uno dei pochissimi Paesi occidentali in cui, di fatto, non venga attuata, se non in zone molto limitate, una profilassi iodica incisiva. E ciò nonostante le reiterate sollecitazioni da parte del «Comitato Nazionale per la Prevenzione del Gozzo», costituito dai maggiori tireologi italiani e nonostante che il Piemonte sia stata la prima regione a creare nel 1848 con Carlo Alberto una Commissione per lo studio della relazione fra gozzo e ambiente (quando ancora non era noto il rapporto con la carenza iodica). Se l' iniziale iperplasia tiroidea compensatoria (che tende a manifestarsi durante la pubertà per la maggiore richiesta di ormoni tiroidei di quel periodo, e, nelle ragazze, per l' aumentata escrezione di iodio indotta dagli estrogeni) non è precocemente trattata (con L tiroxina per frenare il Tsh), può evolvere in maniera del tutto imprevedibile: la persistenza dell' iper stimolo ipofisario può indurre la formazione di «nodi», sempre in un ulteriore tentativo di compenso alla ipo produzione ormonale ( «gozzo plurinodulare» ). Nodi che possono, col tempo, avere un' evoluzione diversa: possono diventare autonomi da ogni controllo ipofisario ( «nodi caldi» o «adenomi tossici» ) e iperfunzionanti, determinando un ipertiroidismo, con tutte le sequele metaboliche, cardiache e chirurgiche; possono andare incontro a un' involuzione colloido cistica, quindi non funzionanti ( «nodi freddi» ), per i quali è sempre indispensabile un' attenta indagine per differenziarli dai tumori, sulla cui insorgenza pesa il dubbio del possibile ruolo favorente dell' iperstimolazione ipofisaria; possono raggiungere dimensioni tali da dare disturbi da compressione meccanica degli organi circostanti (esofago, trachea, nervo ricorrente), specie se hanno uno sviluppo retrosternale. Nè vanno trascurate le turbe psicologiche per l' inestetismo sia del gozzo in se stesso, sia della cicatrice operatoria conseguente alla sua asportazione. I «disordini da carenza di iodio» non si limitano solo al gozzo: nelle aree di più grave carenza non è raro il riscontro di «cretinismo endemico» (caratterizzato da deficit mentale, sordomutismo, paralisi spastica), di ipotiroidismo con o senza difetti di accrescimento, di aumento della nati mortalità. Come si vede, non è semplicemente una questione estetica. E' auspicabile che ciò sia finalmente ben compreso dai responsabili della Sanità, a livello nazionale e regionale, in modo che vengano adottate incisive strategie di prevenzione basate sulla capillare distribuzione «su tutto il territorio nazionale» e quindi sulla facile reperibilità del sale iodato (attualmente pochissimo richiesto e poco reperibile). Strategie che, se efficacemente attuate, farebbero risparmiare in pochi anni, in modo semplice e con una spesa irrisoria, centinaia di miliardi e non poche sofferenze. Antonio Tripodina


EPIDEMIOLOGIA Diabete Non è ereditario in senso stretto ma esistono prove di fattori genetici
Autore: PORTA MASSIMO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 008

IL diabete di tipo 1, quello che colpisce soprattutto i giovani ed è conseguenza della distruzione delle cellule che, nel pancreas, producono l' insulina, è ereditario? E se la risposta fosse sì, i figli e i famigliari rischiano di ammalarsi anche loro? Il diabete in realtà, non è ereditario in senso stretto. Sicuramente intervengono fattori genetici, come suggerisce il fatto che in certe popolazioni la malattia è più frequente che in altre: in Europa si nota un aumento a partire dal Sud, con 10 nuovi casi all' anno ogni 100 mila abitanti, e una incidenza massima nei Paesi scandinavi, con quasi 40 casi. Nel nostro Paese i dati più recenti confermano in Piemonte valori intorno a 10, 2 nuovi casi/100. 000/anno ma mettono in risalto la curiosa eccezione della Sardegna che, con un' incidenza molto superiore a 30, è seconda in Europa solo alla Finlandia. Se quest' ultimo dato conferma l' importanza dei fattori ereditari in una popolazione che, come quella sarda, nei secoli è rimasta relativamente indisturbata dalle ondate migratorie che hanno coinvolto il resto della Penisola, esso continua a non fornirci informazioni sulla natura di tali fattori. Da alcuni anni i ricercatori hanno preso in esame i geni del sistema di istocompatibilità di classe II, che controlla i processi durante i quali il sistema immunitario riconosce la presenza di materiali estranei all' organismo e attiva i meccanismi atti ad eliminarli. Poiché nel diabete tipo 1 le cellule che producono insulina vengono distrutte dal sistema immunitario, è logico supporre che vi sia un guasto nel meccanismo che innesca tali reazioni. In effetti, alcuni alleli del sistema di istocompatibilità, ad esempio quelli noti con le sigle Dr3 e Dr4, sembrano relativamente più frequenti fra i diabetici e altri, come il Dr2, più rari. Questi alleli, però, sono largamente presenti anche nella popolazione non diabetica e questo ci impedisce di considerarli come veri e propri fattori predisponenti o, rispettivamente, protettivi. Per di più, i risultati furono ottenuti in popolazioni anglosassoni ma, estendendo gli studi ad altri gruppi etnici, si scoprì che gli alleli che conferirebbero suscettibilità al diabete negli inglesi non vi sono associati nei francesi e, meno che mai, nei giapponesi o nei polinesiani. Attualmente si sta analizzando la struttura degli antigeni di classe II, per verificare se non siano alcune loro porzioni, piuttosto che gli interi alleli, a favorire l' insorgenza della malattia. Dati molto interessanti sono emersi per quanto riguarda la sequenza di aminoacidi codificata da due di queste porzioni, denominate Dq alfa e Dq beta. Mutazioni che determinano la presenza di un residuo di arginina alla posizione 52 di Dq alfa, così come l' assenza di un acido aspartico al punto 57 di Qd beta, potrebbero favorire l' errato riconoscimento delle cellule beta come estranee. La proteina codificata dalla regione Dq, infatti, forma come una tasca all' interno della quale il materiale estraneo (oppure, nel caso del diabete, quello erroneamente ritenuto tale) viene trattenuto e «presentato» per il riconoscimento da parte degli altri effettori del sistema immune. Nelle catene di aminoacidi che formano questa sorta di trappola, il cinquantaduesimo e il cinquantasettesimo anello hanno una posizione critica e le suddette mutazioni modificherebbero profondamente le caratteristiche fisiche della tasca stessa. Esiste un ceppo di topi che sviluppa spontaneamente una forma di diabete simile al tipo 1 dell' uomo e nel cui sistema di istocompatibilità l' aspartato in posizione 52 di una regione analoga alla Dq alfa umana è sostituito da un residuo di serina. Grazie a tecniche di manipolazione genetica, l' introduzione di Dna con l' informazine corretta ha permesso di ottenere topi transgenici nei quali l' incidenza di diabete è molto ridotta. Non siamo ancora pronti, però, ad applicare metodologie simili anche all' uomo. Motivi di prudenza e problemi tecnici e morali raccomandano di approfondire le nostre conoscenze su questi fenomeni, prima di avventurarci verso forme inesplorate di terapia. Da un punto di vista pratico c' è comunque una nota rassicurante per i figli o, più in generale, i famigliari dei diabetici: il loro rischio di contrarre la malattia rimane piuttosto basso. Perfino i gemelli dei diabetici di tipo 1, pur avendo lo stesso patrimonio genetico e quindi teoricamente la stessa suscettibilità, si ammalano in meno della metà dei casi. Nei fratelli dei diabetici il rischio aumenta di circa 10 volte rispetto alla popolazione generale e diminuisce rapidamente con il grado di parentela. Non sono quindi giustificate misure di prevenzione genetica simili a quelle adottate per malattie come la talassemia. Massimo Porta Università di Torino


ECOLOGIA Un robot subacqueo nella laguna di Venezia Fotografa i fondali per prevenire l'eccessivo sviluppo di alghe
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, MARE, TECNOLOGIA
NOMI: BERNSTEIN ALBERTO
ORGANIZZAZIONI: REMOTS
LUOGHI: ITALIA, VENEZIA (VE)
NOTE: 007

UN fotografo subacqueo scatta "istantanee" nella laguna di Venezia: si chiama Remots ed è un robot, il più appariscente fra gli strumenti utilizzati nel monitoraggio dello sviluppo delle macroalghe. Le sue foto vengono analizzate da un conputer e, combinate con numerosi altri rilevamenti, osservazioni dall'elicottero, confronti con medie statistiche delle condizioni metereologiche negli ultimi 30 anni, costituiscono un aiuto per decidere gli interventi di raccolta delle alghe. Gli ultimi dati sono confortanti: la crescita è stata finora molto inferiore rispetto al '92, tardiva e concentrata in pochi punti dove il fondale è più basso: la riduzione non è dovuta tanto a interventi di disinquinamento quanto alle passate piogge autunnali o primaverili e alle mareggiate che hanno favorito l'ossigenazione dell'acqua abbassandone la temperatura. E' infatti in particolari condizioni critiche, anche climatiche (caldo umido in assenza di vento), che il fragile equilibrio dell'ecosistema può rompersi: scopo del monitoraggio è prevenire le condizioni di emergenza in un ciclo che già normalmente tende ad autoalimentarsi. Spiega l'architetto Alberto Bernstein, responsabile del Servizio Ambiente per il Consorzio Venezia Nuova, che coordina gli interventi: "I fondali bassi a piatti rallentano la corrente marina, l'acqua tende a ristagnare e le alghe ad espandersi: quando queste crescono oltre misura, aumentando i detriti organici e di conseguenza l'attività dei batteri e il loro consumo dell'ossigeno contenuto nell'acqua: si produce idrogeno solforato, dal caratteristico cattivo odore: le alghe e gli altri organismi in breve tempo muoiono e imputridiscono, e depositandosi attorno alle terre emerse della laguna - le barene - contribuiscono alla loro corrosione e quindi all'appiattimento del fondale". Sono più di cento le stazioni per il monitoraggio delle alghe in laguna, settimanalmente visitate da tre squadre di tecnici: in base alla veloce elaborazione dei dati viene pianificata la raccolta delle alghe. Oltre al prelievo e all'esame di campioni di alghe con la determinazione della loro vitalità e varietà (Ulva, Chftomorfa, Zostera, Gracilaria), un ruolo fondamentale è svolta dalle analisi condotte da Remots e dalla sonda Redox Enea. Il robot Remots, ingegnerizzato nei laboratori dell'Università di Boston, è essenzialmente composto da una fotocamera subacquea ad altissima risoluzione che in punti stabiliti fotografa sezioni di sedimento penetrando fino a venti centimetri di profondità; dall'elaborazione dell'immagine digitalizzata diventa possibile determinare gli indicatori sullo stato di ossigenazione o decomposizione, sulla presenza di gas e di organismi vivi, sulla consistenza dello strato di alghe di copertura. Lo stesso robot misura l'ossigeno disciolto nell'acqua, la temperatura, il ph e, in superficie, il potenziale Redox del sedimento, un parametro importante che viene studiato con più completezza dalla sonda dell'Enea. Il potenziale redox fornisce informazioni indirette sull'attività batterica nel sedimento; indica se l'ambiente è riducente o ossidante, ossia se tende ad assorbire o cedere ossigeno. La sonda brevettata dall'Enea è piuttosto complessa: porta 19 sensori che possono esegiure la rilevazione a diverse profondità, mentre con apparecchi più tradizionali per questo stesso tipo di raccolta dati occorrerebbero 19 diverse sonde redox. Un altro parametro di confronto tra periodi dell'anno e stazioni diverse è l'Osi (Organismo Sediment Index), indice di qualità del sedimento, che dovrebbe mantenersi al di sotto di un indice critico specifimente calcolato per l'ambiente lagunare. Infine, la valutazione del rischio ambientale in una determinata zona viene riferita ad un indice di instabilità, calcolato con una formula in cui entrano la densità delle alghe e la loro copertura rilevata dall'elicottero, la profondità dell'acqua, la temperatrura, la turbolenza, gli indici redox e Osi. Un importante elemento nutriente per le alghe è l'azoto: ne vengono scaricate in laguna circa settemila tonnellate all'anno derivanti da scarichi urbani, attività agricole, zootecniche e industriali: ma è lo stesso sedimento la "banca" dei nutrienti, e in molte zone è anzi la sorgente prevalente. In alcune aree le bassissime maree dello scorso inverno hanno esposto all'aria i sedimenti e quindi ridotto il flusso dei nutrienti. Lo sviluppo delle alghe nella laguna veneta potrebbe riprendere in settembre-ottobre, ma dovrebbe venire ancora ostacolato in modo naturale dal minor numero di ore di luce. Rosalba Glorcelli


SPELEOLOGIA Poca ricerca e nessun primato L'avventura di Montalbini in fondo a una grotta
Autore: BADINO GIOVANNI

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA
NOMI: MONTALBINI MAURIZIO, VELJKOVICH MILUTIN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 006

LA speleonautica e lo "speleologo" Maurizio Montalbini stanno di nuovo occupando spazio sui mezzi di informazione in seguito a una nuova, lunga prova di permanenza nel sottosuolo. A questo proposito, da un punto di vista scientifico, ci sembrano opportune alcune precisazioni. 1) E' stato detto che i 210 giorni sono il record mondiale di permanenza. La più lunga permanenza documentata è invece quello dello jugoslavo Minutin Veljkovich, rimasto dal 24 giugno 1969 al 30 settembre 1970 (463 giorni) nella grotta di Samar, vicino all'abitato di Kopajkoshara, Jugoslavia orientale. Era in compagnia di altre cavie: un cane, in gatto, dieci galline e cinque anatre. L'entrata della grotta venne ostruita con tonnellate di sassi dopo il suo ingresso per chiudere ogni contatto con l'esterno. Veljkovich rimase in comunicazione con il vicino villaggio tramite un telefono militare: nella sua cronaca (in un libro dal titolo: " Sotto un cielo di pietra", ripreso poi dalla rivista "The British Caver", vol. 94-95 dell'85) si vanta di non aver mai chiamato ma nota che veniva chiamato ogni pochi giorni da giornalisti e medici che ne seguivano l'impresa. Anche in quel caso la fine dell'evento venne ampiamente seguita da giornali e agenzie. La notizia dell'esperimento arrivò all'epoca anche sulla stampa italiana ma ebbe poca attenzione: per questo 17 anni dopo si poté dichiarare " record mondiale" una permanenza durata meno della metà, attirando così le facili ironie di chi, a livello internazionale, era informato. Gli speleologi non sono molto abili nei loro rapporti con la stampa, sicché le rettifiche sulle riviste non specializzate furono rare e passarono praticamente inosservate. 2) Il valore scientifico di queste imprese è discutibile. A volte si tratta di esperienze abbondantemente fatte e rifatte, ciclicamente ripetute da chi ha fatto scarsa ricerca bibliografica, e in genere non sembrano interessare nessun specialista. Anche Veljkovich narra delle difficoltà a interessare i ricercatori alle sue osservazioni e come infine solo i russi se ne occuparono per un po' nel quadro del loro programma spaziale dell'epoca, lasciando però presto cadere il tutto. Questo non esclude, naturalmente, che siano esperienze che possono avere interesse scientifico se ben mirate. Per chi non è specialista di fisiologia c'è un semplice modo per saperlo: se i risultati di una esperienza di speleonautica vengono pubblicati su riviste scientifiche internazionali del settore significa che essi sono di effettivo interesse scientifico. Nel caso delle precedenti imprese di Montalbini ci sembra che ciò non sia accaduto e questo ci insinua il dubbio che si tratti di imprese molto interessanti e utili ma solo per chi le fa, ed eventualmente per i suoi sponsor. 3) Non sappiamo se Montalbini sia speleologo o no. Ma siamo sicuri che quelle esperienze hanno poco a che fare con la speleologia e con le grotte, tanto che potrebbero essere fatte in qualunque altro posto ben sigillato: profonde cantine, miniere abbandonate o edifici nei quali essere murati vivi come, per molti anni, capitò a Gertrude, la Monaca di Monza. Giovanni Badino Società speleologica italiana




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