TUTTOSCIENZE 17 marzo 93


FACCE DA ITALIANI Ricerca su 100 mila volti: individuati tre gruppi principali Il tipo Loren batte il tipo Lollo
Autore: AMANDOLA GIAN PIERO

ARGOMENTI: DEMOGRAFIA E STATISTICA, GENETICA, ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: GOTTE PAOLO
ORGANIZZAZIONI: ASSILS, OMS
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 041. Tratti somatici degli italiani, razza, etnia, origini

UNA mini storia del volto italiano. Un dotto sguardo fra etnologia, genetica e storiografia sociopolitica dei nostri zigomi, nasi, mandibole. Anzi tre storie di volti dividendo l' Italia ovviamente senza voler dare argomenti a letture «razziali» della società in tre macroregioni etniche: Nord, Centro e Sud. Tutto questo ce lo consente una ricerca curiosamente finanziata dall' Assils (Associazione lavoratori Sip) ma fatta propria dall' Organizzazione Mondiale della Sanità: oltre 100 mila casi studiati per scoprire caratteristiche e anomalie del volto italiano. Nell' interpretare i risultati di questo studio ci fa da guida Paolo Gotte, direttore della Clinica universitaria odontoiatrica di Verona. Riguardo alle facce degli italiani di oggi la ricerca rivela che dividendo il volto in tre fasce orizzontali: approssimativamente fronte, zigomi, mandibola il 35 per cento dei nostri connazionali ha un rapporto anomalo fra «il terzo medio e il terzo inferiore della faccia» (cioè fra lo zigomo mascellare superiore e la mandibola); fra questi un otto per cento ha addirittura malformazioni facciali. Le zone dove più si sviluppano le malformazioni sono quelle delle popolazioni più stanziali, nelle campagne, dove una minore mobilità della popolazione tende a rafforzare i caratteri fisiognomici dominanti con maggiori possibilità di arrivare all' eccesso, alla malformazione. Ad esempio i dati fisiognomici sulle campagne attorno a Venezia mostrano come si sia conservato il progeneismo (l' eccesso di lunghezza della mandibola, frequente nella mitteleuropa) trasmesso ai locali dai soldati austriaci dei presidi militari dell' impero. «Ma un po' in tutto il Nord dice Gotte , soprattutto quello lombardo veneto dagli Unni agli austriaci arriva una impronta mitteleuropea, per cui ecco lo zigomo sporgente, occhi piuttosto infossati, ovalità del viso, mandibola lunga ma arrotondata, non squadrata come quella di Ridge, il protagonista di Beautiful, per intenderci. E quindi protrusione del mento, cioè mento spostato in avanti rispetto ai profili normolinei indicati dallo studioso austriaco Schwarz. La fascia della fronte, del naso e del mento hanno la stessa altezza in questo uomo italomitteleuropeo. Per intenderci, un mitteleuro peo doc è Papa Wojtyla. Il Piemonte, oltre al tipo mitteleuro peo, presenta non pochi segnali di presenze galliche e celtiche». Nel Centro Italia la situazione è molto composita, perché se da una parte c' è il profilo retruso (cioè con il mento arretrato rispetto al labbro superiore) del «civis romanus», ci sono anche, soprattutto nell' Alta Toscana fino alla Liguria, i profili protrusi degli etruschi. La zona centrale della Penisola è quella con maggiori commistioni fisiognomiche perché meno caratterizzata da popolazioni stanziali e da dominazioni costanti. I casi esaminati nel Sud mostrano che i meridionali italiani sono distinti principalmente in 3 ceppi e cioè da una parte gli eredi della Magna Grecia dal profilo retruso immortalato nelle statue della classicità; dall' altra, in pieno contrasto, si presenta la biprotrusione, cioè labbra e mento spostati in avanti di chi mantiene i caratteri lasciati dalle dominazioni arabe o di chi denuncia le sue origini nordafricane. Questo secondo gruppo di tipologie potremmo definirlo «negroide» ed è caratterizzato dal protendersi in avanti dei denti di entrambe le arcate. Terzo carattere è ancora quello mitteleuropeo dei discendenti degli svevo angioini, sparsi soprattutto in Puglia e Campania e in alcune zone della Sicilia. Protruso, retruso, il mento troppo avanti o troppo indietro, ma rispetto a che? Cioè come si fa a stabilire per il volto umano una norma aurea che ci permetta di dire questo è un volto «regolare» e questo no? Una risposta prova a darcela ancora il professor Gotte: «La storia del volto è intessuta della filosofia della bellezza, dei codici, delle norme che l' uomo ha cercato di trovare per risolvere il mistero dell' armonia delle forme. Potrei ricordare la più metodica, antica e rispettata ricerca delle proporzioni, dei «numeri» della bellezza, quella del matematico medioevale Fibonacci. Questi aveva trovato un rapporto, la «sectio aurea», che garantiva l' armonia delle proporzioni, la bellezza insomma, e che si ripeteva tanto negli uomini belli, quanto nelle armoniose farfalle, nelle pietre preziose, nei petali di rosa, ma anche nei crostacei, nella bellezza di tutto il creato». Leonardo utilizzò la «sectio aurea» nei suoi studi sul corpo umano. Il rapporto di Fibonacci è 1 a 1, 618. Ad esempio, fatta 1 l' altezza del volto dagli occhi in su, la parte del volto sotto gli occhi dovrebbe essere pari a 1, 618. Misuratevi esiste un compasso apposito, quello di Goeringer, per farlo. Ma se qualcuno per diventare bello come Fibonacci comanda fosse disposto ad andare sotto un bisturi, rimarrebbe parzialmente deluso perché, dice Gotte, «anche i sacri principi della bellezza, come molti altri sacri principi, hanno avuto un certo ridimensionamento» «Costumi e modi storico geografici, mode e vezzi dell' effimero rendono tutto molto elastico. I lineamenti made in Italy in questo momento vanno molto. Se le proporzioni del volto ideale non possono dimenticare Fibonacci, i modelli di bellezza televisiva o cinematografica degli ultimi anni hanno un profilo proteso, avanzato, hanno quella certa protrusione che è il carattere dominante nel nostro Paese. Sembra tramontato il modello anglosassone dalla mascella corta e il volto piatto alla Bette Davis o alla Gina Lollobrigida; l' irruento ingresso sulla scena di una Loren e di una Silvana Mangano ha dato inizio a un gusto che ha creato bellezze come Julia Roberts o Dalila Di Lazzaro. E così noi quando operiamo, correggiamo le malformazioni ispirandoci soprattutto alla bellezza italiana». Gian Piero Amandola


FINE DI UN MITO Esistono i razzisti, non le razze La genetica molecolare ci fa tutti più uguali
Autore: PIAZZA ALBERTO

ARGOMENTI: GENETICA, INCHIESTA, DEMOGRAFIA E STATISTICA, RAZZISMO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 041

IN questi tempi in cui si usa parlare di società multietnica e in cui tornano purtroppo a manifestarsi atteggiamenti di discriminazione razziale, mi si chiede spesso se il concetto di razza abbia un fondamento biologico. La risposta non è scontata perché è difficile ricondurre il signicato di questo termine al suo valore storico quando, da una parte gli stessi studiosi di biologia lo hanno usato con intendimenti diversi e spesso ambigui, e dall' altra l' uso corrente si è caricato di riferimenti culturali di abbietta memoria. Un esempio significativo delle difficoltà che circondano l' uso del termine razza, è stato dato di recente quando, in Tuttoscienze, all' esposizione dei risultati di alcune nostre ricerche (peraltro riassunte in modo esemplare) è stato dato il titolo: «Le razze sono nate 10 mila anni fa». Dal momento che l ' articolo non fa menzione (correttamente) di classificazioni in razze delle popolazioni umane, al lettore viene più che naturale chiedersi se le razze umane esistano davvero. Ebbene: la suddivisione della nostra specie in razze è biologicamente infondata. Se esaminiamo due individui a caso, il loro corredo genetico (cioè l' insieme dei geni la cui informazione è archiviata e si trasmette per mezzo del Dna) sarà, con certezza quasi assoluta, diverso: nel mondo biologico la diversità costituisce la regola, l' uniformità l' evento eccezionale. La variabilità biologica interindividuale si può misurare seguendo diversi livelli di indagine. Con una distinzione approssimativa che corrisponde anche a una successione storica e a una difficoltà tecnica crescente, le misure si possono riferire a caratteri: 1) antropometrici (per esempio, dimensioni delle ossa e delle forme del corpo) e antroposcopici (per esempio, colore della pelle, forma dei capelli); 2) molecolari, nel senso di molecole biologiche la cui presenza è regolata da geni (per esempio, gruppi sanguigni, enzimi presenti nel sangue); 3) di DNA (sequenze parziali o totali di geni). Per semplicità, i caratteri esteriori sono stati i primi a essere studiati dagli antropologi. Il «diverso» viene classificato come tale in base a parametri che della biologia moderna manifestano l' ignoranza più che la conoscenza: la persona di pelle scura è, da un punto di vista genetico, sì diversa dalla persona di pelle chiara, ma i geni che controllano il colore della pelle costituiscono una proporzione irrisoria della totalità dei geni (circa 100. 000) che sono differenti in due persone con lo stesso colore della pelle. La persona di pelle scura viene «vista» diversa dalla persona di pelle chiara, solo perché il colore della pelle è un carattere visibile e in quanto tale viene culturalmente isolato rispetto ai caratteri la cui esistenza non è tangibilmente riconosciuta dai nostri sensi. In modo simile il colore degli occhi la forma e le dimensioni fisiche del nostro corpo, possono essere associati a differenze genetiche che hanno nella realtà un peso molto minore di quello che sembra. Il difetto di prospettiva era già stato chiaramente intuito da Darwin, quando notava (in The Descent of Man and Selection in relation to Sex) che la specie umana è unica e, citando una dozzina di autori a lui contemporanei in disaccordo sul numero delle razze (da 2 a 63) aggiungeva come «sia difficile identificare caratteri di chiara evidenza biologica che separino le razze». E concludeva: «Quando i principi dell' evoluzione saranno accettati da tutti... le discussioni tra chi sostiene l' esistenza di sottospecie o razze, morranno di una morte silenziosa cui nessuno farà caso». Questa ultima profezia si è avverata solo in tempi molto recenti, qiando è stato possibile esaminare i dati molecolari e delle sequenze di Dna (nel senso prima specificato). Statisticamente si è dimostrato che la variazione genetica all' interno dei vari raggruppamenti di solito definiti secondo criteri geografici o linguistici, è dello stesso ordine di grandezza di quella tra i raggruppamenti. Tale osservazione deriva dal fatto che in quasi tutte le popolazioni tutti i geni che si conoscono sono presenti, anche se con frequenze differenti, e che tutte le popolazioni o gruppi di popolazioni hanno rapporti di affinità diversa a seconda del gene che si considera. Ne consegue che nessun gene singolo è sufficiente a classificare le popolazioni umane in categorie sistematiche. La variabilità che esiste in tutte le popolazioni, anche in quelle di piccole dimensioni, si è accumulata in tempi molto lunghi, forse dall' origine stessa della nostra specie Homo, circa 700. 000 anni fa: altrimenti non ci spiegheremmo la presenza della maggior parte dei polimorfismi che conosciamo in quasi tutte le popolazioni. La differenziazione geografica degli uomini anatomicamente moderni (Homo sapiens sapiens) è recente, risalendo a circa 100 150. 000 anni fa (il 20 per cento del tempo di esistenza della specie). Perciò non vi è stato tempo sufficiente per una differenziazione all' interno di ciascun gruppo. Inoltre la nostra specie, come quella dei nostri antenati più vicini Homo erectus, ha sviluppato un' attività migratoria molto intensa in tutte le direzioni, con fenomeni di ibridazione tra popolazioni magari separate da lungo tempo. Le mescolanze diminuiscono le differenze genetiche, introducendo gradienti continui di variabilità che rendono ancora più difficile la definizione di «confini» genetici. Dal punto di vista scientifico, il concetto di razza è perciò privo di fondamenti. Si può obiettare che gli stereotipi razziali hanno una coerenza che permette anche ai profani di «classificare» le persone. Tuttavia, come già si è sottolineato gli stereotipi più diffusi (colore della pelle, colore e forma dei capelli, tratti del viso) riflettono differenze superficiali. Confrontando la storia genetica di molti geni e di molte popolazioni, siamo in grado di distinguere gruppi di popolazioni diverse e di ordinarle in una gerarchia tassonomica. Ma tali gruppi non possono identificarsi con le «razze», perché ciascun livello tassonomico separerebbe partizioni differenti, e non vi è alcuna ragione biologica per preferirne uno in particolare. Inoltre piccole variazioni nei geni o nei metodi di analisi impiegati possono spostare certe popolazioni da un gruppo all' altro. Voler realizzare una tassonomia delle popolazioni umane di cui ci si possa fidare è una causa persa. E' stato proprio questo tipo di analisi che ci ha permesso di documentare che le innovazioni tecnologiche e culturali dal Paleolitico a oggi hanno profondamente influenzato la struttura biologica dell' uomo moderno: se si considera che lo scimpanzè e l' uomo moderno condividono il 98 per cento dei geni, in quel 2 per cento di diversità si concentra una potenzialità evolutiva assolutamente straordinaria, i cui dettagli costituiscono il fascino del nostro tentativo di ricostruzione. Rimane da esaminare il motivo per cui lo stereotipo della razza sia così difficile da estirpare. Vi è una responsabilità della comunità scientifica ormai ampiamente documentata almeno per quel che riguarda le generazioni passate, ma vi è qualcosa di più profondo, forse una contraddizione non ancora risolta tra l' evoluzione biologica che premia la diversità e l' evoluzione sociale che invece premia l' omogeneità sociale, il non essere diversi dagli altri quale garanzia di conservazione della struttura sociale esistente, l' identificarsi in un gruppo di uguali per potersi meglio difendere da altri gruppi. Nel 1959 il filologo Gianfranco Contini individuò l' etimologia della parola razza nel francese antico haraz, «allevamento di cavalli, deposito di stalloni» di cui è rimasta anche in italiano l' espressione «cavallo di razza». Propongo di riportare il termine alla sua etimologia originaria: il razzismo esiste ma la razza non si può riferire alla nostra specie. Alberto Piazza Università di Torino


PROGETTO PER VENEZIA Rete di oleodotti sotto la laguna Per eliminare le petroliere
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TRASPORTI, INQUINAMENTO, MARE, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: CONSORZIO VENEZIA NUOVA
LUOGHI: ITALIA, VENEZIA
TABELLE: D. T. Oleodotti esistenti nella padania centro orientale, Italia
NOTE: 042

CHIUDERE la laguna veneta alle petroliere? Una soluzione che molti auspicano per preservare le straordinarie ricchezze naturali della laguna stessa ma che viene osteggiata con forza dai lavoratori portuali che temono centinaia di licenziamenti. Venezia, dietro l' immagine universalmente nota di città monumento, con il suo patrimonio di storia e di arte, ha una realtà industriale di notevole peso; il polo industriale di Marghera, incentrato in particolare sulla petrolchimica, è uno dei più importanti d' Italia. Comunque si voglia giudicare la decisione di installare a due passi dalla città un grosso nucleo di fabbriche e di raffinerien, oggi è un fatto con cui bisogna fare i conti. Il quesito, semmai, è: come consentire di far arrivare il greggio alle industrie eliminando il pericolo delle petroliere? Il petrolio e i suoi derivati potrebbero affluire al polo industriale di Marghera senza pericoli ambientali tramite una rete di oleodotti da porti alternativi, Trieste e Ravenna. E questo è appunto l' elemento innovativo del progetto affidato dal Comitato Interministeriale per Venezia, il cosiddetto «Comitatone», al Consorzio Venezia Nuova. Il progetto «Petroli» ha individuato nel traffico marittimo di prodotti petroliferi e chimici un gravissimo rischio per l' ambiente lagunare: ci sono già stati alcuni incidenti «di routine» su piccole unità, il cui effetto è stato per fortuna molto limitato; malgrado l' attenta sorveglianza che rende poco probabile il rischio di collisioni, può verificarsi la fuoriuscita di sostanze inquinanti ad esempio durante le operazioni di carico e scarico; inoltre molte navi sarebbero ormai troppo vecchie. Nel 1990 il porto di Venezia e quelli di Trieste, Monfalcone, Ravenna e Porto Levante hanno movimentato complessivamente 76 milioni di tonnellate di merci, di cui l' 87 per cento in sbarco, per oltre la metà costituita da greggio (31 milioni di tonnellate) e prodotti petroliferi vari (13 milioni di tonnellate). Sempre nel 1990, hanno toccato il porto di Venezia 1300 navi cisterna; la maggior parte delle navi cariche di prodotti petroliferi in arrivo variava tra le 10 e le 15 mila tonnellate, con qualche eccezione per petroliere superiori a 50 mila tonnellate. Per gli interventi alternativi l' investimento è di 650 miliardi di lire, di cui 187 per la prima fase, la più urgente: la deviazione del greggio verso Trieste e la costruzione del tratto di oleodotto mancante tra Trieste e Porto Marghera, attuabile in 3 anni. Nel solo porto di Venezia vengono movimentate ogni anno circa 7 milioni di tonnellate di greggio, benzine e gasoli, 2 milioni di tonnellate di virgin nafta e olio combustibile, 2 milioni di prodotti chimici liquidi. In fasi successive il progetto considera il trasferimento via oleodotto da Trieste a Marghera anche di benzine e gasoli; la movimentazione dell' olio combustibile per le centrali Enel della Pianura Padana da Ravenna, con invio a Porto Tolle attraverso l' oleodotto esistente; la movimentazione dell' olio combustibile per il mercato locale per ferrovia o con autobotti da porti alternativi il trasferimento della «virgin nafta» e di prodotti chimici liquidi a Ravenna e la realizzazione di collegamenti via oleodotto da Ravenna verso Porto Marghera e Mantova; il potenziamento della rete ferroviaria interna agli stabilimenti di Marghera e Ravenna; l ' integrazione della gestione di alcuni prodotti mediante scambi tra aziende del settore raffinazione e petrolchimico. Rimane aperto il problema dell' occupazione nelle aziende veneziane di servizi portuali: sarebbero almeno 200 i posti di lavoro compromessi e altrettanti sono in forse per interventi di ristrutturazione industriale. Rosalba Giorcelli


A COMO Un Forum diffonderà la scienza
Autore: P_B

ARGOMENTI: DIDATTICA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: CENTRO ALESSANDRO VOLTA
LUOGHI: ITALIA, COMO
NOTE: 042

LA trasmissione e la diffusione delle informazioni scientifiche acquista una importanza decisiva nella nostra società, che sempre più si fonda sui risultati della conoscenza di base e sulle applicazioni tecnologiche che ne derivano. Partendo da questa osservazione, il Centro «Alessandro Volta» che ha sede a Villa Olmo vicino a Como, ha fondato, e ufficialmente inaugurato mercoledì scorso, un «Forum permanente sulla comunicazione scientifica». La diffusione delle informazioni che riguardano la scienza avviene a livelli diversi. C' è una esigenza di comunicazione tra scienziati dello stesso settore, che può essere soddisatta tramite convegni e riviste specialistiche. C' è un problema di comunicazione tra scienziati operanti in discipline diverse, che per essere affrontato richiede già uno sforzo divulgativo, perché oggi la specializzazione è tale che non soltanto un biologo stenta a capire che cosa fa un fisico (e viceversa, naturalmente), ma addirittura un fisico delle particelle può avere difficoltà a comprendere che cosa fa un suo collega che lavora in un campo confinante, per esempio la fisica dello stato solido. Infine, c' è il problema della divulgazione scientifica diretta al pubblico più vasto e indifferenziato: un pubblico che, pur non avendo molta preparazione scientifica, ha tuttavia desiderio (e diritto) di sapere che cosa i ricercatori fanno (spesso con il denaro della collettività ). In tutte queste direzioni si muoverà il Forum dal Centro Volta, promuovendo un coordinamento a livello europeo tra le diverse parti in causa: scienziati, giornalisti scientifici, istituzioni. Nei due giorni di dibattito che hanno segnato l' inaugurazione del Forum sono intervenuti, tra gli altri, il direttore di «Nature» John Maddox, l' epistemologo Giulio Giorello, Paola de Paoli e Giancarlo Masini dell' Unione giornalisti scientifici, Paolo Manzelli dell' Università di Firenze, Michel Andrè del Settore informazione della Cee. Nuovi strumenti telematici ed elettronici si stanno affiancando ai mezzi di comunicazione tradizionali. Anche questo è un aspetto di cui il Forum intende occuparsi, al servizio degli scienziati e del cittadino.


CHIMICA Fine delle scritte sui muri? Arriva una protezione anti spray E' una sostanza antiaderente prodotta in Usa
Autore: VAGLIO GIAN ANGELO

ARGOMENTI: CHIMICA, TEPPISMO
ORGANIZZAZIONI: DOW CHEMICAL COMPANY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042. graffiti

NON vedremo più le scritte a caratteri cubitali lasciate da teppisti su monumenti, muri o mezzi pubblici? Un' iniziativa per porre un freno a queste forme di vandalismo è stata presa recentemente dal ministero dei Beni Culturali con una proposta di legge che permetta l' uso delle sole vernici spray solubili in solventi specifici forniti dalle stesse industrie produttrici. Esiste un' alternativa a questa proposta; un' alternativa che giunge dopo sette anni di ricerche effettuate nei laboratori chimici della Dow Chemical Company. Si tratta di un prodotto adatto a coprire le superfici in muratura e in altri usuali materiali con uno strato protettivo che impedisce l' adesione delle comuni vernici spray. Il nuovo prodotto, brevettato negli Usa, contiene come componente principale un polimero acrilico a cui sono legati gruppi sostituenti ionici e fluoroalchilici, CF3. Il polimero possiede proprietà di tensioattivo e sono proprio queste proprietà a spiegare il suo comportamento protettivo anti vernice spray. Per chiarire il meccanismo di azione del prodotto si può far riferimento a tensioattivi tipici come i saponi, che sono costituiti da specie molecolari relativamente pesanti contenenti lunghe catene di atomi con un gruppo ionico idrofilo ad una estremità. All' altra estremità è legato un sostituente paraffinico e quindi idrofobo. Queste specie si accumulano alla superficie di separazione acqua aria o acqua liquido non miscibile e si dispongono con l' estremità idrofila verso l' acqua e la parte paraffinica verso l' altra fase. Provocano così un abbassamento della tensione superficiale e quindi la caratteristica azione detergente. Il tensioattivo della Dow Chemical Company si comporta in modo analogo, e cioè le catene polimeriche si dispongono rispetto alla superficie da proteggere con i gruppi reattivi ionici che interagiscono e si legano con le specie presenti sulle superfici provocando l' adesione dello strato protettivo di rivestimento. I gruppi sostituenti fluoroalchilici sono disposti verso l' esterno, all' interfaccia solido aria, ed impediscono che materiali solubili in solventi organici, come le usuali vernici spray, riescano a bagnare e ad aderire alle superfici rivestite e protette. Il nuovo prodotto presenta una notevole stabilità, confrontabile con quella del teflon, il polimero ottenuto dal tetrafluoroetilene, noto per la sua inerzia verso agenti chimici e alta temperatura. Possiede, inoltre, rispetto ad altri materiali per rivestimento, il vantaggio di poter essere applicato senza l' addizione di solventi infiammabili e potenzialmente inquinanti. Il prodotto è stato sottoposto a ripetute prove di controllo negli Usa. Applicato ai paraurti delle automobili riduce notevolmente l' adesione delle particelle di terra o catrame che si depositano durante la marcia. Ma la proprietà di maggior interesse pratico è che le usuali vernici spray possono essere eliminate dalle superfici rivestite strofinando leggermente con un fazzoletto di carta asciutto, riducendo così gli effetti di un malcostume molto diffuso. Gian Angelo Vaglio Università di Torino


DAL CNR L' identikit del bolide di gennaio
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042. Si fa riferimento al fenomeno celeste del 19 gennaio 1993

IL fenomeno celeste spettacolare e misterioso che ha illuminato la notte del 19 gennaio scorso su una regione italiana dalla Lombardia all' Abruzzo accompagnandosi con un forte tuono è stato definitivamente chiarito. Dopo aver analizzato tutti i dati raccolti dai radar, Giordano Cevolani, ricercatore dell' Istituto per lo studio dei fenomeni della bassa e alta atmosfera del Cnr di Bologna chiude il caso con una sentenza definitiva. Si è trattato, afferma Cevolani, di un bolide di 50 60 tonnellate che, entrando nell' atmosfera a una velocità di 20 25 chilometri al secondo, si è disintegrato a circa 15 20 chilometri di altezza dividendosi probabilmente in due frammenti. Inutile, però, andare alla ricerca di tracce dell' impatto, perché il bolide, composto per lo più di magnesio e silicio, ha subito un explosive burning che lo ha polverizzato in una nube di particelle dalle dimensioni del micron (milionesimo di metro). Il bagliore osservato, inoltre, è stato sicuramente causato da un aumento di temperatura di 20 30 mila gradi. Possiamo concludere, dunque, che siamo stati fortunati e che ancora una volta l' atmosfera si è dimostrata un preziosissimo ombrello protettivo. Il bolide di quella notte è penetrato nell' atmosfera con una inclinazione intorno ai 15 20 gradi e ciò significa che ha effettuato un percorso molto più lungo rispetto a quello che avrebbe effettuato se fosse penetrato lungo angoli maggiori. Ciò gli ha consentito di perdere più di 30 tonnellate in soli 10 chilometri prima di sbriciolarsi nell' esplosione. Il fenomeno, che Cevolani paragona a quello che si verificò in Siberia nel 1908 (mutatis mutandis ovviamente), «questa volta poteva avere conseguenze drammatiche perché il bolide è esploso sopra centri ad alta densità demografica». Per il futuro si auspica di istituire un sistema di camere fotografiche tipo quelle adottate dall' European Fireball Net work al fine di poter acquisire i parametri necessari per individuare zone a rischio. E' tutto quello che possiamo fare, conclude Cevolani, «con la speranza che l' atmosfera continui a proteggerci, come ha sempre fatto fino ad ora». Franco Gabici


SCAFFALE Pellegrino Adalberto: «Trappole nel cielo», Sugarco
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: TRASPORTI, TECNOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042

ADALBERTO Pellegrino è comandante di B 747 dell' Alitalia, è cioè al vertice nella carriera di pilota civile; inoltre qualche anno fa è stato presidente dell' Anpac, l' associazione dei piloti. Ha dunque percorso tutta la scala professionale osservando dall' interno il complesso sistema del trasporto aereo. Con questo «Trappole nel cielo» affronta la questione della sicurezza analizzando gli incidenti avvenuti in tutto il mondo dal ' 45 ad oggi, valutando l' affidabilità tecnica dei velivoli e degli apparati di assistenza a terra, sottoponendo ai raggi X i comportamenti delle compagnie. Il livello di sicurezza del trasporto aereo è elevato, frutto di una tecnologia di punta; nel libro c' è un costante riferimento all' evoluzione imposta dalla necessità di risolvere i problemi che il volo ha incontrato negli anni a mano a mano che i velivoli divenivano più grandi, più potenti e più complessi e a mano a mano che i rapporti tra aereo e apparati di terra divenivano più stretti. Un progresso enorme e incessante, l' aggiornamento imposto a piloti, meccanici, controllori è stato assillante; oggi, ad esempio, mentre ancora si stenta ad assimilare l' ultima innovazione, quella del controllo dell' aereo attraverso i sistemi digitali e la tecnologia fly by wire, già si parla di un futuro sistema di controllo fly by light. Tuttavia, come si capisce fin dal titolo, nel «sistema», secondo Pellegrino vi sono smagliature inquietanti, carenze che spesso sono state all' orgine di tragedie. Il libro vuol essere un contributo a eliminarle.


Scaffale Smiraglia Carlo: «Guida ai ghiacciai e alla glaciologia», Zanichelli
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042

Da qualche anno la scienza ha individuato nei ghiacciai un formidabile strumento per leggere un gran numero di fenomeni e di eventi; se risale alla prima metà del secolo scorso principalmente grazie alle intuizioni di Luis Agassiz la decifrazione del grandioso evento delle glaciazioni, è assai più recente la scoperta che nel ghiaccio, in particolare in quello delle calotte polari, è scritta una parte non secondaria della storia della Terra, e che tra ghiacci e clima esistono complesse relazioni ancora in gran parte da studiare. Oggi, poi, il monitoraggio dei ghiacciai, sia di quelli polari sia di quelli montani nelle zone temperate, rappresenta uno dei mezzi più diretti di osservazione dell' effetto serra. Insomma al dilà dell' interesse paesaggistico e turistico, ghiaccio e ghiacciai sono diventati oggetto di un vasto interesse scientifico. «Guida ai ghiacciai e alla glaciologia» di Claudio Smiraglia, docente di geografia al dipartimento di scienze della terra dell' Università di Milano (prefazione di Augusto Biancotti, presidente del Comitato glaciologico italiano), è una guida, scritta in termini semplici ma rigorosi, alla conoscenza dei ghiacciai, dello loro morfologia, della loro storia e della storia dell' ambiente circostante; una guida in cui il rigore scientifico non maschera lo stupore per uno dei fenomeni più grandiosi della natura.


Scaffale Vallario Antonio: «Frane e territorio», Liguori
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 042

I geologi hanno spesso puntato il dito contro il dissesto idrogeologico del territorio italiano specie quando calamità gravi come il caso Valtellina o la più recente disastrosa alluvione di Genova provocata dal Bisagno, hanno portato prepotentemente all' attenzione della cronaca questo problema. Ora Antonio Vallario, ordinario di geologia applicata alla facoltà di scienze dell' università di Napoli, affronta la complessa materia pubblicando questo volume dedicato a «Frane e territorio». L' obiettivo è quello di approfondire i fenomeni franosi, in particolare ricostruendone l' evoluzione in rapporto all' ambiente e in rapporto ai fenomeni naturali e alle attività dell' uomo; il libro si propone inoltre con un approccio interdisciplinare, di offrire strumenti idonei a ridurre le cause delle frane intervenendo all' origine, impedendo cioè che i fenomeni franosi si inneschino.


CROSTACEI PRIMITIVI Il gambero che la sa lunga Divertente esperimento con pezzi di seppia Molto aggressivi gli stomatopodi minacciano con finti occhi gli avversari che se la battono
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, ANIMALI
NOMI: REAKA MARJORIE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043

AGLI esseri cosiddetti «inferiori» noi non concediamo un briciolo di credito e rifiutiamo l' idea che siano capaci di riconoscersi, memorizzare e imparare. Eppure da parte degli studiosi incominciano ad arrivare testimonianze in questo senso, a categorica smentita delle opinioni correnti. L' ultima è quella di Marjorie L. Reaka, una ricercatrice che studia da dieci anni la categoria di crostacei a cui appartiene la cicala di mare (Squilla mantis). E' l' ordine degli stomatopodi, crostacei primitivi e molto antichi, che assomigliano per certi versi alle mantidi terrestri, gli insetti famosi per le loro pratiche uxoricide. Com' è noto, la mantide, che sembra assorta in pia preghiera quando se ne sta immobile tenendo le zampette anteriori congiunte, è in realtà una tremenda predatrice Quelle zampe funzionano come un coltello a serramanico, sono uno strumento portentoso per la cattura delle prede. E tra le prede vanno annoverati anche i mariti. Gli stomatopodi fanno qualcosa di simile. Anche loro aspettano le vittime in agguato rimanendo immobili e perlustrando i dintorni con gli occhi ben sviluppati dalla vista acuta. Hanno anche loro tre paia di zampe, cosiddette «ambulatorie», che servono cioè per camminare, proprio come gli insetti. Inoltre hanno una pinza a scatto che funziona su per giù come quella della mantide. L' unica differenza è che loro non fanno fuori i mariti. Ecco perché li chiamano anche gamberi mantide e Squilla mantis è il nome latino della Cicala di mare, la specie più nota. Gli stomatopodi vivono in tutti i mari tropicali e subtropicali, a bassa profondità, per la gioia dei buongustai che apprezzano moltissimo la bontà delle loro carni. E in molte isole dell' Oceania si usano le loro zampe dentate come ami per la pesca. I gamberetti mantide si servono delle pinze anche per difesa. Lo sanno i subacquei che alle volte appoggiano la mano su un banco corallino e si sentono acchiappare un dito dalla morsa della pinza di un gambero che protesta in questo modo per quella che ritiene una violazione di domicilio. Temibile è specialmente una specie lunga più di venticinque centimetri che vive nelle acque costiere del Messico e della California meridionale. Bellicosa e suscettibile com' è, il dito del subacqueo può anche staccarlo di netto. Queste armi naturalmente vengono usate anche nelle lotte tra rivali Le varie specie di stomatopodi, tutte vivacemente colorate, possiedono cospicue macchie a forma di occhio, diverse da specie a specie. Quando vuole minacciare un avversario, il gambero mantide abbassa e allarga le pinze per mettere in evidenza le macchie oculari. E poiché le specie dominanti, le più aggressive, sono quelle che hanno i falsi occhi dalle tinte più vivaci, è facile per le specie subordinate riconoscerle ed evitare così un combattimento, già perduto in partenza. Cionondimeno, succedono lotte feroci tra i parigrado. In uno dei combattimenti avvenuti sotto gli occhi della studiosa, si ebbero cinquecento attacchi nell ' arco di dieci minuti. L' animale è particolarmente vulnerabile nel delicato stadio della muta, quando si libera della vecchia corazza diventata troppo stretta e se ne fabbrica una nuova più adatta alle sue accresciute dimensioni. Succedono allora episodi di cannibalismo. L' individuo indifeso, molle e privo di corazza, può venir mangiato da un collega corazzato. Ma per evitare l' increscioso inconveniente, il gambero in muta escogita vari stratagemmi. C' è chi si rifugia nella tana e ne suggella l' ingresso con una manciata di sassolini e chi cerca di compiere la muta nottetempo, quando i compagni non sono in circolazione. Oppure parecchi granchi compiono sincronicamente la muta in concomitanza con il ciclo lunare. E si sa che quanto maggiore è il numero, tanto minore è il pericolo che corre ciascuno. Data la sua indole aggressiva, lo stomatopodo finisce per condurre vita solitaria. Fa vita a due solo per un breve periodo, quando deve riprodursi. Allora i maschi vanno in cerca delle femmine e appena ne hanno trovata una che fa al caso loro, ha inizio il corteggiamento. Lui mette in evidenza le sue macchie oculari per farle capire che appartiene alla stessa specie. Lei allora si lascia accarezzare il dorso. E durante l' accoppiamento, il maschio strofina continuamente il torace della femmina con la spazzolina di una delle sue appendici. L' idillio si protrae per parecchi giorni nel segreto della tana, fino a che la femmina, che si stanca per prima, non dà il benservito al marito cacciandolo fuori dalla tana. Ormai ha altro a cui pensare. E infatti qualche giorno dopo depone moltissime uova (da un centinaio a molte migliaia nelle specie maggiori), le agglutina insieme con una sostanza collosa e se le porta dietro attaccate alle appendici toraciche per dieci settimane, osservando il più stretto digiuno. Marjorie Reaka studia il comportamento di uno stomatopodo della specie Lysiosquilla gabriuscula, lungo una ventina di centimetri, che si è scavato una tana profonda circa cinque centimetri nel fondo sabbioso. Vari osservatori seguono da vicino le sue mosse insieme con lei e il piccolo crostaceo impara presto a riconoscerli Si abitua alla loro presenza. La studiosa fissa attentamente i suoi occhi iridescenti verde giallognolo e ha la netta impressione che l' animaletto ricambi il suo sguardo ruotando verso di lei prima un occhio, poi l' altro. La Reaka porge al gamberetto un pezzetto di seppia e incomincia allora un singolare tiro alla fune. Il crostaceo lo afferra con le zampe raptatorie e se lo porta nella tana. La ricercatrice cerca di tirar fuori l' animaletto, ma lui si tiene solidamente aggrappato al bordo della tana e non molla. Dopo aver consumato il suo pasto, riemerge e guarda gli uomini, con l' aria di uno che chiede: «Me ne dai ancora? ». Gli viene dato un altro pezzetto di seppia e ricomincia il tira e molla. Così si va avanti per un' ora buona. Ma in tutte queste manovre il furbo gamberetto non abbandona mai neppure per un istante il contatto fisico con la tana, l' unico posto al mondo dove si sente al sicuro E lo vogliamo considerare ancora un essere inferiore? Isabella Lattes Coifmann


DIETOLOGIA Geni à la carte Il cibo agirebbe anche sul Dna
Autore: CALABRESE GIORGIO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE, GENETICA
NOMI: CLARKE STEVEN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043. Ricerca per cui si afferma che i cibi modificano i nostri geni

OGNI volta che condiamo un' insalata, modifichiamo, senza saperlo, i nostri geni: lo afferma Steven Clarke, del Dipartimento di Scienza dell' Alimentazione dell' Università del Colorado. Mangiando zuccheri, non solo forniamo energia all' organismo, ma riusciamo a partecipare dall' esterno alla formazione delle apolipoproteine, che sono frazioni dei grassi circolanti nel sangue. Quando condiamo un cibo con olio di soia, ad esempio, i suoi acidi grassi, che sono poliinsaturi, svolgono un' azione particolare a livello genetico: controllano la funzionalità della Beta Actina e del recettore del colesterolo Ldl, cioè quello definito «cattivo». L' influenza dei cibi sul corredo genetico avviene a diversi livelli sia del Dna, sia dell' Rna messaggero. Ad esempio, lo zucchero e il ferro sono capaci di legarsi a questo Rna messaggero, condizionando la sua traduzione in proteina. Per comprendere meglio la funzione del cibo sui geni possiamo esaminare il comportamento del ferro, elemento fondamentale per l' organismo, purché a dosi giuste. La concentrazione del ferro dentro la cellula è controllata dalla Transferrina, che lo trasporta dall' esterno all' interno della cellula, e dalla Ferritina, cui il ferro di riserva si lega, dopo essersi liberato dalla transferrina. Grazie al controllo genetico, se siamo anemici cioè carenti di ferro, viene favorita la produzione di transferrina e inibita la produzione di ferritina; se invece le riserve di ferro sono in eccesso, avviene il contrario. C' è però una terza importante via che il ferro utilizza per compensare l' eventuale anemia, quella dovuta alla presenza di una terza proteina che si lega all' Rna messaggero. Questo legame avviene contemporaneamente alla sua testa e alla sua coda e, a seconda della carenza o dell' eccesso, questa proteina riesce a svolgere due azioni contrapposte grazie, ad esempio, alla quantità di carne che noi introduciamo. Clarke, proprio per questo doppio ruolo sensibile agli alimenti, la definisce «la molecola gentile» perché si presta a svolgere un' importante azione di manipolazione genetica rispettando la nostra volontà terapeutica. Un altro esempio interessante è il glucosio nel sangue, cioè la glicemia. Essa risente molto di queste informazioni genetiche varianti. Infatti, dopo pranzo la glicemia aumenta fisiologicamente e si prende la briga di coordinare le operazioni, dettando al fegato alcune regole di lavoro. Se il pasto è stato ricco di carboidrati pasta, pane e frutta il glucosio fa partire un' informazione precisa al fegato per fargli sintetizzare geneticamente dei fattori che aiutino questo zucchero ad accumularsi. Così facendo riesce contemporaneamente a bloccare tutte le operazioni di sintesi di quei fattori che invece lo producono e che in questa fase sarebbero naturalmente superflui. Ciò vuol dire, così come nel caso del ferro, che esiste un fenomeno di feedback negativo, grazie al quale i prodotti finali di una catena metabolica inibiscono la sintesi degli enzimi che danno avvio alle prime reazioni della catena stessa. Questa inibizione, che è regolarmente gestita dall' interno, può essere controllata geneticamente anche dall' esterno, con il cibo che introduciamo, sopperendo così a squilibri che a volte si creano, come nel caso dell' anemia, per un abbassamento improvviso degli zuccheri stessi. Questa idea ha stimolato molto la fantasia dei non addetti ai lavori fino a convincerli che basta aggiungere una meringa alla panna per controllare l' espressione di un gene. Non è proprio così, anche se questa scoperta sarà di grande aiuto ai dietologi, che avranno un' arma in più per combattere alcune patologie particolari, che normalmente si curano con i farmaci. Giorgio Calabrese


TORNA L' AFTA TRA I BOVINI Quel sospetto «rumore di baci» Un sintomo chiaro, causato dalle lesioni alla lingua
Autore: VALPREDA MARIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, SANITA', ANIMALI, ZOOTECNIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043. Epidemia di afta epizootica

AFTA epizootica: una serie infinita e ricorrente di epidemie che si intreccia con la storia dell' allevamento del bestiame. Il più recente episodio, appena segnalato in un' azienda di Potenza, ha interrotto un silenzio epidemiologico che, in Italia, durava dal 1989. L' ultima esplosione della malattia (571 focolai denunciati) era stata alla fine del 1984 e si era protratta per cinque anni causando danni gravissimi alle nostre produzioni zootecniche. L' allarme suscitato dalla ricomparsa del virus è ampiamente giustificato: infatti, due anni fa, anche l' Italia si è adeguata alle disposizioni Cee, sospendendo le vaccinazioni che, in primavera e in autunno, venivano obbligatoriamente eseguite su tutti i bovini e gli ovi caprini. Così il nostro patrimonio zootecnico, al pari di quello dei partner comunitari, si trova ora totalmente indifeso di fronte alla malattia che, se non viene rapidamente neutralizzata nei primi focolai, potrebbe scatenare un' epidemia di dimensioni imprevedibili. L' agente dell' afta epizootica, un enterovirus del gruppo Picorna, si propaga velocemente non solo attraverso il contatto con animali malati ma anche per via indiretta, tramite materiali contaminati, persone, mezzi di trasporto, uccelli e persino correnti d' aria. Soprattutto è insidioso il ruolo dei cosiddetti portatori, animali che hanno superato l' infezione ma non hanno ancora eliminato il virus, che resta localizzato soprattutto nelle tonsille. Il rischio maggiore deriva dal fatto che, nell' animale portatore, il virus aftoso (sette tipi immunologicamente distinti e oltre sessanta sottotipi) è in grado di modificarsi, anche per mutazione del genoma virale dopo infezione. Questa plasticità può portare alla selezione di cloni virali che eludono la protezione del vaccino e possono addirittura reinfettare gli stessi portatori. All' afta epizootica, presente in Africa, Asia, Europa e Sud America, sono sensibili la maggior parte degli animali a unghia fessa: bovini, bufalini, ovi caprini, suini, cervi, antilopi, cinghiali, ma anche elefanti, cammelli, giraffe, lama. Il cavallo invece è resistente. La malattia è caratterizzata da febbre alta e dalla comparsa di vescicole alla bocca, ai piedi e alla mammella. Segni specifici nei bovini sono l' abbondante salivazione e il cosiddetto «rumore di baci» provocato dal continuo schioccare di labbra per le lesioni alla lingua e al musello. L' uomo è colpito molto raramente e in forma benigna. I più esposti in passato erano i figli degli agricoltori, ai quali veniva somministrato latte non bollito, munto da vacche già infette ma ancora senza sintomi. Oggi contro l' afta si può lottare con il vaccino, efficace per alcuni mesi ma condizionato dalla specificità verso il tipo di virus presente nelle aree infette, oppure con il metodo della «terra bruciata» attorno al virus, abbattendo e distruggendo tutti i capi, sani e ammalati, presenti nell' allevamento infetto. E' la strategia scelta dalla Cee, che così difende gli scambi commerciali con quei Paesi, come gli Usa, indenni da afta da alcuni decenni. Mario Valpreda


TRAPIANTI Reni nuovi anche a 65 anni Criteri più elastici per le liste d' attesa
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, SANITA'
ORGANIZZAZIONI: AIRT ASSOCIAZIONE INTERREGIONALE TRAPIANTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 043

M IGLIAIA di trapianti all' anno, e nuovi problemi sociali per l' Associazione Interregionale Trapianti (Airt), costituitasi nel 1989 a Torino tra gli operatori dei servizi interessati ai programmi di trapianto delle regioni Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Valle d ' Aosta. Accrescere la disponibilità di organi, sensibilizzare le persone, approfondire i criteri di selezione dei candidati al trapianto, sviluppare programmi di aggiornamento professionale, promuovere le ricerche, offrire collaborazione tecnico scientifica, è quanto si propone l' Airt, che nei giorni scorsi ha tenuto a Torino il suo IV convegno annuale. Le campagne di educazione hanno avuto il risultato d' un aumento dei consensi alla donazione di organi. Nel 1992 con 76 trapianti di reni il Centro di Torino è stato il più attivo in Italia. A proposito del trapianto renale, lo sviluppo di nuovi trattamenti anti rigetto più efficaci e meglio tollerati, i progressi delle tecniche chirurgiche, della rianimazione, della prevenzione delle infezioni, hanno permesso risultati migliori e l' estensione delle indicazioni. L' età limite del ricevente ha superato i classici 45 50 anni d' un tempo, e poiché si tratta di un' età teorica, corrispondente più a una condizione clinica che a un dato anagrafico, si può dire che non v ' è un limite. A priori tutti i pazienti di insufficienza renale cronica possono valersi del trapianto renale. Fra queste, ripetiamo, l' età è da considerare in maniera diversa da un tempo Rispettando determinate cautele il paziente accettabile in programma di trapianto può avere un' età anagrafica anche superiore ai 65 anni, dice il professor Antonio Vercellone, direttore dell' Istituto di nefro urologia dell' Università di Torino. In un suo studio il professor Vercellone ha considerato il problema del trapianto renale nell' anziano. Nel 1990 in Piemonte il 77 per cento degli affetti da insufficienza renale era ultracinquantenne, rispetto al 63 per cento del 1982, e gli ultrasettantenni erano più del 27 per cento, rispetto all' 11 per cento del 1982. Sempre in Piemonte i pazienti con più di 50 anni rappresentano la grande maggioranza, il 76 per cento, dei nuovi immessi alla dialisi, con un aumento del 12 per cento in confronto al 1981. Il trapianto nei pazienti oltre la cinquantina ha ancor oggi una valutazione controversa, tuttavia vi sono elementi favorevoli quali una minore reattività immunologica di rigetto e una migliore «compliance» terapeutica (ossia maggiore costanza ed osservanza nell' applicare i provvedimenti prescritti dal medico), rispetto alle età più giovani. Pertanto nello sviluppo del programma di trapianto renale a Torino i criteri d' accettazione sono aperti nei confronti dell' età. Nell' ultimo triennio i riceventi il trapianto con età superiore ai 50 anni hanno rappresentato il 33 per cento dei trapianti eseguiti, e di questi l ' 8 per cento superava i 60 anni. Ulrico di Aichelburg


METROLOGIA E' la dozzina dei chimici si chiama «mole» ed è legata ad Avogadro
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044. «Mole»

LE reazioni chimiche, e quindi le relative equazioni, coinvolgono atomi e molecole e avvengono secondo rapporti atomici e molecolari ben precisi. La molecola dell' acqua, per esempio, è costituita da due atomi di idrogeno combinati con uno di ossigeno. Quando si ha a che fare con reazioni chimiche, è quindi necessario ricondurre la massa in kilogrammi di una certa sostanza al numero di particelle (atomi, molecole, ioni) in essa contenute. Per fare ciò si ricorre a una speciale unità di misura: la mole, simbolo mol (dal latino moles, massa). Questa unità è stata introdotta nel SI nel 1971 dalla XIV Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure che ne ha dato la seguente definizione: «la mole è la quantità di sostanza di un sistema che contiene tante entità elementari quanti sono gli atomi in 0, 012 kg di carbonio 12. Le entità elementari devono essere specificate e possono essere atomi, molecole, ioni, elettroni, o gruppi specificati di tali particelle». La mole sarà dunque la quantità di sostanza che contiene un numero fisso di entità elementari, ovvero il numero di atomi contenuti in 0, 012 kg dell' isotopo 12 del carbonio (12C), preso convenzionalmente come riferimento. Il numero di particelle contenuto in una mole di una qualsiasi sostanza è 6, 022x1023, numero a cui viene dato il nome di «Costante di Avogadro», in onore dello scienziato italiano (1776 1856), e si misura in 1/mol. Il numero di entità elementari di una mole (o Costante di Avogadro) può essere valutato sperimentalmente; anche presso l' Istituto di Metrologia «G. Colonnetti», nel quadro di una collaborazione internazionale, vengono condotti esperimenti per la sua determinazione mediante misure del lato della cella elementare, della massa volumica e della massa molare di un monocristallo particolarmente puro (silicio). Normalmente non si realizza il campione della mole, ma si fa riferimento a materiali di concentrazione nota e certificata (materiali di riferimento). Il numero 6, 022x1023 di entità elementari contenute in 1 mole di sostanza non dipende dalla natura della sostanza. La massa di una mole di sostanza varia invece con la natura chimica della sostanza, in quanto dipende dalla massa delle particelle (più o meno «pesanti» ) che compongono la sostanza. Per meglio visualizzare il concetto si potrebbe dire che la mole è la «dozzina» del chimico... Infatti una dozzina di mele, di uova, di libri, contiene sempre dodici oggetti (le mele, le uova, i libri, e così via) ma la massa varia con la natura degli «oggetti». Vediamo alcuni esempi: 1 mole (6, 022x1023 molecole) di acqua (H2O) ha massa 0, 018 kg (più o meno due cubetti di ghiaccio), 1 mole (6, 022x1023 atomi) di oro (Au) ha massa 0, 197 kg (ben più della massa di una catena d' oro), 1 mole (6, 022x1023 molecole) di saccarosio (lo zucchero) ha massa 0, 242 kg (più o meno quanto ne serve per una torta), 1 mole (6, 022x1023 molecole) di acido acetilsalicilico (l' aspirina) ha massa 0, 180 kg (poco più di trecento normali compresse di aspirina) e infine 1 mole (6, 022x1023 unità di formula) di Cloruro di sodio (NaCl, il sale da cucina) ha massa 0, 058 kg (circa quattro cucchiai da tavola di sale fino).


AERONAUTICA Il jet fatto a pezzi Come si fa la revisione dei motori
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

L A revisione di un motore aeronautico, fondamentale per la sicurezza, è un grosso impegno tecnico e finanziario (il costo arriva a un miliardo e 200 milioni). Un grande reattore è composto da 2000 elementi principali (tra cui non meno di 1500 palette) composti a loro volta da molte migliaia di elementi. Per agevolare manutenzioni e riparazioni i motori moderni sono costruiti a moduli si toglie quello da revisionare e lo si sostituisce. Quando si deve «fare il tagliando» ? Il parametro che indica le condizioni di usura del motore non è il tempo di funzionamento (le ore di crociera incidono poco sull' usura) ma il numero dei «cicli»: avviamento decollo crociera atterraggio spegnimento. Un tempo ogni componente aveva una «scadenza» al raggiungimento della quale veniva sostituito, fosse o non fosse usurato (revisione «calendariale» ); recentemente la regola è capovolta: il pezzo viene sostituito solo quando è usurato (revisione «on condition» ). Infatti oggi i «flight recorder» di bordo registrano continuamente i parametri di funzionamento e indicano possibili anomalie tenendo sotto osservazione ogni singolo componente. Il progresso tecnologico ha consentito di allungare via via il tempo tra due revisioni (detto Tbo); i motori dei «jumbo» e degli Md 11 dell' Alitalia sono revisionati ogni 6 8 mila ore di volo, pari a 6 7 milioni di chilometri, con un lavoro che richiede 45 60 giorni ma il gigantesco motore Ge 90 che sarà installato sul B 777 avrà un «Tbo» di 25 mila ore. In officina il motore viene smontato e i componenti sottoposti a controlli non distruttivi (ad esempio usando i raggi gamma per scoprire eventuali cricche nel metallo). Importanza crescente, accanto ai controlli meccanici, hanno assunto quelli elettronici sui sistemi. Quindi il motore viene rimontato e collaudato. All' Alitalia il collaudo avviene in un nuovo banco prova che si trova nella cosiddetta «città del volo» di Fiumicino. E' un edificio in cemento armato di 15 mila metri cubi con schermature anti rumore che ha al centro una grande galleria del vento e alle due estremità da una parte la presa d' aria e dall' altra lo scarico. Il motore in prova è posto al centro della galleria e messo in funzione per una serie di «cicli»; un gran numero di sensori registra i parametri di funzionamento (temperatura, consumi, vibrazioni, frammenti di metallo nell' olio, ecc. ) e li trasmette ai computer della sala controllo. Una volta revisionato e collaudato il reattore può essere considerato nuovo. (v. rav. )


LE DATE DELLA SCIENZA Un sibilo dalla galassia ecco la radioastronomia
NOMI: JANSKY KARL
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

SESSANT' ANNI fa nasceva la radioastronomia. Pitagora era convinto che il movimento delle sfere celesti producesse armonie musicali. Solo nei primi del Novecento, però, si udì per la prima volta la musica del cielo, interessantissima dal punto di vista scientifico, ma assai deludente. La voce del cielo, infatti, si manifestava come un fastidioso sibilo. L' importante scoperta che il cielo potesse anche essere ascoltato avvenne per caso, quando il giovane ingegnere Karl Jansky accettò un lavoro della Bell Telephone Laboratories volto a individuare, e a eliminare, i rumori di fondo che disturbavano le trasmissioni della compagnia. Il lavoro si svolgeva in uno sperduto paesino del New Jersey dove Jansky si era recato anche per motivi di salute (sembra che il medico gli avesse consigliato una vita tranquilla e all' aria aperta). Jansky, per le sue ricerche, costruì un' antenna (di dimensioni 20x4x5 metri) che sulle ruote di una vecchia Ford girava su se stessa in circa 20 minuti. Per questa caratteristica fu chiamata scherzosamente «la giostra». Con «la giostra» Jansky captò un sibilo persistente proveniente dal Sagittario (nella cui direzione si trova il centro della nostra galassia), e solamente alcuni anni più tardi riuscì a stabilire che si trattava di un segnale non terrestre. La notizia rimbalzò immediatamente sulla stampa e il New York Times uscì col titolo «Radioonde dal centro della Via Lattea». La radioastronomia iniziava così la sua grande avvventura e l' universo sarebbe diventato ancora più vasto. Franco Gabici


STRIZZACERVELLO Il mazzo di chiavi
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

Il mazzo di chiavi Il portachiavi del dottor Bianchi, ormai logoro e decisamente troppo pesante, si è rotto all' improvviso e le dieci chiavi si sono sparse in fondo alla ventiquattr' ore. Per colmo di sfortuna, si è bruciata la lampadina delle scale e gli tocca aprire la porta al buio. Le chiavi, più o meno uguali, non sono riconoscibili al tatto. Così il dottor Bianchi si rassegna a pescare a caso sperando in bene. Quante probabilità ha di prendere la chiave giusta al terzo tentativo? 10% ? 20% ? 30% ? La risposta giusta domani, come sempre accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI CHI SA RISPONDERE Sulla testa, mille modelli di aerei da guerra
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 044

UN carico di uccelli in un aereo che si mettano a volare riduce il peso del velivolo? No, abbiamo scritto. E invece un lettore dissente. Ecco la sua lettera: «Da un punto di vista strettamente pratico la risposta è giusta, ma in realtà il peso sarebbe di un infinetismo inferiore nel caso in cui gli uccelli volassero. E' vero, infatti, che il peso degli uccelli in volo viene proiettato, attraverso la colonna d' aria sottostante ad essi, sulla carlinga. Per questo motivo si potrebbe pensare che il peso non varii. Ma una colonna d' aria non è rigida come, per esempio, un bastone. Essa si applica su tutta la superficie interna dell' aereo scaricandosi in maniera quasi totale sul pavimento. Si hanno, però, anche delle minime spinte verso le pareti e persino verso il soffitto. Le spinte sulle pareti non influenzano il peso del mezzo, mentre quelle sul soffitto aumentano la reazione vincolare dell' aria che sorregge l' areo, facendo quindi diminuire il suo peso anche se in maniera infinitesimale. Marco Tonti Viserba (RN) Da quanti protoni, neutroni ed elettroni è formato un uomo che pesi 70 chilogrammi? Approssimativamente, un chilogrammo di materia vivente è formato da 3, 32473 per 10 alla ventiseiesima protoni, altrettanti elettroni e 2, 64882 per 10 alla ventiseiesima neutroni. Moltiplicando questi numeri per 70, si ottengono le cifre richieste: 2, 32731 per 10 alla ventottesima protoni, 2, 32731 per 10 alla ventottesima elettroni e 1, 85417 per 10 alla ventottesima neutroni. Tommaso Galvelli San Vito dei N. (BR) L' universo è fisicamente finito o infinito? La risposta non può essere chiara e concisa come la domanda. Una possibilità è cercarla nelle teorie elaborate da Aleksandr Friedmann, matematico russo della prima metà del secolo, che ha elaborato un modello di universo che ha una duplice risposta: se la densità media della materia dell' universo fosse minore o uguale a un certo valore critico, allora l' universo non potrebbe che essere infinito; se invece la densità media della materia fosse maggiore di tale valore, l' universo sarebbe finito benché illimitato. In tal caso il campo di forza gravitazionali prodotte dalla materia incurverebbe l' universo su se stesso, per cui se si intraprendesse un viaggio in linea retta si ritornerebbe al punto di partenza. Il problema di fondo, quindi, è stabilire il valore critico della densità. Questo valore critico è matematicamente complesso e non infinitamente corretto. Comunque, i valori ottenuti testimonierebbero un universo infinito. Una controprova può essere ricercata nella stima delle velocità di fuga delle galassie. I risultati ottenuti danno maggior peso all' ipotesi di un universo in infinita espansione e quindi aperto. Ciò dovrebbe portare a un continuo, seppur lento, raffreddamento dello spazio intergalattico e a una morte termica dell' universo stesso. Mauro Gargano, Palermo Quanti modelli di aerei da guerra sono stati progettati nel corso del XX secolo? Una risposta precisa è molto difficile, anche perché bisogna fare alcune precisazioni: 1) gli aerei da guerra non sono tutti necessariamente armati, quindi bisogna considerare anche i velivoli da trasporto (C 130), addestramento (T 38), guerra elettronica (2 3A). 2) ci sono aerei «nati» civili e successivamente militarizzati (come il DC 10 trasformato in aerocisterna) e il tenerne conto o meno diventa quindi un fatto soggettivo. 3) esistono evoluzioni di aerei che si possono considerare progetti nuovi, pur partendo da una «base» comune (ad esempio, l' AV 8B derivato dall' Harrier, o il futuro caccia giapponese FS X dall' F 16). Dobbiamo infine anche tenere conto di progetti che poi, per vari motivi, non sono stati sviluppati in serie, rimanendo prototipi (Mirage 4000, F 20, Yak 141 Freestyle.. ). Detto questo, credo che il risultato finale possa essere vicino al migliaio di unità, ricavato dai circa 150 modelli più famosi del secolo sommati alle altre centinaia di modelli minori creati da decine di società. Maurizio Zanarotto Frassineto Po (AL ) & Perché l' ozono stratosferico tende a rarefarsi di più sopra l' emisfero Sud del pianeta che non su quello Nord? & Che capacità di memoria ha il computer più grande del mondo? Tommaso Calvelli & Si può stabilire, daltonici a parte, se gli esseri umani colgono tutti le stesse tonalità di colore, oppure è possibile che la mia idea di «rosso» corrisponda a quella di «arancione» o «giallo» di un' altra persona? Silvia di Stefano Risposte a: «La Stampa, Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011 65 68. 688, indicando chiaramente «TTS» sul primo foglio.




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