TUTTOSCIENZE 20 maggio 92


GENETICA Gli alberi perduti Soppiantati da quelli «artificiali»
Autore: STEINMAN FRANCESCA

ARGOMENTI: GENETICA, BOTANICA, RICERCA SCIENTIFICA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 073

NEGLI ultimi diecimila anni, da quando ha inventato l' agricoltura, l' uomo ha modificato e piegato l' ambiente naturale alle proprie volontà. Originariamente in modo primitivo, arrecando poco danno, poi in maniera sempre più consistente; a mano a mano che la popolazione aumenta, aumenta anche lo sfruttamento delle risorse e muta l' ambiente. Oggi questi cambiamenti ecologici sono al centro dell' attenzione e ci si chiede: come conservare il patrimonio genetico di base che ci ha permesso di tramandare di generazione in generazione le risorse che ci nutrono e ci permettono di esistere? L' erosione genetica, negli anni recenti, ha tenuto banco soprattutto alla Fao, l' Organizzazione delle Nazioni Unite per l' alimentazione e l' agricoltura. La selezione naturale di piante ed animali operata dall' uomo nella riproduzione di piante alimentari e di animali da allevamento viene spinta all' esasperazione dalle odierne pressioni esterne della produzione e del commercio. «Esistono piante commestibili che non sono state prescelte per l' agricoltura, tralasciate a favore di pochi ibridi ormai talmente selezionati da avere più poco a che fare con il seme originale. Oggi abbiamo piante resistenti al caldo, al freddo, all' umidità, ai parassiti, piante precoci, tardive, ricche di questo e quell' altro micronutriente; questi nuovi semi sono stati ottenuti grazie alle tecniche agricole; con il potenziale delle biotecnologie si possono prevedere risultati ancora più strabilianti», dice Andreas Papasolomontos, direttore della divisione per la produzione e la protezione delle risorse vegetali alla Fao. E se dovessimo ricominciare tutto da capo e tornare al ceppo originale? Sarebbe possibile dopo tante mutazioni? Ecco la necessità di conservare quel che resta della diversità biologica. Su questa questione è in atto una vera propria guerra dei brevetti tra le grandi industrie multinazionali e i più avanzati laboratori di ricerca da un lato ed i Paesi tropicali e subtropicali che sono i veri depositari del patrimonio genetico dall' altro: il mondo industrializzato contro il Terzo Mondo, insomma, povero di tutto meno che di materia prima. Dopo una lunga trattativa alla Fao finalmente si è giunti a varare un accordo sulle risorse fitogenetiche ed a proporre un meccanismo finanziario a favore degli agricoltori. I fondi dovrebbero ammontare a mezzo miliardo di dollari l' anno e finanziare programmi per la conservazione e l' uso delle specie per lo sviluppo agricolo. Nel caso del Terzo Mondo, poi, sarebbe un modo per quanti attingono alle risorse fitogenetiche dei Paesi in via di sviluppo di ripagare l' accesso a queste risorse. Una misura largamente accettata da governi, grandi industrie, organismi nazionali ed internazionali, che segna un enorme passo avanti nelle relazioni Nord Sud. Intanto ci si comincia a preoccupare anche del futuro delle razze animali. «Vi sono al mondo dalle tre alle cinquemila specie di animali afferma Patrick Cunningham, direttore della divisione della produzione e della sanità animale alla Fao e nei Paesi in via di sviluppo razze autoctone di considerevole valore domestico rischiano l' estinzione per via degli incroci con bestiame occidentale e l' uso di tecnologie di importazione. Nella sola Europa aggiunge vi sono circa 750 specie di animali domestici documentati e di questi circa un terzo rischia l' estinzione entro vent' anni». Nel mondo vi sono sette centri per la conservazione delle specie: due in Africa, uno in Brasile, uno in India, uno in Cina e gli altri due in Messico ed Argentina. «Sono centinaia dice Cunningham le specie autoctone non documentate, e nessuno sa in cosa differiscano geneticamente in termini di evoluzione. Per assicurare la loro sopravvivenza, e con il loro futuro il nostro, occorre catalogarle» Una sorta di galleria di antenati, insomma; in collaborazione con l' Università di Hannover, la Fao ha lanciato un programma che nel corso dei prossimi cinque anni dovrebbe fornire agli scienziati una banca dati che sarà il primo inventario delle risorse genetiche animali. La Fao mette a disposizione 3 milioni di dollari; il Giappone ha offerto un milione di dollari per l' Asia; ma servono almeno altri 15 milioni di dollari per attuare integralmente il programma. Un aiuto potrebbe venire dalla Banca Mondiale. Attualmente i limiti di conservazione sono di 40 anni per lo sperma e di 10 anni per gli embrioni. Francesca Steinman


PROGETTO GENOMA I supercomputer non bastano Troppi dati da elaborare, ne occorrono di più potenti
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: GENETICA, INFORMATICA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 073

QUELLO del Genoma Umano (in sigla Hgi) è uno dei progetti scientifici più imponenti e affascinanti del secolo, benché ultimamente, con le dimissioni di Watson, sia entrato in un periodo di crisi. Avviato nel 1988 dal governo americano (per l' esattezza dall' Istituto Nazionale per la Salute e dal ministero dell' Energia) che vi profonde 200 milioni di dollari l' anno, l' Hgi ha come obiettivo di identificare i circa centomila geni che compongono l' intero genoma umano, ovvero di penetrare i segreti del nostro codice genetico. Tenuto conto che ciascuno dei centomila geni che si susseguono lungo la famosa «doppia elica» del Dna può essere costituito da una sequenza di un minimo di duemila e un massimo di due milioni di «basi» (per un totale di tre miliardi di «basi» ), e che finora sono stati «classificati» soltanto cinque milioni di basi (corrispondenti a circa 1700 geni), l' impresa è chiaramente di portata colossale. In effetti pochi si sono resi conto che questo progetto, squisitamente biologico, è stato reso possibile non (solo) dai progressi della biologia ma dalla disponibilità di uno strumento come il computer. E' il computer il vero protagonista di quest' impresa storica. E non a caso il 20 per cento dei fondi si spende in attività di tipo informatico, sotto il controllo di una «Joint Informatics Task Force» che controlla enti come il Whitehead Institute di Boston e il National Laboratory di Los Alamos. Recentemente questa task force ha pubblicato un rapporto che fa il punto della situazione. Il fatto saliente è questo: i biologi hanno dato per scontato che il computer, qualunque cosa esso sia, è in grado di gestire l' enorme quantità di informazioni e la complessa qualità di compiti che l' Hgi impone; gli informatici dichiarano ora di non essere per nulla certi che il computer sia pronto per un' impresa del genere. Se l' infrastruttura informatica non sarà adeguata, i ricercatori dell' Hgi sprecheranno anni e anni a compiere esperimenti. Migliore sarà tale infrastruttura, minore sarà lo sforzo richiesto. Affinché lo sforzo si riduca a dimensioni umane occorrerà compiere un miracolo informatico. Il problema è qui quello classico dei database (o «banche dati» ); ma neppure i database della seconda generazione, i cosiddetti «relazionali», sembrano più indicati per manipolare i dati di tipo genetico. Il più grande di questi database relazionali (il GenBank costruito nel 1979 da Tom Marr al Cold Spring Harbor Lab di New York) raccoglie gran parte della conoscenza disponibile sulle «sequenze» già scoperte (nell' uomo o in altri), ma questa conoscenza è difficile anche solo da reperire, figuriamoci da usare come riferimento per esperimenti futuri. Al tempo stesso occorrono potenze di calcolo favolose, e puramente numeriche (negli ultimi anni l' enfasi era passata al calcolo simbolico), per confrontare sequenze di dati e predire la formazione di proteine. L' ideale sarebbe anzi che il computer avesse non soltanto la potenza di calcolo (che implica quasi certamente architetture in cui un esercito di computer elabora i dati in parallelo), ma anche l' abilità di ragionare automaticamente sui dati contenuti nel database. Infine l' intuizione degli scienziati va completata con sistemi esperti e altre tecniche di intelligenza artificiale. Il problema non è infatti deterministico. Anzi sono ancora numerose le lacune dei biologi riguardo al funzionamento della fantastica macchina genetica. Il ricercatore deve pertanto cercare le «sequenze» senza avere un insieme di regole ben definite, ma basandosi moltissimo sull' intuizione e sull' esperimento. E le poche regole note possono rivelarsi sbagliate, o anche solo essere dubbie. Esiste una ragione ben precisa per cui il computer odierno risulta inadeguato. Rispetto alle banche dati a cui siamo ormai abituati la differenza è infatti fondamentale: una banca dati rappresenta solitamente il mondo noto (l' anagrafe, i salari, il magazzino), mentre nel caso dell' Hgi la banca dati rappresenta un mondo in via di costruzione. Per tale ragione deve poter contenere dati ambigui, incompleti e persino contraddittori. Il fatto stesso che le informazioni relative al genoma siano frammentate e vaghe fa sì che in ogni istante si debba tener presente la possibilità di un errore e non si possa mai far conto sulla precisione assoluta. Tutte le operazioni tradizionali dei database (che solitamente vengono espresse dai tecnici nel linguaggio «relazionale» sotto forma di formule logiche) richiedono in questo caso un largo margine di flessibilità. I ricercatori dell' Hgi guardano con interesse alle banche dati della nuova generazione, quelle «orientate all' oggetto» (che consentono di agire con naturalezza su quantità complesse come una sequenza) e quelle «deduttive» (che sono in grado di «dedurre» le informazioni non asserite esplicitamente nella banca dati, per esempio le conseguenze del risultato di un esperimento rispetto a una certa teoria). Un altro problema, ora che il progetto sta evolvendo in posti geograficamente distanti, è come tenere tutti in contatto con tutti, come far vedere i risultati di ciascuno a tutti gli altri. Il problema è, di nuovo, un problema squisitamente informatico, ma un po' avveniristico: quello dei database «distribuiti», che si presentano come un contenitore unico di dati benché tali dati siano fisicamente sparsi per il mondo. L ' insieme di questi aspetti darà origine a un nuovo tipo di computer, che i bio informatici americani hanno già battezzato «database genomico», e che sarà un computer specializzato a gestire questo straordinario insieme di dati attraverso l' utilizzo di tecniche informatiche avanzate come quelle citate. Questo computer, comunque finisca per essere configurato, costituirà un elettrodomestico utilissimo per tutti coloro che lavorano nel campo della biogenetica, prima e a prescindere dal completamento e dal successo del progetto Hgi. E probabilmente si scoprirà che lo stesso tipo di computer può servire anche ad altri ricercatori, intenti a costruire su basi empiriche una teoria scientifica. L' Hgi rappresenta in effetti la prima occasione in cui il computer viene utilizzato in maniera così massiccia a supporto della ricerca scientifica, e con compiti che sono quelli del tipico ricercatore. Piero Scaruffi


LABORATORIO Troppo spesso la passione e il mito della natura tradiscono gli ecologisti
Autore: BERTINI IVANO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, SCIENZA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 073

IN Italia si parla molto di grandi scelte energetiche, di protezione della salute e dell' ambiente. Ma con quale competenza? La divulgazione scientifica non può limitarsi a spiegare i fenomeni naturali o a fare una storia della ricerca. Deve anche chiarire all ' opinione pubblica che cosa significa investire il 2 per cento (una cifra significativa) del prodotto interno lordo nella ricerca scientifica: un investimento che dovrebbe avere come obiettivo una migliore qualità della vita di tutti noi. Qualche anno fa un mio amico, professore in un college nello Stato di New York, ha fatto un' inchiesta fra i suoi studenti, domandando se una molecola di glucosio estratta da una barbabietola fosse uguale o diversa da una molecola di glucosio sintetizzata in laboratorio. Il 75 per cento degli studenti rispose che le due molecole sono diverse. Solo i pochi che hanno avuto l' opportunità di proseguire gli studi di chimica conoscono la verità: non c' è differenza fra le due molecole] Tutti gli altri vivono ingenuamente convinti che «chi mangia naturale, torna alla salute», sicuri che l' olio torbido sia più sano di quello limpido, che la frutta maculata col baco sia più sana di quella lucida e intatta, e in generale che tutto ciò che è naturale sia sempre innocuo e portatore di salute, mentre ciò che è fatto artificialmente è dannoso o quanto meno inutile. E' necessario stare attenti a ogni forma di banalizzazione del sapere scientifico, tanto più in campo ecologico, dove stiamo assistendo al propagarsi di mode che rischiano di perdere la prospettiva strettamente razionale con la quale si dovrebbero affrontare i problemi della salute, della natura e dell' ambiente. In breve, talvolta l' ecologista estremista propone stili di vita che non sono necessariamente i più sani. Quelle stesse persone che non conoscono la differenza fra una molecola di glucosio naturale e una sintetizzata ammettono poi di ricordare che il curaro è una sostanza naturale, estratta da piante con procedimenti naturali dagli indios dell' Amazzonia e che l' acido cianidrico, tristemente famoso perché usato nelle camere a gas, si può trovare nelle mandorle; ammettono inoltre di ingerire (con prudenza) un antibiotico di sintesi quando il medico diagnostica un' infezione batterica o (con meno prudenza) l' aspirina. A questo punto è importante ricordare che la materia è costituita da atomi organizzati in molecole dalla forma e dalla composizione ben definite. Una volta identificata la sostanza chimica, organica o inorganica, con tutte le sue caratteristiche, non ha nessuna importanza che essa sia stata prodotta artificialmente o che si trovi in natura. Per intendersi, si trovano in natura sostanze pesticide per il baco non meno dannose di quelle che sono costruite in laboratorio, e a sua volta il baco, dopo essersi insediato nel frutto può produrre tossine (naturali) nocive agli uomini. In realtà per qualunque sostanza chimica vi sono limiti oltre i quali la sostanza può risultare dannosa o, al contrario, utile. Basta pensare che la natura da sè non è più capace di sopportare i danni recati dall' uomo ed è quindi indispensabile l' intervento della tecnologia e della scienza chimica. Per tutte queste ragioni che ho cercato di esporre credo necessaria una maggiore informazione scientifica sulla questione ambientale. Altrimenti si corre il rischio di assumere posizioni pregiudizialmente ideologizzate, spesso prive di ogni fondamento. Ivano Bertini Presidente della Società Chimica Italiana, Università di Firenze


MOSTRA AL SALONE DEL LIBRO Primi tipografi d' America Giovanni Paoli, lombardo, e Gil Barbero, piemontese, lavorarono a Città del Messico La carta, fabbricata a Pinerolo, era spedita da Genova e Savona passando per Siviglia
Autore: FABBIANI BRUNO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, EDITORIA, MOSTRE
NOMI: PAOLI GIOVANNI, BARBERO GIL, MALAMINI ANTONIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

In sintonia con i 500 anni del viaggio di Colombo, il Salone del Libro di Torino presenta la mostra «1492 1539: i Gutenberg d' America». E' un omaggio a due tipografi italiani: il lombardo Giovanni Paoli (in castigliano Juan Pablos) e il piemontese Gil Barbero, che nel lontano 1539 lasciarono Siviglia per trasferirsi a Città del Messico, dove nello stesso anno fondarono la prima stamperia e produssero i primi incunaboli del continente americano. La mostra può considerarsi quasi una «personale» dei due grafici e copre venti anni di attività editoriale: 1540 1560. Negli attuali Stati Uniti la stampa giunse un secolo dopo, nel 1639. La rievocazione coincide con la mostra «Il mosaico della parola» presso il Museo della stampa di Rivoli, che espone le pagine più belle di tre testi composti e stampati dai Gutenberg del nuovo Continente. Considerando che nella nobile città di Tenochitlan (come in origine si chiamava Città del Messico) gli amanuensi, chiamati tlacuilo, scrivevano e dipingevano su tela di cotone, corteccia di agave e pelle di cervo, i due tipografi italiani per la carta dipendevano forzosamente dal Vecchio Mondo. Il controllo commerciale dei prodotti europei, e ovviamente quello della carta, dipendevano da Siviglia. Una nostra ricerca negli Archivi della Junta de Andalusia ha rivelato che le filigrane dei primi documenti notarili sono di origine italiana: non a caso il commercio di questo prodotto era gestito da mercanti genovesi residenti a Siviglia. L' invenzione della filigrana è anch' essa italiana, e tramite il logotipo si può risalire alla cartiera d' origine. Tra le più antiche ricordiamo la filigrana a «croce greca» del 1282, conservata a Bologna. In particolare l' indagine storica ha portato alla luce la filigrana della balestra (1441), della mano sormontata da una croce (1473), della mano sormontata nel dito medio da un fiore (1478), delle forbici da sarto (1482) e nuovamente della mano con un fiore con alcune varianti. Le filigrane della balestra e delle forbici si ritiene provengano da Genova e da Fabriano. Le filigrane della mano ritenute di origine piemontese e ligure, sono posteriori al 1470, ma dal 1482 in poi diventano la filigrana prevalente nei documenti notarili e nei libri stampati a Siviglia. Non a caso negli archivi di Torino si conserva un documento del 1473 che concede ad Antonio Malamini di Pinerolo il diritto di contrassegnare la propria carta con una filigrana rappresentante una mano con dita unite sormontate da una stella: questo nello stesso anno in cui a Siviglia appare la filigrana della mano. Il trasporto dalle cartiere e dai mulini pinerolesi a Savona e Genova probabilmente seguiva la «via del sale » e si usavano carretti o singoli animali, come asini e muli, sul cui dorso veniva collocato il prezioso carico. Dal Mar Ligure la spedizione della carta avveniva in «balle di cotone», ossia in involucri di forma cubica in cotone aventi i lati di 60 70 centimetri. Un altro metodo era quello di stivare la carta dentro barili a tenuta stagna, sistema già adottato per il trasporto dei manoscritti e dei libri nel XVI Secolo. Dai porti di Genova e Savona l' itinerario commerciale della carta toccava i porti di Marsiglia, Barcellona, Valenza, Cartagena, Malaga, Cadice e infine il fiume Guadalquivir costeggiante la città di Siviglia. Da qui la carta giungeva ai magazzini dei genovesi, dislocati in prossimità della cattedrale. I commercianti genovesi vendevano la carta ai notai; tra questi, sempre nell' Archivio dell' Andalusia, si è trovato quello del procuratore di Cristoforo Colombo, Bernardo Grimaldo, scritto su carta con la filigrana della mano. Con l' apertura della prima tipografia a Siviglia nel 1477, cresce notevolmente il consumo di carta, e le imbarcazioni che trasportano prevalentemente carta dalla Liguria diventano sempre più numerose. La carta destinata al continente americano veniva trasbordata su navi più robuste, idonee alla traversata atlantica; il sistema di stivaggio era simile, ma per sfruttare meglio lo spazio disponibile molte risme di carta venivano avvolte in vecchie vele dismesse in forma di sacco pensile e venivano ancorate alle travi del soffitto della stiva, a poppa. La carta, dopo aver sfidato le tempeste, giungeva a Vera Cruz e, a dorso di uomo e di animali, dopo qualche settimana di viaggio raggiungeva Città del Messico e finiva nell' unica stamperia del Nuovo Mondo. Possiamo immaginare quale fosse la cura degli stampatori nel maneggiarla, sia per il lungo itinerario compiuto sia per l' elevato costo. Nella stessa mostra del Salone del Libro sarà esposto per la prima volta in Europa un vaso umidificatore. Era un dispositivo che, posto in prossimità del torchio e della carta, la manteneva umida, facilitando la fase di stampa. Anche grazie ad esso, quasi 5 secoli dopo, possiamo apprezzare l' attività di due tipografi che con il loro lavoro hanno contribuito all' incontro fra le culture del Vecchio e del Nuovo Mondo. Bruno Fabbiani


AERONAUTICA L' incerto volo di Dedalo L' aereo a propulsione muscolare ancora un' utopia
Autore: VIGADA CLAUDIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, AEREI
ORGANIZZAZIONI: DAEDALUS, ALBATROS
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 074

UNO dei più grandi sogni dell' uomo fin dall' antichità è stato quello di poter volare con le sole proprie forze. Oggi i progressi in campo aeronautico hanno superato le più rosee aspettative dei pionieri del volo, ma l' antico sogno è rimasto nel cassetto. I primi timidi tentativi di sviluppare un aereo a propulsione muscolare risalgono agli Anni 50. Purtroppo i risultati furono pressoché nulli. Bisogna attendere gli Anni 70 per vedere volare con successo un aereo di questo tipo: il Gossamer Condor concepito da Paul McCready. Lo sviluppo del Condor, il Gossamer Albatros, vince nel 1979 il premio di 100. 000 sterline messo in palio da un banchiere inglese per il primo che sarebbe riuscito ad attraversare il Canale della Manica. L' Albatros ha un' apertura di ali di 32 metri, pesa ventisette chilogrammi e ha una velocità massima di crociera di 16 chilometri orari. In tempi più recenti, nel 1985, prende il via il progetto più ambizioso dall' inizio del volo a propulsione umana: il Daedalus Project che vuole ripetere l' impresa dei mitici Dedalo e Icaro volando dall' isola di Creta all' isola di Santorini, nel mare Egeo. Lo studio e la messa a punto del velivolo durano tre anni e nella primavera del 1988 il Daedalus porta a termine la sua impresa. Settantaquattro miglia, 120 chilometri circa, percorse in quasi quattro ore a cinque metri di quota sul mare sono un risultato che ha dell' incredibile. E altrettanto stupefacenti sono i dati del velivolo: 34 metri di apertura alare, quasi 9 di lunghezza, 32 chilogrammi il peso. Tutto questo potrebbe far pensare che il volo a propulsione muscolare sia ormai praticabile senza troppi problemi: purtroppo non è così. Basta guardare i costi, quasi 500. 000 dollari per Daedalus, e la necessità di ricorrere a tecnologie avanzate e a materiali ultraleggeri. L' handicap principale è la scarsa potenza sviluppabile dal «motore umano», quantificabile in circa duecentocinquanta Watt (un terzo di cavallo vapore). Non potendo potenziare il propulsore, l' unica soluzione proponibile è quella di ridurre il fabbisogno energetico dell' aereo. Tutti gli studi sono impostati in due direzioni fondamentali: la riduzione dei pesi e il miglioramento del rendimento aerodinamico. Il problema peso è affrontato in due modi. In primo luogo si dimensionano le parti in base agli sforzi che devono sopportare, mantenendo un limite di sicurezza minimo. L' ala, ad esempio, è in grado di resistere alle sollecitazioni che riceve in volo livellato, ma per romperla è sufficiente un atterraggio brusco o una raffica di vento poco più forte del previsto. Poi, dopo un accurato progetto, la costruzione richiede personale specializzato (molto spesso si tratta di aeromodellisti) che sappia realizzare le varie parti con precisione e abbia la capacità di assemblarle risparmiando peso su ogni incollaggio e su ogni collegamento. L' ala del Daedalus è realizzata intorno ad un tubo leggerissimo in fibre di carbonio impregnate con resine sintetiche. Il suo rivestimento è una pellicola di mylar dello spessore di pochi centesimi di millimetro. Uno sbalzo improvviso di temperatura o di umidità possono svergolarla e renderla inservibile. Con un simile velivolo persino il rimessaggio diventa un problema. Il rendimento aerodinamico è forse ancora più difficile da ottimizzare. Gli studiin questo campo sono ancora agli albori per quanto riguarda i profili delle ali e delle eliche adatte al volo muscolare. Pochi sono interessati a finanziare ricerche per velivoli che si muovono nell' aria a meno di venti chilometri orari. L' aerodinamica delle basse velocità è una scienza ancora poco conosciuta, dietro cui potrebbero celarsi segreti sorprendenti. Forse, anche solo scoprendone qualcuno, si potrebbe rendere il volo muscolare una realtà fattibile e non più una costosa utopia. Claudio Vigada


ASTRONOMIA Sarà vietato oscurare le stelle Progetto di legge anti inquinamento luminoso
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, ECOLOGIA, PROGETTO, LEGGI
NOMI: DIANA LINO, RABONI GIOVANNI, CAPACCIOLI MASSIMO, CRISTALDI SALVATORE, DI SORA MARIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

E' pronto un disegno di legge contro l' inquinamento luminoso, quella dispersione di luce nel cielo che ruba la notte agli astronomi impedendo le loro osservazioni. La questione è scientifica, ma c' è anche un aspetto economico: una illuminazione più razionale permetterebbe un risparmio energetico di 300 400 miliardi l' anno. E un aspetto estetico: il cielo stellato senza scomodare Kant, che lo abbinava, per suggestione, alla legge morale è uno spettacolo affascinante, che in più ha il merito di far percepire all' uomo la sua dimensione cosmica. Il disegno di legge è stato definito a Teramo al congresso della Società astronomica italiana; lo presenterà Lino Diana, neoeletto al Parlamento. Le linee della proposta sono frutto del lavoro di Massimo Capaccioli (Osservatorio di Padova), Salvatore Cristaldi (Osservatorio di Catania) e Mario Di Sora (Osservatorio privato di Campo Catino, Frosinone). Il testo prevede la tutela dall' inquinamento luminoso delle zone intorno agli Osservatori e l' installazione di lampade con due caratteristiche principali: il basso consumo e una struttura che impedisca la dispersione di luce verso l' alto e lateralmente. La Dark Sky Association di Tucson (Arizona), che studia il problema da più di vent' anni, ha stabilito che il 30 per cento della luce va sprecato se il paralume non scende al di sotto del punto luce. Quanto al risparmio energetico, la resa maggiore si ottiene con lampade al sodio a bassa pressione: 180 lumen per Watt, 9 volte di più delle lampade a incandescenza, il doppio di quelle a vapori di mercurio, che hanno pure il difetto di irradiare nell' ultravioletto. In Italia l' illuminazione pubblica cresce al ritmo del 7 per cento l' anno, cioè raddoppia ogni dieci anni. Non si tratta di ritornare a strade e città buie, ma di usare bene la luce, dove e quando serve. Invece l' intero pianeta, visto dai satelliti, è uno sfolgorio di luci parassite: metropoli sprecone, foreste incendiate, fughe di gas naturale in fiamme. Ormai i luoghi veramente bui adatti all' osservazione astronomica sono ben pochi nel mondo: le Ande cilene, le isole Hawaii, La Palma nelle Canarie, alcune regioni desertiche degli Usa e pochi altri. Proprio in questi giorni l' Italia sta discutendo con gli indiani Apache per acquisire il monte Graham, in Arizona, e installarvi il telescopio «Columbus» gli indiani si oppongono perché si tratta di una montagna che considerano sacra. Certo, per la ricerca più avanzata sono necessari questi luoghi eccezionali. Ma la ricerca di routine e la didattica hanno ancora bisogno degli Osservatori tradizionali, e dei 12 che abbiamo in Italia nessuno sfugge all' inquinamento luminoso. Giovanni Raboni, dalla prima pagina del «Corriere della sera», l' altra settimana esercitava una rozza ironia sugli astronomi che chiedono di riavere le stelle, salvo poi ammettere che hanno pure delle buone ragioni. Spiace dover ricordare a chi si professa scrittore e poeta che la cultura e le emozioni legate al cielo stellato valgono qualche lampadina di meno. In fondo gli astronomi cercano il senso dell' universo, e quindi della nostra vita. Inclusa quella degli scrittori. Piero Bianucci


SCAFFALE Guitton Jean: «Dio e la scienza», Bompiani
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: RELIGIONE, FILOSOFIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

IN qualche caso più gli interlocutori sono culturalmente diversi e lontani più il loro dialogo diventa stimolante e costruttivo. E' il caso di «Dio e la scienza», un saggio con prefazione di Giulio Giorello in cui Grichka e Igor Bogdanov, rispettivamente un fisico e un astrofisico, interrogano Jean Guitton, filosofo cristiano considerato l' erede di Bergson, pensatore che gli scienziati hanno sempre considerato un paladino dell' irrazionale (ricordate l' elan vital, lo slancio vitale? ), e quindi un nemico. Ma il terreno comune è una onesta curiosità intellettuale, il porsi le grandi domande sul significato del reale e dell' esistenza. Quindi il collocarsi in un socratico atteggiamento di ricerca. Ed è ciò che avviene in queste pagine, istruttive e coinvolgenti.


SCAFFALE Bosca e Stroppa: «Meridiane e orologi solari», Il Castello
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

L' interesse per le meridiane continua a crescere. E' un interesse storico, artistico, scientifico. E coltivandolo nasce prima o poi il desiderio di imparare a costruire meridiane e orologi solari. Giovanni Bosca e Piero Stroppa con il loro libro rispondono molto efficacemente a questa esigenza. I lettori vi troveranno, oltre a interessanti cenni storici e a un' ottima documentazione fotografica, tutte le necessarie nozioni di astronomia sferica e i metodi, grafici e informatici, per disegnare i vari tipi di meridiana. Numerose tabelle e un glossario completano il volume. Per decenni la bibliografia italiana su questo tema è stata pressoché inesistente. Oggi i volumi di gnomonica sono numerosi e anche di valore (penso al Fantoni, al Rigassio, alla traduzione del classico Rohr) ma nessuno come questo concilia così bene agilità e completezza, pur nel limitato numero di pagine.


SCAFFALE Tobias Philip: «Paleoantropologia», Jaca Book; Narlikar Jayant: «Astrofisica», Jaca Book, 12 mila lire
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

Si chiama Edo, Enciclopedia d' orientamento, ed è un progetto editoriale originale, impegnativo, intelligente. L' idea è di mettere insieme un centinaio di piccoli volumi (100 150 pagine) ognuno dedicato a una disciplina e affidato a un' autorità in quel campo, con la richiesta di concepire l' affresco della sua materia come in una lezione inaugurale da tenersi davanti a studenti e colleghi. Trenta robusti dizionari enciclopedici affiancheranno i volumi tematici. Tra i primi volumi dedicati a singole discipline sono da segnalare «Paleoantropologia» di Phillip Tobias, il celebre scopritore di Homo habilis, e «Astrofisica», di Jayant Narlikar, studioso indiano che ha collaborato con Fred Hoyle. Due testi «schierati», ma forse anche per questo la prospettiva che offrono è interessante.


SCAFFALE Borri Giancarlo: «Le divine impurità », Luisè ed.
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: CHIMICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

Primo Levi, un chimico e un grande scrittore, un uomo tra due culture. Ma cultura scientifica e cultura umanistica in lui sono diventate una cosa sola. Se ancora ce ne fosse bisogno, lo prova chiaramente Giancarlo Borri in questo saggio, fondato soprattutto su testimonianze di Levi stesso e sull' analisi dei suoi due libri più significativi da questo punto di vista: «Il sistema periodico» e «La chiave a stella».


SCAFFALE Bottazzini, Freguglia, Rigatelli: «Fonti per la storia della matematica», Sansoni
AUTORE: P_B
ARGOMENTI: MATEMATICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 074

La matematica non è soltanto un rosario di teoremi. E' anche la storia degli uomini che li hanno scoperti e dimostrati, ed è l' avventura intellettuale di tali conquiste. Ritrovare le fonti originali dei teoremi vuol dire anche farli rivivere. E' quanto si propone di fare questo volume opera di studiosi delle Università di Palermo e di Siena. Trecento brani antologici documentano la storia della matematica dall' antica Grecia alla logica moderna.


AMBIENTE Burocrati all' assalto dello Stelvio Un' intesa politica smembra il più grande parco nazionale italiano Tre comitati di gestione, con un unico consiglio direttivo
Autore: FRAMARIN FRANCESCO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, LEGGI
LUOGHI: ITALIA, PARCO DELLO STELVIO
TABELLE: C
NOTE: 075

ERA ingenuo attendersi molto dalla recente legge quadro sulle aree protette, ma qualche illusione si poteva nutrire. Ecco invece, il 27 marzo scorso, la prima doccia fredda. Un' intesa fra il sottosegretario all' Ambiente, Angelini, e i rappresentanti delle province di Bolzano e Trento e della Regione Lombardia ha smembrato il più grande parco nazionale italiano, lo Stelvio 1340 chilometri quadrati di splendide montagne fra la Valtellina, la val Venosta e il passo del Tonale, confinante con il famoso parco nazionale svizzero. La formulazione giuridica è complicata, ma non maschera lo smembramento. Per assicurare una «gestione unitaria», l' intesa prevede un consorzio di tre comitati di gestione, uno per ciascuna porzione provinciale, il cui compito sarà «la gestione ordinaria e straordinaria, tenendo conto delle realtà locali e delle tradizioni consolidate». Si prevede, è vero, un (unico) consiglio direttivo, ma il suo compito è solo quello di proporre «piani, regolamenti e direttive generali di coordinamento». Il suo presidente ha la legale rappresentanza del consorzio, ma in ciascuna provincia essa è delegata al presidente del comitato di gestione. Quanto alla figura del direttore (che dovrà avere «adeguata conoscenza della lingua tedesca» ), è essenzialmente quella di segretario del presidente. A parte la pletoricità dei comitati e del consiglio (56 membri in tutto] ), è la loro composizione su basi in prevalenza politiche e burocratiche che induce ai peggiori pronostici. Ma torniamo a una disposizione dell' intesa citata. Che significa «tener conto delle realtà locali e delle tradizioni consolidate» ? Vien subito da pensare alla caccia nel parco, che gli altoatesini hanno esercitato abusivamente, persino nella sua forma più antibiologica della «caccia al canto» dei Tetraonidi, finché un ricorso del Wwf venne accolto dalla magistratura. E i grandi impianti sciistici, che hanno sfregiato (anch' essi in contrasto con la legge del parco) l' immacolata maestà di alcuni fra i più bei ghiacciai del massiccio, faranno parte o no della realtà locale? Qui purtroppo una risposta non equivoca è già venuta dalla Provincia di Bolzano, che due giorni prima dell' intesa ha deliberato un nuovo impianto sciistico nel parco in Val di Solda, sotto la parete Nord del Gran Zebrù ] Con queste premesse, vorrà il comitato di gestione lombardo difendere i «domaines skiables» dell' alta Valfurva? Insomma, il livello della protezione è stato abbassato e, come non bastasse, è prevista in Alto Adige una riduzione dell' area. Eppure lo Stelvio era un parco straordinario non soltanto per le grandi dimensioni. Il dislivello altitudinale fra i 600 m del fondo della Val Venosta e i quasi 4000 m della vetta dell' Ortles non si trova in nessun altro parco alpino e assicurava una eccezionale diversità biologica (varietà di habitat e di specie), accresciuta dalla orientazione Est Ovest della valle. Un indice di questa diversità sono le oltre 100 specie di uccelli nidificati in un quadrato di 10x10 km (contro la media di 86 nella Svizzera, 75 nell' Inghilterra, 69 nel Piemonte). A parte i predatori sterminati in quasi tutte le Alpi, sullo Stelvio pure la grossa fauna è completa, quindi più ricca di quella del Gran Paradiso, perché comprende anche cervo e capriolo, urogallo e francolino di monte. Ciò è dovuto alla presenza di estese bellissime foreste di conifere, quasi inesistenti sulle Alpi occidentali. Molti fattori hanno portato all' ingloriosa fine di questo parco nazionale, una istituzione moderna e civilissima, universalmente diffusa e accettata, per nulla lesiva dei veri interessi sia locali che nazionali. Anzitutto il potere autonomo dell' Alto Adige, incapace di vedere al di là del proprio immediato tornaconto. Tale potere doveva essere bilanciato o almeno temperato dall' autorità nazionale, ma questa ha abdicato da tempo al suo ruolo di tutore del bene comune: in particolare il ministero dell' Ambiente si è rivelato poco più che una agenzia d' affari (e non sempre limpidi... ). Pure la gestione del parco sin qui attuata dal Corpo Forestale dello Stato ha pesanti responsabilità nell' aver sempre tenuto un basso profilo, debole sul piano scientifico e rinunciatario su quello politico. Ciò è stato rilevato anche dall ' Unione internazionale conservazione natura (Iucn), ma un suo recente maldestro intervento, voluto dalla «lobby» tedesca, ha finito per favorire lo smembramento. Francesco Framarin


PROGETTO CNR La medicina corre sulle fibre ottiche
Autore: S_R

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 075

IL Consiglio nazionale delle ricerche ha avviato in queste settimane il progetto «Telecomunicazioni»: un sistema di collegamento in fibre ottiche esteso per ora solo a Firenze, Pisa e un centro urbano del Mezzogiorno ancora da individuare. Le informazioni, in voce, dati e immagini, viaggeranno a 140 megabit. Dopo la sperimentazione, prevista nel biennio 1992 93, il piano sarà probabilmente esteso ad altre città. Il Cnr per questa prima fase ha limitato le applicazioni a due soli settori: la medicina e la salvaguardia del territorio. Nel primo caso, la rete ad alta velocità mette in comunicazione istituti di ricerca, cliniche mediche e dipartimenti universitari. L' obiettivo è quello del teleconsulto e della elaborazione di immagini di interesse diagnostico tra laboratori lontani. Nel secondo caso, si tratta di tenere sotto controllo l' inquinamento dell' aria e dell' acqua in una vasta porzione di territorio grazie appunto alla trasmissione veloce di dati e immagini. Sono previsti servizi a carattere pubblico di teledidattica e un programma di accesso a banche dati o posta elettronica riservato ad utenti ciechi. Al progetto partecipano 16 Università tra cui il dipartimento di Elettronica e di Fisica del Politecnico di Torino. Il Cnr è arrivato all' elaborazione del progetto «Telecomunicazioni» dopo una sperimentazione su piccola scala all' Università di Genova. (s. r )


FORAMINIFERI Quel singolare tappeto degli oceani Sedimenti sui fondali raccontano il passato
Autore: ZULLINI ALDO

ARGOMENTI: PALEONTOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 075

GLI schiavi che costruirono le piramidi mangiavano lenticchie? ». Oggi i turisti che visitano l' Egitto non si pongono simili domande Nei secoli scorsi se le ponevano invece i viaggiatori nell' osservare la superficie scabra di questi monumenti. Vi notavano infatti strutture lenticolari che scambiavano, appunto, per lenticchie pietrificate. Oggi sappiamo che si tratta dei resti fossili di piccoli animali molto diffusi, i Foraminiferi, organismi fatti di una sola cellula (protozoi) che, di regola, sono microscopici. Soltanto alcuni, come le specie fossili delle piramidi, hanno raggiunto le dimensioni di una lenticchia e anche più. I foraminiferi si chiamano così perché constano di una cellula racchiusa in una sorta di conchiglia calcarea finemente forellata. Le specie conosciute sono migliaia; alcune sono viventi, ma la maggior parte è nota solo allo stato fossile. Ognuna è caratteristica di un' epoca geologica ben precisa. I foraminiferi si trovano in tutti i mari del mondo, dai quattro ai quattromila metri di profondità. Alcuni stanno sui fondali mentre altri, dal guscio più sottile e leggero, vivono sospesi nell' acqua (fanno parte del plancton). Ma anche questi ultimi, con la morte, finiscono prima o poi per sedimentare lentamente sul fondo marino. In ogni istante, miliardi di guscetti di foraminiferi si depositano sui fondali di tutto il mondo, anno dopo anno, ricoprendoli di una soffice coltre biancastra. Si calcola che più di un terzo dei fondi oceanici sia ricoperto da questa fanghiglia. Non tutte le zone però sono favorevoli a tale tipo di sedimentazione, perché sotto i quattromila metri di profondità l' acqua del mare presenta un' acidità tale da provocare una lenta dissoluzione dei guscetti calcarei, a cominciare da quelli più sottili e frastagliati. Data la vastità dell' ambiente occupato e le loro piccole dimensioni, non stupirà che i foraminiferi siano una delle forme viventi più numerose al mondo. La continua «pioggia» di questi organismi sui fondali oceanici ha alcune conseguenze importanti per il nostro tenore di vita. Per esempio, non è un caso che i foraminiferi siano tra gli esseri più studiati: a partire dalla prima guerra mondiale le compagnie petrolifere hanno stimolato e finanziato le ricerche in questo campo. I microscopici guscetti, diversamente conformati a seconda della specie, permettono infatti una datazione accurata delle rocce sedimentarie, indispensabile per l' individuazione dei possibili siti petroliferi. Il ritmo delle ricerche è tale che nel recente passato si è arrivati a descrivere oltre seicento nuove specie di foraminiferi all' anno. La scienza ricava molte informazioni importanti da questi microfossili: l' epoca in cui le rocce si sono formate in fondo al mare nonché la temperatura e le caratteristiche chimiche degli oceani di migliaia o milioni d' anni fa. I foraminiferi, nel loro complesso, funzionano come un' ideale bobina planetaria in cui sono registrate le condizioni ambientali dell' ultimo mezzo miliardo di anni. Infatti l' evoluzione di questi organismi, in tutto questo tempo, ha continuato a creare specie e forme diverse, dato che in media una specie ha una durata di uno o pochi milioni di anni. Un determinato assemblaggio di specie fossili corrisponde pertanto a un momento storico ben preciso. L' analisi dei microfossili contenuti in una roccia è in grado di fornire la data sicura dell' epoca della sua formazione. Ciò è utile, oltre che per le ricerche petrolifere, anche per dedurre l' epoca degli eventi geologici legati a quella roccia. I foraminiferi fossili vengono usati anche per datare con precisione sedimenti formati pochi milioni o addirittura poche decine di migliaia d' anni or sono. A questo scopo si analizzano le tracce di un aminoacido (la isoleucina) presente nei guscetti. Poiché questa sostanza si degrada lentamente nel tempo, la misura della sua alterazione fornisce l' età del sedimento. E non basta. Il guscio dei foraminiferi contiene atomi di ossigeno di due tipi diversi: isotopo leggero e isotopo pesante. Il rapporto in cui stanno questi tipi di ossigeno dipende dalla temperatura dell' acqua nella quale il guscio si è formato. Apparecchiature sofisticate sono in grado di analizzare i due tipi di atomi e quindi di misurare, indirettamente la temperatura di un mare esistito milioni di anni fa. L' ambiente marino presenta aspetti e situazioni ecologiche molto varie, caratterizzate anche dalla presenza di certe specie, generi e famiglie di foraminiferi. Per le epoche geologiche non troppo antiche si ammette che le preferenze ambientali delle forme fossili siano simili a quelle delle corrispondenti forme attuali. Dai foraminiferi inclusi in una pietra è perciò possibile dedurre il tipo di habitat milioni d' anni prima. Aldo Zullini Università di Milano


COME LE CINCE E ora anche le gazze sanno aprire le bottiglie del latte
Autore: VISALBERGHI ELISABETTA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 075

LE gazze (Pica pica) sono interessate a ciò che luccica; e siccome dall' essere attratti all' impossessarsi il passo è breve, questo bel corvide bianco e nero è divenuto famoso per le sue ruberie. Ultimamente fra le gazze d' oltre Manica si sta diffondendo un nuovo comportamento che rischia di mettere in crisi l' abitudine britannica del latte fresco sulla soglia di casa. Le bottiglie del latte sono di vetro e hanno un tappo di latta. Negli Anni 50 gli ornitologi inglesi dilettanti notarono che le cince, piccoli uccelli dalle dimensioni di un passero, avevano imparato a beccare la stagnola, a perforare il tappo e a raggiungere col becco il latte. Gli etologi Hinde e Fisher scrissero sull' argomento due articoli. Nel primo sostenevano che gli uccelli avevano imparato l' uno dall' altro come aprire i tappi del latte (apprendimento osservazionale) nel secondo, facevano autocritica e suggerivano altri meccanismi di diffusione del comportamento più elementari. Ad esempio, interessati a un tappo già aperto, si esercitavano, trovavano la panna, che si forma sulla superficie del latte, ne erano soddisfatti e andavano a becchettare su un' altra bottiglia, fino a bucare il tappo. Saranno le circostanze favorevoli (bottiglie già aperte) e non l' osservare un compagno che le apre a facilitare l' apprendimento e la diffusione del nuovo comportamento. Questa è una distinzione importante: l' interpretare la diffusione di un comportamento nuovo come dovuta ad apprendimento osservazionale è stato e ancora è un errore molto comune in etologia. Ma gli etologi Sherry e Galef hanno dimostrato, con un esperimento, che un uccello impara a perforare i tappi del latte altrettanto bene in presenza di un modello che se esposto a tappi già aperti. Ma torniamo alle gazze ladre e agli altri corvidi sotto accusa. Qualche mese fa la rivista del Bto ha riportato la notizia che questi uccelli hanno preso anche loro l' abitudine di beccare il tappo del latte. Il problema, in questo caso, è però più grave: questi corvidi possono essere portatori del batterio Campylobacter che provoca forme di dissenteria nell' uomo. Mentre le cince hanno una dieta principalmente insettivora, i corvi sono onnivori e spesso si nutrono di animali morti e di immondizia. Elisabetta Visalberghi


DIABETE L' arma della ciclosporina Può avere un ruolo preventivo Aumenta però il rischio di infezioni opportuniste Allo studio la vaccinazione T e gli antigeni del pancreas
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, STATISTICHE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C La mappa del diabete in Europa
NOTE: 075

IL diabete insulino dipendente, vale a dire il tipo di diabete che si manifesta nel bambino o nel giovane, è la conseguenza della distruzione delle cellule beta del pancreas, produttrici dell' insulina. Ciò rende necessaria la somministrazione sostitutiva di insulina per tutta la vita ed espone a complicazioni talora gravi. I progressi delle conoscenze immunologiche fanno pensare che in avvenire ciò potrebbe essere evitato o, almeno in larga misura, dominato. Non v' è ormai più dubbio che il diabete insulino dipendente sia una malattia autoimmune, la distruzione delle cellule beta essendo dovuta a linfociti T esprimenti recettori per antigeni di membrana, non ancora ben definiti, delle cellule beta. Ma oggi si conosce il modo di inibire o ridurre l' azione dei linfociti T: la prevenzione e il trattamento del rigetto dei trapianti mediante farmaci immunosoppressori quali la ciclosporina e l' azatioprina lo dimostrano. E' dunque logico sperare di poter arrestare la reazione autoimmune anti cellule beta. In effetti la somministrazione di questi farmaci, oppure di anticorpi anti linfociti, previene in maniera costante la comparsa del diabete nel topo Nod e nel ratto Bb, che si ammalano spontaneamente d' un diabete sotto ogni aspetto paragonabile a quello umano. Tutto fa pensare che, iniziato prima che la maggioranza delle cellule beta sia distrutta, il trattamento immunosoppressore possa evitare il diabete. Feutren ed altri (Lancet, 1986), Silverstein e altri (N. Engl. J. Med, 1988) hanno riferito di oltre 800 diabetici trattati con ciclosporina o azatioprina non appena fatta la diagnosi. Oltre il 40% divennero indipendenti dell' insulina, con un equilibrio del ricambio buono o addirittura migliore di quello ottenibile col trattamento insulinico convenzionale, e con un minimo di tossicità a carico dei reni, completamente reversibile. Tuttavia questa situazione non fu definitiva, si squilibrò non appena la terapia immunosoppressiva venne sospesa, e talora dopo qualche anno pur mantenendola. Fu chiarito che questo accadeva in quanto la terapia era stata iniziata troppo tardi, quando oltre l' 80% delle cellule beta era distrutto. E' necessario dunque intervenire più presto. In sostanza le difficoltà riscontrate nella immunoterapia del diabete sono tre: meno del 50% di remissioni mentre negli animali si ha quasi il 100% ricadute quando la terapia viene interrotta, e talora anche senza interruzioni; potenziale rischio di infezioni opportuniste o di tumori quando il trattamento immunosoppressore è di lunga durata (nulla di questo, però, si osservò negli 800 diabetici citati). Alla ciclosporina e alla azatioprina, eccellenti immunosoppressori di fondo ma tossici a dosi elevate, sarebbero preferibili anticorpi monoclonali, come risulta nei topi Nod. Si pensa anche ad altre soluzioni come una vaccinazione T o una terapia con antigeni pancreatici. Fondamentale è poi iniziare il trattamento prima della comparsa dei segni clinici del diabete, quando almeno il 30 50% delle cellule beta sono ancora indenni. Questo può essere fatto utilizzando i marcatori genetici di predisposizione e i test immunologici rivelanti l' inizio della malattia autoimmune. Dimostrando che il diabete insulino dipendente è una malattia autoimmune e che la sua evoluzione può essere frenata si è compiuto un passo importante. Si può pensare che ricerche in varie direzioni dovrebbero progressivamente condurre alla guarigione o a una prevenzione efficace e senza rischi. Ulrico di Aichelburg


SMONTIAMO IL «RAPIDO» Un capillare come pennino Ecco come l' inchiostro arriva alla carta
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 076

LE forze che tengono insieme un liquido e fanno sì che esso formi delle gocce creano una sorta di pellicola elastica alla sua superficie (tensione superficiale). Queste stesse forze agiscono anche nei solidi e tra solidi e liquidi. Se il liquido è contenuto in un sottile tubicino le forze agenti tra solido e liquido fanno avanzare il liquido nel tubicino stesso (capillarità ). La penna «rapidograf», usata da grafici e tipografi, sfrutta sia la capillarità sia la gravità. La gravità spinge l' inchiostro fuori dalla cartuccia oltre un cilindro di alluminio terminante con un' estremità conica e di qui lungo un filo metallico all' interno del tubicino scivente. La capillarità agisce nello stretto spazio fra filo e tubicino attirando l' inchiostro verso la punta. Quando la penna non viene usata il filo metallico sporge leggermente dal tubo; quando invece il filo tocca la carta viene spinto indietro e, facendo arretrare il cilindro di alluminio, consente all' inchiostro di passare tra la punta conica di questo e la parete della penna. Il calore della mano fa espanderel' inchiostro nella cartuccia; per evitarne l' uscita incontrollata esistono due tubicini a spirale, l ' uno interno e l' altro esterno, nei quali, sempre per l' azione capillare, l' inchiostro può trovare sfogo; quando la temperatura scende l' inchiostro torna nella cartuccia.


LE DATE DELLA SCIENZA La prima pulsar trovata per caso
Autore: GABICI FRANCO

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, ASTRONOMIA
PERSONE: BELL JOCELYN
NOMI: BELL JOCELYN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

VENTICINQUE anni fa veniva scoperta la prima pulsar. Fu un classico esempio di serendipity, una scoperta inattesa che un ricercatore compie per caso mentre è orientato in tutt' altra direzione. Le pulsar, infatti, furono scoperte da astrofisici di Cambridge con un radiotelescopio costruito per studiare le variazioni delle radiosorgenti celesti. Il programma richiedeva la monotona lettura di chilometri di carta millimetrata sui quali la strumentazione del radiotelescopio registrava i dati e a questo ingrato lavoro fu chiamata la giovane Jocelyn Bell. La quale notò una pulsazione ritmica di grande regolarità che proveniva dalla zona di cielo fra Altair e Vega e che, come il fantasma di Elsinor, faceva la sua comparsa intorno alla mezzanotte. Che si trattasse di un segnale di origine extraterrestre lo si capì dal fatto che, al trascorrere del tempo, l' impulso anticipava il suo passaggio al meridiano proprio come fanno le stelle. Si pensò che qualche civiltà extraterrestre stesse tentando di comunicare con noi, e il segnale fu chiamato Lgm (Little Green Men, vale a dire piccoli uomini verdi). Nel frattempo, però, la scoperta di altri simili segnali fece crollare la pur suggestiva ipotesi. Era del tutto inverosimile, infatti, che diverse civiltà extraterrestri avessero deciso, tutte insieme, di mettersi in contatto con noi. Dietro a Lgm, dunque, non c' era nessun omino verde, ma un oggetto stellare la cui natura andava determinata. Oggi tutti ritengono che le pulsar siano stelle di neutroni, residui di esplosioni di supernova. Curiosità: la prima pulsar identificata come oggetto ottico è la pulsar della Nebulosa del Granchio. Il suo periodo è di 0, 0339 secondi e ciò significa che effettua quasi 30 pulsazioni al secondo (il periodo è infatti l' inverso della frequenza, sicché quest' ultima si ottiene facendo il reciproco di 0, 0339). Scoperta nel gennaio 1969, la pulsar è il residuo della supernova che apparve nel Toro nel luglio del 1054 Essa fu visibile di notte per quasi un anno e per 23 giorni fu visibile anche di giorno. Franco Gabici


IL TRONCO Tra le radici e il cielo Uno straordinario contenitore per linfa e sali minerali
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D
NOTE: 076

IL fusto, chiamato anche caule o asse, è la parte della pianta che emerge dal terreno stabilendo il contatto tra le radici e le foglie Esso, che origina dalla gemma apicale, da giovane possiede la clorofilla: come le foglie, pratica la fotosintesi clorofilliana. A volte il fusto può trasformarsi in organo di riserva e di accumulo di idrati di carbonio dando vita a bulbi, bulbo tuberi, tuberi. Il punto in cui le foglie si inseriscono sul fusto si chiama nodo, mentre l' internodo è la posizione di fusto che sta tra due foglie successive. Facendo una sezione trasversale di un fusto incontriamo, schematicamente: l' epidermide, fatta di cellule a sezione rettangolare assai regolari; il collenchima, composto da 5 7 strati di cellule con funzione meccanica; il cilindro centrale, in cui stanno fasci fibrovascolari composti da vasi legnosi (così chiamati perché la parete è formata tra l' altro di lignina) e tubi cribrosi. Questi possono essere di tipo aperto, ossia avere interposto uno strato di cellule meristematiche, detto cambio, in attiva divisione come accade nelle Dicotiledoni (ad esempio il crisantemo), o chiuso quando il legno e il libro sono a diretto contatto e non sono in grado di modificare la loro primitiva struttura come nelle Monocotiledoni (orchidea). Nei vasi legnosi circola una soluzione composta da sali minerali e linfa grezza ascendente. La linfa elaborata, che contiene le sostanze prodotte dalle parti verdi della pianta durante la fotosintesi clorofilliana e quelle provenienti dall' unione di queste sostanze con gli elementi della linfa grezza, discende invece dalle foglie alle radici nei «tubi liberiani». Elena Accati


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

& Abbiamo visto all' ingranditore che i bruchi del baco da seta hanno due macchie sul muso, come se fossero occhi. Lo sono davvero? Tutti i bruchi le hanno? (Scuola elementare N. Costa) & Qual è l' origine della parola «scavezzacollo» ? (Vittorio Bobba) & Perché le piante non sono perpendicolari al terreno, quando si trovano su terreni ripidi come le pareti di una montagna? (Filippo de Andreis) _______ Inviare le risposte a: «La Stampa, Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure via fax al numero 011 65. 68. 688, indicando chiaramente «Tuttoscienze» sul primo foglio.


LA PAROLA AI LETTORI Il cavallo sposta il carro se batte l' attrito
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 076

Perché la depressione è associata ai colori scuri? Il pensiero di Henry Laborit sulla biochimica del cervello mi offre lo spunto per affermare che alcune forme depressive sono generate dalla carenza di catecolamine, sostanze responsabili del buon funzionamento delle cellule nervose sia dell' umore che delle memorie. Queste ultime, fin dall' infanzia, hanno immagazzinato che i colori chiari caratterizzano situazioni di gratificazione, gioia, creatività, voglia di vivere e socialità. L' individuo depresso, soggetto alla carenza di difesa immunitaria (catecolamine), si ritrova facile preda di comportamenti opposti a quelli sopra citati (angoscia, ansia, rifiuto alla vita, isolamento). La depressione è perciò associata ai colori scuri perché il soggetto, rifiutando tutte le espressioni della vita (i colori chiari) si sente a suo agio esclusivamente in un «abito mentale» completamente privo di colori. Difficilmente i depressi indossano abiti chiari. Inoltre dormono meglio fra lenzuola blu e vivono fra pareti scure e tendaggi chiusi (Alfonso Rigato Torino) Perché la carta riciclata costa di più sebbene si risparmino legno, acqua ed energia? I motivi del costo elevato sono sostanzialmente due: la necessità di raccogliere separatamente i rifiuti costituiti da cellulosa e la fase di lavaggio con detergenti per pulire le fibre da colori e macchie. (Stefano Delmastro Saluggia, VC) Un cavallo tira un carro ed esercita su questo una forza F. Il carro si oppone a tale forza con una resistenza F. Come fa il carro a muoversi? Le forze citate nel quesito sono quelle che rappresentano solamente la tensione della corda; per spiegare il moto bisogna considerare tutto l' insieme del sistema cavallo carro. Infatti il cavallo, per muovere il tutto, non esercita una forza sul carro, bensì sul terreno. Per la precisione tale forza non è rettilinea ma obliqua, composta da F (orizzontale) e Fn, perpendicolare al suolo e diretta verso l' alto Quest' ultima è quella importante per il moto, in quanto si oppone alla forza di attrito e, quando la supera in intensità, permette al carro di muoversi di moto accelerato. (Luigi Cortese Pont Canavese) Se il sistema cavallopiù carro fosse isolato, il carro effettivamente non si muoverebbe, per il principio di azione e reazione. In realtà il sistema non è isolato, ma interagisce con il terreno, scambiando con esso delle forze che ne mutano l' equilibrio: il cavallo, mediante la spinta delle gambe, riceve una forza diretta nel senso del moto; il carro, attraverso le ruote, riceve una forza d' attrito diretta in senso contrario al moto. Se il cavallo non è un ronzino e il carro è ben lubrificato, la prima di queste forze prevale sulla seconda e il carro si muove. (Giovanni Noto Milano) Perché le foglie sono verdi? La colorazione verde delle foglie della maggior parte delle piante terrestri è dovuta alla presenza di clorofilla all' interno dei cloroplasti delle cellule della foglia stessa. La clorofilla è un pigmento il cui colore verde è determinato dal fatto che la sua molecola, quando è investita dalla luce, assorbe le lunghezze d' onda corrispondenti ai colori azzurro, rosso e violetto, mentre riflette quelle che corrispondono ai colori verde e giallo. In realtà le foglie contengono anche altri pigmenti quali la carotina e la xantofilla, i cui colori sono però mascherati da quello della clorofilla: soltanto in autunno, quando la concentrazione della clorofilla nelle foglie diminuisce, si possono osservare i colori di questi altri pigmenti. La clorofilla è fondamentale per la vita delle piante, perché è grazie ad essa che viene immagazzinata l' energia luminosa per la fotosintesi. Un' ulteriore conferma di ciò è data dalle «piante albine». Si tratta di piante in cui una mutazione genetica ha compromesso la produzione della clorofilla: crescono perciò scolorite e muoiono in poco tempo perché non riescono a sintetizzare le macromolecole necessarie allo sviluppo. (Luca de Salvador Torino)




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