TUTTOSCIENZE 30 dicembre 92


IL CURARO L' acqua che uccide gli uccelli inventata dagli stregoni e oggi usata dall' anestesista
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA, MEDICINA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 108. Piante originarie delle Americhe in importate in Europa

NON occorre una grande fantasia per immaginare quanto possa essere dura la vita degli indios del Sud America. E non solo la vita di oggi, insidiata e minacciata dai disboscamenti selvaggi, dalle ruspe e dai «garimpeiros», ma anche la vita del passato, quella che conducevano prima che l' uomo bianco decidesse di sfruttare dissennatamente il loro mondo. L' ambiente degli indios è la foresta pluviale, ed è un ambiente certamente ricco di risorse alimentari: non sempre, tuttavia, tali risorse sono semplici da recuperare. Scagliare una freccia sul bersaglio nell' intrico della vegetazione è impresa tutt' altro che agevole, e se il bersaglio è piccolo e veloce come può esserlo una scimmia o un uccello, è assai improbabile arrivare a colpirlo in un punto vitale ed assicurarsi in tal modo il pasto quotidiano. E' a questo punto che interviene lo stregone. Egli conosce le erbe, conosce le parole magiche, parla con gli spiriti della foresta: con un rito che affonda le radici nei millenni raccoglie le piante sacre, le spezzetta e le miscela in una ciotola, le purifica con il fuoco, le espone al calore benefico del sole. Alla fine del rituale la ciotola dello stregone contiene un liquido denso e pastoso: è lo uiraeory, l' «acqua che uccide gli uccelli» (uira = uccello, eor = morire, y = acqua), il terribile veleno che noi chiamiamo curaro. Sarà sufficiente impregnare la punta della freccia con il liquido magico per renderla mortale. Non importa quale parte del corpo andrà a colpire, e non importa che cosa andrà a colpire: un uccello, una scimmia, un pecary o un nemico. Moriranno tutti, e tutti potranno essere mangiati. Infatti, mortale se iniettato nel circolo sanguigno, il curaro è innocuo se viene ingerito. La sua azione si svolge a livello della placca neuromuscolare, bloccando la trasmissione degli impulsi nervosi alla muscolatura striata: ne consegue una paralisi flaccida che, giungendo ai muscoli respiratori (diaframma e muscoli intercostali), provoca la morte per asfissia. Si tratta di una morte terribile, dal momento che avviene in piena coscienza: il curaro, infatti, non ha effetto sul sistema nervoso centrale e lascia alla vittima la totale consapevolezza di quel che le sta accadendo. L' esistenza del curaro fu presto scoperta (e talora a proprie spese) dagli esploratori che si avventuravano lungo il Rio delle Amazzoni e l' Orinoco, e fu con ogni probabilità l' inglese Sir Walter Raleigh a portarne i primi campioni in Europa, verso la fine del XVI secolo. L' origine del curaro rimaneva tuttavia avvolta nel mistero: si sapeva che veniva preparato utilizzando particolari piante, ma gli stregoni non andavano certo a raccontare in giro i loro segreti. A ciò si deve aggiungere che il rituale della preparazione prevedeva l' uso di determinate erbe a significato esclusivamente magico, e prive di qualsiasi principio tossico. Soltanto nella prima metà dell' Ottocento, quando i grandi esploratori naturalisti (Humboldt in testa) cominciarono a setacciare sistematicamente l' Amazzonia, le origini botaniche del curaro presero a delinearsi, e le principali fonti naturali del veleno furono individuate in alcune piante dei generi Strychnos e Chondrodendron. Dobbiamo però attendere gli Anni 30 del nostro secolo perché del curaro si cominci a capire qualcosa: nel 1935, in particolare, H. King riuscì ad isolare la d tubocurarina (il più importante, forse, tra gli alcaloidi del curaro) e a stabilirne la struttura: ciò permise un più razionale uso medico del prodotto, che già da qualche anno veniva comunque impiegato con successo nella terapia del tetano e dei disturbi spastici. Parallelamente, fu possibile produrre in laboratorio curari sintetici, più potenti e meglio dosabili di quelli naturali, che ancor oggi trovano impiego in anestesiologia ed in chirurgia, soprattutto quando si vuole ottenere un completo rilassamento muscolare nel paziente. I maggiori meriti del curaro in campo medico riguardano comunque la ricerca fondamentale: fu studiandone il meccanismo d' azione che Bernard, nel 1850, diede vita alle ricerche che portarono alla scoperta della placca motrice e, successivamente, dell' acetilcolina, il «mediatore chimico» che permette la trasmissione dell' impulso nervoso.


DAGLI USA Nuovi vetri risparmiano energia
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ENERGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 105

UNA ditta americana che è fra i principali produttori di vetri definiti «a bassa emissività » ha introdotto recentemente alcune migliorie che rendono probabile la loro diffusione negli edifici degli Stati Uniti e dell' Europa. Il problema che questi vetri possono contribuire a risolvere è che le finestre sono necessarie per dar luce alle abitazioni, alle scuole, agli uffici, ma rappresentano anche una via di spreco energetico. Infatti il vetro ordinario lascia passare energia sotto forma sia di radiazioni visibili, che lo rendono trasparente ai nostri occhi, sia di calore un 80 per cento dei raggi infrarossi riesce a produrre il suo effetto termico dalla parte opposta a quella di provenienza. Così in inverno il vetro riduce l' efficacia del termosifone e ci costringe a consumare più combustibile affinché la stanza raggiunga la temperatura desiderata: una parte del calore prodotto sfugge all' esterno attraverso la finestra, anche se essa è chiusa e non ci sono spifferi tra le sue connessure. D' estate invece il flusso termico s' inverte, poiché di giorno l' aria è più calda fuori che all' interno; ma abbiamo ugualmente uno spreco, se usiamo il condizionatore: esso deve espellere il calore in più che entra attraverso il vetro. Per ridurre quest' ultimo effetto si ricorre talvolta a vetri colorati. Filtrando la luce del sole, essi diminuiscono la dose d' energia che entra nella stanza sotto quella forma e poi finisce per tradursi essa pure in calore. D' altra parte la luce è necessaria per vederci; infatti, se alle finestre ci sono vetri scuri, non è raro che l' illuminazione elettrica venga tenuta accesa anche di giorno: e allora addio risparmio energetico. I vetri a bassa emissività, invece, attenuano poco la luce (10 15 per cento), mentre riflettono gran parte delle radiazioni infrarosse che fanno consumare più energia senza aiutarci a vedere: solo il 35 per cento attraversa la lastra, mentre il resto torna indietro. In altre parole, il calore riflesso è più che triplicato rispetto al vetro ordinario. Questa proprietà è stata ottenuta rivestendo a 650 il vetro ancora fluido con uno strato invisibile e uniforme di ossido stannico, dello spessore di 0, 2 millesimi di millimetro. Tale composto non può essere usato puro perché sarebbe inefficace deve essere «drogato». Si ottiene un buon effetto sostituendo con fluoro una parte (1 3% ) degli atomi di ossigeno. Secondo calcoli fatti dai ricercatori dell' azienda americana, questo tipo di rivestimento può aumentare del 50 per cento il potere isolante di una finestra a doppio vetro. Cioè quelle due lastre, se così ricoperte, fanno risparmiare energia come se fossero tre. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


UNO STUDIO SU «NATURE» Piante con i nervi a fior di pelle Così comunicano le cellule dei vegetali
Autore: CARRADA GIOVANNI

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 105

I fortunati possessori del «pollice verde» sospettano da tempo che anche le piante del loro balcone possiedano qualche forma di sensibilità. Negli Anni 70 si era accertato che i germogli di pisello cominciano ad avvolgersi su se stessi a spirale dopo essere stati ripetutamente sfiorati. Il sedano e la lattuga, se vengono accarezzati dal vento, crescono più bassi e più forti. E le foglie della Mimosa pudica che si chiudono quando vengono sfiorate, o le trappole a scatto di piante carnivore come la Dianaea muscipula, fanno pensare al comportamento di un animale più che a quello di una pianta. Nel 1984 un' equipe di biofisici americani aveva scoperto nelle foglie di grano gli ingredienti molecolari di una trasmissione di tipo nervoso. Ma una prima e importante conferma al sospetto che le piante siano qualcosa di più di «semplici vegetali » arriva oggi dai risultati di un esperimento condotto da un gruppo di ricercatori inglesi, pubblicati sulla prestigiosa rivista «Nature» : anche nelle piante i messaggi sensoriali vengono trasmessi da un segnale elettrico, che ha diversi punti di somiglianza con il potenziale d' azione delle cellule nervose degli animali. Come la Mimosa pudica, circa un migliaio di piante da fiore, appartenenti a di ciassette famiglie, reagiscono con un movimento quando vengono toccate. Tutte le piante, comunque, possiedono meccanismi di difesa che richiedono la trasmissione di messaggi da una parte all' altra dell' organismo. Se ad esempio un bruco comincia a rosicchiare una foglia di una pianta di pomodoro, dopo alcuni minuti tutte le altre foglie cominceranno a produrre una proteina che le rende indigeste al predatore, convincendolo a lasciar perdere. La stessa risposta può essere provocata dal taglio della foglia. Negli ultimi vent' anni i fisiologi vegetali hanno esaminato la candidatura al ruolo di messaggero chimico di diverse sostanze presenti nel «sistema circolatorio» delle piante. Tutte, dopo sperimentazioni più o meno lunghe, sono state via via scartate. La svolta è arrivata con un esperimento effettuato di recente sul pomodoro. Un gruppo di ricercatori inglesi ha infatti dimostrato che lo stimolo viene trasmesso sotto forma di un' onda di inversione del potenziale elettrico della membrana delle normali cellule vegetali, in modo molto simile al potenziale d' azione delle cellule nervose animali. Ripetendo l' esperimento a temperature più basse, che bloccano la circolazione dei liquidi della pianta ma non la trasmissione degli impulsi elettrici, i ricercatori hanno poi escluso l' eventualità che lo stimolo possa essere trasmesso dalla diffusione di una sostanza rilasciata dalla foglia danneggiata. Il «messaggio» elettrico delle piante viaggia a velocità variabili tra i quattro millimetri e i tre centimetri al secondo, una velocità molto bassa in confronto al metro o addirittura ai cento metri al secondo raggiunti nelle fibre nervose degli animali superiori. In realtà il tipo di trasmissione da una cellula all' altra è quasi identico a quello molto ben conosciuto presente nell' epitelio di molti animali inferiori, come le meduse. E non sarebbe un caso. Gli stessi ricercatori sono infatti convinti che si tratti di un' eredità comune ai due grandi regni della vita. Gli animali l' hanno progressivamente affinata fino all' evoluzione della coscienza. Che cosa ne abbiano fatto invece le piante, cominciamo a scoprirlo soltanto adesso. Giovanni Carrada


L' INCIDENTE AEREO IN PORTOGALLO Il vento che uccide «Wind shear», e il jet si schianta
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, INCIDENTI, AEREI
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D Schema di un «microbuster», «Wind shear», «vento mortale»
NOTE: 106

AEROPORTO Josè Mart, L' Avana: è il 2 settembre 1989. Un Ilyushin 62 della compagnia di bandiera cubana si schianta al suolo pochi istanti dopo il decollo. Nella sciagura muoiono 113 turisti italiani. Pochi giorni dopo, è il 27 settembre, all' aeroporto di Punta Raisi l' MD 80 dell' Ati «Città di Pisa» comincia la corsa di decollo. A bordo, 99 passeggeri e 5 membri d' equipaggio. Raggiunti i 133 nodi (246 chilometri l' ora) l' aereo si stacca regolarmente da terra. Dopo pochi attimi la velocità cala improvvisamente. Il bireattore tocca il suolo e, nonostante i freni e l' inversione della spinta dei motori, esce di pista fermandosi a poche decine di metri dal mare. E ancora, pochi giorni fa, un Dc 10 in atterraggio a Faro, nel Sud del Portogallo, durante un violento temporale, si schianta sulla pista come sotto una manata gigantesca, si spezza in due, la parte posteriore brucia: le vittime sono 54. A Punta Raisi come all' Avana, come in Portogallo l' imputato è lo stesso: il wind shear, cioè la repentina variazione della velocità e della direzione del vento in prossimità del suolo. Contro il «deadly wind», il vento mortale, i piloti hanno ora un alleato: un sistema di allarme a bassa quota (Low Level Windshear Alert System o Llwas) Si tratta di un sistema, già installato in oltre cento aeroporti degli Stati Uniti, capace di analizzare il vento attraverso una rete di sensori e di dare eventuali allarmi. In Italia è operativo a Pantelleria, dove ha recentemente terminato la fase di sperimentazione. Il wind shear più pericoloso è il «microburst» forte corrente discendente che, investendo il terreno, è costretta a defluire radialmente. Immaginate il getto d' acqua del rubinetto. E' stato calcolato che la velocità della massa d' aria in caduta può raggiungere i 50 chilometri l' ora, mentre il suo diametro può andare da uno a due chilometri e mezzo. Il fenomeno è di breve durata ed esaurisce la sua energia in pochi minuti. Il microburst può essere fatale agli aerei nelle fasi più delicate del volo: decollo e atterraggio. Quando, cioè, la velocità è vicina a quella minima di sostentamento e la prossimità del terreno non offre scampo. Un aereo che lo attraversi può incontrare dapprima un vento frontale che provoca un aumento della velocità rispetto all' aria. Oltrepassato il nucleo, si trova improvvisamente investito da una corrente discendente e da un vento di coda che sottrae la propria velocità a quella del velivolo. L' intensità del fenomeno può portare allo stallo aerodinamico. A rendere il microburst insidioso contribuisce anche la rapidità con la quale si manifesta. Il 2 agosto 1985 un Tristar della Delta Airlines precipitò atterrando all' aeroporto di Dallas a causa di un violento wind shear: pochi minuti prima era atterrato un altro aereo senza registrare alcunché di anormale. A provocare il wind shear sono principalmente i movimenti delle masse d' aria legati ai fenomeni temporaleschi. L' incidente di Cuba avvenne proprio durante un violento nubifragio. Ma il fenomeno può manifestarsi anche in assenza di precipitazioni. E i radar meteorologici riconoscono le precipitazioni, ma non il vento (sono però in sperimentazione radar di nuovo tipo, che, sfruttando l' effetto Doppler, misurano la velocità del pulviscolo sospeso nell' aria). Altra causa del wind shear è l' orografia. In Italia sono diversi gli aeroporti soggetti a questo fenomeno: Palermo, Napoli, Genova, Reggio Calabria, Pantelleria. Su quest' ultimo è stato installato il primo sistema d' allarme europeo, progettato e realizzato dalla Ciset Compagnia Italiana Servizi Tecnici. Il sistema, denominato Saaw, è costituito da 11 stazioni che rilevano e trasmettono ogni dieci secondi a un centro di calcolo e controllo i dati sulla velocità e direzione del vento. Qui le informazioni vengono elaborate da un computer, che analizza le indicazioni e confronta la situazione in atto con le soglie di allarme. Il numero e la dislocazione delle stazioni periferiche possono variare a seconda dell' orografia. Il collegamento con il centro di controllo è via radio in Uhf/Fm. Anche il software del computer deve essere «tarato » in base alle caratteristiche dell' aeroporto. E' di fondamentale importanza, quindi, la messa a punto del sistema, che richiede un periodo di almeno un anno. Due i tipi di avviso: giallo (preallarme ) e rosso, quando è in atto un wind shear pericoloso. Oltre ad avvisare gli operatori della torre di controllo, il Saaw potrà essere in futuro collegato con il nuovo sistema di avvicinamento Mls e trasmettere l' allarme direttamente alla cabina di pilotaggio degli aerei. Giancarlo Riolfo


ELETTRONICA Note in punta di penna Scrivere a mano sul calcolatore
Autore: MEO ANGELO RAFFAELE

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 106

IN un momento di grave crisi per l' informatica una novità tecnologica porta qualche speranza di ripresa. E' la penna elettronica, nuovo dispositivo di ingresso al calcolatore, che sostituisce la tastiera e consente di scrivere a mano, su una tavoletta, l' informazione da elaborare: un grafico, un testo o un insieme di dati numerici. Almeno una decina di tecnologie diverse sono state proposte per realizzare la penna elettronica. Molte utilizzano una trama di sottili fili verticali, ortogonali a un secondo sistema di fili orizzontali, tutti nascosti nella tavoletta di scrittura. In una delle soluzioni proposte, la punta della penna funziona da antenna: quando la punta della penna tocca un punto della superficie della tavoletta, emette un segnale che è raccolto soltanto dai fili orizzontali e verticali che passano vicino a quel punto. Così un opportuno microprocessore, che non è il calcolatore principale del sistema ma si occupa soltanto della penna, riesce a stabilire, sulla base dei fili orizzontali e verticali eccitati, la posizione della penna istante per istante, e quindi l' intero percorso della mano sulla tavoletta. La tavoletta di norma svolge anche la funzione di visualizzazione, in modo che l' operatore possa vedere il disegno che sta nascendo e abbia l' impressione di scrivere sulla tavoletta. In virtù delle ridottissime sezioni dei fili, la risoluzione del sistema, ossia il minimo spostamento della penna che viene percepito dai sensori, è eccezionalmente alto, dell' ordine di 1 5 centesimi di millimetro. Anche la precisione è molto alta: le coordinate di un punto sono valutate con un errore massimo di 25 30 centesimi di millimetro. Si fanno tavolette di tutte le dimensioni, ma il mercato più promettente sembra essere quello dei piccolissimi «palm top», i calcolatori che stanno nel palmo di una mano, pesano pochi ettogrammi e costituiscono le agende elettroniche della nuova generazione. Per questi nuovi strumenti di lavoro, o di gioco, i costruttori hanno pensato a funzionalità diverse. La più importante è ovviamente la funzione di agenda elettronica. Il nuovo «personal digital assistant» funziona da calendario, sveglia, blocco per appunti, archivio. Ha un «text editor» per memorizzare un testo, che potrà essere stampato al ritorno a casa o in ufficio, o un «data base management system», per ricordare a un commesso viaggiatore tutte le ordinazioni ricevute per ogni articolo del suo campionario. La novità importante è la possibilità di memorizzare non soltanto un nome, o un numero, o una data, ma anche uno schizzo. Una seconda importante funzione dei nuovi «palm top» è la capacità di comunicare. Sono infatti dotati di un modem per mezzo del quale possono trasmettere o ricevere dati attraverso la presa del telefono. In alternativa, possono essere dotati di un piccolo trasmettitore o ricevitore radio, oppure possono essere collegati al telefono cellulare. In entrambi i casi potranno essere utilizzati per accedere ad una banca dati, o inviare una comunicazione ad un sistema di posta elettronica, o ricevere un fax. Lo stesso schizzo disegnato sulla tavoletta potrà essere inviato al fax di un amico. Gli oggetti di questa nuova famiglia di elaboratori, che vanno dalle agendine elettroniche sofisticate ai «palm top personal computer», si vendono a prezzi variabili da 300 a 1000 dollari. Il loro mercato annuo è dell' ordine di 60. 000 pezzi, ma vi sono previsioni, forse troppo ottimistiche, che parlano di 500. 000 unità nel 1993 e di oltre 4. 000. 000 nel 1997. Il loro successo commerciale non dipenderà soltanto dai capricci del mercato o dalla crescita culturale dell' utenza, ma anche dal successo o no delle ricerche scientifiche e tecnologiche che in questo momento fervono nei laboratori industriali dei principali concorrenti: perché il contenuto di informazione di un disegno sulla tavoletta è molto alto, e può superare il milione di caratteri; occorrono quindi calcolatori molto potenti per elaborare quelle immagini. Alcune agendine elettroniche con penna hanno una potenza di calcolo installata dell' ordine di 20 milioni di istruzioni al secondo, più del minielaboratore gestionale di una media azienda. Occorrono processori ancora più potenti e grandi memorie in pochissimo spazio per trattare e conservare le immagini. I nuovi calcolatori con penna hanno bisogno anche di un potente e sicuro riconoscitore della scrittura manuale. Infatti, se i dati sono introdotti a mano con la penna, il microprocessore di bordo deve comprendere che un certo disegno, fatto da migliaia di punti rilevati dai sensori, rappresenta una certa cifra o una certa lettera dell' alfabeto. Oggi il calcolatore non riesce a interpretare la scrittura corsiva continua, ma può riconoscere un carattere stampatello isolato con precisioni dell' ordine di 95 99%. I nuovi calcolatori con penna sono dotati di una capacità di calcolo sufficiente a riconoscere 19 caratteri su 20, che non bastano perché un utente professionale o semiprofessionale non perda la pazienza e torni all' agendina di carta. Angelo Raffaele Meo Politecnico di Torino


COSTITUITA LA EMS I matematici nell' Europa ' 93 «Un ruolo importante per la scuola e l' economia»
Autore: SPIGLER RENATO

ARGOMENTI: MATEMATICA, INAUGURAZIONE
ORGANIZZAZIONI: CEE, EMS EUROPEAN MATHEMATICAL SOCIETY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 106

L' integrazione europea passa anche per la matematica. In vista del fatidico 1993 è stata fondata la European Mathematical Society (Ems). L' evento risale al 28 ottobre 1990 e ha avuto luogo a Madralin, vicino a Varsavia, in una sede di campagna dell' Accademia delle Scienze Polacca, dinanzi a circa 50 inviati, rappresentanti una trentina di società matematiche europee. Il presidente è il tedesco F. Hirzebruch, i due vicepresidenti sono il polacco Olech e l' italiano Figà Talamanca (attuale presidente dell' Umi, l' Unione matematica italiana). Nota curiosa, la società è soggetta alle leggi finlandesi, avendo sede in Helsinki. Inutile dire che gli scopi sono la promozione e lo sviluppo della matematica in tutti i suoi aspetti, in tutti i Paesi d' Europa. Così l' accento è posto su ricerca e applicazioni, collaborazioni sovrannazionali e convegni, l' esplorazione di una «matematica industriale» e dei legami con l' informatica. Ma tutto ciò non costituisce una gran notizia: un' associazione di dentisti o di speleologi non agirebbe con strategie molto diverse. Va invece sottolineata l' importanza dell' aspetto educativo. L' istruzione a tutti i livelli, ma soprattutto a quelli più alti, non è la stessa nei vari Paesi d' Europa, nè come organizzazione degli studi, nè in quanto a qualifica raggiunta. Ad esempio in Spagna l' ingegnere si forma in sei anni, ed è dotato di solide basi teoriche, ma non di quelle sperimentali nè di pratica alcuna. La riduzione forzata della durata dei corsi di laurea a cinque anni (per uniformarli allo standard europeo) potrebbe portare (ed è questa la previsione di taluni) ad una dequalificazione, dato che si pensa che la preparazione resterà meramente teorica mentre sarà indebolita a causa della compressione della durata degli studi. In Italia è stato istituito il Diploma universitario, detto comunemente «laurea breve». Un diploma molto atteso è quello in ingegneria, in particolare in ingegneria informatica e in ingegneria automatica. La durata di questi studi è di tre anni anche se, secondo alcuni, ne sembrerebbero necessari quattro, durata però inaccettabile perché lo standard europeo considera laurea o meglio master un corso di quattro anni. Dunque l' escamotage di dichiarare di tre anni la durata ufficiale del diploma in ingegneria, richiedendo però alla fine uno stage (anche di 6 mesi) per scrivere una specie di tesi. Vi è dunque la necessità di livellare, equiparare e integrare in qualche modo gli studi corrispondenti nei vari Paesi della Cee. Si pensi anche ai programmi di scambio Erasmus, attivi da qualche anno istituiti per favorire esperienze di studio universitario in Paesi diversi. In questo rispetto una società come l' Ems può giocare un certo ruolo, forse più significativo che nel caso di altre discipline. Infatti non è un mistero che la matematica risulti mediamente più ostica delle altre materie e che il rapporto docente studente, o libro studente, dovrebbe essere sviluppato in modo da avvincere anziché respingere l' allievo. Per questo motivo l' aspetto didattico è più curato dalle società matematiche che non, ad esempio, da quelle di fisica. Ed è assurdo sprecare talenti: «A brain is a terrible thing to waste» (un cervello è una cosa terribilmente importante per essere sprecata) dicono gli americani per promuovere il recupero delle minoranze. Se si considera che la nostra società si basa su di un' integrazione sempre più stretta tra realtà produttiva, sviluppo tecnologico ed istruzione, e sempre più sarà importante possedere il «know how» piuttosto che le materie prime, e se si accetta che è la matematica la chiave che apre le porte delle tecnologie più avanzate, risulta evidente che il non facile impegno dell' Ems nel campo dell' istruzione matematica in Europa è qualcosa di più di un compito istituzionale di una qualsiasi società scientifica. Renato Spigler Università di Padova


SCAFFALE Delfini Mirella, «Senti chi parla: interviste con gli animali», Mondadori
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 106

«Tra milioni e milioni di insetti che ci sono al mondo, l' uomo è riuscito ad addomesticare solo noi e le api. Che sfortuna abbiamo avuto, porca miseria] Ma quelle almeno sono libere, noi invece facciamo una vita da galeotti e alla fine ci aspetta il patibolo». Così parlerebbe un baco da seta, se avesse la parola. E la balenottera azzurra? «E' vero che voi uomini adottate balene? Allora adotti mio figlio: ce l' ho sempre tra le pinne, è un tale rompiscatole. Come? Non se lo porta a casa? Le sembra onesto, allora, mettersi le magliette con la scritta "Ho adottato una balena" se poi quando ve ne offrono una non la volete? ». Mirella Delfini, inviato speciale nelle zone calde del mondo ormai convertita all' etologia, ha immaginato una sessantina di incontri interviste con gli animali delle più diverse specie: divertenti, istruttivi e informati.


SCAFFALE Oliverio Ferraris Anna, «Crescere: genitori e figli di fronte al cambiamento», Raffaello Cortina Editore
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: PSICOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 106

FABIO dorme nella camera dei genitori e ogni mattina si sveglia con la mamma. Dopo essere stato lavato e vestito, gioca con lei e la segue dappertutto. Qualche volta vanno ai giardinetti, ma è sempre lei che suggerisce i giochi. Vuole che Fabio sia sempre in vantaggio rispetto agli altri bambini, così prende la palla se lui la lascia cadere, gli indica dove si nascondono, prende le sue difese se litigano. Quando è ora di pranzo, Fabio viene imboccato e, se non vuole mangiare, la madre lo costringe con le minacce, le moine o magari turandogli il naso perché apra la bocca. Niente la ferma, nemmeno il suo vomito. Finito il rito, i due siedono davanti alla televisione, per la telenovela. Verso le tre vanno a dormire: lui non vuole, ma lei lo trascina nel suo letto e gli si sdraia accanto Verso le cinque escono e Fabio viene portato quasi sempre in braccio. Tornano a casa e cenano insieme. Quando il padre rientra mai dopo le sette e mezzo gli tocca mangiare da solo. Fabio ha già quattro anni. Un' altra storia. La racconta una ragazza che oggi ha ventidue anni: «Mi ricordo che fin da piccola i miei genitori, per lasciarmi la massima libertà, non mi hanno mai detto di fare questo o quello, volevano che fossi libera di decidere su tutto senza interferenze. Agivano così a fin di bene, ma io senza indicazioni non sapevo bene cosa fare, cercavo di ispirarmi a loro, di capire come si sarebbero comportati al mio posto. Il più delle volte, però, non sapevo che decisione prendere e quindi mi comportavo a caso. Insomma, avrei preferito che mi dicessero che cos' era giusto e che cosa sbagliato». La relazione dei genitori con il figlio, spiega la psicologa Anna Oliverio Ferraris nel suo bel libro «Crescere», naviga fra due scogli: da un lato, l' abbandono (anche sotto la forma dell' indifferenza e del disinteresse), dall' altro l' iperinvestimento, che non consente al figlio di rendersi autonomo. E' il cambiamento, il grande spauracchio dei genitori: confrontarsi con il figlio che cresce, si stacca, non è più quello di prima. E quindi, con le parole o i comportamenti, chiede continuamente di ridefinire i reciproci ruoli Conoscere le diverse tappe psicologiche aiuta certamente ad affrontarle meglio.


SCAFFALE Hauri Peter, Linde Shirley, «Vincere l' insonnia», Bollati Boringhieri
AUTORE: VERNA MARINA
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 106

Ha inventato un programma di terapia del sonno ormai famoso in tutto il mondo. E, dopo averlo spiegato agli americani, adesso lo propone anche nella traduzione italiana. «Vincere l' insonnia», di Peter Hauri, è un libro sul sonno, sulle ragioni per cui non sempre è di buona qualità e sulle tecniche per ritrovarlo a misura dei propri bisogni. L' insonnia infatti non è solo quella che tiene svegli tutta la notte, anche se di solito si sorvola sulle notti occasionalmente tormentate. Il dottor Hauri insegna come farsi una diagnosi, utilizzando i test e i questionari proposti nel libro, e trovare lo stile di vita che, meglio delle pillole, aiuta a superare il problema.


I BASETTINI Dopo il primo volo, il flirt Le coppie si formano prestissimo e durano tutta la vita Un risparmio di energie che consente di triplicare le covate
Autore: INGLISA MARIA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 107

I basettini (Panurus biarmicus) si «fidanzano» da giovanissimi, pochi giorni dopo essersi involati dal nido, e stanno insieme tutta la vita. Lui ha il capo argentato, il becco di un giallo brillante e due bei mustacchi neri da «maschio latino»; lei il becco bruno e il capo castano. Vivono nei canneti lungo le rive dei laghi e delle lagune e costruiscono il nido intessendo fili d' erba alla base delle canne, a pochi centimetri dal terreno. Questi minuti uccellini, che pesano appena 14 grammi, si muovono come piccoli acrobati anche nei canneti più fitti riuscendo ad aggrapparsi contemporaneamente a due steli di canna, con i piedi divaricati, ognuno stretto a un fusto. Durante la primavera e l' estate si cibano di piccoli invertebrati (insetti e molluschi) mentre d' inverno, quando le piccole prede scarseggiano, il loro menù è vegetariano. La possibilità di sfruttare cibo di origine vegetale, disponibile in buone quantità anche nella cattiva stagione, non sottrae questo animale agli effetti nefasti degli inverni molto rigidi. In particolare nel freddo inverno 1946 ' 47 i basettini scomparvero dall' Europa Occidentale. Da allora però la specie ha ricolonizzato gran parte delle aree originarie ed è in forte espansione anche in Italia, dove nidifica negli estesi canneti costieri dell' Adriatico settentrionale, della Puglia, dei laghi di Mantova e Trasimeno. Dal 1987 un gruppo di ricercatori dell' Università di Padova studia il comportamento riproduttivo di una piccola popolazione semisolata di basettini che vive nei canneti della Laguna di Venezia, tra la Malcontenta e Moranzoni, un' area assediata dagli impianti industriali. In particolare gli studiosi padovani hanno indagato l' esistenza e la consistenza reale dei legami di coppia fra i giovani basettini, cercando spiegazioni sul significato adattativo di questo particolarissimo comportamento. La prima parte del lavoro è consistita in un' operazione di «schedatura» della popolazione: con reti speciali (mist nets) sono stati catturati un centinaio di individui e ciascuno è stato regolarmente marcato con anelli prima di essere liberato. Anche nei giovani i sessi sono ben riconoscibili già dopo la prima settimana dall' involo dal nido e di solito i membri di una coppia finiscono insieme nelle maglie delle reti tese dagli ornitologi. Inoltre sono stati marcati anche alcuni pulcini ancora nel nido; così facendo si è potuto conoscere la loro relazione di parentela prima che abbandonassero il nido, ponendo quindi le condizioni per verificare in futuro l' eventuale formazione di coppie fra consanguinei. Le operazioni di cattura, marcatura e rilascio dei basettini sono proseguite nel corso degli anni e hanno permesso di raccogliere preziose informazioni sulla popolazione e sul comportamento dei giovani. Coppie di giovani formatesi nel 1987 sono state ricatturate l' anno successivo, a conferma del fatto che da questi «flirt pre matrimoniali» sbocciano rapporti che durano per la vita. Secondo gli ornitologi padovani, il significato adattativo dell' appaiamento precoce potrebbe essere quello di guadagnar tempo l' anno successivo al momento della stagione riproduttiva: essendo la coppia già formata, non è necessario impiegare tempo ed energie per scegliersi un partner, corteggiarlo e combattere con eventuali rivali in amore. La riproduzione inizia in anticipo rendendo possibile un numero superiore di covate per stagione; il basettino, infatti, è uno dei passeriformi paleartici a più alto tasso riproduttivo (3 4 covate di 4 6 uova per stagione). Inoltre, se per qualche ragione occorresse colonizzare un nuovo ambiente in cui nidificare, è più vantaggioso farlo con coppie già costituite che rischiare di disperdersi isolatamente in un' area nuova e sprecare tempo e fatica per cercarsi un partner. Fin qui i vantaggi. Ma un comportamento all' apparenza tanto romantico potrebbe favorire l' incesto. Infatti negli uccelli, dopo la riproduzione, si verifica normalmente una fase di dispersione durante la quale i giovani si allontanano dall' area in cui sono nati. Nelle popolazioni di basettino, invece, i giovani della stessa nidiata rimangono uniti per circa due settimane dopo l' involo e hanno poi una dispersione molto limitata nei primi due mesi di vita. Perciò la possibilità che si formino coppie tra fratelli e sorelle, cioè tra individui che hanno un corredo genetico parzialmente identico, potrebbe essere maggiore. Per appurarlo i ricercatori dell' ateneo padovano nel 1992 hanno sottoposto 15 basettini, scelti casualmente, al test dell' impronta digitale genetica (Dna fingerprinting) per verificare il grado di parentela fra loro. E' risultato che i basettini sono molto poco imparentati fra loro, a conferma del fatto che normalmente nella popolazione non si verificano incesti. Evidentemente i basettini hanno sviluppato efficaci meccanismi di riconoscimento di parentela e riescono così a evitare l' accoppiamento fra consanguinei. Maria Inglisa


PROGETTI FAO Tornano i boschi in Nepal e i contadini scendono a valle allettati dagli alberi da frutta
Autore: STEINMAN FRANCESCA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AGRICOLTURA, PROGETTO
ORGANIZZAZIONI: FAO
LUOGHI: ESTERO, NEPAL
NOTE: 107

DOMINATO dagli elementi, ancor prima che dalle dinastie che vi si sono succedute, il Nepal, dopo il Tibet, è l' unico Paese al mondo a vantare il 65% del proprio territorio al di sopra dei 2000 metri; anzi, il 10% addirittura oltre i 5000. Dei suoi circa 150 mila chilometri quadrati, poco meno di mezza Italia, solo il 35% è sotto i mille metri di altitudine. L' innalzamento delle vette himalayane viene fatto risalire a circa 75 milioni di anni fa, quando il fondo del grande oceano Teti, che ricopriva la parte settentrionale del subcontinente indiano, sarebbe entrato in collisione con le masse continentali di quella che oggi costituisce la Cina. Questo scontro fece scomparire l' oceano e nascere la catena montuosa lunga 3000 chilometri, di cui 880 nel Nepal. Su queste montagne la foresta scompare a ritmi allarmanti per soddisfare il fabbisogno energetico delle popolazioni. Il Paese è ricco di acque, ma sfruttare questa risorsa è dispendioso, in capitali e tecnologie. Così la legna da ardere resta l' unica fonte di energia per l' uso domestico, con punte del 65% nelle aree urbane e del 95% in quelle rurali. Davanti alle foreste ridotte al 30% della superficie iniziale e con il rischio di perdere per sempre l' habitat naturale indispensabile alla fauna selvatica, nel 1985 il governo nepalese si è rivolto alla Fao per attuare un progetto di rimboschimento e conservazione del patrimonio naturale. E' nato così il progetto di Shivapuri, dal nome della montagna che si innalza a 2700 metri immediatamente a Nord della capitale Katmandu. Qui, su un' area protetta di 140 chilometri quadrati e una strada di 110 chilometri che vi si snoda attorno, sono stati messi a dimora migliaia di pini da rimboschimento. «Non è stato facile convincere i contadini a scendere più a valle per permettere alla montagna di rigenerare il suo manto ammette Larry Tennyson, un affabile professore statunitense esperto in riforestazione e irrigazione, capo del progetto . Quando siamo arrivati non ci volevano neanche vedere. Ci hanno salvato gli alberi da frutta. Li abbiamo piantati, abbiamo coltivato verdura. Quando si sono accorti che di prodotto ce n' era abbastanza per la famiglia e ne restava anche da vendere al mercato sono stati loro che ci sono venuti a cercare... ». Sulle pendici dello Shivapuri, «dimora di Shiva» (ma non quella ufficiale che si trova in Tibet sul Monte Kailas), oggi, grazie al rimboschimento, flora e fauna (orso, leopardo, cervo e cinghiale selvatico) hanno ripreso possesso di buona parte della montagna. Ma i pini non sono la specie più adatta a un uso molteplice della legna, dicono a Chitwan, il parco nazionale del Mahendra Conservation Trust, nella piana del Terai, nel Sud del Paese. Trattengono l' acqua, è vero, ma non forniscono cibo, nè per l' uomo nè per gli animali, e poi bruciano facilmente e ormai sono così tanti che cominciano a rappresentare un pericolo per gli incendi. La seconda fase del progetto dovrà occuparsi più direttamente anche delle reti idriche e dell' incanalamento delle acque di cui la montagna abbonda. Se tanta parte della foresta montana è andata distrutta dall' uomo, quella del Tarai si è salvata in quanto zona malarica. Come la foresta di Chitwan, «Cuore della giungla», ora trasformata in riserva: un' area malsana che non ha facilitato gli insediamenti umani. A un certo punto, però, la fame di spazi dei contadini, per la pressione demografica, era diventata così forte che il governo aveva dovuto cedere e aprire Chitwan all' agricoltura, intraprendendo un' intensa campagna decennale di bonifica. Così, tra gli Anni 50 e 60, la popolazione della zona era triplicata e due terzi della foresta erano andati distrutti. Con alberi, erbe e licheni in via di estinzione, anche il rinoceronte, il re di questi luoghi, rischiava di sparire per sempre. Fu allora che il defunto Re Mahendra dichiarò tutta la zona a Sud del fiume Rapti Parco Nazionale. Chitwan oggi ospita oltre 400 rinoceronti, circa 80 tigri, oltre 400 specie di uccelli, nonché orsi, alligatori e un' infinità di alberi e arbusti dell' ambiente subtropicale. All' interno del parco, i fiumi Reu e Rapti si incontrano per formare il grande Narayani, che scende verso l' India. Scivola la canoa ricavata da un unico tronco di Haldu (Aldina cardifolia) e incanta osservare il volo di taluni uccelli e il guado di altri che, più pigri, approfittano di un passaggio a dorso di bufalo e sembrano camminare sull' acqua. Ma il vero paradiso degli ornitologi è un po' più a Nord, nella natura lussureggiante di Tikauli, «Ventimila laghi». Qui vengono a nidificare le cicogne dal collo nero dell' Asia, ci sono aironi, pavoni, picchi e pappagalli variopinti, cervi e antilopi, rinoceronti e coccodrilli, e tutto sembra irreale attraverso la luce soffusa degli alti alberi di Sal. Il Sal (Shorea robusta) è un albero importante, per due ragioni. Primo, perché è sacro; la leggenda narra che Buddha sia nato alla sua ombra. Poi, perché fornisce materia prima per le costruzioni. E' un albero protetto ma nonostante tutto, continua a essere preso di mira dai tagliatori di frodo. «Anche i coccodrilli e le tigri sono protetti dice Buay P. Mall, addetto alle relazioni pubbliche della Fondazione Mahendra . I coccodrilli erano quasi scomparsi. Li stiamo riportando con un programma di ripopolamento e ora ve ne sono un' ottantina». I gharial sono coccodrilli dal naso lungo a martello. Si nutrono di pesce e sono allevati in cattività in apposite fattorie prima di essere reimmessi nelle acque dei fiumi. Non hanno valore economico, assicurano al Parco, e non finiranno mai in borse, cinghie o scarpe Francesca Steinman


NUOVI MECCANISMI DI BIOLOGIA MOLECOLARE Tutti i segreti della tossina del tetano Straordinario passo avanti nello studio del tessuto nervoso
Autore: MARCHISIO PIERCARLO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 107

E' stato finalmente svelato un veleno. La tossina del tetano, i cui sintomi sono noti da più di due millenni, ha finalmente un meccanismo di azione. Lo stesso vale per la tossina del botulismo, avvelenamento gravissimo e quasi sempre mortale dovuto a un batterio che raramente, per fortuna, contamina i cibi avariati. Le due tossine del tetano e del botulismo, prodotte da due clostridi diversi ma che appartengono alla stessa famiglia, danno sintomi di blocco nervoso e portano alla morte paralizzando la funzione di trasmissione dell' impulso nervoso. In un articolo apparso di recente su Nature, un gruppo di ricercatori italiani è riuscito a dimostrare che le tossine tetanica e botulinica sono ambedue enzimi dotati della capacità di riconoscere e spezzare la struttura di proteine. Sono cioè delle proteasi prodotte inizialmente dai batteri in forma inattiva ma che, per azione di altri enzimi, sono in grado di spezzarsi in due proteine più piccole, una delle quali contiene zinco, capaci di penetrare la membrana delle cellule nervose. Iniettate in neuroni isolati, le tossine ne bloccano istantaneamente la funzione interferendo con il rilascio di quelle molecole segnale, i neurotrasmettitori, che si incaricano di portare ordini ad altre cellule nervose. In altre parole, bloccano la funzione sinaptica che è la base del funzionamento del sistema nervoso. Fin qui non ci sarebbe nulla di sconvolgente perché esistono molte tossine, animali e vegetali, che bloccano con grande rapidità la funzione nervosa. I neurofisiologi le conoscono bene e le usano per studiare i meccanismi di segnalazione tra cellule nervose. La cosa invece straordinariamente nuova è che è stato identificato il bersaglio dell' attività proteasica delle tossine in una proteina già nota, la sinaptobrevina, che rappresenta un componente delle vescicole sinaptiche, minuscoli contenitori sferici che si fondono con la membrana dei terminali si naptici e rilasciano all' esterno il loro contenuto di molecole segnale. In realtà, lo studio del meccanismo d' azione delle tossine ha consentito di svelare soprattutto la funzione della sinaptobrevina e di gettare nuova luce sul meccanismo sinaptico in generale. Le vescicole sinaptiche sono da molti decenni oggetto di studio intenso. Nell' enorme complessità del tessuto nervoso esse rappresentano l' organello responsabile della trasmissione dei segnali. Tanto sforzo conoscitivo, al quale ha contribuito significativamente la ricerca italiana, ha fatto sì che le vescicole sinaptiche diventeranno presto il primo organello del quale si conosce integralmente la struttura proteica. Che è complessa ma non infinita. Esistono molecole implicate nell' accumulo all' interno del neurotrasmettitore, altre coinvolte nell' interazione con lo scheletro delle cellule, altre ancora implicate nel riconoscimento e nella fusione con la membrana del terminale sinaptico. Manca ancora la visione globale dell' interazione di queste molecole nello svolgere un compito così coordinato e complesso. La scoperta che le tossine del tetano e del botulismo agiscono in maniera così selettiva su una di queste scatenerà una corsa sfrenata all' identificazione della funzione delle altre ancora poco note. Credo sinceramente che tra poco si potrà dire che questi veleni mortali porteranno paradossalmente a conoscere uno dei principali fenomeni vitali, vale a dire la trasmissione dell' impulso nervoso. Piercarlo Marchisio Università di Torino


ODONTOIATRIA Sotto i denti, una calamita Rafforza la stabilità delle protesi
Autore: RUSPA ALDO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, TECNOLOGIA
NOMI: BEHRMAN STANLEY
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 107

LE tecniche di applicazione dei magneti nelle protesi sono poco conosciute al grosso pubblico, anche se da oltre mezzo secolo (e con fortune alterne secondo i tempi, i materiali e le tecniche adottate ) le calamite vengono utilizzate in odontoiatria per installare o rafforzare la stabilità degli apparecchi. Il principio fisico di partenza è la forza attrattiva che i magneti esercitano quando si avvicinano con polarità opposte e quella repulsiva quando hanno la stessa polarità. Negli Anni 50 Stanley Behrman, negli Stati Uniti presentò un metodo che prevedeva l' inserimento di due magneti (platino cobalto) nell' osso della mandibola e di altri due alla base della protesi. L' idea venne ripresa anche in Italia, con magneti a repulsione a poli omonimi multipli, ma il metallo usato non aveva ancora una forza sufficiente. La situazione migliorò nettamente negli Anni 70, con la disponibilità di nuovi materiali a base di terre rare di alta potenza al Samario Cobalto (SmCo5). Le nuove leghe al Neodimio ferro boro (Nd Fe B) messe a punto negli Anni 80 rivelarono una capacità di accumulazione di energia magnetica ancora maggiore. Il campo magnetico può essere chiuso: la potenza magnetica viene scaricata tutta in una sola direzione e in un solo verso. La massa magnetica viene ingabbiata sia sulle pareti laterali che sul fondo, lasciando libero soltanto un lato attraverso il quale avviene una forte attrazione. Il campo magnetico aperto è invece dato da una massa che attira o respinge altri magneti in tutte le direzioni. Oggi c' è la tendenza ad applicare una buona forza magnetica in un spazio sempre più ridotto, senza che la protesi perda in stabilità. L' ancoraggio magnetico rappresenta un attacco eccellente nei casi in cui siano pochi i denti mancanti, ma anche e soprattutto in quelle protesi «subtotali», quando cioè in tutta l' arcata sono sopravvissute poche o addirittura una sola radice. Nella protesi parziale, le piastrine, collocate in posizione orizzontale o verticale, possono essere applicate a elementi dentari vitali o devitalizzati. In presenza di sole radici, le protesi vengono applicate con i magneti incorporati, in corrispondenza delle piastrine cementate alla radice residua. In questo modo il «braccio di leva» è nullo e l' ammortizzamento della protesi avviene nelle tre dimensioni dello spazio, rendendo la radice, dopo qualche tempo più stabile di prima, per via delle sollecitazioni non eccessive Le cose invece si complicano quando mancano totalmente elementi dentari. In questo caso, i magneti possono essere sistemati alla base della protesi e le piastrine solidali a un gancio osseo, ancorate alla mandibola o all' osso mascellare superiore per mezzo di viti speciali. Un' altra soluzione è «sommergere», con un piccolo intervento chirurgico, l' impianto magnetico in una nicchia appositamente creata nell' osso e applicare i magneti alla base della protesi, che in tal modo verrà attratta dall' impianto e stabilizzata. Per poter ancorare una protesi di questo tipo e assicurarne la stabilità, bisogna cercare di conservare a lungo i propri denti, anche, entro certi limiti, quando sono pochi e vacillanti. Una visita di tanto in tanto presso lo specialita odontostomatologo o l' odontoiatra servirà a tener d' occhio il funzionamento del sistema e, in caso di riassorbimento osseo della mandibola o del mascellare superiore (eventualità tutt' altro che rara), a provvedere immediatamente al «ribasamento» della protesi per evitare un sovraccarico del magnete sulle radici, compromettendone la durata. Aldo Ruspa


L' EREDITA' DELLE AMERICHE Nuovo Mondo di medicine e di droghe Le foreste americane si rivelarono ricchissime di specie curative Ma a lungo gli europei diffidarono delle piante usate dai nativi Specie vegetali che hanno cambiato la vita in Europa dopo Colombo
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA, MEDICINA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. D.
NOTE: 108. Piante originarie delle Americhe in importate in Europa

TRA le innumerevoli «cose nove» che le Americhe offrivano al Vecchio Mondo dopo la loro scoperta, c' era anche una grande varietà di piante cui gli indigeni attribuivano proprietà miracolose. Gli europei, poco propensi a dar credito a quelle che ritenevano superstizioni pagane, non le presero sempre sul serio: soltanto in casi disperati, quando l' alternativa era tra morire in mezzo alla foresta o assoggettarsi alle terapie dei selvaggi, accettavano, più o meno coscientemente, di sperimentare gli infusi, i decotti o gli impiastri preparati con le «erbe magiche». E, il più delle volte, finiva bene. Con il passare del tempo, la medicina tradizionale degli indios e dei pellerossa venne guardata con sempre maggior rispetto, e oggi la poligala, l' ipecacuana, l' aloe, il boldo, lo jaborandi, la cascara fanno parte della farmacopea ufficiale di tutto il mondo. Tre piante, in particolare, hanno avuto un ruolo di primo piano nella storia medica e sociale del Vecchio Mondo: piante che forniscono rispettivamente un farmaco, un veleno e una droga. Sempre ricordando una vecchia massima della farmacologia secondo la quale il confine tra farmaco e veleno è, in ultima analisi, tracciato dalla dose...


LA CHINA La «polvere della contessa» già conosciuta dagli Incas che ha sconfitto la malaria
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA, MEDICINA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 108. Piante originarie delle Americhe in importate in Europa

SIAMO nel 1638 e la contessa Anna de Osorio del Chincon, moglie del Vicerè del Perù, sta morendo per una grave forma di malaria. Un indio riesce ad avvicinarla e a somministrarle una misteriosa polvere ricavata dalla corteccia di un albero, le cui virtù erano note agli Incas da tempo immemorabile. Nel giro di pochi giorni la contessa del Chincon si ristabilisce e, una volta guarita, ritorna in Europa recando con sè la polvere. Da allora, essa dedicherà la sua vita alla diffusione del portentoso medicamento, distribuendolo gratuitamente ai poveri del suo contado ed agli studiosi dell' università di Alcala, che lo faranno conoscere a tutta l' Europa con il nome di «polvere della contessa». La vicenda, narrata da Sebastiano Baldi nel 1663, non è priva di fascino romantico... ma è inventata di sana pianta: un' accurata ricerca di Haggis, nel 1941, ha dimostrato che la contessa del Chincon non ebbe mai la malaria e che, dal Perù, non tornò mai in Europa. Morì difatti a Cartagena de Indias, in Colombia, nel tentativo di farlo. Ma la leggenda godette di tale credito nei secoli seguenti da indurre Linneo a battezzare Chincona officinalis l' albero dalla corteccia miracolosa. Nel linguaggio corrente, tuttavia, si preferirà usare il termine china, derivante dalla parola inca kinia, che significa appunto «corteccia». La prima descrizione dell' albero della china è opera del monaco agostiniano Antonio de la Calancha che, in un libro del 1633 dedicato all' opera del suo Ordine nel Perù, descrive un arbol de calenturas ( «albero della febbre» ), la cui corteccia, ridotta in polvere e somministrata come infuso o decotto curava le febbri e la terzana. L' anno successivo, la china viene importata in Europa e messa in commercio. Il nome di «polvere della contessa» verrà rapidamente sostituito con quello di «corteccia del gesuita»: i gesuiti ne curavano difatti l' importazione, detenendone in pratica il monopolio. Il crescente attrito che la diffusione del pensiero cartesiano aveva creato fra gesuiti e mondo scientifico fece sì che per parecchi anni la china fosse «snobbata » dalla medicina ufficiale: la sua distribuzione venne così affidata a ciarlatani, imbonitori e venditori ambulanti. Non mancarono precoci estimatori anche negli ambienti scientifici: già nel 1643, Herman van der Heyden sostiene l' efficacia di una «polvere indiana» contro la terzana e la quartana; nel 1661 viene dato alle stampe il «De cina cina seu pulvere ad febres» del medico romano Gaudenzio Brunacio; ma soltanto nel 1677 la china fu inserita nella London Pharmacopoeia. La corteccia di china contiene una ventina di alcaloidi diversi, tra i quali la chinidina, che trova ancor oggi largo impiego nella cura delle aritmie cardiache ventricolari, e la chinina che, sotto forma di bisolfato (o «chinino» ), è dotata di proprietà antidolorifiche, antipiretiche e soprattutto antimalariche. La chinina è inoltre un eccellente eupeptico, e ciò rende la corteccia di china un' ottima base per la preparazione di amari e digestivi. Oggi la chinina potrebbe essere prodotta per sintesi, ma il procedimento risulterebbe troppo complesso e costoso, e per questo motivo si preferisce ricorrere ancora alle fonti naturali. Il «ricorso alle fonti naturali» significava, in passato, abbattere semplicemente gli alberi e decorticarli: ma questa sbrigativa pratica aveva quasi portato alla scomparsa della china nel natio Perù. Il tempestivo intervento di una commissione internazionale ha evitato il guaio stabilendo precise norme per il prelievo della corteccia senza per questo sacrificare l' albero. Le tecniche cui oggi si fa ricorso sono essenzialmente due: il taglio degli alberi (di almeno 7 8 anni) ad una certa altezza dal suolo, in modo tale che la parte rimasta sia in grado di sviluppare nuovi polloni laterali; e l' asportazione di strisce di corteccia verticali a periodi alterni: le zone decorticate vengono ricoperte e protette da argilla, muschio e licheni, e quando la nuova corteccia si è riformata, si asportano le strisce lasciate la volta precedente. Ma il più consistente aiuto alla sopravvivenza degli alberi di china nelle zone d' origine è stato fornito dalla loro coltivazione in Indonesia: le prime piante vennero introdotte nel 1892, ed attualmente la produzione indonesiana copre più dell' 80% del fabbisogno mondiale.


La lunga strada della coca Da privilegio dei re a killer del Duemila
AUTORE: BENEDETTI GIUSTO
ARGOMENTI: BOTANICA, DROGA, MEDICINA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 108. Piante originarie delle Americhe in importate in Europa

QUANDO Amerigo Vespucci sbarcò sull' isola Margarita al largo delle coste venezuelane nel 1499, venne a contatto con quella che definì «la razza più bestiale e brutale che mai si sia vista». Il poco caritatevole giudizio del navigatore fiorentino fu probabilmente determinato da una curiosa abitudine degli indigeni, quella di avere costantemente le guance «gonfiate da foglie di un' erba verde che masticavano come mucche». In realtà, gli indios di Margarita dovevano essere dei buoni diavoli, diffidenti forse ma non certo inospitali, tant' è vero che offrirono subito a Vespucci una manciata di foglie da masticare. Vespucci a quanto sembra le rifiutò, perdendosi così l' occasione di passare alla storia non soltanto come grande navigatore ma anche come primo cocainomane del Vecchio Mondo. Le foglie in questione erano difatti quelle dell' Erythroxylon coca, un arbusto endemico delle Ande peruviane e del Nord Ovest dell' Amazzonia, le cui proprietà erano note alle popolazioni precolombiane da un sacco di tempo: foglie e fiori di coca sono stati ritrovati nelle sepolture peruviane di Huaca Prieta risalenti al 2500 a. C. Gli Incas ritenevano la coca un dono degli dei, tanto da farne quasi l' emblema del loro impero: «Mama Cuca» era il nome che davano a Spica, la stella più brillante nella costellazione della Vergine, lo stesso nome che si attribuì la loro prima regina, quasi a simbolizzare il suo ruolo ed il ruolo della coca, quali «madri» del nascente impero. E' logico che, dopo tali premesse, la coca non fosse cosa da tutti: la sua origine divina faceva sì che il masticarne le foglie fosse inizialmente prerogativa dell' imperatore e dei sacerdoti. L' imperatore poteva estendere il privilegio anche a persone particolarmente meritevoli: medici, guerrieri, membri dell' aristocrazia. La coca, in altre parole, era un vero e proprio «status symbol». L' imperatore aveva però una gentile (e poco saggia) abitudine: quella di far dono della pianta di coca ai curacas, cioè ai capi delle tribù conquistate che facevano atto di sottomissione. A mano a mano che l ' impero si estendeva, la coca si allontanava dunque da Cuzco e perdeva sempre più l' aura di sacralità che la circondava: accadeva così che, nelle zone periferiche dell' impero, essa fosse usata anche dal popolo. Questa era la situazione che si presentò a Pizarro nel 1533, allorché iniziò la conquista dell' impero incaico, ed i conquistadores trovarono presto il modo di sfruttarla l' uso della coca e la sua coltivazione vennero incoraggiati ed ulteriormente diffusi, dal momento che consentivano agli Incas, resi schiavi, di lavorare più a lungo e con maggiore energia nelle miniere e nelle piantagioni. La pratica è vero fu ripetutamente condannata dalla Chiesa e dallo stesso governo spagnolo, ma, vista l' impossibilità di far osservare i divieti, si pensò bene di rendere la coca oggetto di un monopolio di Stato. Tale monopolio si protrasse per un paio di secoli, ma, a partire dalla fine del ' 700 il commercio della pianta ritornò nelle mani dei privati. E fu più o meno in questo periodo che l' Europa cominciò ad interessarsi alla droga. Stimolati dai fascinosi racconti degli esploratori, molti uomini di scienza e di cultura vollero studiare (e provare] ) le straordinarie virtù della coca e del suo principale alcaloide, la cocaina, che fu isolato da Nieman e Gottingen intorno al 1860. Delle foglie di coca tessono l' elogio illustri scienziati come Mantegazza e Christison; della cocaina tesse l' elogio Sigmund Freud che, pur contestato e criticato da numerosi colleghi, la prescrive con discreta liberalità ai suoi pazienti ed a se stesso; musicisti, pittori, scrittori cominciano a trovare (o credono di trovare) nella coca e nella cocaina fonte di ispirazione per la loro arte. Del clima che si va creando approfitta un giovane ed intraprendente chimico corso, Angelo Mariani, che mette in commercio un vino Bordeaux aromatizzato con foglie di coca: il «Vin Mariani» avrà come primi estimatori i cantanti lirici, che lo reputano un ottimo tonico per le corde vocali, ma farà successivamente proseliti illustri, quali lo Zar di Russia, il Principe di Galles, il Re di Svezia e di Norvegia, il presidente degli Stati Uniti Ulysse Grant, persino Papa Leone XIII. Nel 1886, John Pemberton mette in commercio la Coca Cola, «intellectual beverage and temperance drink» costituita da estratto di foglie di coca e noce di kola. Ma, nel frattempo, si andavano facendo sempre più evidenti i danni di tipo sanitario e di tipo sociale provocati dalla cocaina: lo stesso Freud fece marcia indietro e smise di consigliarla ai suoi pazienti (pur continuando a prenderla per sè ). Voci assai autorevoli, come quella del farmacologo Louis Lewin, definirono la cocaina «il più grande flagello dell' umanità dopo l' alcol e la morfina». La crescente ed ampiamente giustificata avversione contro la cocaina coinvolse anche le assai meno colpevoli foglie di coca, che comparivano ormai in numerose bevande alcoliche ed analcoliche, in infusi da té, in preparati galenici. Nel 1906, il «Pure Foods and Drugs Act» costrinse i produttori della Coca Cola ad eliminare la coca dalla bevanda e ad accontentarsi della caffeina contenuta nella noce di kola; nel 1914, infine, l' «Harrison Narcotic Act» inserì la cocaina e le foglie di coca tra i «narcotici» bandendo definitivamente l' una e le altre dal libero commercio. MDBOMDBOMDNM$ $


AI CONFINI DEL SISTEMA SOLARE Caccia al decimo pianeta E la Nasa vuole esplorare Plutone
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: OWENS TOBIAS
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 105

L'ESTREMA periferia del sistema solare conserva il fascino del mistero più fitto. E quindi, come certe dame velate, stimola il voyeurismo degli astronomi. Alcuni veli però stanno cadendo e altri potrebbero essere strappati all'inizio del prossimo secolo. La Nasa progetta due piccole sonde per raggiungere Plutone, il pianeta più lontano e l'unico che non sia ancora stato sorvolato da una navicella spaziale. La partenza potrebbe avvenire intorno al 2001, l'arrivo verso il 2015. Si parla di una missione a basso costo, con pochi strumenti essenziali: una telecamera e apparecchi per analizzare l'atmosfera. Alcune parti, come la batteria nucleare, verrebbero derivate dalla sonda Galileo (già in viaggio verso Giove) per ridurre al minimo le spese. I sostenitori della missione hanno un buon argomento: se non si raggiunge Plutone entro il 2020, la sua atmosfera gelerà perché il pianeta si inoltrerà nella parte di orbita che lo allontana dal Sole. E non poter studiare l'atmosfera plutoniana toglierebbe un bel po' di interesse scientifico all'impresa. Aspettando il 2015, Tobias Owens (Università delle Hawaii) ha scoperto che il componente principale dell'atmosfera di Plutone è l'azoto, seguito da monossido di carbonio e metano. La meteorologia plutoniana pare molto originale. Il metano, che sulla Terra è un gas, nella stagione fredda su quel pianeta si condensa in fiocchi, originando nevicate che formano estesi ghiacciai di questo idrocarburo. I ghiacciai, durante l'inverno plutoniano, riflettendo la luce solare, abbassano ulteriormente la temperatura del pianeta oltre i 200 gradi sotto zero. Pazienti osservazioni fatte da Leslie Young e Richard Binzel del Mit tra il 1985 e il 1990, periodo in cui Plutone veniva periodicamente eclissato dal suo satellite Caronte, fanno pensare a una superficie a strisce chiare e scure che potrebbero corrispondere rispettivamente a ghiacciai di metano e a rocce. Le fascie chiare si trovano soprattutto a Nord e nella zona temperata Sud. Nuove misure pubblicate sull'Astronomical Journal, infine, assegnano a Plutone un diametro lievemente maggiore di quello accertato cinque anni fa: 2400 chilometri anziché 2250. C'è poi la vicenda della scoperta del "decimo pianeta", enfaticamente annunciata da qualche giornale alla fine di settembre. Non esageriamo. I pianeti rimangono nove. E' vero però - come Tuttoscienze ha già riferito - che è stato individuato un piccolo corpo celeste al di là dell'orbita di Nettuno e di Plutone e che questo oggetto - uno strano asteroide, come vedremo, o forse un nucleo di una cometa dalle dimensioni eccezionali - è il membro più lontano della famiglia del sistema solare che mai sia stato osservato. Al "decimo pianeta" gli atronomi puntano fin dal 1930, quando l'americano Clyde Tombaugh scoperse il nono, Plutone. Piccole deviazione di Nettuno dall'orbita prevista avevano fatto pensare all'esistenza di un pianeta al di là di Nettuno stesso. La scoperta di Plutone, tuttavia, non ha risolto la questione: la sua massa è troppo piccola per giustificare le perturbazioni gravitazionali dell'orbita di Nettuno. Non solo: Plutone non detiene neppure in modo stabile il primato della massima distanza dal Sole. Poiché la sua orbita è molto ellittica, un tratto di essa si snoda all'interno dell'orbita di Nettuno. E' quanto sta accadendo in questi anni: fino al 1999 Nettuno sarà dunque il più lontano pianeta del sistema solare. Come se non bastasse, recentemente alcuni astronomi hanno persino messo in dubbio che Plutone possa essere considerato un pianeta a pieno titolo. Varie considerazioni portano a pensare che Plutone fosse un satellite di Nettuno, e che da Nettuno sia sfuggito per qualche influsso gravitazionale. Comunque stiano le cose, la caccia al decimo pianeta - che poi, se si declassa Plutone, sarebbe il nono - è tuttora aperta. La scoperta del misterioso oggetto battezzato giornalisticamente "decimo pianeta" non rientra in questo discorso. Vediamo, allora, di che si tratta (o potrebbe trattarsi). Il nuovo remotissimo membro della famiglia solare è stato individuato per la prima volta su una fotografia ripresa il 30 agosto con il telescopio da 2,2 metri installato a quota 4000 sul vulcano Mauna Kea, nelle isole Hawaii. David Jewitt e Janet Luu, due astonomi americani, lo hanno notato su una lastra fotografica con un puntino di luce di magnitudine 23, cioè sei milioni di volte più debole delle più deboli stelle visibili a occhio nudo. Davvero poco: se questo corpo celeste fosse collocato al posto di Plutone, risulterebbe mille volte meno luminoso. Per altre due sere David Jewitt e Janet Luu hanno fotografato la stessa zona di cielo. E' stato il confronto tra queste immagini a rivelare la presenza del nuovo "pianetino", la cui posizione di giorno in giorno cambia lievemente rispetto alle stelle fisse. Dal lentissimo moto, i due astronomi hanno dedotto la grande distanza di cio che stavano osservando. Il corpo celeste provvisoriamente è atato indicato con la sigla "1992 QB1". Il 27 e 28 settembre all'Osservatorio australe europeo (Eso), in Cile, Alain Smette e Christian Vanderriest, entrambi dell'Osservatorio francese di Meudon, sono riusciti a ottenerne altre immagini con il " Telescopio a nuova tecnologia" (Ntt) da 3,5 metri di diametro. Nel frattempo Brian Marsden, del Centro internazionale per lo studio degli asteroidi, era riuscito a valutare con buona precisione la distanza e l'orbita del nuovo corpo celeste, che si troverebbe a sei miliardi di chilometri dal Sole e avrebbe un periodo di rivoluzione di 262 anni (quello di Plutone è di 248 anni). Quale può essere la natura di questo nuovo ed enigmatico corpo celeste? In base al poco che oggi si sa, "1992 QB1" è un oggetto dal diametro di circa 200 chilometri, di colore rossastro, scuro, tale da ricordare sia le comete sia gli asteroidi di tipo carbonaceo. Come atredoide, però, si trova a una distanza e su un'orbita del tutto anomale. Come cometa, è invece anomalo il diametro, circa dieci volte maggiore di quello della Halley, che è già considerata come una cometa piuttosto grande. Si conoscono due asteroidi molto lontani dalla fascia dei pianetini "normali", compresa tra Marte e Giove: Chirone, scoperto nel 1977 da Charles Kowal (ma in questo caso siamo appena al di là dell'orbita di Saturno, cioè a una distanza quattro volte inferiore a quella di "1992 QB1") e "1992 AD", un corpo dal diametro di circa 140 chilometri, scoperto il 9 gennaio scorso da Rabinowitz, che si spinge al di là dell'orbita di Nettuno. Ci troviamo di fronte a una cometa gigantesca o a una nuova stirpe di asteroidi? Gerard Kuiper ha ipotizzato una "cintura" di corpi come tali proprio in questa periferia del sistema solare. Le osservazioni, molto difficili, continuano. Piero Bianucci




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