TUTTOSCIENZE 30 giugno 93


Ricerca Cee Atlante genetico d' Europa La storia dei popoli letta nel loro Dna
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: GENETICA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, DEMOGRAFIA E STATISTICA
NOMI: PIAZZA ALBERTO, CAVALLI SFORZA LUCA
ORGANIZZAZIONI: CEE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 101. «Progetto genoma», Storia biologica del Vecchio Mondo

CONOSCERE il nostro passato per un futuro migliore. Questo in sintesi l' obiettivo dello «Human Capital and Mobility Programme», il progetto sulla mobilità degli uomini che si propone di ricostruire la storia biologica delle popolazioni europee. Finanziato dalla Cee, coinvolge undici istituti universitari di sei Paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania, Svizzera e Italia), coordinati da Alberto Piazza dell' Istituto di Genetica dell' Università di Torino. Gli scienziati che lavorano al progetto genetisti e antropologi si sono riuniti in giugno a Torino per mettere a punto le modalità della ricerca. A differenza del Progetto Genoma (Human Genome Project), il cui obbiettivo è di individuare le sequenze che caratterizzano il Dna umano, questo si propone di metterne in evidenza la variabilità. Secondo le ricerche di Luca Cavalli Sforza e Alberto Piazza, ogni popolazione possiede tutti i geni umani tuttora esistenti, ma con frequenze diverse l' una dall' altra. Inoltre la diversa distribuzione dei geni varia in senso geografico. L' indagine, condotta per più anni e in molte popolazioni sui gruppi sanguigni «prodotti» dei geni ha fatto avanzare l' ipotesi che la diversa distribuzione sia conseguenza di movimenti migratori che hanno caratterizzato la storia dell' Europa. In particolare ne sono stati evidenziati due: uno, nel Neolitico, determinato dall' espansione graduale della gente dell' Anatolia, la prima che «inventò » l' agricoltura; l' altro che ebbe come protagonista una popolazione asiatica situata fra il Mar Caspio e il Mar Nero, il primo nucleo di lingua indo europea. E poiché la gente si sposta portandosi dietro il suo Dna e la sua cultura, i migranti diedero un significativo contributo all' evoluzione biologica e culturale delle popolazioni di cacciatori raccoglitori dei primitivi europei. Mescolandosi con loro, portarono geni, l' invenzione tecnologica (l' agricoltura) e la lingua. I geni di quei progenitori sono ancora nelle nostre cellule, perché da allora a oggi non ci sono stati eventi migratori di portata tale da portare modificazioni rilevanti. L' indagine genetica, che sarà effettuata utilizzando le moderne tecniche di manipolazione del Dna permetterà di verificare questa ipotesi sulla nostra origine e di ricostruire in modo più completo le radici della storia dell' Europa. «Sarà una analisi molto più fine di quella condotta sui gruppi sanguigni dice il professor Piazza perché la tecnologia ci permette di esaminare contemporaneamente molti geni in un grande numero di individui. Se riscontreremo una variazione comune a più geni, allora potremo dire con più sicurezza che la distribuzione genetica che troviamo in Europa è dovuta a una migrazione». Prima tappa del progetto sara ' decidere quali tratti di Dna studiare, in quali gruppi etnici e in quanti individui. Lo studio verterà preferibilmente su quei luoghi dove la presenza di siti archeologici permetterà di fare confronti fra gli abitanti attuali e quelli passati. La moderna tecnologia permette di esaminare le sequenze di Dna estratto da ossa cimiteriali, da mummie o da fossili (in quest' ultimo caso ancora con un notevole grado di incertezza). Così più discipline si integrano in questo progetto: genetica, archeologia linguistica, antropologia, medicina. Dice ancora Piazza: «L' esame della variabilità ci permetterà di capire quando è insorta una mutazione responsabile di una malattia genetica. Potremo capire se la malattia è stata introdotta con una migrazione, oppure se il gene mutante si è affermato perché protegge rispetto ad altre patologie, come nel caso dei portatori di talassemia, che sono più resistenti alla malaria. Si potrebbe capire il meccanismo con cui si è diffusa in Europa la fibrosi cistica, che è tuttora sconosciuto » . Aggiunge il professor Walter Bodmer, direttore dell' Imperial Cancer Research Fund di Londra: «Potremo scoprire le basi genetiche che rendono una popolazione resistente o suscettibile a una malattia; individuare i gruppi ad alto rischio, e porre le basi per un' azione di prevenzione, magari per il cancro. Potremo porre le basi per identificare donatore e ricevente compatibili per un trapianto. Ma, soprattutto, questa ricerca è una sfida di profondo significato culturale. Abbiamo la responsabilità di far capire che la popolazione europea ha una notevole omogeneità genetica e che la divisione in razze e l' odio razziale che oggi pervadono l' Europa non hanno alcun fondamento scientifico. La diversità fra le varie popolazioni europee è minore di quella che esiste fra un individuo e l' altro all' interno di una stessa popolazione». Maria Luisa Bozzi


DIFETTI DEI GLOBULI Quel gene tipico del Mediterraneo
ARGOMENTI: GENETICA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 101. «Progetto genoma», Storia biologica del Vecchio Mondo

ALCUNE malattie genetiche che colpiscono il globulo rosso sono particolarmente diffuse nelle zone malariche di tutto il mondo perché proteggono il portatore sano nei confronti della malaria. Si tratta principalmente di: talassemie (anemia mediterranea, morbo di Cooley), anemia falciforme e carenza di un enzima del globulo rosso (la glucoso 6 fosfato deidrogenasi). In Sardegna i portatori sani di anemia mediterranea costituiscono il 40 per cento della popolazione. Mentre l' individuo omozigote (che ha una coppia di geni mutanti) non riesce a sintetizzare in modo completo la molecola dell' emogo bina e deve ricorrere a continue trasfusioni di sangue altrimenti muore in tenera età, il portatore sano (che possiede un gene mutante e uno normale) ha soltanto globuli rossi leggermente difettosi. Quando vi si installa il parassita della malaria (Plasmodium falciparum) per compiervi parte del suo ciclo, questi globuli rossi vanno incontro a un ulteriore danno, per cui vengono eliminati dalle cellule «spazzine» del sangue (i macrofagi). L' azione di pulizia è svolta in modo selettivo e intenso prima che il parassita si sviluppi, a tutto vantaggio dell' ospite.


IN TOSCANA Riscopriamo i geni degli Etruschi
Autore: T_S

ARGOMENTI: GENETICA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, DEMOGRAFIA E STATISTICA
NOMI: GRIFFO MARIA ROSARIA, MATULLO GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 101. «Progetto genoma», Storia biologica del Vecchio Mondo

SI è conclusa in questi giorni a Murlo, piccolo comune della Toscana che si trova trenta chilometri a Sud di Siena, una «operazione Dna» che fa parte del progetto diretto dal professor Alberto Piazza per la realizzazione della mappa genetica del continente europeo. Nell' arco di un mese, Maria Rosaria Griffo e Giuseppe Matullo, del Dipartimento di genetica dell' Università di Torino, hanno prelevato il Dna di 150 abitanti di Murlo (circa un decimo della popolazione) per verificare quanto esso conservi delle caratteristiche genetiche degli Etruschi. Uno studio del genere era già stato compiuto a Trino Vercellese. Murlo per secoli è rimasto ai margini di guerre e invasioni, in una sorta di isolamento storico. Si può quindi supporre che i suoi abitanti discendano dall' antica popolazione etrusca senza troppi rimescolamenti genetici. Secondo il programma della ricerca, il Dna estratto verrà confrontato con quello di ossa ritrovate nelle tombe etrusche. La tecnica per ricostruire questo «Dna archeologico» non è però ancora del tutto soddisfacente: occorrerà quindi ancora del tempo per avere risultati definitivi. Anche i cognomi degli abitanti di Murlo verranno utilizzati come indicatori genetici: su di essi ha svolto un' indagine Barbara Turchetta, identificando i più antichi. Alberto Piazza è stato tra i primi a vedere nei cognomi un aiuto prezioso per il genetista di popolazioni.


PRIMI PASSI DI «ITER» In viaggio per l' energia di domani Parte il progetto mondiale di fusione nucleare
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: ENERGIA, TECNOLOGIA, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: EFET, FIAT CIEI, ANSALDO
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.
NOTE: 101

PRIMI passi per il progetto Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), il futuro reattore sperimentale destinato a dimostrare la possibilità di impiego della fusione nucleare. Il programma, al quale partecipano Europa, Stati Uniti, Russia e Giappone, è oggi nella fase iniziale di progettazione, che durerà sei anni e avrà un costo di un miliardo e 200 milioni di dollari. La costruzione dell' impianto richiederà altri otto anni e più di 5 miliardi di dollari. La Comunità europea ha recentemente assegnato l' attività di progettazione di propria competenza al consorzio industriale Efet (European Fusion Engineering and Technology), che riunisce un gruppo di primarie aziende europee. Tra queste il consorzio italiano Citif, costituito dall' Ansaldo e dalla Fiat Ciei (Gilardini), la francese Framatone, la Siemens tedesca e l' inglese Nnc. Iter, che nasce come sviluppo del progetto europeo Net, è il più ambizioso programma di ricerca finalizzato alla fusione nucleare controllata. Questa reazione, che libera energia trasformando nuclei di atomi leggeri, come gli isotopi dell' idrogeno, in altri più pesanti, è la stessa che permette alle stelle di brillare per miliardi di anni. Una volta imbrigliata, permetterà di produrre enormi quantità di energia a basso costo e con un limitato impatto ambientale. La strada per lo sfruttamento della fusione è ancora lunga e richiederà alcuni decenni di studi e di esperimenti. Una delle punte più avanzate è il Jet (Joint European Torus) di Culham, Inghilterra, l' impianto dove gli scienziati europei sono riusciti per primi a produrre con la fusione una consistente quantità di energia. La tecnica è quella del confinamento magnetico. Un plasma, cioè un gas di atomi privi di elettroni e quindi dotati di carica elettrica positiva, è imprigionato da potenti campi magnetici e portato nelle condizioni di densità e di temperatura (oltre i 100 milioni di gradi) necessarie per vincere la repulsione elettrica dei nuclei. Il reattore, in estrema sintesi, è un recipiente toroidale, cioè a forma di ciambella, circondato da elettromagneti, nel quale viene fatto il vuoto e iniettato il gas. Comunemente è chiamato «Tokamak » , dall' acronimo russo di camera magnetica toroidale. Impiegando una miscela di deuterio e di trizio (la fusione tra questi isotopi dell' idrogeno è la più facile da ottenere), gli scienziati del Jet sono riusciti a raggiungere una temperatura di 200 milioni di gradi, realizzando la fusione nucleare per un tempo di quasi due secondi e producendo una potenza di due milioni di Watt. Un passo importante, ma siamo ancora lontani dalla meta. Per scaldare il plasma, infatti, è necessario fornire energia dall' esterno in quantità superiore a quella ottenuta dalla fusione. La tappa successiva sarà raggiungere il pareggio tra energia immessa ed energia prodotta, ma il vero obiettivo è la fusione autosostentata cioè l' «ignizione». Per raggiungerla occorre mantenere per un tempo sufficientemente lungo le condizioni di densità e di temperatura necessarie per la fusione, in modo da ottenere dalle stesse reazioni nucleari la quantità di energia che occorre perché la reazione si sostenga da sola. Nè il Jet, nè gli altri tokamak attuali sono capaci di raggiungere la soglia dell' ignizione. Iter, invece, è progettato per superare questo traguardo impiegando come combustibile una miscela di deuterio e di trizio iniettati in una camera toroidale del diametro di 16 metri e con un volume di tremila metri cubi. La nuova macchina svilupperà una potenza di almeno un miliardo di Watt e servirà anche per provare le tecnologie necessarie alla costruzione dei futuri reattori commerciali. Per esempio, verrà collaudato lo speciale rivestimento capace di assorbire i neutroni liberati dalla fusione e utilizzarne l' energia termica. Iter sarà ancora un tokamak sperimentale. Solo con la fase successiva e cioè con la costruzione del Demo (Demonstration Reactor), un prototipo di reattore operativo, la prima energia ottenuta dalla fusione nucleare verrà immessa nella rete elettrica. E' difficile prevedere quando verrà avviato il primo reattore commerciale. Nessuno ha mai realizzato la fusione autosostentata e gli scienziati sono incerti sul comportamento del plasma nelle condizioni dell' ignizione. Perciò la ricerca europea sembra orientata alla costruzione di una macchina intermedia tra il Jet, che terminerà il suo compito nel 1996, e Iter, che, se tutto andrà bene, non entrerà in funzione prima del 2005. Tra i progetti in esame c' è l' Ignitor, proposto dal fisico italiano Bruno Coppi una macchina di dimensioni e costi contenuti, con alte probabilità di riuscire a realizzare la fusione autosostentata. Pur essendo simili concettualmente, Ignitor (al cui progetto partecipa il consorzio Ansaldo Fiat Ciei) e Iter imboccano strade diverse. L' ignizione, abbiamo visto, è legata a tre parametri: temperatura, densità e tempo di confinamento. Mentre Iter prevede temperature elevate, una densità del plasma relativamente bassa e lunghi tempi di confinamento, Ignitor punta su un' alta densità. Al pari di Iter, la macchina proposta da Coppi impiegherà una miscela di deuterio e di trizio, ma il fisico italiano è anche impegnato nella concezione di un reattore successivo, il Candor, per sperimentare la fusione di nuclei di deuterio e di elio 3. Questa reazione richiede temperature e densità più elevate, ma non produce neutroni e, quindi, radioattività. Un' energia praticamente pulita, anche se una limitata quantità di neutroni verrebbe comunque generata da inevitabili reazioni deuterio deuterio. In ogni caso, la fusione termonucleare non produce scorie radioattive a lunga vita come quelle generate dai reattori a fissione e sarà una fonte energetica meno inquinante di quelle oggi impiegate. Giancarlo Riolfo


ASTEROIDI SUPERSTAR La famiglia del Sole cresce Scoperto un terzo pianetino oltre Plutone
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
NOMI: JEWITT DAVID, LUU JANE, ZAPPALA' VINCENZO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 102

CRESCE la famiglia dei pianetini che abitano al di là di Plutone. Un asteroide per ora provvisoriamente indicato con la sigla «1993 FW» è stato scoperto il 28 marzo dagli astronomi americani David Jewitt e Jane Luu, gli stessi che il 30 agosto dell' anno scorso avevano individuato «1992 QB1», un oggetto dal diametro di 200 chilometri in orbita alla periferia estrema del sistema solare. In entrambi i casi Jewitt e Luu si sono serviti di un telescopio da 2, 2 metri posto a quota 4000 metri nelle isole Hawaii, dove la visibilità è forse la migliore del mondo. E per la seconda volta l' Osservatorio australe europeo (Eso) ha avuto un ruolo determinante per individuare meglio il nuovo pianetino e stabilirne l' effettiva collocazione. Un asteroide così lontano ha ovviamente una luminosità bassissima, e ciò per almeno tre buoni motivi: perché alla distanza di Plutone e oltre la luce del Sole è ormai fortemente affievolita, perché gli asteroidi sono corpi molto scuri e quindi con un basso potere riflettente (5 10 per cento), perché le loro dimensioni sono modeste e la distanza che la poca luce riflessa deve compiere è di oltre 6 miliardi di chilometri. In particolare, «1993 FW» appare come un oggetto puntiforme di magnitudine 23, cioè circa un milione di volte più debole delle più deboli stelle visibili a occhio nudo. Nonostante queste difficoltà, Olivier Hainaut, lavorando con il telescopio danese da 1, 5 metri dell' Eso (a La Silla, sulle Ande cilene) e un sensore Ccd, il 17 e 18 maggio è riuscito a ottenere altre immagini del pianetino e Brian Marsden, responsabile del Minor Planet Bureau, ha così potuto calcolarne l' orbita provvisoria. Questa si colloca tra 5, 8 e 7, 2 miliardi di chilometri dal Sole, cioè fra 39 e 48 unità astronomiche (l' unità astronomica equivale alla distanza Terra Sole, circa 150 milioni di chilometri). Dato che la distanza media di Plutone è di 39, 8 unità astronomiche, siamo quasi certamente al di là della sua orbita. L' astronomo americano Gerard Kuiper aveva ipotizzato l' esistenza di una numerosa fascia di pianetini ghiacciati oltre Plutone, residuo della nebulosa da cui è nato il sistema solare. Poiché questo è il terzo oggetto del genere che si scopre così lontano il primo della serie fu «1992 AD», individuato da Rabinowitz il 9 gennaio dell' anno scorso i fatti incominciano a dargli ragione. Le tre foto di «1993 FW» sono state uno dei centri di attenzione dei 400 astronomi specializzati nello studio dei corpi minori del sistema solare che si sono riuniti a Belgirate dal 14 al 18 giugno per il 160 Simposio dell' International Astronomical Union. «La novità emersa dall' incontro spiega Vincenzo Zappalà, che con Mario Di Martino è stato tra gli organizzatori del convegno di Belgirate è che tra comete e asteroidi le differenze si fanno più sfumate. Gli asteroidi somigliano molto a comete esaurite e le comete ad asteroidi dotati di attività ». Rimane da chiarire se gli oggetti che incominciano a emergere al di là di Plutone, misurando qualche centinaio di chilometri, siano da considerare più vicini a giganteschi nuclei di comete «surgelate» o ad asteroidi di medie dimensioni. Una cosa invece è certa: i corpi minori del sistema solare stanno esercitando un forte fascino scientifico. Lo prova anche il fatto che le missioni spaziali per approfondirne la conoscenza si moltiplicano, nonostante i tagli e le economie di cui soffrono la Nasa e le altre agenzie. Intanto a fine agosto la navicella «Galileo» ci invierà immagini del pianetino Ida. L' anno prossimo partirà la sonda americana «Clementine», che dopo la Luna nell' agosto 95 avrà per meta il pianetino Geographos, notevole per la sua orbita che si spinge nella parte più interna del sistema solare. L' Agenzia spaziale europea a settembre dovrà decidere la missione «Rosetta», che ha comete e asteroidi come obiettivo. E anche l' Asi, Agenzia spaziale italiana, sta esaminando la missione «Piazzi» diretta ad asteroidi del gruppo «Apollo», i potenziali killer del nostro pianeta. Per questa missione la Alenia ha già pronto uno studio di fattibilità. «Piccolo è bello», diceva uno slogan degli ecologi qualche anno fa. «Piccolo è interessante», fanno eco oggi i planetologi. Piero Bianucci


NASCE A FRASCATI Fabbrica di particelle subatomiche Nel ' 95 i fisici italiani avranno «Daphne»
Autore: REBAGLIA ALBERTA

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA, FRASCATI
NOTE: 102

DA quando, all' inizio degli Anni Cinquanta, sono entrati in funzione i primi acceleratori di particelle, ogni successiva progettazione ha previsto un progressivo aumento delle loro dimensioni (giunte ora a limiti presumibilmente difficili da superare), permettendo di raggiungere energie via via più elevate necessarie per indagare fenomeni sempre più decisivi nell' approfondimento delle teorie fisiche. Attualmente, allo stesso scopo, si sta realizzando una nuova generazione di macchine acceleratrici, denominate «fabbriche di particelle» per il considerevole numero di costituenti elementari che in esse verranno prodotti. L' obiettivo non consiste più nell' ottenere livelli di energia progressivamente più elevati e ancora inesplorati, prefiggendosi in tal modo di generare particelle mai osservate in precedenza, e quindi ogni volta diverse per caratteristiche e comportamento, bensì operando all' interno di intervalli energetici già precedentemente esaminati l' intento è intensificare la frequenza dei processi di annichilazione tra particelle ad alta energia: quanto maggiore è il numero delle collisioni avvenute all' interno dell' acceleratore, di altrettanto risulterà accresciuta l' efficienza nella produzione di quello sciame di particelle, dalla vita spesso effimera, che costituiscono i prodotti di tali urti. In altre parole, anziché tendere a differenziare la qualità delle particelle generate, si lavora per incrementare la quantità delle particelle, tra loro uguali, prodotte. L' interesse che questo nuovo obiettivo riveste in ambito sperimentale e teorico è legato alla natura probabilistica dell' evoluzione che contraddistingue le particelle che hanno origine dalle collisioni prodotte nell' acceleratore. Infatti, mentre le trasformazioni subite da oggetti macroscopici, con i quali normalmente siamo in contatto, sono tali che oggetti identici sottoposti alle medesime condizioni fisiche esterne evolvono tutti nello stesso modo, nei processi di decadimento delle particelle subatomiche non è affatto vero che particelle elementari identiche seguano tutte un' unica modalità per scomparire, generando nuove particelle: ciascuna di esse segue con maggiore o minore frequenza statistica modalità alternative di decadimento, cosicché le particelle che ne derivano appartengono a categorie anche molto differenti. Utilizzando l' elevata efficacia di produzione dei nuovi acceleratori, i fisici contano quindi di poter ottenere tipologie diversificate di particelle, e soprattutto di poterne disporre in numero significativo dal punto di vista dell' osservazione e della sperimentazione. Presso i Laboratori di Frascati dell' Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è prevista la realizzazione entro il 1995 di un prestigioso acceleratore di nuova generazione, battezzato Daphne. Le informazioni essenziali sulle sue caratteristiche sono nascoste sotto il fascino del nome mitologico, che ricorda la ninfa tramutata in alloro. Daphne è, in effetti, un acronimo, di cui la parte iniziale DA e quella centrale PH fanno riferimento alle due proprietà fondamentali di questa macchina. La sua struttura è costituita da due anelli distinti (Double Anular) (circa cento metri di lunghezza ciascuno) che si intersecano in due regioni, nelle quali si scontrano pacchetti di elettroni e pacchetti delle equivalenti particelle composte di antimateria, i positroni. Immettendo nell' acceleratore fino a centoventi pacchetti per ciascuno dei due tipi di particelle nell' urto viene generata un' enorme quantità di un diverso tipo di componenti elementari, i mesoni phi (instabili, dalla vita media brevissima, che, decadendo, generano a loro volta numerose altre particelle elementari). Daphne è dunque una «fabbrica» che produce migliaia di particelle e phi al secondo (phi factory), facendo uso di complesse tecnologie che garantiscono l' altissima precisione operativa richiesta (Nice Experiments fornisce le due lettere finali dell' acronimo). Le sperimentazioni scientifiche che dal 1995 verranno condotte a Frascati consentiranno a numerosi gruppi di ricerca, italiani e stranieri, di analizzare le catene di decadimento che avranno luogo in questa moltitudine di particelle phi, osservando differenti processi, di cui alcuni evidentemente i più interessanti piuttosto «rari», in quanto, statisticamente, si verificano solamente in pochi casi su migliaia di eventi registrati. Queste ricerche sono eccezionalmente cariche di aspettative, poiché caratteristiche intrinseche e modalità di decadimento delle particelle elementari sono regolate da proprietà di simmetria, che costituiscono i più raffinati e attendibili costrutti teorici attualmente a nostra disposizione, e sono inoltre connesse alla effettiva conservazione di alcune specifiche quantità fisiche (quali energia, impulso, momento angolare e altri attributi tipici dei costituenti elementari). Lo studio di processi subatomici poco frequenti, ottenibili attraverso queste tecnologie di avanguardia, potrà indubbiamente aiutarci, dal punto di vista concettuale, a meglio comprendere il nesso che correla osservazioni empiriche e leggi razionali. E, più specificamente, sarà una preziosa opportunità per confermare le nostre attuali ipotesi sulla realtà fisica, nei suoi più piccoli costituenti; oppure costruttivamente per sollevare nuovi dubbi e aprire nuovi problemi. Alberta Rebaglia


PERMETTE «CONOSCENZE SFUMATE» Primo computer chimico Test su un prototipo in Germania
Autore: PREDAZZI FRANCESCA

ARGOMENTI: INFORMATICA, CHIMICA
NOMI: SCHNEIDER FRIEDMANN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 102

IL sogno di un computer simile al cervello umano ha fatto un piccolo passo avanti: in Germania, un professore dell' Università di Wuerzburg, Friedemann Schneider ha costruito il primo computer chimico. Il prototipo è ancora piuttosto rozzo, ma presenta una differenza sostanziale rispetto ai computer tradizionali: le informazioni, invece di essere trasmesse tramite circuiti elettronici, avvengono grazie allo scambio di sostanze chimiche, prendendo a modello le cellule nervose del cervello. Lo scopo è di ottenere quella flessibilità che continua a costituire la differenza fondamentale tra i computer elettronici e il cervello umano. Per esempio nell' identificazione dei volti. Attualmente anche il più sofisticato dei computer non è in grado di dire se due volti si assomigliano. Il computer può riconoscere se due fotografie sono identiche, ma non se sono semplicemente simili: la «conoscenza sfumata» non fa ancora parte del patrimonio informatico Nel caso concreto di una videocamera che registri le immagini all ' interno della banca e che confronti i volti dei clienti con quelli di ricercati dalla polizia, basta che il criminale porti i baffi per non essere riconosciuto dal computer. Diverso è il funzionamento del prototipo chimico: quando non riconosce un' immagine in tutti i suoi punti tende ad assestarsi su quella che più le si avvicina. Le informazioni vengono elaborate per mezzo di 36 contenitori di reattivi che comunicano fra loro tramite sensibilissime micropompe. I contenitori scambiano quantità infinitesime di reagenti, sul modello degli scambi fra le cellule nervose. Per memorizzare un' immagine, fatta di punti bianchi e neri, per esempio, le pompe dei vari contenitori vengono regolate su determinati valori. Nelle singole provette avvengono complicate reazioni chimiche e alla fine la concentrazione si stabilizza colorando il liquido del contenitore di un tono chiaro oppure scuro. Modificando i valori di ingresso delle pompe si possono memorizzare diversi disegni nel «circuito di apprendimento chimico», come lo definisce Schneider. Quando al computer viene sottoposta un' immagine chiaro scura ignota, l' equilibrio chimico ha la tendenza a ricadere nel più vicino schema noto. Non trovando un' immagine identica, si ferma sullo schema più «simile» che ha a disposizione nella sua memoria. Solo se non c' è nessuno schema che assomiglia, la colorazione delle provette continua a oscillare senza riuscire a stabilizzarsi. La rivista americana «Science», sulla quale il chimico di Wuerzburg e due suoi colleghi hanno presentato l' esperimento, commentava: «Per il momento non vinceranno un premio di velocità ] Un confronto di immagini richiede infatti 5 ore». Francesca Predazzi


TECNOLOGIA MEDICA Ultrasuoni alleati delle donne Permettono una facile diagnosi dell' osteoporosi
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 102

GLI ultrasuoni con le fibre ottiche e il laser stanno migliorando la diagnostica e la prevenzione di molte malattie. Una nuova macchina a ultrasuoni per la diagnosi dell' osteoporosi è stata recentemente messa a punto e migliorata, partendo da un modello statunitense, da un' azienda milanese. Si chiama Doc One e si è dimostrata un valido strumento per la diagnosi delle patologie metaboliche che comportano un aumento del rischio di fratture. La misurazione eseguita con gli ultrasuoni è rapida, quattro minuti in tutto, non è invasiva, non è dannosa perché non emette radiazioni, presenti, anche se in misura minima, nella Moc, la mineralometria osseo computerizzata e nella Tac, la tomografia assiale computerizzata, ambedue a raggi X. E' quindi una macchina più duttile, installabile in qualsiasi centro di diagnosi perché non necessita di autorizzazioni particolari. La prima macchina a ultrasuoni, denominata Signet, è stata realizzata in America nel 1989, ma misurava soltanto la struttura ossea del calcagno. La macchina italiana invece è in grado di fare rilievi anche alla rotula, al ginocchio e al polso. Le rilevazioni in questi tre punti del corpo danno lo stato pressoché esatto della qualità e della quantità dell' osso di tutto lo scheletro. In pratica, sottoponendosi all' esame in modo sistematico oltre i 50 anni, si può tracciare una banca dati personalizzata dello stato di salute di tutto lo scheletro. «L' osteoporosi è una malattia che non dà segni evidenti prima del suo manifestarsi ed è bene individuarla tempestivamente dice Sergio Ortolani del Centro di metabolismo minerale e osseo dell' Ospedale Maggiore di Milano , purtroppo le donne, soprattutto quelle di razza bianca, sono le più soggette alle fratture. Una donna su quattro che supera la menopausa ha nel suo futuro almeno una frattura da osteoporosi, malattia causata dalla carenza di estrogeni». La zona ossea da esaminare viene introdotta tra i rebbi del calibro. Il sistema emette treni di ultrasuoni da entrambe le estremità del calibro e registra l' arrivo all' estremità opposta. Gli ultrasuoni attraversano la struttura ossea e i tessuti molli misurandone le quantità e l' elasticità. In quattro minuti vengono fatte 5 serie di 50 misurazioni per singolo segmento osseo. Il sistema è corredato di un software di facile utilizzo che consente l' archiviazione dei dati, che possono essere richiamati e aggiornati nelle visite successive. Pia Bassi


UCCELLI DEL PARADISO La dieta della fedeltà Il cibo fa monogamo il maschio
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 103

TRA gli splendidi uccelli del paradiso che volteggiano nelle foreste tropicali della Nuova Guinea il rapporto di coppia è strettamente legato alla dieta. Il loro slogan potrebbe essere: «Dimmi cosa mangi e ti dirò che sposo sei». E' riuscito a dimostrarlo dopo una lunga ricerca l' ornitologo Bruce M. Beehler della Smithsonian Institution. Solamente da pochi decenni abbiamo incominciato a studiare nel loro habitat questi uccelli straordinari che per centinaia di anni erano noti in Europa esclusivamente come animali da spennare per crearne acconciature «en tete» o guarnizioni per i cappelli femminili. I papua, poi, li hanno usati da sempre non soltanto per adornarsene, ma anche come valuta pregiata, pagando in uccelli del paradiso merci e... mogli. Sul conto di questi esotici uccelli correvano le voci più strane. Poiché i primi esemplari impagliati che giunsero in Occidente erano senza zampe, nacque la leggenda che si trattasse di creature magiche in volo perenne nel cielo, che non avevano bisogno di piedi perché non si posavano mai a terra. Tanto è vero che a una delle specie è rimasto il nome di Paradisea apoda (cioè senza piedi). Si diceva anche che si pascessero di rugiada e che la femmina deponesse l' uovo sul dorso del maschio, che lo covava in volo. Voci e leggende si rivelarono parto della fantasia quando nel l862 il naturalista inglese Alfred Russel Wallace portò una coppia di paradiseidi vivi allo zoo di Londra. Intanto la moda aveva scoperto che le penne degli uccelli del paradiso piacevano moltissimo alle donne europee. Erano considerate il massimo dell' eleganza, specialmente nella Belle Epoque. E fu allora che il massacro raggiunse il culmine. Nel 1913 vennero importate nella sola capitale britannica le spoglie di trentamila esemplari. Finalmente nel 1924 il governo neozelandese si decise a vietare la caccia dei paradiseidi. Ma le popolazioni locali non hanno mai rispettato il decreto e continuano a usare le penne come ornamento. Le splendide piume fluttuanti della coda e i colori sgargianti sono una prerogativa dei maschi. Le femmine hanno una livrea molto più scialba e modesta. Non avrebbero nessuna convenienza a farsi notare dai predatori mentre sono intente a covare le uova, un compito che spetta esclusivamente a loro. I maschi sono troppo occupati a fare i bellimbusti per conquistare le grazie femminili. Gli uccelli del paradiso non hanno bisogno di misurarsi con i rivali in aspri combattimenti per stabilire la scala gerarchica. Basta che facciano a gara a chi fa sfoggio di piume più sontuose. Le loro trine di piume evanescenti adempiono alla stessa funzione di altri caratteri sessuali secondari, come ad esempio le corna dei cervi, proprie dei soli maschi. Si limitano dunque a fare un fantastico show davanti alle donzelle. La loro è una vera e propria gara di bellezza. Ciascuna delle 42 specie che si conoscono si comporta in modo diverso. Per mettere meglio in risalto la sua avvenenza, il maschio della Paradisea dell' Arciduca Rodolfo (Paradisea rudolphi) sposta il corpo all' indietro, poi piega il capo in avanti e in basso, finché sembra quasi capovolto. A questo punto dispiega in tutto il suo fulgore lo sfarzoso ventaglio di penne azzurro cangiante, rosa, bruno e verde della coda, mentre un fremito lo percorre dalla testa ai piedi. La Paradisea apoda raggiana invece preferisce fare uno spettacolo d' insieme. Sette o otto maschi si radunano su un albero e si abbandonano a una danza collettiva. E' tutto uno svolazzare di scintillanti pennacchi arancione che ondeggiano in qua e in là. Ciascuno cerca di superare in bravura il vicino. Ma è la femmina a decidere. Valuta qualità e prestanza fisica dei soggetti e alla fine, dopo un' accurata selezione, si accovaccia accanto a quello che le sembra il migliore. A lui concederà i suoi favori. Di solito questo privilegio spetta ai maschi dominanti che si trovano al centro del gruppo. Gli altri sono votati al celibato. E può anche darsi che un solo maschio stravinca e si aggiudichi lui il totale degli accoppiamenti con le varie femmine. Una volta che è stata fecondata, la femmina si allontana. Compiti impegnativi la attendono. Deve costruire il nido, deve deporvi le uova, deve covarle lei sola e poi allevare i figli. Sul maschio narcisista sa di non poter fare nessun affidamento. I paradiseidi sono tendenzialmente poligami o, come meglio si dice, poligini. Non sempre, però. Ci sono anche le eccezioni, i maschi che fanno coppia fissa con la stessa femmina. Sono cioè monogami. Ed è proprio questa differenza di comportamento che ha incuriosito il ricercatore americano. Una specie monogama, ad esempio, è la Manucoodia keraudreni. Ebbene, come osserva Beehler, questo uccello del Paradiso ha una dieta specializzata. Mangia soltanto fichi selvatici, che sono particolarmente ricchi di zucchero. Ma procurarseli non è facile. Deve percorrere vaste aree di foresta per trovare i frutti di cui è ghiotto. Ed è talmente indaffarato nella ricerca del cibo che gli rimane ben poco tempo per fare la corte alle femmine. Ragion per cui quando ha la fortuna d' incontrarne una, ha tutta la convenienza di non mollarla più. La feconda e poi l' aiuta ad allevare i figli. In altre parole con lei rimane per tutta la vita. Altre specie, come la Paradisea raggiana hanno una dieta assai più varia. Per loro procurarsi da mangiare non è un problema. Sono di gusti facili. Mangiano indifferentemente frutti teneri o duri e insetti di tutti i tipi. Naturalmente hanno più tempo libero e lo possono dedicare al corteggiamento. Insomma amano la varietà anche nell' amore. Perché limitarsi a una sola femmina, quando ce ne sono tante nella foresta? Nasce così la poliginia. Monogamia o poliginia dipendono dunque dai gusti alimentari, almeno negli uccelli del paradiso. Isabella L. Coifmann


ORNITOLOGIA Sulla rotta dei migratori Una spedizione italiana in Kenya
Autore: BORGHESIO LUCA, BIDDAU LUCA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 103

OGNI anno cinque miliardi di uccelli intraprendono un viaggio di migliaia di chilometri che li porta dalla tundra alle savane africane. Sembra incredibile che una cicogna possa volare, due volte all' anno, dall' Europa fino al Sud Africa. Ancora più stupefacente è che lo stesso tragitto possa essere coperto da uccelli come i luì (Phylloscopus spp. ), che pesano appena nove grammi. Gli uccelli migrano per sfruttare al massimo le risorse ambientali. I migratori si riproducono in estate nei paesi settentrionali, quando sono disponibili abbondanti risorse alimentari. Nei mesi successivi sfuggono la carestia invernale e raggiungono i tropici e l' emisfero australe. E' una strategia vantaggiosa, adottata da almeno 250 specie di uccelli del Vecchio Mondo, ma ha i suoi rischi. L' enorme dispendio di energie per il volo miete vittime. Poi ci sono predatori e soprattutto l' uomo: con la caccia, con la distruzione degli ambienti, con l' inquinamento. Oggi dunque più che mai è necessaria la ricerca scientifica. Bisogna conoscere dove vanno gli uccelli, quali rotte seguono nella migrazione. Bisogna sapere quanti sono, anno dopo anno, scoprire come vivono e quali sono gli habitat da cui dipendono. Soprattutto è necessario individuare le aree dove si concentrano le più grandi popolazioni e che quindi è più importante salvaguardare. Una di queste aree è certamente il lago Turkana: una enorme distesa di acqua salmastra che si trova in un ambiente desertico del Kenya settentrionale. La spedizione ornitologica italiana 1992, organizzata in collaborazione tra il dipartimento di biologia animale dell' Università di Pavia, l' Istituto nazionale per la fauna selvatica e i National Museums of Kenya, ha cercato di chiarire alcuni dei misteri ornitologici di questo lago, una delle ultime frontiere inesplorate. Centinaia di chilometri percorsi a piedi sotto un sole cocente hanno permesso di osservare e contare decine di migliaia di uccelli acquatici. In particolare sono stati studiati i trampolieri, più precisamente definiti «limicoli» perché sono adattati a procurarsi il cibo (piccoli invertebrati) nel fango delle rive. Tra questi il gambecchio (Calidris minuta) rappresenta numericamente oltre metà del totale. E' da notare che i gambecchi nidificano nelle coste russe del Nord e sono assenti nell' Europa occidentale. Ciò fa supporre che la corrente migratoria che si conclude nei laghi dell' Africa Orientale abbia origine in regioni orientali e scenda verso Sud volando sullo Stretto del Bosfofo e il Nilo. Si può quindi affermare che difficilmente gli uccelli acquatici italiani visitano il Turkana. Interessante è stata la scoperta, in un bacino di acque interne, di specie tipiche delle coste marine, come il Voltapietre (Arenaria interpres) e la Pivierossa (Pluvialis squatarola), forse ingannate da questa enorme distesa di acque verdi, perennemente agitate da grandi onde. Nei pochi giorni in cui il vento ha concesso una tregua è stato possibile inanellare, ossia cattuarare uccelli per porre su una delle loro zampe un piccolo anello numerato in metallo. Questa tecnica, innocua per gli animali, permette di ricostruire i loro movimenti, qualora vengano nuovamentecatturati. Ogni anno nel mondo scienziati di tutti i Paesi inanellano decine di migliaia di uccelli. Solamente pochi vengono ricatturati, meno dell' uno per cento. Tuttavia anni di lavoro hanno chiarito dove passino le cosiddette «rotte migratorie». L' inanellamento di uccelli acquatici è un' attività affascinante. Si lavora al crepuscolo: lunghe reti tessute con sottilissimi fili neri vengono sospese al di sopra del suolo per mezzo di alti pali nelle baie tranquille dove gli uccelli si radunano la sera. Gli stormi vengono attirati da richiami o spinti nelle reti da un gruppo di battitori. Un alito di vento può mandare in fumo ore di lavoro perché il movimento che esso imprime alle reti le rende visibili, permettendo agli animali di evitarle. Se si è fortunati, in pochi minuti una rete può riempirsi di decine di «prede». Si annotano allora in una «carta d' identità », tutti i dati biologici utili e l' animale viene liberato. Osservazioni più accurate sono state eseguite sulle specie meglio rappresentate: oltre al già citato gambecchio, i corrieri (Charadrius spp. ), l' avocetta (Recurvirostra avosetta), la pittima reale (Limosa limosa), il combattente (Philomachus pugnax), il piovanello (Calidris ferruginea). Queste osservazioni hanno mostrato in che modo gli uccelli sfruttino le risorse ambientali. Ognuno ha una sua piccola «nicchia» da cui ricava il massimo. Alcuni cercano il cibo al largo nuotando o tuffandosi. Altri, grazie alle lunghe zampe, si nutrono nell' acqua bassa. Altri ancora a diverse distanze dalla riva, in un ambmiente via via più secco. Specie provviste di lunghi becchi cercano le loro piccole prede scandagliando il fango profondo. Altre becchettano in superficie. Il risultato è stupefacente. Ogni specie sfrutta una ben determinata fetta delle risorse e riesce in questo modo a limitare al massimo la competizione con le altre. I conteggi effettuati da terra e dall' aereo hanno permesso di stimare oltre duecentomila uccelli, per la maggior parte migratori, distribuiti lungo i settecento chilometri di coste del lago. Il lago Turkana è dunque uno dei più importanti siti di svernamento di tutta l' Africa, anche perché le popolazioni di almeno 12 sulle 93 specie di uccelli acquatici censite possono essere ritenute di importanza mondiale. Con un po' di fortuna, se qualcuno degli uccelli inanellati verrà in futuro ricatturato, capiremo con precisione da dove provengono, ossia dove si riproducono durante l' estate. Luca Borghesio Luca Biddau


EVOLUZIONE VEGETALE Il ciliegio dolce è l' antenato delle acidule amarene Lo prova uno studio genetico
Autore: MARCHESINI AUGUSTO, MALUSA ELIGIO

ARGOMENTI: BOTANICA, GENETICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 103

LO studio dei cloroplasti delle cellule vegetali (organelli contenenti clorofilla e capaci di trasformare l' energia luminosa in energia chimica) è particolarmente interessante per via di peculiari molecole di Dna a forma circolare. Il Dna cloroplastico possiede due sequenze di nucleotidi (pari a circa il 30 per cento del Dna totale) che sono identiche. E' stato dimostrato che questa sequenza ripetuta permette di mantenere quasi inalterati nel tempo i nucleotidi di tutta la molecola del Dna cloroplastico, così che i caratteri della specie possono conservarsi. Le ricerche sul confronto di geni tra piante di specie diverse hanno mostrato che ogni milione di anni può mutare solo il 15 per cento del numero totale di nucleotidi: ciò fa del Dna cloroplastico un ottimo materiale per lo studio della filogenesi nell' ambito dell' evoluzione e delle relazioni generiche che intercorrono tra le diverse specie vegetali. Tali studi sono utili ai botanici, per verificare la validità della classificazione delle varie specie e le loro relazioni di parentela, così da definire la genealogia in termini evolutivi. Inoltre utilizzando le informazioni ottenute si può individuare la strategia operativa ottimale valida per l' introduzione di nuovi geni miglioratori delle piante coltivate e quindi creare nuove varietà di piante agrarie. La purificazione del Dna cloroplastico dalle specie in esame è il primo passo per effettuare le ricerche. Si procede quindi al taglio selettivo con vari enzimi specifici che agiscono solo su una determinata sequenza costituita da quattro o sei nucleotici diversi. In questo modo è possibile confrontare i frammenti del Dna delle diverse specie, ed esaminando i risultati ottenuti si riesce a ricostruire l' albero genealogico e il grado di parentela esistente all' interno di un genere di piante. Ricerche su varie specie di ciliegi hanno permesso di confermare che il ciliegio dolce (a cui appartengono le varietà che producono i duroni) è il genitore materno del ciliegio acido (le amarene). Inoltre sono stati stabiliti i rapporti di parentela genetica con specie selvatiche che possiedono geni per la resistenza a parassiti e che quindi possono essere trasferiti con tecniche di ingegneria genetica. Lo stesso tipo di studi ha favorito l' ottenimento di nuove varietà di grano e orzo adatte in particolari aree di coltivazione. Inoltre la ricerca ha permesso di identificare le diverse specie vegetali selvatiche che hanno contribuito durante il processo evolutivo alla creazione delle specie coltivate tutt' oggi. Le tecniche di biologia molecolare consentono quindi miglioramenti genetici sempre più ambiziosi, recuperando geni presenti anche in vegetali appartenenti a famiglie botaniche diverse e che presentano caratteristiche favorevoli alla qualità e quantità dei frutti senza più ricorrere alla selezione naturale che si realizza solo con tempi lunghi e non è pienamente sfruttabile dall' uomo moderno. Augusto Marchesini Eligio Malusa


A BARCELLONA Il punto sull' origine della vita
Autore: P_B

ARGOMENTI: BIOLOGIA, CONGRESSO
NOMI: ORO' JOHN, OPARIN ALEXANDER, DRAKE FRANK
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 103

SI terrà a Barcellona dal 4 al 9 luglio il decimo Congresso internazionale sull' origine della vita, «Issol ' 93», sotto la presidenza del biologo catalano John Orò, trasferitosi dal 1954 negli Stati Uniti, dove ha lavorato per la Nasa e insegna all' Università di Houston. La tradizione dei congressi internazionali sull' origine della vita risale al 1957, quando a Mosca per la prima volta si riunirono i maggiori studiosi del mondo interessati a questo tema. «Issol», International Society for Study of the Origin of Life, è una società scientifica fondata nel 1972 alla quale aderiscono studiosi delle discipline più diverse disposti a collaborare per chiarire uno dei più complessi e importanti problemi scientifici: la transizione dalla materia inanimata agli organismi viventi. Gli aderenti a Issol sono 360, appartenenti a 25 Paesi. Il primo presidente è stato il russo Alexander I. Oparin, celebre pioniere delle ricerche sugli organismi primordiali, apparsi sulla Terra tre miliardi e mezzo di anni fa. Gli sono poi succeduti Egami, Cyril Ponnamperuma, Stanley Miller e John Orò. La memoria di Oparin è tramandata da una «medaglia» a lui intitolata e assegnata ai ricercatori che più si distinguono nelle ricerche sull' origine della vita. Quest' anno un secondo riconoscimento verrà intitolato ad Harold Urey, per ricordarne il centenario della nascita. La conferenza di apertura del 4 luglio sarà tenuta dal biochimico tedesco Albert Eschenmoser e riguarderà una revisione delle teorie sulla sintesi prebiotica. La conferenza di chiusura toccherà invece a Frank Drake, presidente del Seti Institute (l' organismo che coordina le ricerche di civiltà extraterrestri), attualmente impegnato in un programma della Nasa per individuare segnali intelligenti eventualmente provenienti da qualcuna delle mille stelle più vicine al Sole. Tra le relazioni più attese ricordiamo quella del Nobel per la medicina Christian de Duve, di Manfred Eigen (premio Nobel per la chimica), di Stanley Miller (autore nel 1953, ancora da studente, del primo esperimento per sintetizzare molecole biologiche in provetta), Lynn Margulis, famosa per la sua teoria sull' origine simbiotica dei primi organismi viventi. (p. b. )


ALIMENTAZIONE Tavola d' atleta La dieta mediterranea si è dimostrata la più efficace nel sostenere gli sportivi in allenamento e in gara
Autore: SCORRANO OSVALDO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, SPORT
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 104

COME deve nutrirsi l' atleta? Quali criteri nutrizionali deve seguire lo sportivo e in generale chi vuole mantenere una perfetta forma fisica? A questi interrogativi rispondono alcuni quotati atleti d' oggi nel video «A tavola d' atleta», un testimonial promosso dal ministero dell' Agricoltura e realizzato con il supporto dell' Istituto della Scienza dello Sport e la collaborazione della Scuola dello Sport del Coni, in diffusione presso tutti i centri sportivi e scuole di giovani atleti. Tra le testimonianze degli atleti e le indicazioni scientifiche per un corretto regime alimentare prende forma un vero e proprio menù identificabile nella ben nota dieta mediterranea. Dati alla mano, si scopre che la pasta è tra gli alimenti più indicati per gli sportivi, tanto da esserne suggerito il consumo più volte al giorno, anche prima di una gara, soppiantando così l' errata credenza (accettata fino a poco tempo fa) basata su un' alimentazione ricca di carne prima dell' allenamento o della gara. Accanto alla pasta e ai cibi ricchi di carboidrati (che dovrebbero costituire il 55 60 per cento dell' alimentazione giornaliera dello sportivo), trovano posto i grassi (in misura del 30 per cento) e le proteine (10 15 per cento), privilegiando il consumo delle carni bianche, più leggere e digeribili, su quelle rosse: è bene rinunciare a una bistecca al sangue in favore di un petto di pollo o di una coscia di tacchino. E poi, per restare nella norma, bisogna consumare con parsimonia formaggi e insaccati, mentre si può consumare in grande quantità frutta e verdure, ricche di vitamine e sali minerali. Indispensabile alla tavola dell' atleta, secondo recenti studi, è l' assunzione di zuccheri: quelli complessi di gran lunga preferibili agli zuccheri semplici. Il motivo è che gli zuccheri semplici hanno un assorbimento troppo rapido da parte dell ' organismo, il che stimola la produzione dell' insulina, la quale a sua volta provoca una caduta degli zuccheri. Gli zuccheri complessi hanno, al contrario, una maggiore durata. Infine, un aspetto di fondamentale importanza nell' ambito dell' alimentazione di uno sportivo è quello del recupero, nel corso del quale è necessario reintegrare sostanze non energetiche, come sali minerali, vitamine e acqua per evitare i crampi dovuti alla mancanza dei primi. Il decalogo della perfetta forma fisica è tutto qui: una sana alimentazione unita ad un' adeguata e regolare attività sportiva è ciò che serve ai campioni di domani per partire col piede giusto Osvaldo Scorrano


CURE SPERIMENTALI Contro la sclerosi laterale due proteine parenti dell' Ngf scoperto dalla Montalcini
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: LEVI MONTALCINI RITA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 104

TRE piccole industrie biotecnologiche americane (Cephalon, Regeneron e Synergen) sono pronte a lanciare la sfida a una delle malattie più gravi del sistema nervoso, la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una malattia a carattere degenerativo dei neuroni motori del sistema nervoso centrale che colpisce 30 mila americani, un numero troppo limitato per interessare la grande industria farmaceutica. Si spiega così l' interesse delle industrie minori, più giovani e perciò anche più aggressive. Regeneron e Synergen sono in gara per ottenere l' approvazione di un fattore di accrescimento derivato originalmente dall' iride del pollo, che dirige l' accrescimento delle cellule nervose del ganglio ciliare e per questi si chiama Cntf. Le cellule del ganglio ciliare e quelle dei centri motori del midollo spinale dipendono entrambe per la loro sopravvivenza da questo medesimo fattore. Nei pazienti affetti da Sla si assiste, nel corso di pochi anni, a una decimazione di queste cellule, chiamate motoneuroni. Ciò porta a una inarrestabile paralisi della muscolatura a tutti i livelli. Finora non esiste terapia. La Cephalon propone invece per la stessa malattia una fattore diverso chiamato fattore di accrescimento insulino simile o Igf 1 che, come il Cntf, ha mostrato notevoli capacità di stimolare la rigenerazione dei prolungamenti delle cellule nervose nei test sugli animali. Sia il Cntf che l' Igf 1 sono piccole proteine che appartengono alla stessa famiglia del fattore di crescita nervoso scoperto da Rita Levi Montalcini (Ngf). La differenza sta nella loro struttura chimica e nella provenienza da parti diverse del sistema nervoso. Dei tre fattori, solo l' Ngf è stato sperimentato in terapia nel trattamento della malattia di Alzheimer o demenza senile che affligge oltre un milione di italiani. Il primo paziente trattato in questo modo è stata una donna anziana malata di Alzheimer e ricoverata nella clinica del Karolinska di Stoccolma. L' ipotesi alla base di queste terapie sperimentali è che, man mano che procede la distruzione delle cellule nervose, si mobilizzino simultaneamente meccanismi di autodifesa e riparazione. Tra le sostanze di difesa ci sono appunto i vari fattori di crescita, che potrebbero aiutare a riparare in modo lento ma efficace i danni prodotti. Un secondo effetto di questi fattori sarebbe quello di proteggere, ciò prevenire o minimizzare ogni ulteriore danno una volta che la malattia è avviata. La terapia a base di fattori proteici presenta notevoli problemi tecnici, in particolare quello di riuscire a far penetrare nel cervello molecole così grosse. Nel caso della Sla si spera che il fattore possa esser captato direttamente dai nervi periferici. Mentre si seguono con estremo interesse questi primi interventi di «terapia fattoriale», un altro gruppo di ricerca della Synergen in Colorado ha appena aggiunto un nuovo elemento alla serie già numerosa di fattori trofici. Si tratta di una proteina chiamata fattore neurotrofico gliale (Gdnf) secreta in cultura dalle cellule gliali che sono interposte tra le vere cellule nervose nel sistema nervoso centrale. Il Gdnf pare avere una singolare caratteristica che lo rende estremamente interessante: mantiene in vita le cellule nervose che fabbricano e secernono un neurotrasmettitore, la dopamina. Nel cervello dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson si ha una grave deficienza nella produzione di dopamina dovuta alla distruzione progressiva (fino all' 80 per cento) delle cellule cosidette dopaminergiche. Tale difetto è direttamente responsabile del tremore, della rigidità e degli altri sintomi caratteristici del Parkinson. La scoperta aprirebbe per la prima volta la possibilità di tentare una nuova terapia basata sull' effetto protettore del Gdnf. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


ANZIANI & EFFICIENZA FISICA Un metro per l' invalido L' Italia adotta la Scala Granger
Autore: MENICUCCI MAURIZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, ANZIANI, TERZA ETA', DEMOGRAFIA E STATISTICA
NOMI: GRANGER CARL
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 104

IN Italia gli anziani sono otto milioni, di cui mezzo milione non autosufficienti. Ad essi si aggiungono, in numero certo alto, tutti quelli colpiti da una disabilità temporanea a causa di traumi o malattie. In tutti i casi, gli effetti sono gli stessi: invalidità costi sanitari, sociali, produttivi, proprio nel momento in cui lo Stato assistenziale vacilla. Per affrontare questi problemi sembrano necessari nuovi modelli sanitari, che pongano al medico l' obiettivo della vita non solo come numero di candeline sulla torta, ma anche come capacità di spegnerle soffiandoci sopra da soli: in altre parole, qualità e non solo quantità di vita. L' Italia ha appena aderito a un programma americano, la Scala di Granger, che rappresenta una vera novità nel campo delle terapie per il recupero funzionale. Prima di spiegare che cos' è, è necessaria una breve premessa. Per tradizione, il compito del medico termina quando il malato non è più in pericolo di vita. Sconfitta la fase acuta della patologia, si entra nella riabilitazione, che, nella logica corrente, è intesa soprattutto come un fatto sociale, anche se a occuparsene sono ancora i medici. Ma Carl Granger, docente di medicina riabilitativa dell' Università statale di New York, Buffalo, sostiene il contrario: «La malattia va oltre la sua causa e perciò le sue conseguenze vanno calcolate in modo scientifico, cioè misurate su una base di confronto sicura». Secondo Granger, le indicazioni più attendibili si ottengono osservando il paziente alle prese con le situazioni tipiche e ricorrenti della sua vita. Questo modo di procedere consente di programmare un recupero più efficace, perché non insegue criteri piuttosto sfuggenti, come la normalità o la salute, ma punta al reinserimento della persona nel suo ambiente particolare. Inoltre il metodo sembra offrire un criterio di previsione meno soggettivo, quindi meno «contrattabile» dalle parti, sull' autonomia residua dell' individuo, le limitazioni finali e temporanee alla sua attività, i tempi e i costi del recupero. Ecco perché il lavoro di Granger e dei suoi assistenti ha subito attirato l' attenzione degli enti, privati e pubblici, che si occupano di infortunistica e previdenza sociale. Granger ha realizzato, negli Anni 80, un questionario per misurare il grado di invalidità psicofisica del paziente. La sua Fim, Scala di Misura dell' Indipendenza Funzionale, aggiornata ogni anno in base ai suggerimenti che arrivano all' osservatorio di Buffalo dai centri associati di ogni parte dell' America, semplifica quello che fino a pochi anni fa era il campo dell' incertezza. Le domande dei test sono quasi tutte rivolte a valutare il livello di autonomia, quella domestica in particolare, e quindi il grado di assistenza necessaria al paziente in un mondo che non è fatto per gli eroi e non richiede prestazioni fisiche eccezionali. Granger sostiene, ad esempio, che è preferibile essere ciechi che sordi, perché i segnali nell' ambiente umano sono più uditivi che ottici. Un cieco in casa sua corre meno rischi di un sordo, perché il telefono, il campanello della porta d' ingresso, la caffettiera che borbotta e la pentola che fischia sono tutti avvisi acustici, preclusi a un non udente. A riprova i sostenitori della Scala Granger aggiungono che non è raro sentir dire che uno conosce così bene i particolari della casa da «potersi muovere a occhi chiusi». Naturalmente si può ribattere che al sordo il problema di trovare la strada di corsa in casa sua non si pone nemmeno, ma ciò non toglie che le critiche di Granger ai luoghi comuni sulla disabilità siano valide. Così un invalido che manovri perfettamente la sua carrozzina e un velocista sono, dal suo punto di vista, a pari punti, anche se si concede che quella dell' invalido sarà un' autosufficienza assistita. La Scala Fim riflette questi criteri un po' originali: ad esempio, distingue nettamente il parametro del «camminare» da quello del semplice «spostarsi in casa», che considera il traguardo primario della riabilitazione. Allo stesso modo, considera più importante la capacità di stare con gli altri che quella di comunicare: infatti è più affidabile un soggetto con un forte deficit mentale, ma di umore costante e prevedibile, che un genio soggetto a raptus di follia. La piccola rivoluzione di Granger ha trovato resistenze nell' ambiente medico più legato alla tradizione, ma raccoglie grande interesse da parte di settori, come le assicurazioni e il mercato del lavoro, per i quali la valutazione standard della malattia resta un problema irrisolto. Per questo si prevede che non tarderà a essere adottata da tutto il mondo industrializzato sull' esempio di Stati Uniti, Giappone, Portogallo, Francia, Germania. L' Italia lo ha fatto qualche mese fa con un convegno all' ospedale San Raffaele di Segrate, a cui è intervenuto anche Granger. Sono stati appunto gli specialisti del reparto di medicina riabilitativa dell' ospedale milanese, guidati da Luigi Tesio, a preparare la versione italiana della Scala Fim. Maurizio Menicucci


TEST NEGLI USA Una nuova molecola per il morbo di Parkinson Sulle scimmie funziona
Autore: VISOCCHI MASSIMILIANO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 104

IL decorso naturale della malattia (o morbo) di Parkinson «paralisis agitans» se vogliamo dirlo alla latina appare piuttosto capricciosa. Infatti, mentre in alcuni casi sembra caratterizzata da un' evoluzione rapida e invalidante, in altri presenta un decorso relativamente favorevole, con una relativa conservazione dell' autonomia da parte del paziente. Com' è noto ormai anche al grande pubblico, la malattia si caratterizza clinicamente con una lenta diminuzione della componente volontaria del movimento (acinesia), la comparsa di disturbi del tono muscolare (ipertonia) e il caratteristico tremore. La durata appare più breve nelle forme in cui prevale la rigidità e l' acinesia, comunque superiore, complicanze a parte, a 10 12 anni. Responsabili della morte del paziente sono le infezioni broncopolmonari, delle vie urinarie e le piaghe da decubito. La storia del trattamento farmacologico della malattia si fonda sulla conoscenza della sua origine degenerativa a carico soprattutto del «sistema nigrostriatale» che impiega come neuromediatore la Dopamina. Di qui, la terapia cronica sostitutiva a base di L Dopa, precursore della Dopamina. Recentemente un gruppo di studio dell' Università di Philadelphia ha sperimentato l' effetto terapeutico di un farmaco già noto nella farmacopea internazionale per gli effetti neuroprotettivi e neurotrofici sperimentati con successo nel trauma cerebro midollare o anche nell ' ischemia cerebrale: il Gm1 o monosialganglioside. Questa molecola viene captata dal cervello, entra nelle cellule neuronali, s' incorpora nelle membrane cellulari e nelle strutture intracellulari potenziando la risposta alle lesioni. Per la sindrome parkinsoniana è stata indotta sperimentalmente in un gruppo di scimmie, a metà delle quali è stata fatta un' iniezione giornaliera di Gm1, mentre gli altri ricevevano una soluzione fisiologica farmacologicamente inattiva. Queste ultime sono rimaste gravemente parkinsoniane, mentre il gruppo trattato con Gm1 è ritornato relativamente normale dopo 5 6 settimane. Questi risultati, sebbene preliminari, suggeriscono una nuova strategia potenziale per il trattamento della malattia di Parkinson. Inoltre costituiscono il presupposto di una nuova logica terapeutica: la cura della causa e non solo del sintomo della malattia. Nelle fasi precoci, infatti, la somministrazione del Gm1 o comunque di farmaci neurotrofici ad azione selettiva sul sistema nigrostriatale, o stimolanti la reinnervazione da parte di nuove fibre, può rallentare o bloccare il processo degenerativo di questa malattia. Massimiliano Visocchi Università Cattolica, Roma




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